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LUCCA COMICS & GAMES 2022
Dopo due anni in sordina, un’edizione da record

 

Sono da sempre affezionato alla storica, gloriosa Fiera del fumetto di Lucca, o Festival, o come oggi preferisce chiamarsi Lucca Comics & Games.. Dopo due anni in cui la manifestazione, causa le restrizioni Covid, si è svolta in forma ridotta, il 2022 è stato l’anno della rinascita e io non potevo certo mancare l’appuntamento. E forse proprio per il forzato stop, la ‘ripartenza’ è stata davvero eccezionale, un’edizione record.

Un’affluenza altissima, 36 mila presenze per la sola giornata di apertura, per arrivare (secondo La Nazione) a un totale di   500.000 visitatori per le 5 giornate del Festival, dal 28 ottobre al 1 novembre 2022: oltre 300.000 biglietti venduti, numeri da vero primato per questa 56° edizione.

Protagonisti indiscussi i fumetti, autori di manga e strisce di fama internazionale, videogame, cosplayer e appassionati di cinematografia. Tantissimi gli ospiti, gli spettacoli, le mostre di Palazzo Ducale e gli incontri a tema.

Le vie della città si animano di appassionati e di cosplayer, persone che si trasformano come in un sogno reale nei loro personaggi preferiti, indossando costumi spesso realizzati minuziosamente con le proprie mani fin nei più piccoli dettagli, riportando in vita i protagonisti dei film, dei cartoni animati, dei fumetti e dei giochi e calandosi in questo fantastico mondo fantasy.

La manifestazione ha inizio nel 1966. Ma mentre le successive edizioni proseguirono nella città di Roma fino al 2005, nel 1993 il Comune di Lucca, tramite l’ente autonomo Max Massimino Garnier, decise ugualmente di continuare con una nuova manifestazione denominata “Lucca Comics”. Nel 1995 viene inaugurato il “Lucca Comics & Games” come lo conosciamo oggi e da allora è stato un crescendo di fama a livello mondiale.

Per me, appassionato della fotografia, stare a Lucca per tutta la durata del festival è un piacevole motivo di incontro con altri fotografi e cosplayer, amici e conoscenti. In giro per Lucca ci sono  diversi punti di incontro e set fotografici dove poter scattare e scambiarsi saluti e consigli:  lo splendido giardino e l’interno di villa Pfanner, l’orto botanico, i bastioni, e la gettonata fontana con il caratteristico sotto mura presso porta San Pietro. 

Andare a Lucca, al di là del Festival, vale sempre una visita. La città è bellissima. con le sue tante torri e le sue cento chiese: uno scenario altrettanto fantastico dei mille personaggi di fantasia che anche quest’anno l’hanno popolata

Ecco qualche scatto dell’ultima edizione di Lucca Comics & Games 2022 intitolata: “HOPE”.

 

 

 

 

 

 

 

 

Testo e reportage fotografico di Valerio Pazzi

Da Amnesty alla Rete Studenti: “il decreto ‘anti rave’ mette a rischio il diritto di protesta”

da Agenzia DIRE del 1 novembre 2022


RETE STUDENTI e
UNIONE DEGLI UNIVERSITARI:  UN DECRETO LIBERTICIDA

“In questo modo si limita libertà di manifestare. Inaccettabile dare il via a repressione in scuole, atenei e piazze. Governo ritiri l’articolo del Decreto”. Così in una nota Rete Studenti e l’Unione degli Universitari che definiscono il decreto legge anti rave “liberticida”.
“Il Decreto Legge discusso nel Consiglio dei Ministri rischia di essere soggetto a interpretazioni che limitano fortemente la libertà di manifestazione”, scrivono gli studenti. “In particolare, sia per la vaghezza del testo che per il suo contenuto, il rischio per gli studenti e le studentesse è l’applicazione di misure fortemente repressive che non colpiscono solo i rave ma anche le manifestazioni, le occupazioni scolastiche e universitarie e potenzialmente qualsiasi forma di manifestazione. Un testo scritto male e in fretta- commentano da Rete Studenti e Udu- Il Governo non faccia l’errore di approvare un testo pericoloso solo per dare un segnale politico su sicurezza e restrizioni. C’è ancora tempo prima della conversione in legge definitiva per modificare il comma che contestiamo. Governo e Parlamento agiscano e evitino la limitazione delle libertà di manifestare e dissentire”.

RAVE, AMNESTY ITALIA: CON DL A RISCHIO DIRITTO PROTESTA PACIFICA

“Il ‘decreto rave party’, che introduce il nuovo articolo 434 bis del codice penale, rischia di avere un’applicazione ampia, discrezionale e arbitraria a scapito del diritto di protesta pacifica, che va tutelato e non stroncato”. Così Amnesty Italia su twitter.

SAVIANO: PIANTEDOSI CONTRO ‘VERI CRIMINALI’, ONG E RAVE PARTY

“Mentre il governo propone di alzare il tetto al contante (che gran favore alle mafie!) il ministro #Piantedosi ferma i ‘veri criminali’: imbarcazioni ONG e rave party. Non c’è che dire, siamo in una botte di ferro”. Lo scrive su twitter Roberto Saviano.

MANNOIA: QUESTO DECRETO SUI RAVE PUZZA, SPERO DI SBAGLIARE

“Questo decreto sui Rave puzza. Spero di sbagliare”. Lo scrive su twitter Fiorella Mannoia.

Cover: Rave a Modena (foto Agenzia DIRE)

5 Novembre: convergiamo e rilanciamo

Redazione Italia di pressenza

 

Evitare una guerra nucleare e una catastrofe umana e ambientale sono le priorità assolute. Per questo ci auguriamo che centinaia di migliaia di persone manifestino con i colori arcobaleno della Pace, in Italia, come nel resto d’Europa e del mondo.

Tuttavia riteniamo necessario sottolineare che chi sceglie PACE E NONVIOLENZA, chi rifiuta la logica della guerra e si propone di creare «le condizioni per avviare negoziati capaci di condurre a soluzioni non imposte con la forza, ma concordate, giuste e stabili», d’accordo con il Papa, non si erge a giudice che condanna, e rifiuta l’interpretazione lineare e semplicistica della struttura vittima-aggressore, per andare a cercare sin dalle origini del conflitto la complessa rete di bisogni, aspirazioni, interessi da ascoltare e comprendere per poter avviare un processo di riconciliazione tra popoli riconoscendo le molteplici responsabilità. Un groviglio di fattori culturali, sociali, religiosi, economici e politici che nel crocevia storico dell’ultimo secolo ha creato muri e irrigidimenti nazionalistici, piuttosto che reciproca accoglienza e co-esistenza nella prima civiltà planetaria della storia.

Alla luce di una rinnovata sensibilità che avanza nella convergenza delle diversità, contro qualsiasi discriminazione e nell’ambizione ad una vita degna, giustizia e progresso per tutte, tutti e tutto sul pianeta, è evidente quanto siano fallimentari e anacronistiche questa guerra, questa polarizzazione NATO-Russia, questo sistema economico e poi politico basato su armi, consumo e fonti non sostenibili e soprattutto che punta all’arricchimento e la selezione di pochi, affamando e privando di progettualità e futuro una percentuale sempre maggiore della popolazione mondiale.

Questo sistema disumano e violento è fallito e nell’ultimo colpo di coda rischia di creare danni irreparabili, per questo è necessario rilanciare con fermezza la necessità di risoluzioni che possano portare realmente e rapidamente a tavoli di negoziato, per arrestare subito la follia della guerra e prima che un incidente o una provocazione di troppo degeneri in un disastro nucleare.

Per questo INVITIAMO TUTTE E TUTTI A IMPEGNARSI A SOSTENERE QUESTE ESIGENZE:

  • Cessate il fuoco immediato e ritiro delle forze militari dai territori coinvolti sotto la supervisione ONU e dislocamento dei Corpi Civili di Pace per il monitoraggio del cessate il fuoco, il supporto a tutte le vittime del conflitto e il contributo alle attività di costruzione della pace.

  • Stop immediato all’invio di armi e all’aumento delle spese militari, perché una risposta violenta alla violenza non porta la Pace, perché alimentare il conflitto non è mai giustificabile, né creerà le condizioni del dialogo necessarie a raggiungere soluzioni concordate e soprattutto perché LE POPOLAZIONI CIVILI COINVOLTE NON VOGLIONO PIÙ NÉ MORTI NÉ FERITI.

  • Ritiro delle sanzioni che solo alimentano una guerra economica che colpisce le popolazioni.

  • Impegno concreto dei governi europei per aprire il dialogo nei tavoli diplomatici, aperti a tutte le parti sociali e soprattutto al contributo delle donne nello spirito della Risoluzione ONU 1325 (2000).

  • Firma e ratifica del Trattato di Proibizione delle Armi Nucleari da parte di tutti i governi, ad iniziare da quello italiano e quelli europei.

  • Contrastare e risolvere le conseguenze economiche, energetiche, alimentari, migratorie scaturite dalla guerra e dalle speculazioni finanziarie, sollecitando la conversione ecologica ed eliminando a priori ipotesi di gas liquido/rigassificatori e nucleare civile.

  • Scioglimento della NATO, un’alleanza che obbliga i Paesi membri ad essere complici delle guerre e degli interessi dell’industria bellica e lotta contro le basi e le servitù militari presenti nel nostro Paese, già troppe volte usate come piattaforma di lancio di guerre in giro per il mondo.

Per sottoscrivere convergenzanonviolenta@gmail.com

L’appuntamento per tutte/i coloro che vorranno sostenere questo appello a CONVERGERE E RILANCIARE è alle 13,00 in Piazza dell’Esquilino per dare l’opportunità a chi può di partecipare all’ASSEMBLEA NAZIONALE PER LA PACE,LA GIUSTIZIA SOCIALE E AMBIENTALE, CONTRO LE DISEGUAGLIANZE E L’ESCLUSIONE alle 11,00 in Piazza Vittorio Emanuele II (www.5novembreinpiazza.it). Invitiamo tutte/i a venire con bandiere della Pace e cartelli che riportino le suddette ESIGENZE.

Iniziativa Convergenza:
Fronte Umanista Europe for Peace; La Comunità per lo Sviluppo Umano; W.I.L.P.F. Italia; ManifestA; Mondo Senza Guerre e Senza Violenza; Energia per i Diritti Umani – Onlus; Lista Civica Italiana; Rete Sociale in Movimento; Associazione Per i Diritti Umani; Pressenza – Agenzia stampa internazionale per la pace, la nonviolenza, l’umanesimo e la nondiscriminazione; Ecoistituto del Veneto Alex Langer; Michele Boato direttore rivista Gaia; ODISSEA, Blog di cultura, dibattito e riflessione diretto dallo scrittore Angelo Gaccione; Gianmarco Pisa (operatore di pace); Tina Napoli (esperta politiche dei consumatori); Marco Palombo (attivista contro la guerra); Giuseppe Bruzzone (obiettore di coscienza); Elio Pagani (attivista contro la guerra e promotore della ricerca sullo statuto giuridico delle armi nucleari in Italia); Patrick Boylan (attivista contro la guerra e nel comitato Free Assange Italia);Silvia Nocera (Multimage, casa editrice per i diritti umani); Valentina Ripa (attivista per i diritti umani e membro del Direttivo del Festival del Cinema dei Diritti Umani di Napoli); Vincenzo Brandi, (Rete NO WAR Roma); Norma Bertullacelli (insegnante pacifista, Ora di Silenzio contro la guerra, Genova); Diego Pertile (amministratore pagina FB No armi in Ucraina – Vicenza); Flavia Lepre (Comitato Pace, Disarmo e Smilitarizzazione del territorio-Campania); Silvia Galiano ( Silvia Galiano, attivista eco-femminista di Catanzaro); Ireo Bono (medico attivista contro la guerra); Bruna Bianchi (scrittrice, ex Docente di Storia delle donne e Storia del pensiero politico e sociale contemporaneo all’Università Ca’ Foscari di Venezia); Annapina Ciminelli; Federico Zenga; Rita Venturi

Cover: Palermo, manifestazione per la pace

INFORMAZIONE E DEMOCRAZIA
Eliminare i giornalisti per eliminare le notizie

 

I/le giornalisti/e sono persone che operano nel settore dell’informazione. Si occupano di scoprire, scegliere, analizzare e descrivere eventi per poi comunicarli. In questo processo intervengono attività di rielaborazione e costruzione dell’informazione che permettono ad eventi in successione, a causalità ed a  serie di dati longitudinali (nel tempo T0-Tn) o verticali (insistenti sullo stesso tema andando in profondità “time in time”), di diventare delle vere e proprie notizie.

Il Newsmaking non è un processo cognitivo neutro. Le modalità di costruzione delle notizie risentono delle variabili socio-culturali di chi identifica la notizia e la propone come tale, pur garantendo, grazie alla professionalità e al rigore procedurale, quel minimo di autorevolezza e di eticità necessaria per far sì che un evento diventi a tutti gli effetti una notizia attendibile.

Questo processo è complicato, caratterizzato da variabili difficili da prevedere e potenzialmente pericoloso. Attribuisce a chi lo compie molta visibilità e gli garantisce sia autorevolezza sia pericolo di eccessiva esposizione. Questa eccessiva esposizione può dipendere dalla rilevanza dell’informazione, dalla sua curiosità, dal suo peso politico, dal grado di innovazione che porta con sé. Il tema dell’innovazione è rilevante. Più una notizia è “nuova” più è “destabilizzante” perché idonea a sovvertire un ordine già costituito. Aumenta così la responsabilità professionale del giornalista, che diventa un professionista dell’informazione esposto pubblicamente e sempre un po’ a rischio, come tutti coloro che, ricoprendo un ruolo importante, dicono ciò che pensano.

Attualmente l’attività dei giornalisti non si collega più solo a tutto ciò che interessa l’elaborazione dell’informazione e la sua successiva pubblicazione tramite la stampa. In molti casi è stata abbandonata la consuetudine di macchiarsi le dita d’inchiostro e si sono cominciati ad utilizzare altri canali di trasmissione delle informazioni, si pensi alla televisione e a tutto il panorama, in forte crescita, del giornalismo online. Secondo il “Digital News Report” del Reuters Institute for the Study of Journalism, le fonti online (inclusi i social) hanno sorpassato nel 2020 la televisione. Parallelamente, si è assistito all’ascesa dell’uso dello smartphone come dispositivo di accesso alle notizie [si veda qui].

Trattare le notizie significa utilizzare dati e altri elementi  –  ad esempio, testimonianze – che consentono di avere conoscenze più o meno esatte di fatti, situazioni, modi di essere; inoltre significa occuparsi anche della trasmissione dei dati stessi e dell’insieme delle strutture che lo consentono [si veda qui].

Fare il comunicatore con rigore, competenza e professionalità è molto impegnativo e sottopone l’agente della comunicazione a una riflessione costante sulle convinzioni (spesso sovvertite dai fatti) e sul livello di condizionamento che l’essere in quel tempo, in quello spazio e in quell’ancoraggio etico, veicola. In molti casi quella che potremmo definire la “professionalità del comunicatore” ha portato giornalisti a esposizioni mediatiche pericolose e le conseguenze sono state più che tangibili (denunce, minacce, ritorsioni, licenziamenti, fino a casi estremi in cui si sono verificati arresti e uccisioni). Un bravo giornalista è un soggetto che si muove in un’ arena pericolosa dove la circoscrizione del perimetro di quel che può fare e dire dipende prevalentemente da lui, dalla sua voglia di rischiare in prima persona in nome della missione comunicativa per eccellenza: “raccontare agli altri quello che succede”.

Secondo RSF (Reporters Sans Frontieres) nel 2021 sono stati assassinati in tutto il mondo 46 giornalisti mentre svolgevano il loro lavoro – per fortuna, il numero più basso degli ultimi 20 anni. Il Messico detiene il triste record del numero di reporter assassinati, in tutto 7. Seguono l’Afghanistan con 6, l’India e lo Yemen con 4. Dei 46 giornalisti assassinati, tra i quali 4 donne, 18 sono stati uccisi in zone di conflitto, 16 mentre lavoravano e altri 30 sono stati presi di mira in quanto giornalisti. Purtroppo, RSF registra anche un numero record di cronisti incarcerati: 488 (tra cui 60 donne). Si registrano infine 65 sequestrati e due “desaparecidos”. Da quando RSF ha cominciato ad occuparsi del problema (1995) non si era mai registrato un numero così alto di giornalisti imprigionati. La Cina si conferma, per il quinto anno consecutivo, la Nazione con il numero più alto di giornalisti incarcerati: 127. Seguono il Myanmar con 53, la Bielorussia con 32, il Vietnam con 43, e l’Arabia Saudita con 31 [Si veda qui].

In Francia, RSF ha osservato un aumento della violenza contro i giornalisti. Diversi giornalisti sono stati feriti da pallottole di gomma, granate lacrimogene o colpi di manganello. Altri reporter sono stati oggetto di arresti arbitrari durante l’esercizio della propria professione.

La situazione è peggiorata anche in Grecia. Più di 130 casi di violazione di tale libertà sono stati registrati negli ultimi anni. L’anno scorso due giornaliste si sono dimesse denunciando pubblicamente la censura e il controllo del governo conservatore di Kyriakos Mitsotakis sulla stampa libera. Inoltre, la Grecia ha assistito all’omicidio (Atene, 9 Aprile 2021) del giornalista Giorgos Karaïvaz che si occupava di cronaca giudiziaria. È il secondo omicidio di un giornalista ad Atene in undici anni.

Anche in Italia (quarantunesima su 180 Nazioni analizzate nel rapporto RSF) sono state ravvisate numerose violenze ai danni di giornalisti che presenziavano a eventi e manifestazioni, oltre al consueto numero di giornalisti minacciati dalla mafia o sotto scorta per aver pubblicato inchieste e servizi sulla criminalità organizzata.

A morire per raccontare, riflettere, selezionare informazioni, ricodificarle e renderle notizie sono spesso donne che fanno le giornaliste e le fotoreporter.  “La nostra missione è raccontare gli orrori della guerra con accuratezza e senza pregiudizi… abbiamo il dovere di darne testimonianza.” Così diceva, in un discorso tenuto in un’università londinese, Marie Colvin, reporter statunitense uccisa in Siria il 22 febbraio 2012. Ad uno studente che le aveva chiesto se valesse la pena rischiare la propria vita per fare la giornalista, aveva risposto: “Molti di voi ora si staranno chiedendo: possiamo davvero fare la differenza? Ho affrontato questa domanda quando sono stata ferita in un’imboscata in Sri Lanka. La mia risposta oggi come allora è: sì, possiamo farla.”

Ma perché tutto questo? Perché raccontare ciò che succede è pericoloso, perché documentare gli eventi porta con sé la genesi di una possibile ribellione che spaventa, perché la trasparenza toglie vita a tutte quelle organizzazioni che sulla falsa ideologia e appartenenza prosperano, perché nella costruzione della notizia esiste una componente interpretativa forte che permette l’emersione dell’originalità e del pensiero divergente. Pensiero che sa essere tanto utile quanto pericoloso nella misura in cui pone nuovi orizzonti e sa far luce su nuove strategie che mostrano strade diverse per la risoluzione di problemi divenuti atavici. Credo che la capacità interpretativa e creativa, agita attraverso la costruzione delle notizie, sia un forte agente di indipendenza e di pensiero critico che il professionista può attuare, spaventando chi non lo possiede o l’ha perso grazie a reiterate azioni di prevaricazione. Credo infine che, pur essendo mediata socialmente e condizionata dal tempo, una notizia che si fonda su: premesse rigorose, una raccolta di dati da fonti attendibili e un processo di codifica che poggia le sue fondamenta su un principio di etica e deontologia professionale radicata, sia uno dei più forti strumenti di illuminazione e progresso.

Detto questo, sicuramente le notizie sono causa ed effetto di molti processi politici, sociali ed economici; influenzano le proposte legislative e la parità dei soggetti; influenzano i processi gestionali e il marketing; influenzano e sono influenzate dal cambiamento digitale in corso. La loro quantità e qualità può essere messa in relazione alla qualità dei processi decisionali agiti. Per tutto questo, e forse per molto altro ancora, le fake news sono una schifezza, una delle distorsioni che un sistema democratico deve provare ad arginare se vuole sopravvivere. Può esistere un mondo virtuale in cui anche una fake new diventa verità (la definizione di esistenza non è univoca e dipende dai corollari che le si attribuiscono), ma non è questo che deve interessare. Nemmeno deve preoccupare che qualunque verità porti con sé il germe della sua negazione. I germi sono germi, la notizia ha molta più dignità. La deve avere. Il rapporto fra informazione e democrazia è centrale.

Fantasmi /
La Notte dei Doni

 

ella Italia contadina – e ancora oggi in alcune contrade isolate, se è mai possibile immaginare ancora una contrada isolata – in qualche luogo fuori dal nostro mondo, forse solo come un pallido ricordo o un vuoto omaggio alla tradizione, i doni dei bambini – provate a pensare a qualche biscotto, due canditi, poche caramelle, un mandarino e quattro noci – non li portava Gesù Bambino, né Santa Claus, sbarcato com’è noto nella nostra penisola nel golfo di Bari e sotto falso nome. E neppure San Silvestro allo scoccare del nuovo anno, o la celebre Befana, o il Befanone San Giuseppe. In alcune parti della Sicilia, sfruttando la lunghissima notte del 13 dicembre, se ne occupava ancora Santa Lucia, siracusana doc. Eppure nei tempi andati, prima di tutti i santi e gli eroi ricordati, gli ufficiali incaricati alla consegna erano altri. Portare i doni ai bambini era un appuntamento importante, una data da segnare sul calendario appeso in cucina. Allora, sconosciuti gli ipermercati e prima dell’era delle svendite online, a questa meritoria e ora negletta occupazione, si applicavano i morti. Cioè i trapassati. Cioè i fantasmi.

Tanto tempo fa, e anche questo è difficile da immaginare, i bambini erano davvero tanti, tantissimi, e per tanti di loro erano tempi di miseria. Si può pensare che un pur valente e superorganizzato Babbo Natale potesse soddisfare tutta la richiesta? E per di più in un tempo contingentato, dal tramonto della Vigilia all’alba del Santo Natale? Via, non scherziamo. Per questo, e per una sola notte, il grande esercito dei defunti veniva richiamato in servizio.

Bisogna però dire che i morti, pur volenterosi, avevano un grande difetto. Erano inesperti. Dei semplici dilettanti. Di contro avevano un pregio rispetto alle imprese individuali di Gesù Bambino e Babbo Natale. I morti erano tanti. Tanti quanto i bambini, forse qualcuno in più piuttosto che qualcuno in meno. Così ogni morto, dopo aver dormito in santa pace – e alcuni di loro, immaginiamo, dopo essersi rivoltati un anno intero nella tomba per i peccati commessi – doveva tirarsi su, scrollarsi la polvere di dosso e mettersi al lavoro. Ma solo la notte del 2 novembre, e non era poi un grande impegno, ché ogni morto doveva occuparsi soltanto dei bambini suoi diretti discendenti, dividendoseli tra gli altri avi legittimi e aventi diritto. Tra nipoti, pronipoti e bisnipoti si arrivava al massimo a una decina di bambini per ogni morto. Morto sì, ma richiamato in servizio effettivo in quella Notte dei Doni.

Anche quella notte, era il 2 novembre del 1932, tutto sarebbe filato liscio, se non si fosse presentato un imprevisto, un inconveniente molto raro eppure così tipico di quella particolare operazione. Un incarico semplice ma delicato e a cui Tano, il nonno protagonista di questa storia – protagonista in quanto regolarmente morto da quasi sessant’anni – si era preparato alla bell’e meglio, ma con una gran voglia di far bene.

Tano il brigante, si capisce subito, non era stato in vita né un padre esemplare, né un bravo marito, né tantomeno un onesto cittadino del neonato Regno d’Italia. C’è di peggio, Tano non era stato neppure un buon brigante. Accusato di tradimento, era stato “sputato”, processato e quindi giustiziato dai suoi stessi compagni d’arme. I quali compagni, nemmeno ora, morti e stramorti che erano, gli rivolgevano il saluto. Ma le regole della Notte dei Doni valgono per tutti e anche a uno stinco di santo come Tano toccava l’onere e l’onore di distribuire biscotti, noci e dolcetti ai suoi piccoli discendenti.

Aveva un’unica consegna da fare, visto che i parenti si erano accaparrati tutti gli altri nipoti e pronipoti. Ma uno è meglio di zero, pensava Tano tra sé, e facendosi buio, la tensione si mescolava all’entusiasmo. Da vero bestione quale era, non aveva neanche pensato a darsi una ripulita. Indossava ancora gli stracci del giorno dell’esecuzione, con tanto di buchi dei pallettoni sul panciotto e copioso spargimento di sangue. Nella mano destra, sporca e pelosa, stringeva un piccolo involto di carta con i doni per suo nipote. Aveva appena compiuto sette anni e si chiamava Gaetano, cioè Tano, proprio come lui.

Entrò in casa passando attraverso il muro, come vuole il regolamento, e cercò subito il vecchio camino per appoggiare sulla mensola il cartoccio di dolciumi. Solo una scaldatina, poi sarebbe filato via, una cosa di cinque minuti al massimo. Si era dimenticato quanto fosse piacevole scaldarsi le ossa – e chi l’ha detto che uno spettro non possa apprezzare certi piccoli agi. Così rifletteva Tano, sfregandosi una mano sull’altra e allungando le braccia verso le braci ancora rosse. Ma ecco affacciarsi il maledetto inconveniente: dietro di lui senti una vocetta giovane e impertinente: “Tu chi sei? Da dove vieni? Sei venuto a rubare?”

Tano il brigante fu preso da un fulmine e si sentì svenire. E sarebbe svenuto sicurissimamente se solo ne avesse avuto la facoltà. Ma essendo morto, si limitò a voltarsi su se stesso e vide il nipote Tano. Si diede una riassettata alla giacca sporca e sdrucita, si grattò la barbaccia ispida, appoggiò in terra il fucile a due canne, con la poca cautela di cui era capace. Abbassò gli occhi. La situazione era a dir poco imbarazzante e, in quanto spettro, non gli era neppure concesso di arrossire. Scappare? Lui? Davanti a un bambino? Mai! Sarebbe stato un disonore, peggio della fucilazione. Tanto valeva scambiare due chiacchiere.

Era venuto per regalare a suo nipote due dolcetti – questo cominciò a dire il brigante Tano: “E naturalmente per conoscerti, e per dirti di onorare il nome di tuo nonno”. Il nipote lo guardava fisso, un tacito invito a continuare la storia. E il brigante la continuò la storia, permettendosi anche qualche licenza, qualche piccola deviazione dalla verità dei fatti. Tano il nipote ascoltava le mirabolanti imprese del nonno brigante, il suo alto senso della giustizia e dell’onore, l’impegno strenuo a difesa dei poveri e delle vedove. Mano a mano che il vecchio Tano parlava, il giovane Tano, scacciava dal suo olimpo Robin Hood – primo ed unico libro letto – e metteva sul trono Tano il Brigante.

“Ma è sangue quello che hai sui vestiti?”. Certo che era sangue, quello dei perfidi nemici uccisi in battaglia: “Sai ragazzo, il mio era il Tempo dei Giganti, mentre il vostro è il tempo dei nani.”. Gli piacque assai quell’ultima frase, peraltro incomprensibile per un bambino sveglio fin che si vuole, ma pur sempre di sette anni. Ma a un tratto si ricordò del “suo tempo”, il tempo da fantasma in missione che, in effetti, era scaduto da un pezzo. Allora quel brigante da due soldi, quello splendido fanfarone, decise per un’uscita di scena che il nipote potesse ricordare a distanza di anni. Alzò lentamente il braccio destro facendolo dondolare come una bandiera accarezzata da una brezza leggera, impostò la voce a un tono grave e cavò fuori da chissà dove le parole più astruse del vocabolario: “Nipote amatissimo, cui toccò l’avventura di recar teco il nome vetusto del tuo vetusto avo, tieni sempre dianzi ai tuoi occhi l’onore e la virtù.” Sbirciò il nipote e aggiunse: “E ora corri a letto senza voltarti e lasciami solo”. Il nipote Tano non comprese la metà della metà di quel pistolotto di commiato, ma ubbidì e abbandonò il campo. Si voltò un’ultima volta prima di imboccare di corsa le scale: il grande uomo era ancora fermo davanti alle braci morenti del camino.

La mattina seguente si mangiò i dolcetti e tenne per sé il suo segreto.
Quando Tano, non il brigante ma il nipote, raccontò per la prima volta nella sua vita quella storia, erano passati sessantasette anni da quella notte. Nel frattempo era diventato nonno a sua volta e rimbambito a sufficienza. Intanto, quel Secolo terribile e interminabile stava davvero per finire. Ma com’era stato possibile dimenticare tutto? Eppure quello straordinario incontro gli era evaporato dalla mente. Anche lui però ora aveva un nipote. E i bambini non la smettono di fare domande. Quella sera, era il 2 novembre del 1999, gli tornò in mente come d’incanto tutta la storia, ogni parola, ogni minimo particolare di quella notte della sua infanzia, e la raccontò tutta, per filo e per segno al nipote Luigi. Luigino aveva sette anni ed era sveglio, perfino più sveglio di lui alla sua età. Ma sentendo quello strano racconto si turbò per un attimo, e chiese: “Allora nonno hai visto un fantasma?”
Il nonno, sembrava così mite, si arrabbiò: “Che sciocchezza. Ma che fantasma e fantasma, i fantasmi non esistono. Era proprio lui, mio nonno Tano, il brigante, in carne e ossa.”

Proprietà dell’autore, tutti i diritti riservati

Diario in pubblico /
Con-vivere con la Tivù

 

Sembra un destino a cui immancabilmente si va incontro consci della inutilità dell’opposizione e nello stesso tempo della sottile perfidia della mente che – sostiene lei – rende necessaria la constatazione del (de)grado delle scelte degli italioti. Sì! Mi si accusi di essere radical-chic, di preoccuparmi, ormai a tempo pieno, dei programmi tv; ma ormai l’età e il ‘disio’ della conoscenza mi rendono partecipe e succube di ciò che si vede e si percepisce.

Certo! Continuo a registrare e delibare le parole dell’unica Liliana Segre; ad organizzare un commento sulle sue parole e scritti che, spero a breve, consegnerò alla lettura dei miei 25 lettori, ma frattanto guardo, tra ammirazione e repulsione, Ballando con le stelle perché viene annunciata la presenza di un vero attore che seguo con interesse: la signora Coriandoli alias Maurizio Ferrini.

Le sue partecipazioni recenti a programmi quale Che tempo che fa di Fazio hanno mostrato, attraverso l’ironia pressante che lo rende necessario al tavolo della trasmissione, che non tutto è perduto nell’inesorabile evolversi del gusto degli italiani schiavi o sottomessi al diktat del modo più recente di conoscere: vale a dire la tv.
Questo attore sembra destinato ad appaiarsi agli spettacoli strepitosi che il Berlusca concede – bontà sua – nel suo rientro nella politica attiva. Come non avvicinare ‘gli smumi’ della Coriandoli a quelli del cavaliere?

Un altro personaggio trasferitosi dalla politica al teatro, vale a dire il fiorentino Matteo Renzi, gli può stare al paro direbbero i miei, un tempo, concittadini.

Non dico nulla di nuovo se ormai la politica-spettacolo non certo nuova o appannaggio della destra viene assunta quale cuneo preferito nello sfondare o rimuovere l’indifferenza dei votanti. Riguardo con stupore misto a rabbia gli emergenti della parte che con senso del dovere ho di nuovo votato. Vale a dire i Giani, i Nardella, tra quelli che meglio conosco, che reggono la scelta politica della regione toscana e della mia amata Firenze.

Ma il tempo passa e devo ritornare comunque ai miei interessi che coinvolgono nomi solenni: Canova, Bassani di cui cerco con onestà e umiltà di commemorare e ricordarne la lezione senza spettacolarizzazioni che ne abbasserebbero l’insegnamento e il valore. Ma è difficile! Sempre più difficile.

E ancora una volta diventa necessarissimo riappropriarsi di quel detto che siglò la nostra lontana giovinezza: “resistere, resistere, resistere.”. E ai troppo coccolati giovani trattati come se fossero una materia ideologico-politica informe rivolgo ancora quella raccomandazione che suona ancora utile per chi ne vuole cadere nella trappola del merito.

Per leggere tutti gli altri interventi di Gianni Venturi nella sua rubrica Diario in pubblico clicca  [Qui]

Laura Tussi: “Caro Assange, non ti dimentichiamo”

Tratto da pressenza del 30 ottobre 2022

Durante la maratona mondiale di pensiero e azione per la libertà di Assange organizzata da varie associazioni e realtà pacifiste il 15 ottobre 2022, l’attivista italiana Laura Tussi ha diffuso il testo della lettera inviata a Julian Assange. L’avvocato di Assange, Jodie Harrison, l’ha fatta pervenire al padre.

Caro Julian,

sei incarcerato e osteggiato dai poteri forti per aver indagato e denunciato i crimini e i criminali di guerra in Afghanistan, in Iraq, nel carcere statunitense di Guantanamo.

Grande parte dei mainstream tradizionali, dei mass media convenzionali ti hanno dimenticato.

Ma noi no.

Noi non ti dimentichiamo e non ti abbandoniamo.

Oggi, 15 ottobre 2022, abbiamo realizzato da parte di varie realtà pacifiste una maratona mondiale di pensiero e azione di 24 ore non stop, con performances, messaggi, spettacoli, articoli, webinar per sostenerti e incoraggiarti, caro Julian, per sostenerti e incoraggiarti ad andare avanti, a resistere come con te facciamo tutti noi in questa macabra congiuntura di guerra e oscurantismo.

Julian, sei incarcerato nel Regno Unito.

I poteri forti ti vogliono estradare negli USA, dove hanno chiesto 175 anni di carcere, ossia l’ergastolo: una prematura morte certa, viste anche le tue precarie condizioni psicofisiche.

Julian, tu sei il simbolo mondiale della libertà di stampa.

Sei il simbolo mondiale della libertà di espressione, di pensiero, di azione.

Sei il simbolo mondiale della libertà.

Sei il simbolo mondiale della verità: il nuovo Prometeo.

E noi ti siamo vicini.

Noi stravaganti giornalisti e attivisti che non siamo considerati dai media ortodossi, ma scriviamo per siti come WikiLeaks, siti che hanno a cuore i temi della pace, del disarmo, dell’ambientalismo, della nonviolenza, della cooperazione internazionale e della riconciliazione tra popoli, genti, minoranze.

Riconciliazione, ma mai con fascismo e nazismo.

Perché nel mondo lo strapotere degli Stati Uniti è una dittatura persecutoria, autoritaria, criminale. Ossia senza mezzi termini fascista.

Noi con i nostri siti, i nostri libri, il nostro impegno ti siamo vicini per continuare una nuova resistenza.

La nuova resistenza degli anni 2000.

La resistenza del Terzo millennio.

Contro le superpotenze e i padroni guerrafondai e i signori della guerra che si contrappongono ai partigiani della pace.

I signori della guerra che costruiscono, producono e mercanteggiano armi per fomentare la guerra, la terza guerra mondiale, la potenziale e molto probabile apocalisse nucleare.

Caro Julian, noi siamo convinti che pacifismo è anche sperare che i delegati italiani non vadano alla Cop27 in Egitto, perché recarsi in Egitto significa omaggiare un regime che ha massacrato Giulio Regeni e tiene in ostaggio Patrick Zaki. Simboli anche loro della libertà.

Pacifismo significa anche boicottare i mondiali di calcio in Qatar, che è complice con i Saud e gli emirati arabi del massacro e della guerra civile in Yemen.

Il Premio Sacharov per la libertà di pensiero è stato assegnato dal Parlamento Europeo al popolo ucraino, ma per noi eri TU il destinatario più meritevole.

Per tutto questo e molto altro ancora noi ti siamo vicini.

Un caro saluto,

Laura Tussi
Docente, giornalista e ricercatrice, si occupa di pedagogia nonviolenta e interculturale. Ha conseguito cinque lauree specialistiche in formazione degli adulti e consulenza pedagogica nell’ambito delle scienze della formazione e dell’educazione.

In copertina: Foto di https://www.facebook.com/FREEASSANGEREGGIOEMILIA

Parole e figure /
Che bello avere la Testaperaria!

 

A noi sognatori con la testa fra le nuvole e gli occhi sempre rivolti al cielo, certi di poter spazzare via paure e dubbi con la tenerezza, la bellezza e la fantasia, piacciono i luoghi magici. Siamo talmente attratti dalla magia che non abbiamo quasi più bisogno di cercarli, perché quei luoghi si mettono da soli sulla nostra strada.

Ci basta girare l’angolo e puff quel posto è proprio lì. Ci attende, porge il benvenuto e apre la porta. Gentilmente. Di solito – quasi sempre – si tratta di librerie, ma le mie eccezioni stanno diventando molte. Se la libreria è poi specializzata in letteratura per bambini o ragazzi o si occupa di natura, giardini o alberi che siano, la formula magica è completa.

Nella nostra città alcuni luoghi profumano di serenità al caramello.

Testaperaria è uno di questi, uno di quei posti dove recarsi se, come noi, si amano le parole, i disegni e le figure che incantano.

Ovviamente questi luoghi non sono fatti solo di libri ma, soprattutto, di librai o libraie, come in questo caso, capaci di capire subito cosa si sta cercando, di accompagnarvi gentilmente quasi prendendovi per mano.

Vi presento allora Rita e Paola, che accolgono sempre con un sorriso.

 

Rita e Paola (versione 1)
Paola e Rita (versione 2)

Qui si legge ma, soprattutto, si gioca e ci si diverte tutti insieme, duranti incontri e laboratori dove i grandi trovano il tempo per i loro piccini. Entriamo. Con tanta(e) curiosità.

Ragazze (mi permetto), come è nata Testaperaria e il suo nome?

Testaperaria è nata nel dicembre del 2017 da un’idea maturata nel tempo. In passato entrambe abbiamo lavorato come libraie in una libreria specializzata per ragazzi per circa sette anni. Abbiamo intrapreso poi strade lavorative differenti ma coltivando sempre la passione per l’editoria per ragazzi e l’idea di riuscire, un giorno, ad aprire una libreria tutta nostra. All’inizio del 2017 si sono verificate alcune condizioni che ci hanno portato a considerare il progetto con più concretezza… e siamo partite, con qualche punto interrogativo sul futuro ma molto entusiasmo. È stato un passo importante e impegnativo ma condiviso dalle nostre famiglie, che ci hanno dato il supporto decisivo per intraprendere questa avventura.

Trapezista, Martapesta

Il nome Testaperaria è un piccolo tributo all’albo illustrato di Claude Ponti: Catalogo dei genitori per i bambini che vogliono cambiarli, edito da Babalibri, che racconta di varie tipologie di genitori, tra i quali i Testaperaria appunto, capaci di lasciarsi ispirare da idee nuove e vecchie storie. Ci piace pensare che la lettura permetta a tutti di “avere la testa un po’ per aria” nel senso costruttivo del termine, cioè dia ottimi strumenti per guardare le cose da una prospettiva “altra”: libera, creativa, personale, consapevole.

Perché venire proprio da voi? Io un motivo ce l’avrei, quale pensate che possa essere?

Perché abbiamo cercato di rendere Testaperaria un luogo accogliente e stimolante, dove riempirsi gli occhi di parole dense e belle immagini e, perché no, dove sentirsi un po’ a casa. L’editoria per ragazzi è un mondo sempre più articolato. Pensiamo che Testaperaria rifletta il nostro tentativo di scegliere, tra tante proposte, le letture e i giochi realizzati con più cura ed attenzione. E poi crediamo che i libri offrano spunti per affrontare tutti i piccoli grandi temi della vita, perciò abbiamo scelto di ragionare sulla loro collocazione in modo che anche l’organizzazione dello spazio in libreria fosse funzionale alle richieste dei lettori piccoli e grandi. A Testaperaria ci sono libri che propongono percorsi sulle tematiche più differenti (le emozioni, il rispetto, l’accoglienza, la natura, la crescita, le relazioni, il cinema) e ci sono libri semplicemente belli, eloquenti ed evocativi, che vanno sfogliati, assaporati e assimilati.

A mio avviso gli albi illustrati per bambini e i libri per ragazzi non sono affatto solo per loro. Ne sono la prova proprio io che ormai ne leggo a bizzeffe… Pensate di voler e poter coinvolgere sempre di più un pubblico adulto di lettori?

Gli albi illustrati sono il frutto del lavoro di artisti della parola e dell’immagine.
Sono un piacere dal punto di vista figurativo e spesso sanno restituire, nel rapporto tra testo e illustrazione, tutta la complessità dei sentimenti e delle esperienze della vita in modo immediato, vivido, evocativo, poetico oppure ironico. E questo presuppone un profondo lavoro di ricerca.
Secondo noi gli albi illustrati non solo arricchiscono e stimolano l’immaginario di adulti e bambini, indifferentemente, ma denotano una forma di rispetto del mondo interiore di ciascuno di noi, perché sanno veicolare BELLEZZA, ciò di cui tutti abbiamo bisogno.
Spesso capita che i nostri clienti scelgano di regalare ad un adulto un albo illustrato per la sua capacità di trasmettere un messaggio efficace, limpido, ricco di sfumature e allo stesso tempo intenso e sintetico. Concordo!

La narrativa per bambini e ragazzi è in forte espansione, gli illustratori sono ogni giorno più bravi e, anche per questo, diventano sempre più importanti alcuni Festival di letteratura e fiere del libro nazionali e internazionali. Quali ritenete più interessanti?

La Fiera del libro per Ragazzi di Bologna è, sicuramente, l’evento più significativo e ricco di stimoli per la letteratura per bambini e ragazzi. Non è solo un’occasione per scoprire i progetti editoriali in uscita o le case editrici emergenti, ma è un momento prezioso per ascoltare dalla voce degli autori e degli illustratori quali esperienze e riflessioni stanno alla base del loro lavoro.
E questo aiuta anche il nostro lavoro di libraie, perché ci dà nuove chiavi di lettura e ragioni più profonde per comprendere e amare le storie che leggiamo.
C’è poi un’altra realtà che ci sta molto a cuore pur non essendo una fiera del libro ma un festival dedicato al giornalismo: il Festival di Internazionale, che oggi più che mai è un’occasione per avere uno sguardo consapevole su ciò che accade nel mondo e prendere coscienza di temi urgenti come la giustizia, la legalità, la libertà di informazione, la tutela dei diritti.

Quali sono i vostri Editori (quelli preferiti, che amate e consigliate) e perché?

Forse, più che preferire delle case editrici, potremmo dire che abbiamo un’attenzione particolare nei confronti del lavoro di alcuni autori e illustratori.
Cerchiamo comunque di dare spazio, tra le nostre proposte, a case editrici di qualità, che hanno un’identità e fanno un costante lavoro di ricerca, come ad esempio (solo per ricordarne alcune): Babalibri, Carthusia, Clichy, Lapis, Gallucci, Kite, Glifo, Terre di mezzo, Topiptttori, Orecchio Acerbo, Zoolibri, Camelozampa, Pulce, L’ippocampo.

Abbiamo chiamato la nostra rubrica “parole e figure”, potete spiegare il perché ai nostri lettori?

Il nome della rubrica contiene un riferimento al saggio: Guardare le figure, nel quale Antonio Faeti indagava il mondo degli illustratori italiani dei libri per l’infanzia tra la fine dell’Ottocento e l’inizio del Novecento, e riconosceva nelle “figure” che essi accostavano ai testi il valore di un immaginario che prendeva forma e di un’identità che si delineava e si esprimeva. 

Inoltre, il nome della rubrica richiama la caratteristica fondamentale dell’albo illustrato: il rapporto tra testo e illustrazione, inscindibile, complementare, dialogico. Ed è proprio questo rapporto che contraddistingue l’albo illustrato come mezzo espressivo che ha strutture, caratteristiche, modalità narrative proprie. Una sua grammatica, si potrebbe dire.

Sempre pensando a questo titolo della rubrica, mi vengono in mente i “silent book”, molto belli. Ne avete e li consigliate? Sono noti al pubblico e richiesti? Credo che per stimolare la fantasia e il pensiero costruttivo siano davvero eccezionali…

Il mondo dei “silent book” è straordinariamente ricco. In libreria abbiamo molti libri senza parole e sempre più spesso ci vengono richiesti.
La bellezza dei “silent book” sta, secondo noi, nei possibili livelli di lettura che il linguaggio figurativo lascia aperti: ogni lettore, senza il condizionamento del testo, scorge nelle immagini frammenti, sfumature, interpretazioni del tutto personali e rimodella il racconto secondo il proprio vissuto, immaginario, bagaglio esperienziale.
Proprio per questo i “silent” non conoscono barriere né vincoli legati all’età, alla cultura, alla lingua o al livello di alfabetizzazione.

Solo per ricordarne alcuni: L’onda di Suzy Lee, Professione coccodrillo di Giovanna Zoboli, S’alza il vento di Anna Paolini, Gita sulla luna di John Hare, Costruttori di stelle di Soojin Kwak, Fiori di città di JonArno Lawson, Via della gentilezza di Marta Bartoli, Il pappagallo di Monsieur Hulot di David Merveille (adoro questo libro, NDR), Un’estate di Ji-Hyun Kim.

 

Nell’era digitale, cosa cerca oggi un giovane lettore “cartaceo”? Come lo riavviciniamo al profumo, al fascino e alla bellezza della carta?

Secondo noi – e il cuore del progetto Nati per Leggere è proprio questo – il libro è fondamentale per lo sviluppo cognitivo, emotivo e relazionale del bambino, fin dai primi anni di vita.
Se fin da piccolissimi il libro è compagno di gioco, occasione di esplorazione tattile e visiva, momento di lettura condivisa con un genitore e strumento per consolidare una relazione affettiva, allora il rapporto con l’oggetto libro difficilmente potrà essere sostituito da uno schermo.
Da parte nostra, la scelta di intraprendere il lavoro di libraie si fonda proprio sulla bellezza del rapporto con il libro cartaceo, che è un’esperienza emotiva, è costruzione di relazioni, ma è anche l’odore e la consistenza della carta, il fruscìo delle pagine da sfogliare e risfogliare, e – perché no?- è la libertà di annotare, di prendersi il tempo di leggere e ascoltare, insieme o da soli.

Un’ultima curiosità: amo moltissimo gli illustratori francesi, come Delphine Perret per citarne solamente una; pensate vi sia spazio, a Ferrara, per albi e libri in questa lingua?

La distribuzione dei libri in lingua nel mercato editoriale italiano non è al momento una realtà strutturata. C’è però, per quanto riguarda i libri in lingua francese (non gli autori francesi ma la lingua), un esempio molto interessante: Passepartout, un marchio che pubblica in francese alcune opere selezionate dal catalogo Kite.

Qualche esempio: L’écrivain di Davide Calì, illustrazioni di Monica Barengo; C’est maintenant ou jamais di Davide Calì, illustrazioni di Cecilia Ferri; L’inventaire des jours di Luca Tortolini, illustrazioni di Daniela Tieni; Les invités de Madame Olga di Eva Montanari; Un jour, sans raison di Davide Calì, illustrazioni di Monica Barengo.

 

Per finire davvero… Si avvicina Halloween e poi Natale (durante questa bella festa, leggere, al calduccio, è un grande regalo a sé stessi e ai propri cari). Quali letture suggeriamo ai nostri affezionati lettori?

Per quanto riguarda Halloween, un libro che amiamo in modo particolare è Una strana creatura nel mio armadio di Mercer Mayer (Kalandraka), che racconta il rapporto tra un bambino e un mostro nascosto nell’armadio, secondo una prospettiva del tutto nuova: qui il mostro ha bisogno di essere consolato e il bambino lo accoglie a dormire nel proprio letto. Fantastico, dico io.

 

Un altro libro intramontabile, capolavoro di Raymond Briggs, è Babbo Natale (Rizzoli), vincitore della Kate Greenaway Medal nel 1973, che racconta la consegna dei regali durante la notte della Vigilia da parte di un Babbo Natale irriverente e un po’ scorbutico, pieno di humor, capace di tenerezza e lontano da ogni cliché. Mi piace molto, dico sempre io.

Ma la lista è lunga, concludo… Andiamo da Testaperaria a curiosare allora. Perché curiosando s’impara. Buona lettura a tutti!

Fotografie di Simonetta Sandri e Libreria Testaperaria. La bella acrobata in negozio è di Martapesta

 

 

 

 

 

 

La libreria Testaperaria si trova a Ferrara, in via de’ Romei 19/A

 

Eliane Brum: “Se vince Bolsonaro, l’Amazzonia è finita”

Dopo aver ricevuto proprio questa settimana il premio Vladimir Herzog per la pubblicazione del suo libro Banzeiro òkòtó, un viaggio in Amazzonia, centro del mondo, la prestigiosa giornalista e scrittrice brasiliana Eliane Brum ha lanciato un commovente appello a votare per Lula (PT) alle elezioni presidenziali di domenica prossima in Brasile. Di seguito la trascrizione e il video originale del suo discorso.

Ieri ho lasciato la mia casa di Altamira, in piena deforestazione amazzonica, per essere qui con voi. Ho lasciato la mia casa dopo aver visto giorno dopo giorno il sole insanguinato prodotto dagli incendi. È un sole rosso, un sole sinistro di crudele bellezza, un sole terrificante prodotto da fuochi criminali. Non c’è niente di più orribile – credetemi – che vedere una foresta che brucia e migliaia di esseri viventi che bruciano con essa. Quest’anno, per la prima volta nella mia vita, non ho seguito l’incendio come giornalista. Ho visto l’incendio da ogni finestra della mia casa.

Questo è il Brasile di Bolsonaro. Il fuoco si avvicina sempre di più e un giorno potrebbe raggiungere tutti noi. Voglio dire in modo molto esplicito che se Bolsonaro sarà eletto domenica, l’Amazzonia è finita. Ha ucciso 2 milioni di alberi in meno di 4 anni. Si è già raggiunto il 20% di deforestazione, quando il punto di non ritorno previsto dagli scienziati è tra il 20 e il 25%.

Se l’Amazzonia finisce, i figli di tutti noi qui avranno un futuro ostile. I figli dall’altra parte del mondo avranno un futuro ostile! Non si tratta della scelta più importante nella vita dei brasiliani, ma di una scelta cruciale per il pianeta. È un’elezione ancora più decisiva per i non umani, che non possono nemmeno votare per fermare la distruzione.

La democrazia brasiliana non ha mai raggiunto i più poveri, i neri, le donne, i popoli della foresta e altri popoli della natura. Ha infastidito troppo poco i bianchi, gli uomini, le classi medie e le persone più ricche di questo Paese. Ed è anche perché non li ha disturbati abbastanza che ci troviamo in questa situazione.

Ormai dovremmo parlare di una democrazia capace di raggiungere non solo tutti, ma anche i diritti della natura. Invece, stiamo lottando per non svegliarci il 31 ottobre in una completa dittatura.

Se Bolsonaro vincerà, l’orrore sarà di un ordine che nemmeno quelli di noi che hanno assistito allo spargimento di sangue sono in grado di concepire. La vittoria di Lula è la nostra migliore possibilità, ma anche così sarà molto difficile. In queste elezioni siamo tra la catastrofe e il molto difficile.

La cosa più importante che posso dire in questa sede è che, a prescindere dal risultato, la lotta non finisce il 31. Quelli di noi che sono vivi stanno affrontando una guerra contro la natura, una guerra planetaria che non finirà finché vivremo. La lotta è eterna e non si può scegliere se essere in guerra o non esserlo. La guerra è già qui e Bruno Pereira e Dom Philips, sette indigeni uccisi in soli 10 giorni a settembre e molti altri solo quest’anno, sono vittime di questa guerra. Ciò che esiste è la scelta di combattere o lasciare che il fuoco ci raggiunga.

Un’amica, quasi paralizzata come tanti dall’orrore di queste elezioni, mi ha chiesto: “Dove troviamo l’aria per respirare?” E io le ho risposto: “Nella lotta, nella lotta collettiva”. In queste elezioni, e ben oltre, l’omissione non è un’opzione.

 

 

A BOLOGNA IL GRANDE CORTEO DEI MOVIMENTI: “I beni comuni vanno affrancati dal dominio del mercato”

 

Sabato 22 ottobre un corteo molto partecipato – i numeri, al solito, si sprecano, ma non si sbaglia di molto a dire almeno 20.000 persone – ha attraversato le strade e la tangenziale di Bologna per dire che occorre, in generale e anche nella nostra regione, cambiare radicalmente le politiche ambientali e quelle del lavoro.

La manifestazione, indetta inizialmente dal collettivo di fabbrica GKN, dal Comitato Nopassante di Bologna, dai Fridays for Future e dalla Rete sovranità alimentare, ha visto coagularsi attorno ad essa un insieme di comitati, movimenti e associazioni sociali – dal comitato contro il rigassificatore a Ravenna alla Rete per l’emergenza climatica e ambientale, dai collettivi studenteschi ai sindacati di base, solo per citarne alcuni tra i tanti. Non mi pare, però, si possa semplicemente derubricare quell’appuntamento sostenendo, come ha avuto modo di dire il sindaco di Bologna Lepore, che “quella di sabato era la prima grande manifestazione nazionale dove si ritrovavano tutte le aree radicali e antagoniste dopo la nascita del governo Meloni….persone da tutta Italia si sono ritrovate a Bologna per motivi politici nazionali”.

Capisco che il sindaco di Bologna faccia di tutto per non sentirsi chiamato in causa, ma, così facendo, non coglie uno dei punti di novità che sono emersi con forza dalla manifestazione del 22 ottobre: la consapevolezza diffusa che il modello di sviluppo, anche della nostra regione, è giunto ad un punto di crisi molto seria, che si manifesta, prima di tutto, nell’insostenibilità delle politiche ambientali praticate e nella regressione dei diritti del lavoro e che, dunque, occorre misurarsi con il fatto di pensare ad un altro e alternativo modello sociale e produttivo.

La buona riuscita della manifestazione fa sorgere almeno altri due elementi di riflessione: il primo è che si è prodotta una convergenza di soggetti e movimenti sociali diversi tra loro che, dopo anni di frammentazione e, per certi versi, di autoreferenzialità, hanno iniziato a ritrovarsi e connettersi. Il secondo è che probabilmente siamo di fronte ad una ripresa della conflittualità e della mobilitazione sociale, dopo un silenzio dovuto anche alla sospensione spazio- temporale e sociale della pandemia.

Lo conferma la buona risposta della settimana precedente alla manifestazione promossa ad Ancona ad un mese dall’alluvione, oppure la partecipazione alle iniziative per la pace, che culmineranno il 5 novembre in una giornata che si preannuncia importante e partecipata.


Certo, questi sono ancora processi tutt’altro che compiuti: c’è, anzi, la necessità di lavorare perché essi si consolidino, ma non c’è dubbio che segnalano una potenzialità presente e da cogliere. Anche per quanto riguarda l’iniziativa in regione, dove occorre rafforzare i contenuti e le mobilitazioni dei movimenti, e fare in modo che il processo di convergenza iniziato prosegua con uno sguardo ampio e inclusivo.

Per non scadere nell’astrattezza, provo ad esemplificare ragionando sul rapporto tra mercato e beni comuni, e come questi devono essere affrancati dal suo dominio e dalle sue logiche. Prendo spunto da un articolo apparso su queste pagine a firma di Andrea Gandini (leggi qui) decisamente interessante nell’analisi, meno condivisibile (a mio avviso) nelle conclusioni.
Interessante nell’analisi, perché viene bene evidenziato come lasciare la gestione dei servizi pubblici che garantiscono beni comuni fondamentali, dal gas all’energia elettrica, dall’acqua al ciclo dei rifiuti, ad aziende di natura privatistica, che si muovono cioè con un orientamento alla massimizzazione dei profitti, come Hera, multiutlity quotata in Borsa, significa promuovere gli interessi degli azionisti (privati e pubblici) e del management, non certo dei cittadini.

A cui però si può ovviare non con il fatto di fare entrare nei Consigli di Amministrazione rappresentanze dei lavoratori e dei cittadini, cosa “incompatibile” con la natura privatistica della proprietà, a meno che ciò non si riduca ad un elemento marginale e subalterno. Occorre, invece, aggredire la questione alle radici, affrontando il nodo della proprietà e quindi facendo la scelta della ripubblicizzazione di queste aziende, non riducendola solo ad un cambio di natura giuridica, ma, anzi, prevedendo appositamente un ruolo fondamentale per l’assunzione delle decisioni di fondo ai lavoratori e ai cittadini e alle loro rappresentanze.

Il tema è di attualità anche in Regione e a Ferrara. Per quanto riguarda il livello regionale, sono state depositate da RECA (Rete per l’Emergenza Climatica e Ambientale) e da Legambiente 4 proposte di legge di iniziativa popolare regionale su rilevanti temi ambientali con più di 7000 firme, tra cui una che riguarda l’incentivazione alla pubblicizzazione delle aziende che gestiscono il servizio idrico e quello dei rifiuti, che dovrebbero prossimamente iniziare l’iter di discussione nell’Assemblea regionale.

A Ferrara è aperta da tempo, sin dalla scadenza della concessione a Hera avvenuta alla fine del 2017, la discussione sul soggetto cui dovrà essere assegnata la gestione del servizio dei rifiuti per il Comune.

Poi, in tempi non biblici, la stessa questione riguarderà la gestione del servizio idrico. Per quanto riguarda il servizio di gestione dei rifiuti, dopo una battaglia che è partita già nel 2018, l’Università di Ferrara è impegnata, su indicazione dell’Amministrazione Comunale, a studiare un piano di fattibilità per la gestione pubblica del servizio stesso.

Discuteremo i suoi esiti, ma sin d’ora è possibile avere un’opinione su quali sono gli interessi perseguiti nel caso della gestione di tipo privatistico o di tipo pubblico-partecipato: basti pensare che a Hera, nella gestione in proroga dei rifiuti a Ferrara, viene erogato un profitto garantito, la cosiddetta remunerazione del capitale “investito”, pari inizialmente al 3% del capitale ed ora innalzato al 6%, che è passata da circa 400.000 € nel 2020 a circa 700.000 € nel 2021 e nel 2022. Inoltre, viene riconosciuto al soggetto gestore (e non agli utenti) una quota relativa al raggiungimento di risultati positivi relativi alla raccolta differenziata.

Ecco, quest’esempio può ben rappresentare il percorso che si tratta di compiere per dare continuità e forza alla mobilitazione che si è espressa con la manifestazione del 22 ottobre.

Si tratta, cioè, contemporaneamente, di sviluppare vertenze nei territori e a livello regionale, che possano essere riconosciute dai vari soggetti e movimenti sociali interessati al processo di convergenza, e di unificarle progressivamente in un orizzonte comune, capace di proporre un’alternativa di fondo alle scelte in materia ambientale e del lavoro.
Sapendo che, con quest’approccio, parliamo di un intero modello sociale e produttivo che va messo in discussione: operazione certamente difficile, ma, in realtà, l’unica possibile e realistica se vogliamo guardare e progettare il futuro.

Per certi versi /
Ballata di Cleopatra

Ballata di Cleopatra

nuova Cleopatra
che seduci
con mani
di limoni
nei saloni degli specchi
ti ammiri
con l’arte
di incatenare i cuori
degli uomini
tu comandi
l’amore
tuo schiavo
potresti essere
un cardinale
giovinetta
nella Parigi di Richelieu
avresti forse ucciso
anche tu Marat
bevendogli il sangue
con Napoleone
ti saresti infilata
tra le sue refurtive
egizie
di Cesare lo sappiamo
eri il gatto col topo
il tuo cuore
inaccessibile
forse l’avresti dato
ai pellerossa
sparando assieme a loro
vestita da cowboy
qualcuno dice
di averti vista
trafiggere le nuvole
con una sigaretta
in bocca
ma il tuo meglio
è la danza
dell’orchidea nera
sei notturna
dalla pelle di luna
liscia e perfetta
come voleva Aristotele
le tue movenze
studiate
le getti via
tutta sola
pallida
di terre anemiche
ti basta
la treccia
per sedurre
anche gli angeli

Ogni domenica periscopio ospita ‘Per certi versi’, angolo di poesia che presenta le liriche del professor Roberto Dall’Olio.
Per leggere tutte le altre poesie dell’autore, clicca [Qui]

PERICOLO TASER

 

Sabato scorso alla stazione di Ferrara un ragazzo è caduto per terra e si è ferito dopo essere stato colpito da un poliziotto con un taser (acronimo dell’inglese Thomas ASwift’s Electric Rifle, “fucile elettrico di Thomas A. Swift”, chiamato anche pistola elettrica o storditore) ed è stato quindi portato in ospedale in ambulanza.

Nonostante la confusione mediatica sulle dinamiche dell’episodio (difficile capire come il ragazzo potesse essere sia in coma etilico che capace di aggredire) ciò che emerge è che il taser, definito come “arma non letale”, è comunque uno strumento molto pericoloso, il cui utilizzo non può essere sdoganato a cuor leggero.

Le morti legate al taser nei paesi dove è in uso da anni sono centinaia: molto spesso persone di colore. Fra i tanti casi, c’è quello di Dalian Atkinson, calciatore inglese, che nel agosto 2016 è morto per arresto cardiaco dopo essere stato colpito da un taser.

Da quando il taser è stato introdotto in Italia, nel marzo di quest’anno, i media riportano un numero sproporzionato di casi nei quali è stato usato contro persone di origine straniera.
Ai cittadini delle nostre comunità, fermati molto frequentemente dalle forze dell’ordine per controllo documenti, l’introduzione del taser non porta sicurezza, ma paura: la paura che qualcosa di molto grave possa accadere a noi o ai nostri figli.

Nell’esprimere la nostra piena solidarietà alle forze dell’ordine della nostra città nello svolgimento del loro difficile lavoro, riteniamo importante segnalare la grande pericolosità di questa arma.

Associazione Cittadini del mondo – Ferrara

Gli spari sopra /
A.A.A. Cercasi Terapeuta Politico

 

Io dovrei parlare con qualcuno di bravo, sicuramente esistono professionisti ottimi e molto competenti, ma i terapeuti di cui abbisogno sono, purtroppo, tutti morti. Si. Perché io avrei necessità di una rinfrescata, un aggiornamento da parte di professori del calibro di Karl Marx, Antonio Gramsci, magari Giuseppe Di Vittorio, certamente Enrico Berlinguer e Pietro Ingrao, ma anche mio padre o a limite mia bisnonna.

Vorrei chiedere a loro come posso ancora, testardamente, ostinatamente, definirmi comunista in questo assurdo blob futuristico del primo ventennio del XXI secolo. Vorrei sul serio sentire la loro posizione, perché alle volte mi imbatto in compagni più stalinisti di Stalin, incontro posizioni talmente lontane da me che mi fanno venire dei dubbi sul mio sesso politico. Certo, direi che è inutile sottolineare la mia abissale lontananza politica da ogni forma di pensiero di destra, anche il più moderno e moderato, il mio assoluto anti moderatismo, la certezza di non essere rappresentato da qualsivoglia forma di centrismo, dall’essere molto lontano dal centrosinistra, ma spesso non mi rappresenta neppure più la sinistra radicale, di cui io sono elettore.

E allora? Proprio per questo motivo vorrei essere preso in carico da qualcuno dei professori che ho sopra nominato, ma pure da altri, Ernesto Guevara De La Serna, Jean Paul Sartre, Pablo Neruda, Nazim Hikmet, Pier Paolo Pasolini, Rosa Luxenburg, Lucio Magri, solo per citarne una minima parte.

Cosa vorrei dire in queste mie cicliche turbe sul chi sono, cosa mi rappresenta … un fiorino? Vorrei scavare nel significato antico delle parole, essere un compagno, un comunista (per sintetizzare) del secondo millennio cosa significa? Credo di essermi imbattuto in un percorso dattilografico irto di spine.

Nel secolo scorso, questi termini avevano una accezione univoca, ben identificabile da circa un terzo della popolazione italiana e da milioni di persone nel mondo. Ora questa nostra vituperata bandiera è sbrindellata in tanti sfilacci ed esposta ai venti dell’oblio.

Partirei, tanto per non farmi mancare nulla, dalla infame guerra in Ucraina. I perché sono molti, spesso camuffati, le ragioni di un conflitto che cova dal 2014 con migliaia di morti, prima dell’invasione, non possono essere nascosti. Ma ciò non toglie che esiste un invasore e un invaso, Putin non può essere scusato da una parte seppur minoritaria dei Partiti Comunisti nel mondo. Il Partito Comunista Russo farnetica in un suo documento, facendo una analisi storica limitata e semplificatoria delle ragioni che debbono risalire addirittura ai tempi dell’Unione Sovietica. L’imperialismo russo è un atto che va contro ogni tipo di concezione socialista di internazionalismo e abbattimento dei confini e delle frontiere.

“Non più confini, non più frontiere, ma solo al mondo rosse bandiere”.

Ho citato un esempio eclatante di estremismo di un gruppo politico che a mio avviso non può fregiarsi della parola compagno. Nulla centrano con me, come nulla ha mai centrato Stalin, dittatore sanguinario e il più grande sterminatore di comunisti nella storia del mondo. Lenin lo considerava poco intelligente e persona pericolosa, tra i suoi collaboratori non era per nulla un elemento di spicco, peccato che alla sua morte sia divenuto suo erede con la violenza. Poi, tanto per rimanere nella patria del socialismo realizzato (non quello reale che è rimasto chiuso nelle pagine del Capitale), l’odio che una parte della sinistra radicale nutre per la figura, per me rivoluzionaria, di Gorbaciov.

Un esponente comunista/sovranista (a parere mio pure reazionario) di casa nostra ha postato la sua felicità per la morte dell’ultimo segretario del PCUS con l’immagine di una bottiglia che si stappava, dicendo che era in fresco dal 1991. E quindi, per l’esimio proto comunista de noartri quale era la colpa di Gorbaciov? L’aver voluto riformare un sistema irriformabile? Avere voluto rendere trasparente un sistema torbido dove il Politburo decideva la sorte di milioni di cittadini? Avere reso più liberale un sistema liberticida? E quindi, proseguo con le domande al vento, in tanti compagni ritengono l’Unione Sovietica di allora la patria dell’uomo nuovo (mai nato, se non in casi singoli di persone eccezionali) e della libertà? E quindi Putin, figlioccio di Eltsin, reazionario e capital iper liberista è per qualcuno il paladino dell’antiamericanismo? Dimenticando il fatto che furono gli stessi americani e l’occidente tutto a brindare alla salute dello zar, in quanto aguzzino e killer del morente socialismo sovietico.

Perché al mondo non esiste un imperialismo buono e uno cattivo.

Fortunatamente sono 42 i partiti comunisti nel mondo che criticano aspramente l’intervento armato Russo in Ucraina, mentre pochi sostengono l’indifendibile posizione del Partito Russo che abbraccia la tesi della denazificazione dell’Ucraina con le armi. E’ uno scontro fra reazionari dove ovviamente, indipendentemente dai se e dai ma, chi invade uno stato sovrano ha torto. A nessuno questa invasione ricorda le mille guerre imperiali degli Stati Uniti per decomunistizzare l’America Latina, l’Indocina e svariate parti del mondo?

Giuro, mi sento una particella di sodio nell’acqua oligominerale della pubblicità.

Certo che lo so che ora in Italia ha appena giurato il governo più a destra dei tempi in cui c’era lui. Ma nel mio essere fuori tema per vocazione, stavo parlando d’altro.

Credo fermamente che il professarsi comunista nel mondo d’oggi, non ci connoti più come popolo, o come masse lavoratrici, ma ci disperda in mille rivoli, che abbracciano i due estremi dell’arco parlamentare, fino a diventare, in taluni casi, più realisti del re, con posizioni talmente contrapposte da mettere dalla stessa parte della barricata progressisti e reazionari, mentre occorre essere da una parte o dall’altra della barricata, se non si vuole diventare la barricata (Vladimir Ilʹič Lenin).

In questo mio articolo che consapevolmente ritengo patologico, vorrei concludere affermando che il marxismo non è morto: ha avuto un blocco dello sviluppo a causa di una grave mancanza di teste. Dalla morte del filosofo di Treviri e per quasi tutto il secolo breve la classe operaia, le masse lavoratrici hanno avuto una dignità rappresentativa, individuata nei tanti partiti comunisti e socialisti, anche in occidente e soprattutto in occidente, lottavano per il popolo. Ora quella dignità non c’è più. Il percorso evolutivo di un ideale, che ci saremmo pure accontentati fosse rimasta un’idea, muore a Padova nel 1984. Da quel giorno in poi, non solo in Italia, il proletariato e le sue evoluzioni hanno smesso progressivamente di essere rappresentate. Poi, mi rivolgo agli studiosi marxisti o marxiani di oggi, perché avete fatto diventare il pensiero del ragazzone di Treviri un dogma? Lui certamente non avrebbe gradito.

Il vecchio mondo sta morendo. Quello nuovo tarda a comparire. E in questo chiaroscuro nascono i mostri”
(A.G.)

PRESTO DI MATTINA /
Gente di cantiere, pietre vive

 

Gente di cantiere: pietre vive

Si fa un gran parlare in questo periodo di cantieri aperti, e non solo in senso metaforico. Il cantiere richiama l’idea del lavorare insieme, e questo implica un progetto comune, una lettura condivisa del progetto e l’attuazione di processi di corresponsabilità, condivisione e coordinamento per affrontare le problematiche che di volta in volta si presentano in fase realizzativa.

Gente di cantiere: vite condivise

Ai miei occhi il cantiere assomiglia a una melagrana brulicante di sementi che premono per uscire fuori e farsi alberi: «la pianta è un cantiere sempre aperto/ a chi vi torna senza averne memoria» (Biancamaria Frabotta [Qui] ).

È parola che rimanda a una pluralità di immagini, di significati e di applicazioni, e si declina forgiandosi con tutti gli aspetti e gli ambiti del vivere umano: dal suo iniziare, prendere forma e infine compiersi. Non può sorprendere allora che all’immagine del cantiere si sia ricorsi pure per rappresentare il cammino sinodale della Chiesa italiana.

In una città e chiesa antiche come la nostra, più che costruire dal nulla, viene da pensare a un cantiere di ristrutturazione. Il rinnovamento passa attraverso un’opera di custodia e salvaguardia, volta ad aggiornare l’antico, a rendere attuale, per l’oggi, quanto di prezioso ricevuto dal passato. La tradizione è tale solo se continua a farci vivere, arricchendosi con noi.

Vetera novis augere et perficere” era il detto di Leone XIII [Qui], volto a sottolineare la necessità di attuare il pensiero di Tommaso d’Aquino nella chiesa dell’epoca: “accrescere e migliorare le cose vecchie con le nuove”. Rendere la tradizione viva, incarnare il vangelo di sempre per comprenderlo e viverlo nella situazione dell’oggi.

Rerum novarum (Delle cose nuove) recita l’incipit della sua enciclica sulla questione operaia, prima pietra del pensiero sociale della chiesa. Con essa iniziò il cammino di apertura della chiesa verso la società e il mondo del lavoro, segnato dalle trasformazioni e dai molti problemi legati al capitalismo industriale.

Il Papa sollecitava così la formazione di organizzazioni sindacali basate sulla solidarietà cristiana, sottolineando la necessità della mediazione statale nei conflitti tra lavoro e capitale.

«L’ardente brama di novità che da gran tempo ha cominciato ad agitare i popoli, doveva naturalmente dall’ordine politico passare nell’ordine simile dell’economia sociale. E difatti i portentosi progressi delle arti e i nuovi metodi dell’industria; le mutate relazioni tra padroni ed operai; l’essersi accumulata la ricchezza in poche mani e largamente estesa la povertà; il sentimento delle proprie forze divenuto nelle classi lavoratrici più vivo, e l’unione tra loro più intima; questo insieme di cose, con l’aggiunta dei peggiorati costumi, hanno fatto scoppiare il conflitto».

Il cantiere della sinodalità: un cantiere nel cantiere

La sinodalità è tema centrale e determinante per comprendere la visione e lo stile di Chiesa voluto da papa Francesco. Con il suo magistero, egli ha inteso riaprire quel cantiere del Concilio progettato da papa Giovanni XXIII come aggiornamento pastorale nelle mutate situazioni della cultura e della società in cui la vita della chiesa si esprime.

Certo, tutti desiderano chiudere un cantiere al più presto; ma quando i lavori restano incompiuti occorre avere il coraggio e la pazienza di riaprirlo: e questo è avvenuto attraverso il cantiere della sinodalità aperto al contributo di tutti, soprattutto della base, al fine di attuare finalmente quelle istanze ed esigenze di riforma e rinnovamento rimasti sulla carta al tempo del Vaticano II.

Come nella parabola degli operai della vigna, tutti sono così chiamati a fare la loro parte nel cantiere di un nuovo umanesimo solidale, in quello della fraternità, dell’evangelizzazione e della missione ecclesiale, collaborando anche con coloro che hanno a cuore la costruzione di un futuro sostenibile sulla terra.

Rispetto a questa parabola, noi siamo gli operai dell’ultima ora, gente di cantiere, chiamati ad attuare quel progetto di vita – perché il vangelo tale è − del grande cantiere dell’umanità.

Costruttori solidali si diventa

Mio papà Giacomo era muratore − eravamo dopo la metà degli anni ’60 − e qualche volta l’ho aiutato a costruire la nostra casa. Lavoretti da poco, tanto per darmi soddisfazione: mettere a bagno le pietre, tenere il filo a piombo, passargli gli attrezzi, reggere la staggia sull’intonaco, aggiungere acqua alla calce rappresa, far salire e scendere dall’impalcatura il secchio con la corda e la carrucola. Scoprii allora quanto fosse fondamentale, anche in un cantiere così piccolo come il nostro, l’ascolto reciproco.

Quando fu in pensione venne poi a lavorare a santa Francesca: era la fine anni ’80, e con qualche volontario – fra cui don Sandro, suo fratello Antonio, Gian Franco e Claudio − prese parte ai lavori di ristrutturazione della parrocchia.

Era il nostro un lavoro di bassa manovalanza, dopo il quale intervenivano gli operai dell’impresa. Lavori che proseguirono per anni, imponendomi di vivere molti anni in parrocchia come fosse un cantiere aperto, con impalcature dentro e fuori: prima la casa canonica, poi i tetti, il campanile e infine il consolidamento delle fondamenta della chiesa.

Nonostante questa esperienza sul campo, prima di scrivere di cantieri ho voluto comunque interrogare un amico muratore che è divenuto anche capo cantiere: Lorenzo.

Così gli ho domandato: “Qual è la prima parola che ti viene in mente se io dico cantiere?”. “Sicurezza”, è stata, senza esitazioni, la sua risposta. “Si deve iniziare ogni giornata verificando se siamo sicuri, altrimenti bisogna fermarsi”.

L’etimologia della parola sicuro dice ‘senza preoccupazione’, composto di ‘se’, che indica separazione o privazione, e ‘cura’, (‘preoccupazione’). Si è sicuri perché prima ci si è presi cura di mettere al riparo da rischi e pericoli. “Costruire è prima di tutto custodire”; è capire il valore delle relazioni e della responsabilità; gli altri ci sono affidati per crescere e migliorare insieme.

“Si fa il punto, si valuta insieme”, dice poi Lorenzo. “Io chiedo agli altri se nell’esecuzione del lavoro hanno proposte o idee per una migliore attuazione soprattutto da chi può avere più esperienza. Il progetto stesso va poi valutato in cantiere: vengono studiati i criteri di fattibilità, adattandolo alle situazioni che si incontrano.

La suddivisione dei lavori e il loro coordinamento sono poi essenziali. Un cantiere è un insieme differenziato e molteplice, che comporta e combina articolazioni e mansioni diverse”.

“Ancora è importante l’ascolto di tutti, e il farsi ben comprendere da tutti: saper valorizzare anche mezza idea e poi adattarla con un’altra come con le pietre. Oltre all’ascolto è importante prevedere e provvedere agli approvvigionamenti dei materiali; vedere oltre, mentre si è ancora in corso d’opera”.

“Avere cura delle persone che lavorano è come porre la calce tra le pietre. Si cresce insieme anche in professionalità, perché si impara gli uni dagli altri. Un cantiere nel cantiere è allora anche lavorare con le persone, loro stesse sono un cantiere in costruzione.

È così importante affidarsi a loro con fiducia, dare consigli e soprattutto gratitudine, ringraziali per il loro lavoro, riconoscere la fatica e i sacrifici che comporta. Il cantiere cresce se uno sa trasmettere amore per quello che sta facendo, se ama il suo lavoro diventa contagioso per gli altri”.

Un salmo che dà sicurezza

La sicurezza nei cantieri sinodali può contare sul Salterio − e in particolare sul salmo 127 − come se fosse il suo manuale. Nel suo commento al salmo citato Gianfranco Ravasi [Qui] ricorda che esso introduce uno spaccato «di vita urbana e sociale fatto di case, di città, di architetture, di porte cittadine, di turni di guardia, di figli, di cibo, di lavoro, di sonno».

Il progetto di edificare la vita buona è benedetto da Dio; il salmo canta «la felicità comunitaria (città) e domestica (famiglia)» che nasce dalla sua benedizione. Ci ricorda che l’attività umana, come l’agire sinodale, portano frutto, si accrescono e si attuano a condizione che Lo si prenda o meno come “co-costruttore”.

Infatti, in questo salmo «Dio non si limita a benedire, ma partecipa al lavoro, costruisce egli stesso la casa, ne è egli stesso il custode». E lo fa con stile di gratuità. Quasi a dire che questa è alla base di ogni costruzione e progetto di umanità fraterna, sociale e familiare. Usando la seconda persona plurale, il “voi”, il messaggio del salmo si apre come proposta rivolta non solo all’individuo ma all’esperienza di tutti.

In altre parole si è chiamati nelle nostre comunità cristiane, comunità provvisorie e cantieri aperti, a costruire le nostre relazioni sulla grazia e nella reciprocità del dono.

Se il Signore non costruisce la casa,
invano si affaticano i costruttori.
Se il Signore non vigila sulla città,
invano veglia la sentinella.
Invano vi alzate di buon mattino
e tardi andate a riposare,
voi che mangiate un pane di fatica:
al suo amico egli lo darà nel sonno.

Dio quando costruisce, edifica granai. Così viene da pensare poiché il verbo ebraico che esprime l’atto del «costruire» (qrh) alla lettera significa ‘mettere un solaio, gettare il basamento di un granaio’. Del resto in ugaritico qrjt e in accadico qarflu significano appunto «granaio» (Ravasi).

Senza di Lui, c’è infatti sempre il rischio di costruire ragnatele, anziché edificare comunità. Ce lo ci ricorda la sura XXIX del Corano: «Coloro che prendono per sé dei padroni all’infuori di Dio sono simili al ragno che si costruisce un’abitazione. E chi non lo sa che la casa-ragnatela del ragno è ciò che di più fragile esiste sulla faccia della terra?».

L’apostolo Paolo è nel cantiere della comunità di Corinto come un capomastro ed esorta quei cristiani come fossero operai di cantiere dicendo: «Siamo infatti collaboratori di Dio, e voi siete il campo di Dio, l’edificio di Dio. Secondo la grazia di Dio che mi è stata data, come un sapiente architetto io ho posto il fondamento; un altro poi vi costruisce sopra. Ma ciascuno stia attento come costruisce. Infatti nessuno può porre un fondamento diverso da quello che già vi si trova, che è Gesù Cristo» (1Cor 3,9-11).

Cantiere navale e comunità di destino

Tra i simboli della Chiesa in età patristica vi è quella della nave come comunità di destino, costruita con tutte le forze: “il colpo d’ascia rimbombi attraverso tutto” e con tutto il cuore “a vele spiegate dal vento”. Siamo tutti sulla stessa barca: coloro che costruiscono la nave, sono gli stessi che con essa navigheranno verso un porto sicuro.

Scrive Hugo Rahner [Qui] in Simboli della chiesa (ed. San paolo Milano 1995, 339): «La teologia dei Padri della Chiesa ha avviluppato tutto ciò nei concetti simbolici in voga sin dai primordi, concetti che vedevano nella Chiesa quella grande nave, a cui è affidata la nostra salvezza.

La Chiesa è navigazione verso il portus salutis. Chiesa è viaggio pericoloso e, allo stesso tempo, meraviglioso: pericoloso, perché non è ancora giunto in porto; meraviglioso, perché è luogo unico di sicurezza, in mezzo al mare procelloso. Questa nave della Chiesa è costruita con il legno della Croce, e il suo ritorno in patria è garantito dall’ albero con il quale il pennone della vela, postogli di traverso, forma la  croce: antenna crucis».

Gregorio Nazianzeno [Qui] descrive come dovrà essere quella fortunata nave, capace di raggiungere un destino di salvezza, e la descrive come Seneca: «Non sia la tua nave colorata con graziosi colori, né brilli di bellezza civettuola, se deve sopportare le forti scosse del mare. No, una buona nave è ben inchiodata ed è a prova di mare e solidamente connessa dal costruttore: soltanto così essa taglierà le onde».

È così la simbolica della nave della vita umana, che va a rappresentare anche quella della chiesa. Comunità di destino è la chiesa come la vita umana dalla cui bontà e dalla cui buona tenuta dipendono la vittoria contro il mare tempestoso.

Gregorio di Nissa [Qui] descrive la costruzione di una buona nave frutto della buona collaborazione di tutti: «Uno mette insieme la chiglia, un altro si dà da fare per erigere le assi. Chi costruisce la prua e chi la poppa. Questi si affatica attorno all’albero e quegli intorno all’antenna».

E se torniamo sulla terra ferma è Ignazio di Antiochia [Qui] che ci offre la descrizione più bella della gente di cantiere, paragonandola a pietre vive: «Voi siete davvero le pietre del Padre preparate per la costruzione che egli compie, elevate con l’argano di Gesù Cristo che è la croce, usando come corda lo Spirito Santo.

La fede è la vostra leva e la carità la strada che vi conduce a Dio. Siete tutti compagni di viaggio, portatori di Dio, portatori del tempio, portatori di Cristo e dello Spirito Santo, in tutto ornati delle parole di Gesù Cristo». (Lettera agli Efesini, 9)

Per leggere gli altri articoli di Presto di mattina, la rubrica di Andrea Zerbini, clicca [Qui]

IL BRASILE SPACCATO IN DUE: LULA O BOLSONARO?
156 milioni al voto per scegliere tra 2 futuri opposti

 

Fra meno di due giorni il Brasile – lo stato grande come un continente – saprà il suo futuro. Il ballottaggio tra Luiz Inacio Lula da Silva, il leader storico delle tante Sinistre presenti nel paese e Jair Bolsonaro, presidente uscente e campione della Destra autoritaria e tradizionalista, non è una semplice elezione presidenziale. Domenica 30 ottobre, i 156 milioni di brasiliani chiamati al voto (in Brasile il voto è obbligatorio) dovranno decidere tra bianco e nero, tra un Brasile che attenua le enormi diseguaglianze sociali e un Brasile comandato dai grandi latifondisti, dal blocco finanziario e dalle potenti multinazionali, soprattutto americane, da decenni insediate nel paese.
Gli ultimi sondaggi danno i due contendenti alla pari,  o comunque divisi da una forbice percentuale irrilevante. Si prevede quindi una vittoria al fotofinish. Da qui il clima di attesa, la tensione e la paura che scorre nelle vene del Brasile – paese guida di tutta l’America Latina.

Per chi non è mai stato in Brasile è difficile capire come in quel “continente” ogni manifestazione, individuale e collettiva, assuma un carattere tutto particolare… grandioso, passionale, musicale: Maravilha. Una campagna elettorale per esempio. Pensate alla noia mortale della nostra ultima italiana. E prima di proseguire la lettura, guardate cosa è successo una ventina di giorni fa a  Salvador de Bahia, la città nera, l’antica capitale del Brasile.

Carnevale popolare della speranza con Lula a Salvador (ottobre 2022)

 

Oppure guardate e ascoltate l’inno che un gruppo di artisti petisti hanno creato per sostenere la campagna di Ignazio Lula da Silva.

Vou pedir pra voce votar (Lula, 2022)

Un corteo elettorale che sembra una sfilata di Carnevale, un inno elettorale da cantare e da ballare: Il Brasile fa meraviglia ma nulla toglie alla drammaticità del momento. Si aspetta, si ride, si scherza.  E si prega.

Ho chiesto a Mauro Furlan, un amico nato a Treviso, ma carioca (abitante di Rio de Janeiro) da vent’anni, operatore socio educativo con gli adolescenti, di tracciare per i lettori di Periscopio un quadro sintetico della situazione.  Lascio a lui la parola.
Francesco Monini

8 punti in gioco e 2 giorni per decidere

Sono in Brasile da 20 anni e questa è la sesta elezione a cui assisto. Scrivo questo breve articolo a due giorni dal ballottaggio per le elezioni presidenziali. Si potrebbero scrivere fiumi di parole, io mi limito ad alcuni cenni che presentano le forze e i fattori in campo e fanno forse capire il complesso e drammatico appuntamento a cui è chiamato il popolo brasiliano.

1 Bipolarismo

Queste elezioni sono diverse dalle altre, per la tensione, il bipolarismo portato agli estremi limiti che ha come conseguenza la divisione tra persone, che arriva all’odio anche tra persone della stessa famiglia. Mai si è visto un odio che divide le persone, o sei con me o contro di me. Questo clima è cominciato 4 anni fa e in questi ultimi mesi si è esasperato. Non sono idee, non è dialogo, ma odio, l’altro è il nemico e il male.

2 Chiese evangeliche

Bolsonaro è riuscito ad avere non solo la forza dell’esercito, della bancada militarista, della bancada degli allevatori, ma soprattutto l’appoggio delle chiese evangeliche che si sono schierate con Bolsonaro appoggiando con tutti i mezzi la sua elezione.  Le chiese Evangeliche si sono rivelate una forza grande, con un potere di aggregare enorme, e tutti i pastori agendo in unisono e diffondendo capillarmente notizie prodotte per la macchina bolsonarista stanno facendo la differenza in questa elezione. Senza questo numero alto della popolazione brasiliana apertamente defendendo bolsonaro  per lui sarebbe impossibile vincere. La chiesa cattolica praticamente muta, anzi paurosa, minacciata e con un passo indietro.

3 Dio patria e famiglia

Con il motto “Il Brasile in cima a tutto e Dio in cima di tutti” e con una chiara posizione tradizionale, una visione di destra e cavalcando la lotta contro la droga, la lotta contro l´aborto, la difesa della possibilità di avere armi, la lotta contro la ideologia di genere e la lotta alla corruzione Bolsonaro riesce a riunire molte persone che percepiscono questi valori importanti e che sono opposti alla ideologia della sinistra (che lui dice del comunismo) .

4 Gli alleati di Lula

Lula é riuscito ad avere come alleati i rappresentati della terza via che hanno perso al primo turno (Ciro Gomes e Tebet) oltre ad Alckmin che si è alleato fin dall’ inizio. Lula attira oltre al PT anche tutti i partiti che difendono la democrazia, anche se non sono d’accordo con Lula, ma che ritengono Bolsonaro una tragedia per la democrazia. La cultura con grandi nomi della musica e del mondo artistico per la maggioranza si é mossa in difesa di Lula. La difesa della democrazia, della Amazzonia e la capacità di dialogare internazionalmente, della difesa del sistema di protezione sociale e del combattere la povertà sono le bandiere usate.

5  la macchina delle fake news

Bolsonaro ha messo in piedi in questi 4 anni una macchina di comunicazione capillare di diffusione delle proprie idee e anche di messaggi falsi e montati a seconda del pubblico. Questo sistema capillare e moltiplicato nelle varie reti e sistemi ha creato una confusione e non si riesce neanche a scoprire quello che è vero e falso. Bolsonaro ha creato una forte narrativa contro la corruzione di Lula e del Pt molto forte e convincente.

6 Lo zoccolo duro del bolso

Tutte le ricerche di mercato hanno confermato che in Brasile il 30% della popolazione è bolsonarista alla radice, cioè difende Bolsonaro a tutti i costi e una parte di questi difende la dittatura e vuole occupare il potere anche in modo violento. Su questa parte della popolazione del Brasile che ha trovato voce in Bolsonaro si deve fare una analisi profonda, visto che riunisce varie posizioni e idee agglutinate dalla sua figura.

7 Deputati e senatori

Le elezioni di deputati e senatori sia a livello federale sia a livello statale realizzate nel primo turno sono state un successo di Bolsonaro, eleggendo la maggioranza di questi tra le file del partito di Bolsonaro e dei suoi alleati. Questo significa che se anche Lula vincesse sarà molto duro governare perché la base di governo non appoggerà il presidente e il suo potere esecutivo. Se vincesse Bolsonaro sarebbe un disastro totale per la difesa dei diritti, sarà porta aperta alla totale liberalizzazione delle ditte parastatali, un passo indietro per tutto il sistema delle garanzie sociali.

8  Previsioni

A due giorni delle elezioni le agenzie di previsione dicono che Lula ha il 52% e Bolsonaro ha il 47%. Ma non possiamo confidare in questi numeri perché ancora non si capisce quanto sarà l’astensione, anche se in Brasile votare è obbligatorio, ma in molti stati non ci sarà il ballottaggio di governatori e quindi un motivo in meno per non andare a votare. Il voto bianco o nullo che é possibile sembra al 7%, ma queste sono solo previsioni, stime. Domenica sapremo la verità. In tutti i casi che vinca Lula o Bolsonaro saranno anni difficili, per la crisi e per le paure e minacce che stanno all´orizzonte.

Storie in pellicola / Lamborghini: Prima mondiale a Roma

 

Roma : Ci siamo! L’anteprima mondiale del film Lamborghini – The man behind the legend è finalmente alla nostra portata.
Siamo pronti, biglietti alla mano, platea, fila 4… entriamo all’Auditorium della Conciliazione.
Ci siamo anche noi alla sorprendente e scintillante serata di chiusura della Festa del Cinema di Roma.

A pochi passi, la Cupola di San Pietro illuminata, a sorpresa (annunciata ma con grande margine di suspense), in un panorama da mozzafiato, sfilano le Lamborghini. Oltre a una manciata di bolidi moderni, tra cui la Huracán con le livree della Polizia, non mancano due Miura, una Countach 5000 S, una Diablo, ma anche le meno celebrate Espada e Urraco. È un’emozione sentire, in un tale contesto, il rombo inconfondibile di quei motori leggendari. C’è anche un imponente trattore bianco, a ricordare le origini.

Auditorium di Roma, prima del film, foto Simonetta Sandri

Dalla fiammante Miura gialla scende Frank Grillo (che, appena premiato con il Capri Award Italoamericano 2022, nel film interpreta Ferruccio Lamborghini, 1916-1993), elegante e sorridente. La sfilata di attori e produttori continua, bellissima passerella, il pubblico applaude, come a ogni prima che si rispetti. Ciak, s’inizia.

Frank Gallo arriva all’Auditorium di Roma, foto Simonetta Sandri

A introdurre il film – in inglese con sottotitoli in italiano – ci sono, sul palco dell’Auditorium, il regista Robert (Bobby) Moresco (Crash, tre premi Oscar), i produttori Andrea Iervolino e Monica Bakardi e gli attori Frank Gallo, Romano Reggiani (che veste i panni del giovane e determinato Ferruccio Lamborghini), insieme a Tonino Lamborghini (dal cui libro Ferruccio Lamborghini, la storia ufficiale, Minerva Edizioni, è liberamente tratto il film) e Tony Renis. In platea, dietro di noi, la giunta comunale di Cento quasi al completo, con il giovane sindaco Edoardo Accorsi.

Il cast è ricchissimo: Hannah Van Der Westhuy interpreta Clelia Monti, la prima moglie di Ferruccio, Mira Sorvino, premio Oscar come miglior attrice non protagonista ne La dea dell’amore di Woody Allen, è Annita Borgatti, la seconda moglie, Gabriel Byrne, Golden Globe per il suo ruolo nella serie In Treatment, veste i panni di Enzo Ferrari, il papà del fondatore della casa emiliana è invece interpretato da Fortunato Cerlino, il celebre Don Pietro di Gomorra – La serie e non manca il rapper Clementino, presentatosi all’anteprima a bordo di un trattore Lamborghini. Ci sono poi Lorenzo Viganò, nei panni di Tonino Lamborghini, Giovanni Antonacci (figlio di Biagio e Marianna Morandi), in quelli di un giovane Tony Renis e un bel cameo del maestro Demo Morselli, che dirige l’orchestra in occasione di una festa danzante in onore di Ferruccio.

Il film, che uscirà a gennaio 2023 su Amazon Prime Video, è stato girato in varie località dell’Emilia-Romagna (Cento, Pieve di Cento, San Pietro in Casale, il circuito di di Misano Adriatico) e a Roma.
Delle riprese di Cento abbiamo le fotografie del fotografo di periscopio Valerio Pazzi.

Riprese a Cento, foto Valerio Pazzi
Riprese a Cento, foto Valerio Pazzi
Riprese a Cento, foto Valerio Pazzi

Eccoci alla storia, dunque, alla Storia. Siamo nel secondo dopoguerra, una Storia tutta italiana che va oltre la vita del fondatore della celebre casa di trattori e successivamente del marchio automobilistico, raccontando la nota rivalità con Enzo Ferrari e, soprattutto, la storia dell’Italia degli anni ’50, un Paese in cammino, con la sua voglia di rinascita.

Lamborghini -The Man Behind The Legend, racconta l’uomo dietro il mito, scavando nella mente e nelle emozioni di un genio visionario. Un vero self-made man, nato a Renazzo, una piccola frazione di Cento. Una visione un po’ americana, ma ci sta.

Frank Gallo nei panni di Ferruccio Lamborghini

Si inizia con Ferruccio in uniforme, di rientro a casa dopo che, durante la Seconda guerra mondiale, ha sperimentato le sue doti meccaniche come tecnico riparatore presso il 50º autoreparto misto (base militare di Rodi nell’isola omonima nel Dodecaneso italiano). Nella campagna emiliana il padre lavora come agricoltore, non capisce quel sogno impossibile e che rischia di portare allo sfacelo, ma alla fine lui ci sarà.

Nel 1946, la crescente domanda di trattori del mercato italiano, unita all’esperienza acquisita nelle riparazioni, spingono Ferruccio a intraprendere la carriera di imprenditore nella produzione di trattori. Compra vecchi veicoli militari e li trasforma in macchine agricole (la Lamborghini Trattori nasce a Cento nel 1948; il logo aziendale si ispira alla data di nascita di Ferruccio, sotto il segno del Toro e poi amava la corrida…). Studia tecnologie industriali a Bologna finché, con tenacia e caparbietà, il sogno diventa una realtà coronata dal successo. E da lì comincia la storia, dell’uomo, dell’imprenditore e del Paese, che gli riserva un capitolo di orgoglio e successo internazionale. Dai trattori ai bruciatori a nafta e ai condizionatori fino alle automobili di lusso, circondato da collaboratori esperti altrettanto visionari, sottratti a Ferrari e Maserati (nel film viene raccontata nei dettagli la genesi della 350 GT con i suoi principali artefici, tra cui Franco Scaglione e Giotto Bizzarrini, pronta in tempo di record per il Salone di Ginevra del 1964, tanto si favoleggia sui fari-ciglia della Miura).

Ferruccio Lamborghini

Molti i sacrifici, personali e familiari, ad iniziare dalla perdita della prima amata moglie Clelia (ferrarese) che muore di parto, fino ai conflitti con la seconda Annita e allo stesso Tonino che sentirà sempre la mancanza di un padre, eterna anima in pena, assente perché troppo concentrato sul suo sogno e la rivalità con il Drago, Enzo Ferrari. Un Tonino che, nel 2014, fonda il Museo Ferruccio Lamborghini a Funo di Argelato, in provincia di Bologna, per celebrare la figura del padre e che troverà la sua strada di imprenditore di oggetti di lusso. Ma questa è un’altra storia.

Cast: incontro con la stampa

Lamborghini: The Man Behind the Legend, di Robert Moresco, con Frank Gallo, Romano Reggiani, Mira Sorvino, Hannah Van Der Westhuy, Gabriel Byrne, Fortunato Cerlino, Lorenzo Viganò, Giovanni Antonacci, 2022, 100 mn.

Foto in Copertina  e di scene del film tratte dal web. Foto del set di Cento di Valerio Pazzi

Una statua di secchi vuoti per denunciare la quotazione in borsa dell’acqua: “Voi politici ci avete tradito!”

 

Bernard Tirtiaux e Pietro Pizzuti, artisti
per la Agorà degli Abitanti della Terra

Bruxelles 23 ottobre 2022

Signore e Signori che NOI rappresentate,

Vi interpelliamo in nome dell’Agorà degli Abitanti della Terra, in nome dei vostri elettori che vi hanno scelto per difendere la vita nella sua molteplicità, la vita degli uomini depredati, la vita delle foreste sradicate, la vita dell’aria, dell’acqua, del mondo animale che si sta deteriorando in modo drammatico come il clima.

Non vi abbiamo chiamato per servire gli interessi di approfittatori predatori che sperperano, monetizzano, controllano, si appropriano del bene comune al solo scopo di far crescere il capitale dei loro azionisti.

Siete i nostri ambasciatori, i garanti delle nostre libertà e delle nostre aspettative. Siete i nostri eletti e mangiate al tavolo della grande finanza, brindate con i mega ricchi che monopolizzano il nostro pianeta con le perniciose armi del profitto.

Vi abbiamo dato il nostro voto a gran voce ed è in un ululato collettivo che ci rivolgiamo a voi per denunciare il vostro tradimento. Trafficate e obbedite alle leggi del mercato, tollerando giochi di potere e di denaro. Sostenete con miliardi la guerra, trascurando i diritti alla salute, all’educazione, all’aiuto agli indigenti, al sostegno degno e fraterno di sorelle e fratelli in fuga… Dov’è la campagna per l’abolizione della povertà nel vostro programma iniquo, tendenzioso e mortale? Ciò che state infliggendo impunemente all’umanità è criminale ed ella non vi riconosce più.

Quello che vogliamo con voce unanime è l’avvento di un’altra gestione del vivere insieme, in armonia con il Vivente, preservando e coltivando i valori sacrosanti della vita nel rispetto della Dichiarazione Universale dei Diritti Umani.

La vita sulla Terra, le sue risorse vitali e in particolare l’acqua, sono proprietà comuni e non possono in nessun caso essere quotate in borsa. Ignorare tale manipolazione ci rende complici di un imperdonabile crimine contro l’umanità. 30.000 persone di cui 5.000 bambini muoiono ogni giorno per mancanza di acqua o per ingestione di acqua putrida. Queste cifre esploderanno se non si pone fine, oggi, a questi giochi speculativi.

Con tutte le donne e gli uomini di cuore, con il piccolo popolo degli artisti coinvolti, gridiamo la nostra indignazione in questa funesta data di anniversario della prima quotazione in borsa dell’acqua, che si è svolta a Chicago, il 7 dicembre 2020.

Come simbolo della nostra denuncia, innalziamo davanti a voi questa statua della spoliazione, fatta di secchi vuoti ed asciutti (vedi sopra: Statue de la spoliation construite de seaux vides et secs, N.d.r,)  l’immagine di un disastro senza precedenti che voi approvate per domani e che noi condanniamo con forza ed insistenza da oggi.


Agorà degli Abitanti della Terra

Iniziativa ampia che ha come obiettivo il riconoscimento dell’Umanità come attore principale nella regolazione politica, sociale ed economica a livello globale.

Cover: la grande statua di secchi vuoti e asciutti realizzata e installata a Bruxelles da Bernard Tirtiaux e Pietro Pizzuti .

QUATTROCENTO PAROLE PER TABUCCHI

 

Caro Francesco, da Valencia, e dunque scusa la concisione. 
In breve, elaborando un’intervista di qualche giorno fa, ho messo insieme 400 parole (non una meno, non una di più) per ricordare ancora Antonio Tabucchi, prima che scada con la fine del 2022 il decennale della scomparsa. Un po’ dovunque, non solo in Italia, ma anche all’estero, quest’anno è stata, oltre che di libri, una staffetta di testimonianze e ricordi. Dunque, dovendo parlarne a partire da una sola parola, quella di testimone (visti oltretutto i tempi bui che stiamo attraversando) mi è parsa particolarmente significativa. 
Splendida Valencia (ti mando una foto del locale dei tuoi ricordi. Ma incredibile tutta la parte moderna, fatta da Calatrava, compreso il teatro dove abbiamo visto una notevole Anna Bolena.)
Ti giro la mia schedina. Vedi se può interessarti.  Con un caro saluto
Anna

Per ricordare Antonio Tabucchi nel decennale della scomparsa, mi piace scegliere una parola come testimone, che ben lo rappresenta, come uomo e come scrittore.

Antonio (non solo nei libri – per semplificare mi limito a citare Piazza d’Italia e il dittico portoghese Sostiene Pereira e La testa perduta di Damasceno Monteiro – e tra gli scritti giornalistici L’oca al passo. Notizie dal buio che stiamo attraversando) è sempre stato testimone di accusa dinanzi alle ingiustizie, alle violenze perpetrate dai singoli e degli stati, testimone di accusa contro i facili accomodamenti, la pavida vigliaccheria, l’allineamento colpevole al potere.
Ma è stato anche un teste (dunque testimone a difesa) che si è speso per i più deboli, gli emarginati (si pensi a Gli zingari e il Rinascimento), offrendo il suo nome e la sua notorietà a sostegno della loro causa.

Eppure, detto questo, c’è un altro campo nel quale in un certo senso tutti gli altri si possono riassumere, visto che per esercitarli, da grande scrittore qual era, ha usato la penna e la scrittura è stata la sua vera voce.
Si tratta della testimonianza che ha reso continuamente in favore della cultura e della letteratura, che, se sono tali, aiutano a sollevare dubbi, a inquietare, a capire, insegnando a porre domande, dunque a crescere. Aiutano anche a vivere perché offrono gli spazi ludici dell’immaginazione e delle sue possibilità prospettando mondi complementari e alternativi rispetto a quello in cui viviamo e che inevitabilmente, in ogni senso, non basta.

Non è un caso allora che il suo romanzo più conosciuto dal pubblico, Sostiene Pereira, abbia come sottotitolo Una testimonianza, che  prospetti la storia di un’educazione sentimentale tardiva combinata alla riscoperta di una paradossale giovinezza, e che con il suo misterioso sostenere dinanzi a un destinatario non meglio individuato (la repressiva PIDE, la storia, un tribunale che indaga crimini contro l’umanità, lo scrittore?), inneschi un gioco di trasmissione della testimonianza, visto che delle parole di accusa di Pereira si fa carico lo scrittore che le trasmette a noi perché continuino ad avere vita.

Il lettore senza accorgersene finisce così per collaborare con il testo, con l’autore, preso dentro il lascito etico che Tabucchi ci ha lasciato insegnandoci, con Celan, che ci vuole sempre qualcuno che prenda il testimone, che testimoni per i testimoni che sono stati costretti al silenzio dalla sopraffazione, dal tempo, dal caso, o dalla morte.

Cos’è veramente la Sovranità Alimentare?
Ce lo spiega l’inventore: il documento di Via campesina.

 

L’istituzione, nel primo governo della Destra, del nuovo Ministero per la Sovranità Alimentare, è stata oggetto di grandi applausi, feroci critiche e vari e variopinti commenti. Molti si sono stupiti – io non sono tra questi – dell’utilizzo in versione patriottica e populista di quella locuzione, “sovranità alimentare”. che eravamo abituati a sentire  in tutti altri ambiti e con opposte intenzioni.

Le parole, prima ancora delle idee e delle notizie, sono forma e sostanza del mio lavoro. Così ho imparato che le parole hanno una storia lunga e complicata, esattamente come la vita di ognuno di noi. Una parola può apparire, scomparire e riapparire in un campo e un senso diverso o addirittura opposto. Qualche volta una parola può andare incontro ad uno straordinario successo, invadere i media, fino a trasformarsi in un semplice intercalare, cioè non significare niente di niente.
Non è  forse questo il triste destino di parole come resilienza, sostenibilità?

La “Sovranità alimentare” sta seguendo la medesima parabola. Nella sua breve storia – ha raggiunto da poco 25 anni – è già stata rubata, riutilizzata, ribaltata, banalizzata.
In questi casi,  la cosa migliore da fare è risalire la corrente. Andare alle origini. Interrogare gli inventori (senza copyright) della “sovranità alimentare”. 

Vía Campesina (in spagnolo: “la via dei contadini”) è un movimento internazionale, una federazione formata da 182 organizzazioni presenti in 81 paesi, tra questi, per fare un solo esempio, Sem terra, lo storico movimento sociale brasiliano contro il latifondo e le multinazionali dell’alimentazione.
Via Campesina coordina le organizzazioni contadine dei piccoli e medi produttori, dei lavoratori agricoli, delle donne rurali e delle comunità indigene dell’Asia, dell’Africa, dell’America e dell’Europa.
Si oppone
con azioni concrete allo sfruttamento dell’ambiente e del lavoro, al sistema agricolo capitalistico e propone l’agricoltura sostenibile.

Proprio Via Campesina ha coniato il termine sovranità alimentare.
Cosa è, cosa dovrebbe essere, cosa è necessario fare per attuare la sovranità popolare, ce lo racconta un recentissimo documento di Via Campesina, tradotto e diffuso in tutto il mondo, ma che in pochi hanno avuto la possibilità di leggere. Periscopio lo riproduce integralmente.
Buona lettura. e diffidate dai falsi e dalle imitazioni.
Francesco Monini
Direttore responsabile di Periscopio

Dichiarazione politica di Via Campesina del 16 ottobre 2022 in occasione della Giornata internazionale d’azione per la sovranità alimentare dei popoli contro le multinazionali

Tradotto dall’originale del sito di Via Campesina da Altragricoltura – Matera

 

Il nostro mondo fragile deve affrontare un’incombente crisi alimentare globale. L’impatto del COVID-19 ha spinto più persone nella povertà. Le misure di confinamento hanno devastato i mezzi di sussistenza delle famiglie e dell’economia e interrotto le catene di approvvigionamento. A livello globale, secondo il Global Report on Food Crises 2022 (GRFC), i livelli di fame rimangono allarmanti come nel 2021, con circa 193 milioni di persone in 53 paesi in condizioni di grave insicurezza alimentare e bisognose di assistenza urgente. Questa grave carestia è alimentata da conflitti, condizioni meteorologiche estreme, i drammatici effetti economici e sociali della pandemia e, più recentemente, dalla guerra in Ucraina. I prezzi delle materie prime alimentari all’inizio del 2022 erano al punto più alto in 10 anni e i prezzi del carburante al punto più alto in 7 anni. L’attuale crisi alimentare riguarda l’accessibilità economica; anche dove il cibo è  disponibile, il suo costo è fuori dalla portata di milioni di persone, mentre l’aumento dei prezzi aggrava le sfide per coloro che possono a malapena permettersi il cibo in tempi normali.

La crisi alimentare in questo momento è senza precedenti, perché si svolge nel mezzo di un contesto globale più difficile di quello delle crisi alimentari e dei combustibili del 2008. L’intensità e la frequenza degli shock climatici sono più che raddoppiate rispetto al primo decennio di questo secolo. Negli ultimi 10 anni, circa 1,7 miliardi di persone sono state colpite da disastri climatici, di cui quasi il 90% sono diventati rifugiati climatici. Fame, malnutrizione e povertà sono più difficili da superare a causa di guerre, conflitti e disastri naturali in corso. Ciò ostacola tutti gli aspetti di un sistema alimentare, dalla raccolta, lavorazione e trasporto del cibo alla sua vendita, disponibilità e consumo.

Ma porre fine alla fame non riguarda solo l’offerta. Oggi si produce abbastanza cibo per sfamare tutti sul pianeta. Il problema è l’accesso e la disponibilità di cibo nutriente, che è sempre più ostacolato da molteplici sfide, come la pandemia di COVID-19, il conflitto, il cambiamento climatico, la disuguaglianza, l’aumento dei prezzi e le tensioni internazionali.

Mentre il passaggio dal multilateralismo al modello multistakeholderismo ( ndt: ovvero il passaggio dal sistema del multilateralismo che coinvolge gli stati e le grandi corporazioni alla base delle politiche dell’Organizzazione Mondiale del Commercio a quello che coinvolge tutti gli altri portatori di interesse della società civile e dei cicli economici) si allarga nel dibattito interno alle piattaforme delle Nazioni Unite, in realtà le multinazionali continuano a controllare il dibattito e la narrazione sul cambiamento. Il loro potere sui sistemi agroalimentari ha continuato a crescere e la finanziarizzazione sta trasformando cibo e terra in oggetti di speculazione. Il recente processo UNFSS (United Nations Forum on Sustainability Standards) è un chiaro esempio di questa tendenza. Il fallimento delle politiche neoliberiste e dell’agricoltura industriale (compresi gli OGM) nell’accrescere i raccolti e i profitti, ha portato alla concentrazione del potere in poche società transnazionali (TNC) che controllano i Big Data, i terreni agricoli, le risorse oceaniche, le sementi e gli input agrochimici, con il risultato che ormai dominano sempre più i nostri sistemi alimentari e si appropriano dell’80% del cibo prodotto dagli agricoltori a conduzione familiare. La finanziarizzazione ha portato a una concentrazione del mercato senza precedenti per alimentare nuovi investimenti in ricerca e sviluppo (R&S) e (bio)tecnologie, con l’obiettivo di espandere le frontiere del capitalismo per impadronirsi di tutta la biodiversità del mondo.

In tutto il mondo, c’è una tendenza alla riduzione dello spazio di partecipazione civile e alla riduzione delle attività di difesa dei diritti umani. Gli attivisti a livello locale sono sempre più vulnerabili alle violazioni dei diritti umani, all’oppressione e alla criminalizzazione. La violenza della repressione di Stato, che utilizza le forze armate e di sicurezza, prende di mira le persone e colpisce masse di manifestanti pacifici in tutto il mondo. D’altra parte, il primato e la legittimità del settore pubblico è sempre più minato dall’azione delle lobbies che si appropriano dei processi politici e da una narrativa dello sviluppo che assegna il ruolo guida agli investimenti del settore privato, mentre il multilateralismo è attaccato da un nazionalismo virulentemente populista e da un modello multipartitico egemonizzato dalle lobbies.

Negli ultimi tre decenni è cresciuta una rete sempre più solida, diversificata e articolata di piccoli produttori alimentari, lavoratori e altri attori sociali danneggiati dal sistema alimentare globalizzato guidato dalle multinazionali, che sostiene una trasformazione radicale dei sistemi alimentari e dell’agricoltura basata sulla sovranità alimentare. Questi movimenti si sono decisamente impegnati a difendere e gestire sistemi di fornitura degli alimenti ecologicamente e socialmente sostenibili e territorialmente radicati, che si tende a chiamare “alternativi”, sebbene forniscano fino al 70% del cibo consumato nel mondo. . Ripensare le politiche agricole come una questione di sicurezza economica e nazionale deve essere una priorità.

Il movimento per la Sovranità Alimentare è stato una parte dinamica dell’articolazione della trasformazione e delle soluzioni sin dagli anni ’90, e attraverso lo storico Forum di  Nyéléni sulla Sovranità Alimentare nel 2007 e il Forum sull’Agroecologia nel 2015. 25 anni dopo la messa in campo del concetto di Sovranità Alimentare, i nostri movimenti uniscono le loro voci chiedendo un cambiamento sistemico per aprire la strada a un futuro di speranza.

Chiediamo un intervento immediato per:

  • La cessazione della speculazione alimentare e la sospensione della commercializzazione dei prodotti alimentari nelle borse merci. Il prezzo degli alimenti commercializzati a livello internazionale deve essere legato ai costi di produzione e seguire i principi del commercio equo, sia per i produttori che per i consumatori;
  • La cessazione del controllo dell’OMC sul commercio alimentare e l’esclusione della produzione alimentare dagli accordi di libero scambio. I paesi devono avere riserve alimentari pubbliche e regolamentare il mercato dei prezzi, al fine di supportare i produttori alimentari su piccola scala in questo contesto difficile;
  • La creazione di una nuova organizzazione internazionale per condurre trattative trasparenti negli accordi commerciali tra paesi esportatori e importatori, in modo che i paesi che dipendono dalle importazioni alimentari possano accedervi a un prezzo accessibile;
  • Proibire l’uso di prodotti agricoli per produrre biocarburanti o energia. Il cibo dovrebbe essere una priorità assoluta rispetto al carburante.
  • Una moratoria globale sul pagamento del debito pubblico da parte dei paesi più vulnerabili. Fare pressione su questi paesi per pagare il loro debito è altamente irresponsabile e porta a crisi socioeconomiche e alimentari.

Chiediamo cambiamenti radicali nelle politiche internazionali, regionali e nazionali per ricostruire la sovranità alimentare attraverso:

  • Un cambiamento radicale nell’ordine del commercio internazionale. L’OMC deve essere smantellato. Un nuovo quadro globale per il commercio e l’agricoltura, basato sulla sovranità alimentare, dovrebbe aprire la strada al rafforzamento dell’agricoltura contadina locale e nazionale, garantire una base stabile per la produzione alimentare delocalizzata, sostenere i mercati guidati dai contadini locali e nazionali e fornire un sistema commerciale internazionale basato sulla cooperazione e sulla solidarietà;
  • L’attuazione della popolare e globale Riforma Agraria, per fermare l’accaparramento di acqua, semi e terra da parte delle multinazionali e garantire ai piccoli produttori diritti equi sulle risorse produttive; protestiamo contro la privatizzazione e l’accaparramento della terra e del patrimonio da parte di interessi finanziari con il pretesto di proteggere la natura, attraverso mercati del carbonio o altri programmi di compensazione della biodiversità, senza tener conto delle persone che vivono in questi territori e che si sono presi cura di quel patrimonio per generazioni;
  • Uno spostamento radicale verso l’agroecologia per produrre cibo sano per il mondo. Dobbiamo affrontare la sfida di produrre cibo di qualità sufficiente, riattivando la biodiversità e riducendo drasticamente le emissioni di GHG;
  • Una regolamentazione efficace del mercato degli input (quali credito, fertilizzanti, pesticidi, sementi, combustibili) per sostenere la capacità di produzione alimentare dei contadini, ma anche per garantire una transizione giusta e ben pianificata verso pratiche agricole più agroecologiche;
  • Governance alimentare basata sulle persone, non sulle multinazionali. La conquista della governance alimentare da parte delle transnazionali deve cessare e l’interesse delle persone deve essere messo al centro. Ai piccoli proprietari deve essere assegnato un ruolo chiave in tutti gli organi di governance alimentare;
  • Lo sviluppo di politiche pubbliche per assicurare nuove relazioni tra chi produce cibo e chi lo consuma, chivive nelle zone rurali e chi vive nelle aree urbane, garantendo prezzi equi definiti in base al costo di produzione, che consentano un reddito dignitoso per tutti coloro che producono sul campo e giusto accesso a cibi sani per i consumatori;
  • La promozione di nuove relazioni di genere basate sull’uguaglianza e il rispetto, sia per le persone che vivono nelle campagne che tra la classe operaia urbana. La violenza contro le donne deve cessare ora.

Processo d’appello contro Mimmo Lucano: la requisitoria della Procura Generale.

E’ stata una udienza molto tecnica, in cui i Procuratori hanno esaminato punto per punto i rilievi mossi dalle difese contro la sentenza di primo grado. Come sempre, non entrerò nel merito delle osservazioni tecniche, cosa di cui non sarei capace, né le riprenderò in modo esaustivo. Cercherò piuttosto di sintetizzarne brevemente il senso sotto il profilo delle conseguenze su un procedimento giudiziario che, come abbiamo visto in questi tre anni, ha assunto il carattere sempre più deciso di un processo politico.

I Procuratori hanno condiviso le obiezioni degli avvocati difensori quanto all’inutilizzabilità di alcune intercettazioni; hanno però anche considerato che le nuove intercettazioni introdotte, che avevano portato a riaprire l’istruttoria, non modificano in modo significativo il quadro probatorio. Questo quadro, per quanto ricostruito dal Tribunale di Locri, non appare loro indebolito dall’uso anomalo delle intercettazioni, in quanto considerano solide le basi documentali su cui poggia, per cui la gran parte della requisitoria si è risolta in una conferma delle motivazioni della sentenza di Locri.

Pur rilevando piccoli cambiamenti nella situazione processuale di Domenico Lucano, come la prescrizione di due presunti reati di abuso d’ufficio e l’assoluzione per un presunto reato di truffa relativo alle spese per un pranzo di 50 turisti americani in visita al sistema d’accoglienza di Riace, pranzo poi saltato, la Procura ha confermato l’impianto d’insieme della sentenza di primo grado.

Lucano sarebbe colpevole di aver montato e diretto un’associazione a delinquere tesa a commettere una serie di peculati, truffe e abusi che sarebbero provati in modo univoco e convincente. Solo per un imputato, Luca Amendolia, l’accusa di associazione a delinquere deve cadere secondo la Procura generale, in quanto il professionista cercava attivamente di tenersi lontano dai legami associativi, pur mantenendo un buon rapporto con Lucano. Per il resto, l’associazione a delinquere viene confermata, in termini molto vicini alla retorica delle motivazioni di Locri.

L’associazione è “provata” in quanto “i reati commessi a Riace richiedono una sinergia che non poteva non derivare da una continuativa e metodica attività messa in atto” da soggetti che la Procura designa come “totalmente immersi in questa attività truffaldina”.
A tal punto che i Procuratori escludono che si possano applicare nei loro confronti misure attenuanti come l’aver agito in stato di necessità, il riconoscimento di aver agito in buona fede, nemmeno le attenuanti generiche.

In conclusione, le pene stabilite in primo grado vengono limate qua e là. Quanto a Lucano, la condanna è “ridotta” a 10 anni e 5 mesi, rispetto ai 13 anni e 2 mesi del primo grado. Sarà anche un caso, ma la richiesta della Procura generale si situa proprio a metà fra i 7 anni e 11 mesi chiesti dal PM Permunian e i 13 anni stabiliti dal giudice Accurso.

Algoritmi? Geometrie? Fatto sta che si ha l’impressione, da semplici osservatori, che i reati valgano quantità di pene molto variabili e che talvolta i giudici giochino con gli anni (degli altri) come se fossero noccioline.

Dalla prossima udienza, il 30 novembre 2022, cominceranno a parlare le difese. E allora speriamo che finalmente si ritrovi un linguaggio di giustizia.

Parole a capo /
Rosa Pantaleo: “Nudi” e altre poesie

“Penso sempre che la maggior parte degli uomini non sia in grado di conoscere e riconoscere la propria anima. Dopotutto, la quasi totalità delle persone vive con il corpo e nutre solo il corpo, quasi mai l’anima.”
(Franco Battiato)

DESIDERIO

Vorrei
toccarti e dire
intrappolarmi
in un attimo
senza via d’uscita
in occhi pieni
del più intimo noi
accalorarmi di te
in un infinito
silenzioso
uno spazio incapace
di creare distanze
un luogo d’estate
in cui le idee
non cadano in pezzi.


NUDI

Le ore scivolano
senza ritorno
m’accorgo
di non avere tasche
neanche sulla pelle
non c’è nulla
che possa essere
fermato o trattenuto
è già vestita la vita
meglio restare nudi
attraversare il presente
senza rimpianti.


AMORE

Così sottile
è la luna
qualcuno
ha rubato le stelle
ed è più forte
l’abbraccio
se avessi
tutto l’amore
avrei distrutto
la barriera
tra la vita e la morte
l’amore
che nel blu
del mantello di mare
in cui stanotte
ho trovato rifugio
non mi lascia dormire.

Rosa Pantaleo (Napoli, 1969). Città dove ha vissuto fino al 2006, anno in cui insieme al marito e 5 dei loro figli si è trasferita in Irlanda del Nord a Belfast. Qui ha accolto con gioia la nascita di altri 2 figli. Ha dedicato la sua vita principalmente alla famiglia e alla cura dei figli e, quando può, lavora come barista in Starbucks e da sempre ama leggere. Scriveva da bambina, ha abbandonato durante gli anni adolescenziali per riprendere da relativamente poco tempo, ottobre 2020. Da allora non riesce a farne a meno. E’ al suo esordio letterario con un libro dal titolo Divagazioni, Writers Editor. E’ una raccolta di poesie che andrà in stampa a gennaio 2023 ma che è già possibile acquistare in preordine sul sito della casa editrice. Per Rosa scrivere è importante, necessario, poesia è traduzione di pensieri che camminano verso uno spazio di bene interiore.

La rubrica di poesia Parole a capo curata da Pier Luigi Guerrini esce regolarmente ogni giovedì mattina su Periscopio. Per leggere i numeri precedenti clicca [Qui]

A 100 anni dalla Marcia su Roma: “Matteotti Medley”

 

“Che si sappia così poco della storia di questo “inutile eroe”, grazie al cui sacrificio – con quello di tanti altri – oggi viviamo in libertà, è un peccato…”.
Maurizio Donadoni

Un interessante appuntamento di teatro civile attende gli spettatori più attenti, questo venerdì 28 ottobre, al Teatro Comunale di Ferrara, a cent’anni esatti dalla Marcia su Roma, organizzata il 28 ottobre 1922 dal Partito Nazionale Fascista per favorire l’ascesa di Benito Mussolini alla guida del governo (il 29 ottobre, Vittorio Emanuele III gli affidò l’incarico, che, ricevuto formalmente il 30, diede inizio al lungo ventennio fascista).

Matteotti medley, foto Federico Buscarino

Nel giorno di tale anniversario, l’attore bergamasco Maurizio Donadoni, con Matteotti Medley, sotto la regia di Paolo Bignamini, porta in scena la vita, gli scritti e le testimonianze di un grande protagonista della storia italiana: il politico Giacomo Matteotti (1885-1924), eletto alla Camera nel 1919, 1921 e 1924. Come parlamentare sostenne la riforma agraria e la polemica antiprotezionista, mentre, testimone degli esordi dello squadrismo padano, maturava un antifascismo convinto.

Si tratta di un documentario teatrale che ricorda i martiri, le vittime e gli inutili eroi che “ogni epoca ha avuto che con il loro sacrificio hanno aperto gli occhi e la strada agli altri”, aveva detto Giacomo Matteotti, poco più che ventenne, parlando a dei coetanei. Il 10 giugno 1924, dopo il discorso alla Camera, del 24 maggio, in cui denunciava le violenze e i brogli commessi dai fascisti nella recente campagna elettorale, a Roma sul lungotevere Arnaldo da Brescia, veniva rapito e ucciso da un gruppo di “arditi” della Ceka fascista, organismo voluto da Mussolini per mettere a tacere gli oppositori.

Anniversario, quello della Marcia su Roma, più che mai attuale: basti ricordare l’omonimo film del regista irlandese Mark Cousins, appena uscito al cinema, selezionato agli EFA (European Film Award) in concorso al Premio per il Miglior Documentario.

Oggi strade e piazze ricordano il nome del politico che si oppose a Mussolini, ma quanti saprebbero dire e ricordare chi era questo “inutile eroe”?

Matteotti Medley ne ripercorre la storia alternando il racconto dei fatti, nudi e talora crudi, alle citazioni delle musiche dell’epoca: dalle marcette squadriste agli stornelli contro il Negus, dalle musiche da ballo alle canzoni d’amore diffuse dalle radio Balilla, agli esperimenti di quella musica colta d’avanguardia che, proprio allora, era in cerca di inaudite sonorità. La fisarmonicista bielorussa Katerina Haidukova accompagna in scena il racconto di Donadoni, basato su documenti e aneddoti, ricordi politici e familiari. Una narrazione di un solo attore, ma a molteplici voci, che si espande in uno spazio scenico nitido, scarno e rigoroso: luogo dove il passato prende corpo attraverso il corpo e la voce dell’interprete; dove il racconto documentale si fa testimonianza funambolica tra grande storia e piccole storie.

Matteotti medley, foto Federico Buscarino

E dove ognuno di noi è chiamato a rispondere alla domanda: che valore ha, per noi, oggi, la democrazia? A guerre in corso e ingiustizie. Drammaticamente attuale.

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Matteotti Medley

documentario teatrale a cura di Maurizio Donadoni, fisarmonica Katerina Haidukova, regia di Paolo Bignamini, scene e costumi Eleonora Battisti, Gaia Bozzi, Hefrem Gioia, Martina Maria Pisoni, Giada Ratti, Valentina Silva, Alessia Soressi, coordinati da Edoardo Sanchi, in collaborazione con Accademia Di Belle Arti Di Brera, Scuola di Scenografia, produzione Teatro de Gli Incamminati in collaborazione con Fond’azione Dopolavoro

Matteotti medley, foto Federico Buscarino

Giorgia Meloni: l’emancipazione non è fatta solo di parole

 

Un interessante articolo di Giulia Siviero, pubblicato anche su Periscopio (leggi qui), e un dialogo avuto con una compagna del sindacato, che partiva da un pezzo di Esmeralda Rizzi uscito su Collettiva (questo), mi hanno persuaso che Giorgia Meloni Presidente del Consiglio potrebbe rappresentare un caso di eterogenesi dei fini. Una donna che non dichiara nessuna intenzione di cambiare i paradigmi di una società maschilista e patriarcale, ma che suo malgrado riesce a farlo.

L’insistenza su un nuovo linguaggio – mentre la Meloni assume tranquillamente il genere maschile della carica: Il Presidente – avrebbe senso se accompagnata da una pratica, quella di farsi governare da una donna.
Non cioè di permettere alle donne di occupare delle posizioni sulla base di un meccanismo di quote dedicate (le cosiddette quote rosa), ma di essere governati da una donna perché una sua gravidanza, ad esempio, non viene vista come uno stop alla sua ascesa, ma come un fatto naturale che attiene alla sua crescita come persona, da utilizzare anche come competenza nella gestione di un gruppo non familiare, ma politico o economico.

Spesso invece a sinistra il meccanismo delle quote di genere è un mantello progressista che viene ostenso, ma sotto il quale la struttura sociale e familiare – e la sua conseguenza “maschilista” – rimane esattamente la stessa.

Per cui capita di assistere (non sempre, ma spesso) alla difficoltà di individuare delle donne pronte ad occupare delle posizioni di rilievo,  perché in un certo organismo, per la regola delle quote, “va messa una donna”, ma senza che dalla base, dalla partenza, sia stata promossa la sua capacità di crescere e di maturare.

Non che Fratelli d’Italia sia un partito che replichi su ampia scala, al suo interno, l’esempio Meloni. Anzi, sotto questo aspetto è come il PD, forse peggio.

Però l’esempio Meloni da solo ‘fa giurisprudenza’, per così dire, perché non stiamo parlando di una sindaca o di una parlamentare o di una rettrice, ma del Presidente del Consiglio di uno Stato. La destra ci è arrivata senza sovrastrutture, ‘senza troppe pippe’ come direbbe qualcuno di loro.

Attenzione: io non considero una ‘pippa’ la costruzione di un nuovo orizzonte,  ‘da sinistra’, attraverso le parole, ma la considero un’operazione monca se alle parole nuove non seguono fatti nuovi.
Anzi, il risultato finale finisce per puzzare persino di ipocrisia.

 

“Una donna che si crede intelligente reclama gli stessi diritti dell’uomo. Una donna intelligente ci rinuncia”

(Sidonie-Gabrielle Colette)

FANTASMI / Colle Madeira

 

egli angoli delle strade più buie spacciavano permessi fasulli per espatriare in California e bastava addentrarsi tra i vicoli del porto per incontrare marinai con la bandana pronti a vendersi per pochi spiccioli o a tuffarsi in mare anche nella stagione fredda.

Che differenza c’è tra morire e sopravvivere da morti? – mi dice un poeta di strada travestito da gentiluomo di inizio secolo porgendomi il biglietto da visita di un bordello. Gente che ti rivolge la parola senza che nessuno glielo abbia chiesto.

Ho capito che qualcuno o qualcosa ha costretto il governo locale a imporre con un decreto speciale uno stato di follia diffusa, e se sbagli mossa ti spediscono dritto in galera.

Ero finito in quella città perché, così mi avevano detto, qualcuno aveva avvistato Elena spostarsi da un caffè all’altro in compagnia di un grassone vestito da armatore greco, abito bianco largo come una vela e il panama immacolato in mano.

Elena amava il lusso, ma era anche attratta dal luridume urbano. Ne era attratta come chi si immerge nel tanfo di una latrina  per poi godersi l’aria fresca dei dintorni e dirsi

“Hai visto quanto sei fortunata?”. Perché non riusciva proprio a convincersi di essere fortunata, aveva bisogno di rassicurazioni continue. Chissà se poi ha cambiato opinione sul fascino delle avventure giovanili.

Adesso dovrebbe essere sui quaranta, un’età critica per le donne, così dicono, che non sanno più scegliere tra il sesso limitato e quello illimitato, a volte rimangono a lungo intrappolate in quella palude popolata di coccodrilli.

Una prostituta nera, molto grassa, mi scruta e capisce in fretta che la trippa per i gatti è finita da un pezzo. Sono tutti in cerca di qualcosa che non esiste o non è mai esistito. Solo un vuoto gigantesco colmato da un’ansia frenetica senza scopo. Ma se non mi sbrigavo a trovarla in mezzo a quella folla di manichini ubriachi fiaccati dal caldo alla fine avrei perso anche me, oltre che lei.

E infatti mi sto perdendo: violinisti senza fissa dimora con l’archetto in mano sorridono inebetiti a se stessi, uomini d’affari che non si azzardano a scendere dall’automobile e fumano sigarette elettroniche, ragazze dai pantaloni troppo aderenti scrutano il cielo in attesa degli stormi migratori nascosti tra le nuvole, trappole per topi sui marciapiedi, ambulanze con le sirene fuori controllo, poliziotti dai muscoli tatuati incerti se uccidere qualcuno o spararsi in bocca, promotori finanziari con la maschera a ossigeno e il defibrillatore nello zainetto per i clienti in preda al panico da Dow Jones, ciclisti sudati con i caschi di plastica da coleotteri, camion carichi di surgelati che grondano ghiaccio sciolto sull’asfalto.

E mentre contemplo il cosiddetto paesaggio urbano mi sono perso davvero. I cartelli segnalano ‘Senso unico’ oppure ‘Tutte le direzioni’, ma la strada per uscire dalla città non si trova. O forse sono io che in fondo non la voglio trovare. Dovrei prendere un caffè o forse un taxi, ma non mi fido.

Elena, lei sì potrebbe aiutarmi, sa benissimo che sono sulle sue tracce, e chissà dov’è finita in mezzo a dieci milioni di abitanti. Arrivano i pompieri, è scoppiato un incendio giù al circo, sento dire tra la folla.

– Quale circo? – chiedo a un signore distinto dal colorito di cadavere. – Veramente è una fabbrica di cioccolato vicino al circo – rettifica lui – sembra però che gli animali e gli zingari siano in salvo.

Se ne va senza neanche la possibilità di stringergli la mano in un gesto estremo di solidarietà, ma forse lui lo sa che non c’è pietà appena metti il naso fuori da te  stesso.

Questa folla variopinta che si rincorre sui marciapiedi sembra composta da gente che crede di conoscersi, o che forse davvero un tempo lontano si conosceva, ma adesso non sanno più come comportarsi uno con l’altro. Come tanti cani che hanno perso il senso dell’olfatto.

Chi mai potrà davvero essermi d’aiuto? Per quanto tempo dovrò restare qui a cercare Elena senza trovarla? E se mai la troverò sarà un incontro imbarazzante o una rivelazione estatica?

Impossibile saperlo in anticipo, lei è talmente volubile, riesce a veleggiare lungo i marciapiedi dei quartieri alti mezza ubriaca e sorridente, come se invece di camminare galleggiasse, trasmigra da un caffè a un bistrot a un ristorante a un qualche locale di frontiera, dove frotte di idioti bevono e ballano, ma alla fine dei suoi giri approda sempre tra catapecchie e palazzi fatiscenti. E questo mi addolora, forse perché da quando mi ha ingannato, con quel suo tocco delicato, sono diventato troppo sensibile.

Probabilmente è proprio questo il suo fascino, e io sono uno di quegli idioti che le corrono dietro da tanti anni, uomini annoiati da troppe vite vissute e troppe donne, ammaliati da quella sua permanente leggerezza alcolica.

L’ho seguita dalle principali città europee fino in America e adesso qui, in questo scarico intercontinentale di umanità deteriorata, rischiando ogni dieci minuti di farmi portare via la borsa e la vita senza possibilità di scelta tra le due. Soldi ne ho ancora parecchi, ma non dureranno a lungo e non ho tempo da perdere a cercarne altri.

Loro, i ricchi, quelli che secondo l’opinione corrente fanno la bella vita, gente sofisticata senza budella, loro sembrano fatti di carne fresca, leggermente abbronzata, senza data di scadenza, ma che ne sanno gli altri di quanto sia dura e assurda la loro condizione?

Sono un popolo di assediati da invidiosi, paranoici e lamentosi, anche se i cosiddetti ricchi lo sono più di loro: sempre a calcolare la differenza tra le possibilità suggerite dalla fantasia di onnipotenza e quello che poi realmente fanno per paura di spendere troppo. Che ne sapete voi dei dolori, dei dilemmi dei ricchi? Ma inutile prendersela, da troppo tempo mi sono lasciato alle spalle certe preoccupazioni mondane.

Qualcuno tra la folla, un tizio molto alto vestito da gatto con gli stivali – qualcuno mi ha raccontato che era la sua favola preferita da bambina – mi ha lasciato in tasca una lettera anonima e con un breve inchino si è dileguato.

Leggo e scopro che Elena è disperata perché le si è diradato un ciuffo dei suoi celebri capelli biondo sporco proprio al centro della fronte ed è costretta a girare con un toupet. E’ il segnale che attendevo.

Mi sembra di avvistarla all’improvviso seduta su uno di quei barconi cromati per turisti, quelli con sei gigantesche ruote portati in giro dai camion con l’altoparlante e la voce preregistrata, che illustra la storia e gli splendori sgangherati di questa città così amata nel mondo.

Ma non è lei, è solo una giovane donna dal profilo cangiante, pronta a sorridere a chiunque trovi il tempo di guardarla. Sta diventando facile ingannarmi.

All’improvviso, esattamente al primo accenno di inizio di un tramonto rovente, il panorama si fa luminoso, i colori più caldi, e la periferia antica costeggiata da archi medievali e acquedotti romani mi infonde un’energia inaspettata e seguo il ricordo del suo profilo in fuga verso ovest.

Ormai solo archi, file di archi orizzontali e verticali attraverso i quali scorrono come dai finestrini di un treno paesaggi campestri alternati a scorci di palazzi popolari, grattacieli di lusso dalle finestre nere specchianti.

Incomincia a farsi buio, un accenno di crepuscolo che a questa latitudine fa presto a sprofondare nelle tenebre. Ecco, mentre i contorni delle cose sfumano, appare all’orizzonte una montagna nera di carbone, o forse di sassi neri come detriti di ghiaia, messa lì a delimitare la periferia estrema della città: su un grande cartello giallo la scritta “Colle Madera”.

Qui tutto finisce, lo so, perché attraverso un grande arco scavato nella montagna di sassi, vedo luccicare le onde del mare. Sono arrivato all’oceano. Oltre quella montagna troverò Elena, ne sono certo.

Mi arrampico lungo le pareti aspre, a piedi nudi, coperto di polvere nera, le mani escoriate, forse ferito e finalmente dalla cima sassosa, la vedo. Il suo profilo lì sotto mi volge le spalle e contempla il mare.

È notte, è appena sorta la luna alle mie spalle e i primi riflessi illuminano le onde: il paesaggio più straordinario che mai la mia fantasia avrebbe potuto immaginare accoglie la sua ricomparsa.

Quasi rotolando scendo verso di lei, stracciando i resti dei miei abiti estivi da fiera paesana e con l’entusiasmo di un bambino ingenuo le descrivo la meraviglia di tutto ciò che ci circonda, la montagna nera, la luna, l’oceano, gli archi senza i quali non sarebbe possibile vedere i tanti paesaggi di cui è composto il mondo.

Lei si copre la fronte con una mano, poche silenziose lacrime mentre io le sfilo il toupet e la bacio lentamente, a lungo, sulla bocca. Mi rivolge uno sguardo veloce dove si confondono paura, rassegnazione e fantasmi di desiderio.

Ma chi sei tu, veramente? – Rimango sbalordito dall’assurda banalità della domanda. Le sorrido. Sento di avere in mano le carte per eliminare le ultime tracce di vergogna. – Non c’è più nulla da nascondere – le sussurro – La morte ha smesso di inseguirti.

La partita è appena iniziata e il destino, che finora ha alzato barricate, è un avversario incapace di combattere ancora. I fantasmi della notte scendono dal cielo, salgono dal mare e ci guardano dall’alto della montagna nera: siamo circondati, ma nulla può frenare l’entusiasmo né la follia contagiosa esplosa tra i vicoli tortuosi della mia mente.

E mi assalgono brividi mai provati se penso a quanto la vita possa essere dolce se solo qualcuno se ne ricordasse. È terribile, siamo tutti prigionieri di un sogno, forse di un incubo, intrappolati dentro i confini di una città insidiosa, malata, avvelenata di tutti i veleni del mondo. E spero prima o poi di essere sollevato da queste eterne incombenze.

Ma se siamo arrivati su questa spiaggia spazzata dal vento vuol dire che le nostre vite troveranno qui la loro unica, autentica salvezza. Rimane sempre la gioia di contemplare il paesaggio fino all’alba, lasciando tutto ciò che accade in un deserto di oblio. E camminare senza fatica verso un cielo ondeggiante, in perenne cambiamento.

Racconto inedito, proprietà dell’autore.

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ACCORDI
The Car, il soul cinematografico degli Arctic Monkeys

Può bastare un disco a sublimare un’intera carriera? È difficile rispondere a una domanda del genere poiché bisogna tener conto dell’artista, del periodo storico, delle aspettative del pubblico e di tanti altri fattori sui quali non abbiamo alcun controllo. Tuttavia, me lo sono chiesto più e più volte dopo aver ascoltato The Car, il settimo disco degli Arctic Monkeys, uscito pochi giorni fa. Il motivo? Sin dalle prime tracce, ho avuto l’impressione di assistere all’ultimo stadio di un’evoluzione lenta e costante.

È come se, dopo l’ammiccante lounge-pop di Tranquility Base Hotel & Casino (2018), la band inglese si fosse spinta ancora un po’ più in là, facendo sue quelle atmosfere noir che il cantante Alex Turner padroneggia sin dalla nascita del progetto Last Shadow Puppets. Non a caso, The Car è un disco che va di pari passo con la voce dello stesso Turner: elegante, suadente e puntuale, con quell’affabile accento di Sheffield e l’interpretazione piaciona da crooner d’altri tempi.

Gli arrangiamenti orchestrali e le linee di synth si affiancano alla sezione ritmica, allontanando ancor di più gli Arctic Monkeys dal loro punto di partenza, cioè lo sferragliante garage-rock della prima metà degli anni 2000. Una scelta, questa, in controtendenza con l’attuale revival chitarristico, e che, a ben guardare, somiglia più a un’urgenza espressiva che a un’attenta selezione stilistica.

Insomma, il soul cinematografico di The Car è un’irresistibile mosca bianca nell’industria musicale del 2022: d’altronde, un album che suona come un romanzo di Raymond Chandler o una commedia di Billy Wilder non può passare inosservato, men che meno se a realizzarlo è una band matura e dalle idee chiare. Una band che col suo settimo disco dà un’ulteriore sterzata alla sua carriera. Ed è una sterzata che, in un modo o nell’altro, ci ricorderemo per un bel po’.

PASOLINI 100: “Narrazioni ai margini della città”. Ferrara: comincia il ciclo di 3 incontri al Verdi

100 Pasolini

Unife organizza un ciclo di incontri
in occasione del centenario della nascita di Pier Paolo Pasolini
Il 25 ottobre, il 15 e 22 novembre gli appuntamenti all’ex Teatro Verdi

In occasione del centenario della nascita di Pier Paolo Pasolini, il Dipartimento di Studi Umanistici dell’Università di Ferrara in collaborazione con il Dipartimento di Architettura di Ateneo e l’Archivio Pasolini della Cineteca di Bologna, organizza il ciclo di incontri “100 Pasolini. Ai margini della città. Narrazioni, racconti e visioni”.
L’iniziativa, organizzata insieme al Laboratorio Aperto di Ferrara presso l’ex Teatro Verdi, (via Castelnuovo, 10), prevede tre incontri focalizzati sul tema dei margini, centrale nel pensiero pasoliniano, che sarà affrontato attraverso le sue analisi sociali e urbanistiche, la sua produzione letteraria e cinematografica.

Primo appuntamento. martedì 25 ottobre dalle ore 17 alle ore 19 sul tema Narrazioni”
Professor Romeo Farinella, docente di Geografia Umana e Progettazione Urbanistica di Unife:  A proposito della ‘Forma della città’: riflessioni sulla lettura urbana di Pasolini.
Professor Alfredo Alietti, docente di Sociologia generale, urbana e del territorio di Unife: La sociologia dei margini. La narrazione sociale pasoliniana.

A seguire:

Martedì 15 novembre sempre alle 17 per il secondo incontro Racconti” interverranno il Professor Guido Santato dell’Università di Padova e la Professoressa Caterina Verbaro della Libera Università Maria Ss. Assunta, Roma.

Il terzo e ultimo appuntamento Visioni”, martedì 22 novembre alle 17, vedrà intervenire il Professor Alberto Boschi, docente del Dipartimento di Studi Umanistici di Unife e Roberto Chiesi del Centro Studi – Archivio Pasolini della Cineteca di Bologna

Parole e Figure /
Via via, vieni via con me

Via, via, vieni via con me, lascia questo pazzo mondoIt’s wonderful, wonderful… Non è la canzone di Paolo Conte ma l’invito che una deliziosa bambina con lo zaino azzurro e blu fa ai suoi amici e a noi lettori.

Maglietta rossa, gonnellino blu e collant giallo canarino, con le sue scarpette nere e i capelli ribelli e ricci (ammetto che assomiglia pure un po’ a come mi ricordo alle scuole elementari …), la ragazzina senza nome, che chiamerò Simone alla francese, ci invita a seguirla. Eccoci allora a sfogliare le pagine coloratissime di Vieni con me?, di Cristina Petit e Chiara Ficarelli, Pulce edizioni.

Il posto dove ci vuole portare è vicino a casa sua, ci va spesso e profuma di buono. Dal cortile di casa, sporgendosi dalla rete verde accarezzata da siepi, felci e tulipani, invita il suo primo amichetto, intento a prendersi cura del suo giardino con tanto di stivali rossi, secchiello, carriola e rastrellino, anch’essi rosso fiammante. Si tratta forse della pasticceria che espone in vetrina cornetti dal ripieno colorato, biscotti alla frutta o dolcissimi croissant? L’indizio del profumo porterebbe proprio lì e invece no. Simone continua a camminare.

Allora è scuola. Che bel cortile! Giochi, fiori, erbette, pentolini, cubetti, piccioni e, soprattutto, tanti bambini vocianti che corrono (si sentono i gridolini…), bambini dai diversi colori della pelle e dalle pettinature più svariate, belli i codini e i capelli un poco crespi che ricordano l’Africa allegra e originale. La maestra vede tutti, segue proprio tutti con attenzione, cura, dedizione e amorevolezza. Non le sfugge proprio nulla. Fra chi fa le bolle di sapone e chi si arrampica su un gioco di legno non ci si può davvero distrarre…

È un posto sì con tante variazioni di colore ma non è la scuola!

È per caso il giardino fiorito? Un luogo con tanti alberi dalle chiome autunnali, con lampioni dal sapore antico e tante piccole e comode panchine? No, non è il giardino, continua Simone, è un posto con tante persone dentro, e la fila degli amichetti che la segue si allunga. Le scarpe da tennis si stanno rivelando dei buoni e utilissimi compagni. Ormai la piccola comitiva è sempre più numerosa. La curiosità aumenta, con essa una piccola e delicata dose di suspense. Dove stiamo andando? Anche noi lettori iniziamo a domandarcelo. Simone va in un posto dove si allena e tutti pensano allo stadio, alla palestra o alla piscina. Acqua, ancora acqua.

Intanto sfiliamo davanti a negozi, alberghi e ristoranti, i portici disegnati con tratto preciso e delicato ricordano un po’ quelli delle nostre città emiliane. Lo stesso per le biciclette, le persiane colorate, le tende e i leoni lungo le scalinate, che tanto assomigliano a quelli di piazza della cattedrale di Ferrara. Riposiamo un po’ sui gradini, siamo stanchi.

In quel posto c’è un bancone con una persona che ascolta quello che le chiediamo. Non è nemmeno la gelateria del corso ma un luogo in cui si imparano tante cose.

Volete unirvi a noi? Forza, forza, manca poco.

Il museo allora, dimmi che ho indovinato! No, no, ancora non ci siamo, è un posto dove c’è una persona che ha sempre voglia di raccontare una storia. Stavolta non ci sono dubbi, è la casa della nonna. Quella di mia nonna era davvero così, tante storie degli anni Venti e del bel periodo di rinascita degli anni Cinquanta, di fronte a un budino candido alla vaniglia da lei fatto in casa. Ne ricordo ancora il sapore, il gusto della scorza di limone.

Siamo ancora molto lontani dal risolvere il mistero e ormai tutti, noi compresi, pensano a una burla, pure poco divertente. Si sta camminando troppo verso il nulla, non ci piace essere presi in giro. Un pub, una panetteria, qualche muretto, cancello e portone ancora e, girato l’angolo, vedrete.

Dove va quelle fila di bambini che cammina per la città? Fra poco lo sapremo.

Ci siamo. Fuocherello, fuocherello, e… fuoco!

Ve lo dico? Sicuri sicuri sicuri? Ve lo dico.

Entriamo in … biblioteca.

Ma non ci sono tutte quelle cose descritte! Invece sì, cari bambini. Il profumo della carta, la bibliotecaria dietro al bancone, tanta gente che legge assorta sui comodi divanetti. E poi dai libri si imparano tante cose e con essi ci si allena ad essere qualcun altro quando si incontrano tanti personaggi. Si vive la loro vita, quella di scienziati, regine, astronauti, esploratori, pittori, maghi, burattini e poeti. Ora tutti zitti però, si legge!

Un meraviglioso, unico ed originale inno ai libri e alla lettura condivisa.

Un grande messaggio d’amore per i libri, che amiamo tanto.

 

Cristina Petit è nata a Bologna nel 1975, e, dopo un diploma di liceo scientifico e uno di istituto magistrale si laurea in lingue e letterature straniere, ha iniziato a insegnare nella scuola dell’infanzia. Fin da piccola, scrive e disegna, ha pubblicato con varie case editrici di libri per bambini e ragazzi tradotti in molte lingue. Formatrice di insegnanti e genitori, gira l’Italia facendo corsi. Ha ricevuto il premio letterario Angelo Zanibelli per il romanzo Salgo a fare due chiacchiere.

Chiara Ficarelli è laureata in Scienze della Formazione Primaria, ha lavorato come insegnante nelle scuole dell’infanzia e coltiva la passione per l’illustrazione. Nel 2017, si è iscritta al Master in Illustrazione editoriale di Ars in Fabula da cui nasce il suo primo albo illustrato La povera gente di Lev Tolstoj, edito da Orecchio Acerbo (2019). Oggi collabora come docente tutor con la scuola d’illustrazione Ars in fabula di Macerata.

 

Cristina Petit, Chiara Ficarelli, Vieni con me?, Pulce edizioni, 2022, 48 p.

 

 

 

 

 

Libri per bambini, per crescere e per restare bambini, anche da adulti.
Rubrica a cura di Simonetta Sandri in collaborazione con la libreria Testaperaria di Ferrara.