Presto di mattina /
A che cosa serve la letteratura
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Presto di mattina. A che cosa serve la letteratura
«Dio ha creato gli uomini perché Egli – benedetto sia – adora i racconti»
Questo antico detto della letteratura midrashica forse era conosciuto anche da Isaac Bashevis Singer (1904-1991), autore e traduttore polacco naturalizzato in America. Fu anche insignito del premio Nobel per la letteratura nel 1978 «per la sua arte narrativa appassionata che, con radici in una tradizione culturale ebraico-polacca, dà vita a condizioni umane universali».
Singer, “perduto in America per sempre”, come scriverà nella sua autobiografia sui generis da lui definita «un’opera narrativa basata sulla verità» (Ricerca e perdizione. La ricerca di dio e dell’amore e la perdizione in questo mondo, Longanesi Milano 1982), fu uno scrittore di storie tra due mondi. Storie, perdute e ritrovate, segnate da fratture e da combinazioni tra l’antico e il nuovo mondo, l’uno nell’altro trascoloravate.
Il padre era rabbino chassidico, un movimento, il chassidismo, sviluppatosi tra gli ebrei ashkenaziti dell’Europa orientale. Per questo, i testi sacri, la Cabala, il Talmud e le tradizioni ebraiche erano in casa di Isaac e del fratello maggiore Israel Joshua, pure lui scrittore, respirati come l’aria.
E le storie erano come la Chuppah, il baldacchino nuziale sotto cui stavano gli sposi: un semplice telo tenuto da quattro pali simbolo di una nuova casa. Ma una casa aperta, come una storia che inizia e ne chiamava alla vita un’altra e un’altra ancora, una teoria infinita nello scorrere delle parole.
Immaginazione creatrice
Così nella penna di Singer le antiche storie diventano percorsi simbolici che attraverso l’immaginazione declinano vicende moderne, lacerate, segnate da contraddizioni, egoismi, tradimenti, empietà. Ma pure storie di gente che non ha rinunciato alla propria bontà come nel racconto di Gimpel l’idiota:
«Andai dal rabbino per farmi consigliare. Disse: «È scritto, meglio essere stupidi per tutta la vita che malvagi per un’ora soltanto. Tu non sei uno sciocco. Gli sciocchi sono loro. Poiché colui che costringe il suo simile a vergognarsi perde il Paradiso» (Racconti, Corbaccio, eBook, Milano 2013, 9).
Giunto in America, egli assume un registro narrativo ellittico a due fuochi: un vedere da vicino e da lontano per scrutare il presente attraverso lo sguardo delle tradizioni e dei contesti antichi. L’immaginazione si muove cercando analogie, correlazioni tra l’esperienza umana e la tradizione ebraica, narrandole attraverso il linguaggio dell’esilio, la lingua perduta della diaspora, l’yiddish impastata di ebraico, polacco e tedesco.
Sono nate così storie di un mondo immaginario, ma a due passi da quello vero, proprio dall’altra parte della strada, intrecciati da una stessa filigrana, la condizione umana nella sua disseminazione variegata di individui ben caratterizzati, di ritratti definiti nei particolari, ambienti e situazioni tragiche o strampalate, personaggi di questo e dell’altro mondo, demoni e angeli pure a formare una contaminazione di reciproche influenze; attriti e compiacenze tra la realtà dei giorni che si sfilano nel tempo e il mistero permanete che vi si cela in essi.
Naturale e soprannaturale si incontrano sulla soglia della porta di casa, presenze che si svelano nelle assenze; un senso pure che dal non senso affiora. Ma resiste una misericordia, magari calpestata ma non schiacciata, una speranza perseguitata ma non abbandonata. Sono narrazioni circondate «da poteri, alcuni buoni, alcuni malvagi, altri crudeli, altri ancora misericordiosi, ma ciascuno con la propria indole e la propria missione da portare a compimento».
Nel suo mondo di storie Singer si riconosceva nelle parole del un rabbino, mistico e teologo ottomano, Isaac Salomon Luria, che diceva: «l’ombra è spesso il preludio della luce, i diavoli e i folletti sono tentazioni e sfide per nuove conquiste. Lo scopo di ogni caduta è rialzarsi. Ogni occasione di peccato può diventare occasione di virtù. Ogni passione, non importa se infima, può diventare una scala verso l’alto», (I. B. Singer, A che cosa serve la letteratura?, 165; 155).
Lo spirito del racconto
Così impariamo da Singer che la forza dell’immaginazione e il sui linguaggi rappresentano il tessuto creativo, sempre rigenerante e trama della stessa realtà e del suo segreto affiorante nell’umano. Scrive Claudio Magris: «Pochi scrittori, in tutta la letteratura universale, riescono ad esprimere come Isaac Bashevis Singer, con altrettanta indelebile forza, l’assoluto di ogni momento significativo della vita – l’amore, la sofferenza, la seduzione, l’orrore – che si staglia contro lo sfondo dell’eterno e del nulla…
In un articolo pubblicato più di trent’anni fa sullo Herald Tribune egli si dichiarava consapevole, in quanto scrittore jiddish, di scrivere in una “lingua morta” e cioè votata, a suo avviso, a un’estinzione, sia pure ancor lontana. Uno scrittore jiddish, diceva, “è come un Dybbuk, uno spettro, uno che vede ma non è veduto”;
è lo spirito del racconto che si nasconde tra le rovine della civiltà ebraica frantumata e della civiltà occidentale frantumata anch’essa, è l’ironica e tragica quintessenza della letteratura jiddish, che nella sua narrativa risorge a prodigiosa fioritura, una poesia che ritorna dai regni della morte con un’incredibile capacità epica di dire la vita – le passioni i desideri gli smarrimenti i gesti i colori i sapori, l’intensità sensuale e metafisica della vita» (dalla prefazione a I. B. Singer, L’ultimo demone e altri racconti, Garzanti, Milano, 1997, 7).
Non solo storie
Cosa si nasconde dietro le quinte dei racconti e delle storie di Singer, quale background spirituale e culturale sottostà alla stesura delle storie, dei profili dei suoi personaggi, quale visione della letteratura e del suo servizio all’uomo?
Non solo storie. Sono saggi perduti e ritrovati dietro le quinte dei racconti.
Incontro inaspettato, eppure sembrava aspettasse proprio me o, per lo meno, uno sguardo che non passasse oltre, fermandosi appena un poco. Ma è stato molto di più. Sugli scaffali all’ingresso dell’Ariostea con il suo nastrino verde, fresco di stampa mi è venuto incontro il libro di Singer A che cosa serve la letteratura?, Adelphi, Milano 2025.
Un’opera di sintesi, ci ricorda il curatore motivato da interesse storico oltreché letterario, che raccoglie testi sparsi di cui era sempre stata nelle intenzioni dell’autore la pubblicazione mai realizzata in vita. È solo del 2022 la prima edizione inglese. Questa raccolta «mette a nudo la fede di Singer nella capacità della letteratura di descrivere quei momenti in cui ciò che pensiamo di sapere si scontra con ciò che va al di là della nostra comprensione» (D. Stromberg, ivi, 205).
Così ora con questa raccolta di saggi, ci troviamo tra le mani come uno scandaglio per sondare in profondità i suoi racconti, ma anche uno spiraglio che lascia intravedere il suo animo e la vita stessa, i pensieri che stavano dentro a Singer nel momento in cui li concepiva per vergarli sulla pagina. Sono saggi che portano in superfice lo sprofondo del suo sentire umano, le sue idee circa la letteratura, l’arte, la sua religiosità.
Essi ne mostrano il profilo non solo di scrittore ma di intellettuale, uno scrittore in continua ricerca del nucleo magnetico della condizione umana, come pure di ciò che può elevare lo spirito in essa. Nei saggi si riflette con chiarezza la sua esperienza personale, il pensiero, la fede e il suo narrare di Dio diviene la storia di come egli entra nel mondo e si compromette con le vicende degli uomini.
È ancora ragazzo quando Singer scrive che d’improvviso «la mia strada letteraria mi fu chiara: dovevo trasformare l’inibizione in metodo creativo, riconoscere in essa un potere amico, e non ostile… L’inibizione in generale indica sempre la presenza di nuove possibilità. In quasi tutte le mie opere successive ho cercato di mostrare la spinta dell’uomo a creare, a trovare ciò che è nuovo e unico, a superare le interferenze e gli ostacoli sul suo cammino… Il romanzo universale della creazione, come il romanzo di uno scrittore terreno, alla fin fine è una storia d’amore» (ivi, 154-155).
A che cosa serve la letteratura?
Risvegliare la memoria e la meraviglia della creatività umana
Per Singer la letteratura moderna è come ammalata di “amnesia”. Afflitta da “smemoratezza”, si è scordata la cosa principale: l’individualità. È questo però il suo vero oggetto, «ossia l’unicità e la particolarità insite nella natura umana, nel destino dell’umanità e nelle circostanze in cui gli uomini vivono. Senza dubbio sono più le cose che legano le persone di quelle che le separano, ma allo scrittore, alla fin fine, interessa solo ciò che le separa» (ivi, 29-30).
L’eccezione, l’essere umano vivente nella sua singolarità devono riportarci al vivo le storie e i racconti: «La letteratura ha a che fare con il particolare, e dal particolare non è possibile imparare il generale. Per di più la letteratura è una forza priva di direzione. La vera letteratura offre sempre la tesi e l’antitesi, la speranza e la delusione. E spesso pessimista e fatalista. Ti sveglia e poi ti rimette a dormire.
Tutta la letteratura tedesca non è riuscita a resistere alla propaganda di un solo Goebbels. E un fatto che né il comunismo, né il fascismo e nemmeno il liberalismo abbiano avuto un riflesso nella letteratura della nostra epoca. Nel mio ambiente né il sionismo né il socialismo hanno trovato un vero riflesso nella letteratura in ebraico o in yiddish» (ivi, 40).
La creatività umana e le sue narrazioni, come gli scrittori autentici, «non potranno mai fare pace con la morte e l’oblio. Sanno che siamo frammenti dell’infinito libro di Dio, momenti dell’eternità. Le nostre speranze sono strettamente connesse con tutte le stelle, con tutte le galassie del cosmo. Se l’universo è un incidente, lo siamo anche noi. Se l’universo ha un senso, lo abbiamo anche noi. È questo il messaggio della religione e dell’arte» (ivi, 35).
Del fratello amatissimo Israel Joshua teneva a mente il suo consiglio, «la regola principale che mi aveva trasmesso per scrivere narrativa: “lascia che gli eventi parlino da soli e non metterti mai di mezzo con l’interpretazione”» (ivi, 183).
Impronte digitali e la meraviglia della creatività
Per Singer il fondamento della letteratura è l’individualità. È come un’impronta mai uguale di una realtà che deve essere l’imprinting di ogni storia: «Dio onnipotente è riuscito a creare nella storia dell’umanità milioni di miliardi di persone, ciascuna con delle impronte digitali, nessuna delle quali, come sappiamo, è perfettamente identica a un’altra. Quindi se Dio è riuscito a farlo, se Dio ha potuto creare così tante persone nello stesso momento, e dare a tutte dita diverse, significa che l’individualità è essenziale per la creazione…
E lo stesso vale quando scriviamo di esseri umani. Dobbiamo mettere sulla carta le loro impronte digitali. Non parlo di impronte digitali in senso letterale, intendo le impronte del loro spirito, la loro natura. Pur avendo in comune molte cose, siamo tutti diversissimi, e questa è la meraviglia della creazione. Ed è anche la meraviglia della creatività. Poiché l’individualità è l’essenza della creatività, è evidente che è impossibile scrivere un romanzo su una persona astratta» (ivi, 49-50). L’amore e le domande, secondo Singer, sono gli argomenti fondamentali della letteratura (cf., 52).
Una storia sarà una storia d’amore ma sempre questionante, che dà a pensare in terra e in cielo, non senza l’intreccio con le domande di sempre, ricorda Singer, quelle eterne che contaminano e inquietano anche il nostro tempo. Questioni che ogni individuo si pone: il perché “sono qui”, il nascere, il morire, da dove e verso dove: «qual è lo scopo di tutti questi giorni, di tutte le mie lotte e di tutte le mie delusioni? Sono domande di carattere filosofico e la letteratura ne è piena», (ivi, 52-53).
Domande inquietanti quelle alle prese con il soffrire e il mutismo di Dio, difficili da continuare a porre e lasciar aperte anche per una storia d’amore come quella de Lo Schiavo. È la storia di Jacob, uno studioso di un quartiere ebraico di Praga dopo la morte della moglie e di tre figli a opera dei cosacchi caduto in schiavitù.
Egli incontra Wanda figlia del suo padrone non ebreo e si innamorano. Riscattato dai suoi compaesani va alla sua ricerca per sposarla. Trovatala si trasferiscono in un altro villaggio. Rimasta incinta la donna muore dando alla luce il figlio. Jacob lo trova presso una nutrice e, di notte, attraversa la foresta per giungere alla Vistola e passare di là con il traghetto e poi proseguire per la Palestina. Durante il tragitto trova anche il nome al figlio, quello di Beniamino, lo stesso nome che il patriarca Giacobbe dette al figlio dell’amata Rachele, morta dandolo alla luce.
“Ben-oni”, nato dal dolore
«La luna era tramontata e nella foresta regnava l’oscurità. Jacob procedeva adagio e a tastoni lungo un sentiero, fermandosi di quando in quando per ascoltare il respiro del bambino o per accertarsi, con un bacio, che fosse caldo abbastanza; aveva sopportato molte tribolazioni in vita sua, mai però una notte più ansiosa di questa. Pregando con tanto fervore che gli si gonfiarono le labbra, si affidò completamente nelle mani della Provvidenza, ben sapendo ch’era sconveniente far conto sui miracoli. Ma la sua sola risorsa consisteva nel confidare in Dio; non gli rimaneva altro che la fede…
Lontano, in una radura tra gli alberi, egli scorse un vero e proprio incendio. Un attimo dopo si rese conto ch’era il sole. Jacob osservò il bambino, si mise a sedere e gli offrì la pezzuola inumidita di latte; a tutta prima parve che la piccola creatura si ribellasse non ricevendo il seno, ma infine cominciò a succhiare. Per la prima volta, dopo settimane, Jacob si sentì colmare di gioia… In quel momento trovò il nome che doveva dargli: Beniamino. Al pari del primo Beniamino, questo bambino era un Ben-oni, una creatura nata dal dolore…
La Vistola scorreva, rossa e nerastra; un grosso uccello si abbassava tanto, a volte, sfiorando la superficie, che con le ali increspava l’acqua. La placidità, la purezza e la luminosità del fiume confutavano le tenebre della notte. Sullo sfondo di tanto splendore persino la morte sembrava un brutto sogno. Né il cielo né il fiume né le dune erano cose morte; tutto viveva, la terra, il sole, ogni singolo sasso.
Il vero enigma non consisteva nella morte, ma nella sofferenza; quale posto occupava essa nella creazione di Dio? Jacob si fermò di nuovo per osservare il bambino. Stava già soffrendo? Sì, i segni della sofferenza c’erano; ma quel dolore non era dovuto a torture già sopportate. La fronte ampia del bambino sembrava corrugata in riflessioni e le sue labbra si muovevano come se avesse voluto dire qualcosa…
[Jacob] al pari del Giacobbe biblico stava attraversando il fiume, non avendo con sé che un bastone, inseguito da un altro Esaù. Tutto rimaneva identico, l’antico amore, l’antico dolore. Tutto ciò non poteva durare in eterno. Jacob alzò lo sguardo: guidami, Dio, guidami. Il mondo ti appartiene» (Lo schiavo, Longanesi, Milano 1964, 285-287).
Servire un Dio silenzioso, non indifferente
È nel pensiero ebraico il Dio che si nasconde, si ritira dalla sua creazione per far spazio all’uomo. La sua rivelazione non è fine a se stessa, ma finalizzata a lievitare la realtà creata ed abitare l’umanità e le sue storie dal di dentro. Un Dio scrittore pure lui, ricorda Singer, che scrive a modo suo nelle storie d’uomini le distese del cielo, incontrandolo nella terra di mezzo di una alleanza di amore nella storia.
La rivelazione, la parola di Dio come la stessa fede nel suo dinamismo relazionale non si fermano all’enunciato, al dire, valgono e si compiono solo se si radicano, incarnandosi nella vita di qualcuno, se cercano, come cuore di un innamorato, attraverso di esso il volto dell’Altro che si nasconde.
È con questo spirito che ho letto il testo di Singer: Un concetto personale di religione e l’ho sentito così vicino e così vero nel ripetersi come ritornello di quell’espressione, non di possesso, ma di relazione: “il mio Dio”; in esso ho sentito riecheggiare la creatività poetica del Cantico dei cantici “Il mio amato è mio” nella traduzione di p. Venanzio Reali:
Per me sola,
sereno tra i narcisi, è l’amor mio
ed io per lui solo, fino a quando
non spirerà, cadendo l’ombre, il giorno
(2, 16).
«Se la religione deve essere necessariamente vincolata alla rivelazione, allora non posso definirmi religioso, ma allo stesso tempo credo – senza rivelazione – che esista un Dio che governa il mondo e ci tiene d’occhio. Lo prego spesso pur non avendo un’idea chiara di chi sia, di quali siano le sue richieste, e nemmeno di quali siano i suoi fini e le sue motivazioni. Mi sono rassegnato all’idea che sia possibile – almeno per me – servire un Dio silenzioso. Allo stesso tempo, il mio Dio non è l’indifferente… » (A che cosa serve la letteratura?, 158-159).
«Il mio Dio è uno che va in avanti» (ivi, 164)
«Il mio Dio deve essere dinamico, creativo, dotato di una fantasia sconfinata e di infinita saggezza. La crudeltà umana mi fa orrore e non sopporterei il pensiero di un Dio capace di essere crudele. Per me deve possedere insieme saggezza e bontà. Amo la bellezza nelle opere d’arte, e il mio Dio deve possedere bellezza… (ivi, 159).
«Il mio Dio deve essere un innamorato – eternamente innamorato. Ma di chi può essere innamorato? La mia risposta è: delle sue creazioni… Dio stesso nutre un amore divino per la Presenza Divina, la Shekhinah. Come tutti gli innamorati, si imbatte però in ostacoli. Nel testo del poema liturgico Akdamut si dice che Dio crea ogni giorno un gruppo di nuovi angeli. È possibile che lo faccia per soddisfare il suo intenso desiderio d’amore. L’amore e la creazione per Dio sono una cosa unica... (ivi, 160).
«Il mio Dio non è solo un artista, è anche uno scienziato. In lui, l’arte e la scienza sono un’unica cosa. Gli artisti e gli scienziati devono avere i loro discepoli. Dio non è uno scrittore che scrive per poi lasciare le cose in un cassetto, né un inventore che crea giochi per sé. Deve avere un suo pubblico. Accetta di buon grado i giudizi. Non teme le critiche negative, ma non può rendere troppo evidenti i propri sforzi. Le sue creazioni devono contenere tensione.
Inoltre perfino un artista come lui ha bisogno di non piacere a tutti allo stesso modo. Ci sono i lettori che protestano: Dio non è affatto uno scrittore. Sostengono che le sue opere non abbiano né capo né coda. Nemmeno esiste, lui! È esploso un calamaio cosmico e il risultato è un caos universale.
Ma cosa dovrebbe fare Dio – discutere i propri libri con ciascuno dei lettori? Rivelare il contenuto di capitoli che verranno pubblicati più avanti? Presentare il terzo atto prima del secondo? Dio non concede interviste, e non risponde alle domande che potrebbero venire in mente ai lettori. Non ha bisogno di rinchiudersi in una torre d’avorio, ma il suo silenzio è fondamentale tanto quanto la sua parola… (ivi, 161).
Cover: immagine tratta da https://pixabay.com/it/images/search/free%20image/
Per leggere gli altri articoli di Presto di mattina, la rubrica quindicinale di Andrea Zerbini, clicca sul nome della rubrica o il nome dell’autore.
Caro Don, complimenti vivissimi per l’articolo. Anche io sto lavorando su iSinger e un giorno ci vediamo per scambiarci pareri. Un abbraccio da Gianni
Bellissimo articolo! Mi ricorda delle bellissime lezioni del nostro Baricco sull’arte del raccontare e una su tutte: quella sul Giovane Holden di Salinger… in fondo da grande il protagonista del famoso romanzo non voleva fare chissà che, ma solo salvare, afferrandoli al volo, i bambini che precipitavano da un dirupo al termine di un campo di segale… L’arte del racconto mi sembra proprio fare questo: salvare noi tutti dal precipizio come fa meravigliosamente Singer. Grazie Don Andrea.