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Il cervello ideologico: Fermi, Rovelli e la neuroscienza della convinzione

Il cervello ideologico: Fermi, Rovelli e la neuroscienza della convinzione

Il mondo della fisica italiana, in questa estate 2025, è scosso da una polemica accesa: Carlo Rovelli, fisico teorico e divulgatore, ha pubblicato sul Corriere della Sera un video e un articolo in cui solleva dubbi morali sulla figura di Enrico Fermi, accusandolo implicitamente di opportunismo politico e di insensibilità etica per il suo ruolo nel Progetto Manhattan.

La risposta della Società Italiana di Fisica è stata durissima: Fermi viene difeso come scienziato esule, costretto a convivere con il regime fascista per continuare a fare ricerca, e come figura chiave nella nascita della fisica moderna.

Rovelli, da parte sua, rivendica il diritto di sollevare questioni morali anche sui giganti della scienza: “Criticare non è infangare”, afferma. Ma il fervore ideologico che traspare dalle sue parole — e dalle reazioni che ne sono seguite — sembra suggerire qualcosa di più profondo: che la nostra visione del mondo, anche quando è scientifica, è inevitabilmente filtrata da strutture cognitive e affettive che ci precedono e ci condizionano.

Leor Zmigrod, neuroscienziata presso l’Università di Cambridge, ha aperto una nuova frontiera nello studio dell’ideologia: quella neurocognitiva. Le sue ricerche, pubblicate su riviste come Nature Human Behaviour e Trends in Cognitive Sciences, mostrano come l’adesione a ideologie politiche — non importa se di tipo autoritario, liberale, conservatore o progressista — sia correlata a specifici tratti cognitivi e strutture cerebrali.

In particolare, Zmigrod ha identificato una relazione tra rigidità cognitiva e propensione all’autoritarismo: individui con minore flessibilità mentale tendono a preferire sistemi ideologici chiusi, gerarchici, e resistono maggiormente al cambiamento. Al contrario, una maggiore apertura mentale e capacità di aggiornamento delle credenze è associata a visioni più fluide e pluraliste del mondo.

Questi tratti non sono solo psicologici: si riflettono in pattern neurali misurabili tramite risonanza magnetica funzionale (fMRI) e test cognitivi. Le aree coinvolte includono la corteccia prefrontale dorsolaterale, responsabile della regolazione del pensiero astratto e della flessibilità, e il sistema limbico, che media le risposte emotive e la percezione della minaccia.

Un dato sorprendente emerso dagli studi della Zmigrod è che l’ideologia può essere predetta — con una certa accuratezza — da test cognitivi che nulla hanno a che fare con la politica: ad esempio, la capacità di distinguere figure ambigue o di risolvere problemi logici complessi. Questo suggerisce che l’ideologia non è solo appresa, ma incorporata: una forma di apprendimento che si radica nel corpo e nel cervello.

In questo senso, l’ideologia diventa una forma di imprinting neurobiologico. Non si tratta di determinismo, ma di predisposizione: il cervello non è neutro, e le sue strutture influenzano il modo in cui interpretiamo il mondo, scegliamo le nostre battaglie, e reagiamo alle figure come Enrico Fermi o Carlo Rovelli.

Avevamo già parlato (https://www.periscopionline.it/siamo-prigionieri-perche-siamo-liberi-298029.html) di questo inestricabile circolo vizioso a proposito del libro Il prigioniero libero dove Giuseppe Trautteur affrontava con acume filosofico e rigore scientifico il dilemma della libera scelta e della responsabilità nell’epoca delle neuroscienze. Il testo si muoveva tra le aporie del libero arbitrio e le evidenze sperimentali che sembravano minare l’idea di poterci definire, senza ombra di dubbio, autori delle nostre azioni.

Trautteur non offriva soluzioni consolatorie, ma invitava a un esame di coscienza radicale: siamo prigionieri delle nostre strutture cognitive, ma possiamo diventare prigionieri liberi se riconosciamo la natura condizionata del nostro pensiero e scegliamo consapevolmente di trasformarlo. La libertà, in questa prospettiva, non è un dato, ma un processo neurofilosofico: una lotta contro le automatizzazioni ideologiche che ci abitano.

La libertà cognitiva, allora, è la capacità di disinnescare i riflessi ideologici, di sospendere il giudizio, di aprirsi all’ambiguità e alla complessità. È ciò che distingue il pensiero critico dal pensiero dogmatico, il dubbio dalla certezza, la ricerca dalla propaganda. E come suggerisce Trautteur, “per uscire di prigione bisogna anzitutto volerlo”: la chiave è già nelle nostre mani, ma dobbiamo imparare a riconoscerla.

Probabilmente nel caso in questione, Carlo Rovelli, nella sua personale rilettura degli eventi e del contesto nel quale si inseriva la vita di Enrico Fermi, non solo non ha riconosciuto la giusta “chiave per uscire di prigione” ma più semplicemente e “umanamente” (neurofilosoficamente?), la chiave l’ha “voluta” dimenticare a casa.

La lezione che possiamo trarre da questo intreccio tra fisica, storia e neuroscienza è chiara: l’ideologia non è solo un’opinione, è una forma mentis. E come tale, agisce nel profondo, modellando il nostro modo di pensare, di sentire, di giudicare. Per dirla con una battuta: un fascista ha il cervello fascista, un comunista ha il cervello comunista ma… un anarchico non può avere un cervello anarchico!

La buona notizia però e che, come dimostra la Zmigrod, il cervello può cambiare.

A patto di volerlo davvero.

Cover: immagine tratta da https://pixabay.com/it/images/search/free%20image/

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Giuseppe Ferrara

Giuseppe Ferrara – Nato a Napoli. Cresciuto a Potenza fino alla maturità Classica presso il Liceo-Ginnasio Q.O. Flacco. Laureato in Fisica all’Università di Salerno. Dal 1990 vive e lavora a Ferrara, dove collabora a CDS Cultura . Autore di cinque raccolte poetiche; è presente in diverse antologie. In rete è possibile trovare e leggere alcune sue poesie e commenti su altri poeti e autori. Tiene un blog “Il Post delle fragole”: https://thestrawberrypost.blogspot.com/

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