Grandi banche: più fanno utili, più chiudono sportelli.
Una contraddizione solo apparente?
Grandi banche: più fanno utili, più chiudono sportelli. Una contraddizione solo apparente?
“Chi crede che una crescita esponenziale possa continuare all’infinito in un mondo finito è un pazzo, oppure un economista”
La frase pronunciata dall’economista Kenneth Boulding si adatta perfettamente al mondo bancario, i cui dirigenti sono davvero convinti che l’attuale fase di vacche grasse sia destinata a durare per sempre, e che anzi i profitti possano aumentare ogni anno in misura maggiore rispetto agli esercizi precedenti. Bisogna solo stabilire in quale delle due categorie citate si possano classificare i manager bancari.
Il comportamento delle banche è, per molti versi, controintuitivo.
Un ex bancario, da qualche anno in pensione, prima di uscire dal lavoro mi disse: “Sono felice di andarmene: qua non si capisce più niente. Anni fa, quando lavoravi una pratica di fido, per dare l’idea di un’azienda che andava bene dicevi che aveva aperto nuovi stabilimenti e assunto più personale. Oggi un’azienda che annuncia tagli e chiusure vede subito la sua quotazione di borsa schizzare alle stelle. Il mondo si è ribaltato.”
Il buon senso suggerirebbe che un’azienda si espanda quando va bene, e tagli quando ha necessità di ridurre le spese per far quadrare i conti. Le banche continuano trionfanti ad annunciare bilanci record, e contemporaneamente chiudono filiali e tagliano personale. Come si spiega quest’apparente contraddizione?
Quando un’azienda ha uno stabilimento che non produce utili, lo chiude. Su questo non c’è nulla da eccepire. E anche le banche, quando una filiale non produce utili, la chiudono. Il punto è che, quasi sempre, le filiali che vengono chiuse sono comunque in attivo. In qualche caso vanno anche decisamente bene. E allora perché vengono chiuse? Perché la banca sa che chiudendole potrebbe guadagnare di più. Sembra un paradosso, ma non lo è.
Oggi quali sono le persone che vanno in banca? Esiste tutta una fascia di clientela evoluta, capace di fare da sé quasi tutte le operazioni. Si sta diffondendo anche la prassi di effettuare in remoto la richiesta di prestiti e mutui, quindi anche queste esigenze possono essere gestite senza recarsi in filiale. Per questo, la maggioranza di chi si reca allo sportello è costituita da persone anziane o con basso livello culturale, o da stranieri che hanno difficoltà con la lingua (gran parte delle banche hanno le loro app soltanto in italiano), oppure da piccole aziende che non possono permettersi un impiegato che gli curi la contabilità. Quindi chiudere una filiale significa azzerare i costi logistici e di personale, ma mantenere tutta la clientela più “importante”, quella cioè che garantisce i maggiori margini di guadagno: i grossi depositanti, che hanno comunque dei consulenti che continuano a seguirli, e le aziende più rilevanti, alle quali vengono dedicati centri ad hoc. Resta tagliata fuori la fascia meno interessante per la banca, che il più delle volte è anche quella economicamente e socialmente più fragile e più bisognosa di assistenza.
Ma esiste un altro motivo per cui le banche chiudono, ed è di carattere geografico. Sempre di più le banche puntano a concentrare le loro sedi nelle aree che offrono maggiori opportunità di guadagno, abbandonando progressivamente quelle considerate meno floride: anche questo è un modo per accrescere gli indici di redditività. Ciò vuol dire che una filiale può anche produrre risultati eccellenti, ma se si trova in una zona ritenuta poco interessante, la banca la chiuderà comunque. E l’abbandono non è solo una questione topografica: parallelamente alla chiusura degli sportelli si assisterà alla riduzione del credito concesso, in modo particolare, alle piccole imprese.
La questione ha un’evidente rilevanza sociale. Le banche ragionano esclusivamente dal loro punto di vista. Ho assistito personalmente alle presentazione del piano industriale di un importante istituto, il cui amministratore delegato, commentando le chiusure concentrate soprattutto in determinate aree, ha dichiarato: “La banca non può farsi carico di problematiche sociali”. Già, ma allora chi dovrebbe farlo?
Ho già scritto in un precedente articolo di come la Costituzione imponga alla politica precisi obblighi di vigilanza e di tutela sul credito e sul risparmio. Ma su questo la politica italiana, indipendentemente dai partiti, è totalmente assente. I governi che si sono succeduti negli anni sono stati sempre particolarmente benevoli nei confronti delle banche, con generosa concessione di aiuti quando si sono trovate ad avere bisogno, e politiche fiscali decisamente favorevoli. Basti dire che l’aliquota media pagata dalle banche sui tanto vantati utili record è inferiore a quella sostenuta dai loro dipendenti (nonostante la sparata periodica contro le banche da parte di qualche partito politico, che promette tassazioni extra che mai si realizzano). E poi gli Istituti Bancari generosamente regalati, dopo averli “risanati” a spese dei depositanti e della collettività: è quanto è accaduto a Carife, ma anche alle altre banche liquidate ai tempi del Governo Renzi, alla Tercas, alle Banche Venete ecc… Sarebbe stato così assurdo se lo Stato avesse chiesto, in cambio di questi generosi omaggi, che gli istituti beneficiari si impegnassero a fornire servizi essenziali anche nelle zone ritenute di minore interesse?
Il punto è che i rapporti tra soldi e politica sono sempre stati molto stretti, e che fra i due “poteri forti” ci sono da sempre porte girevoli e scambi di poltrone: sono numerosi i casi di ex politici che hanno assunto incarichi significativi nel mondo bancario o di manager di grossi istituti che hanno poi ricoperto importanti ruoli politici.
E quindi le banche continuano a chiudere filiali e ad abbandonare vaste aree del paese, senza che nessuno si preoccupi delle conseguenze. Che vanno dall’impoverimento delle zone rimaste senza sportelli, all’abbandono dei comuni delle aree interne, alla creazione di uno spazio libero nel quale si infilano usurai e criminalità.
E anche questo appare controintuitivo. La responsabilità sociale d’impresa non è solo un concetto astratto, oltre ad essere anch’esso previsto in Costituzione, all’Art. 41. Qualsiasi imprenditore illuminato sa che, se vuole che la sua azienda possa durare nel tempo e continuare a produrre utili in futuro, ha tutto l’interesse a contribuire al benessere del territorio in cui opera. Magari accontentandosi di guadagnare un po’ di meno oggi, per garantirsi la possibilità di continuare a guadagnare domani. Le banche, accecate dalla rincorsa a dividendi sempre più alti nella logica del “tutto e subito”, stanno progressivamente riducendo l’area in cui fare affari. E in un futuro non troppo lontano, quando inevitabilmente la crescita dei loro conti economici diminuirà, potrebbero accorgersi di aver tagliato il ramo su cui stavano sedute.
E chissà se tra qualche anno un manager bancario lancerà una nuova, rivoluzionaria idea: “Perché non riapriamo qualche filiale?”
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