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UNO ‘22 RACCONTA UFO ‘78
Wu Ming (Unidentified Narrative Objects) alla Resistenza

 

La particolarità assoluta dei romanzi collettivi e solisti dei Wu Ming, l’aspetto che ammiro e mi colpisce prevalentemente, è di essere, come gli stessi autori li definiscono, Unidentified Narrative Objects, oggetti narrativi non-identificati, vale a dire “fiction e non fiction, prosa e poesia, diario e inchiesta, letteratura e scienza, mitologia e pochade”, come si legge a pagina 42 del loro ottimo saggio New Italian Epic pubblicato nel 2009.

Risulta evidente il riferimento agli Unidentified Flying Objects che ora compaiono espressamente fin dal titolo del nuovo libro collettivo, uscito ad agosto del 2022. Ed ecco che mi è venuta voglia di citarli insieme, fin dal titolo, questi oggetti non identificati: quello narrativo del 2022 racconta quelli volanti del 1978 (e dintorni).

I modi, i tempi, gli obiettivi, i percorsi, il reale e l’immaginato, il fatto e rifatto ce li raccontano, sollecitati dalle stimolanti domande di Marco Belli, nel Centro Sociale La Resistenza Ferrara, la sera del 5 novembre 2022, Wu Ming 1 e Wu Ming 2, accompagnati dalle letture di Marco Manfredi. L’incontro è il primo di una rassegna ricca ed articolata che vedrà alternarsi, nei due luoghi organizzatori – La Pazienza Arti e Libri e La Resistenza Ferrara – i due ideatori (Marco Belli e Michele Ronchi Stefanati) che dialogheranno con i diversi autori invitati.

Per tentare di sintetizzare la complicata trama di UFO 78 chiedo aiuto alla quarta di copertina del volume:

1978. Aldo Moro è rapito e ucciso. Sulle città piomba lo stato d’emergenza. «La droga» sfonda ogni argine. Tre papi in Vaticano. Le ultime grandi riforme sociali. Mentre accade tutto questo, di notte e di giorno sempre più italiani vedono dischi volanti. È un fenomeno di massa, la «Grande ondata». Duemila avvistamenti nei cieli del Belpaese, decine di «incontri ravvicinati» con viaggiatori intergalattici. Alieni e velivoli spaziali imperversano nella cultura pop. Milena Cravero, giovane antropologa, studia gli appassionati di Ufo in una Torino cupa e militarizzata. Martin Zanka, scrittore di successo, ha raccontato storie di antichi cosmonauti, ma è stanco del proprio personaggio, ed è stanco di Roma. Suo figlio Vincenzo, ex eroinomane, vive a Thanur, una comune in Lunigiana, alle pendici di un monte misterioso. Il Quarzerone, con le sue tre cime. Luogo di miti e leggende, fenomeni inspiegabili, casi di cronaca mai risolti. L’ultimo, quello di Jacopo e Margherita, due scout svaniti nei boschi e mai ritrovati. Intorno alla loro scomparsa, un vortice di storie e personaggi.

Mappa eventi 1978 riportati dai media (Collettivo Wu Ming)

Il primo dato importante e significativo su cui Marco Belli sollecita stasera gli autori a dire la loro riguarda la lunga gestazione dell’opera, che, come illustra Wu Ming 1, è stata “pensata” nel 2006 sotto forma di improvvisazione collettiva (che intitolarono Mater Materia) insieme allo scrittore Giuseppe Genna, in riferimento alle produzioni di ‘archeologia spaziale’ di Peter Kolosimo e sulla spinta di una sorta di ‘corto circuito’ con l’Affaire Moro e altre vicende, prevalentemente del nostro paese, del 1978, che rappresenta la fine degli anni Settanta, ma non apre ancora gli Ottanta, i quali cominceranno effettivamente dopo la vittoria degli azzurri ai mondiali di calcio dell’82. Una sorta di stagione di mezzo, quindi, si delinea tra il 78 e l’82, una fase di crepuscolo che è proprio quella che a Wu Ming interessava. 

In quella improvvisazione  immaginarono uno scrittore liberamente ispirato a Kolosimo e un convegno sugli Ufo programmato a Roma nei giorni dal 16 al 19 marzo.
Il convegno saltò dopo l’agguato di via Fani. Che avrebbero fatto tutti quegli ufologi in una capitale precipitata nel caos? Quegli spunti rimasero nel cassetto fino al 2014, quando, col permesso di Genna, per conto loro i Wu Ming  si lanciarono in un nuovo brainstorming.
Ma da una costola del progetto nacque prima un altro romanzo: Proletkult.

Nel 2018 ripresero i lavori. Nel gennaio 2019 iniziarono la stesura, ma nel 2020 “calò come un maglio, schiacciando tutto, l’emergenza Covid.  Quel che accadde nei due anni seguenti influenzò il libro, lo riconnotò, lo trasformò” (ho preso queste ultime frasi da “Traccia per un video che abbiamo deciso di non realizzare”, stilata da Wu Ming per gli Autoracconti d’Autore di Letteratitudine).

Il panorama complessivo viene integrato da Wu Ming 2 in risposta alla domanda su titolo e copertina:
“Nel 1978 nasce Atlas Ufo Robot, esce Incontri ravvicinati del terzo tipo, all’interno dell’Affaire Moro si può individuare uno stranissimo gioco di parole tra Fani (il nome della via dove lo statista fu rapito e gli uomini della sua scorta uccisi) e il possibile acronimo FANI con cui tradurre la formula usata negli Stati Uniti per indicare gli UFO (Unidentified Aerial Phaenomena = Fenomeni Aerei Non Identificati).
Inoltre si comincia a parlare con insistenza, anche a proposito della passione per gli extraterrestri e le antiche civiltà aliene che popolavano i libri di Kolosimo,  di ‘riflusso’, inteso come allontanamento dall’impegno politico e sociale e interesse verso questioni apparentemente più futili, fantastiche, immaginarie, private; i Wu Ming con questo libro cercano di affrontare l’analisi del fenomeno, perché sono dell’idea che guardare il cielo, interessarsi ad oggetti non identificati, soprattutto in un momento in cui tutti sulla terra ti vogliono identificare e ti chiedono i documenti, non sia soltanto una fuga in una dimensione irrazionale, futile della vita ma sia qualcosa che, al contrario, può nutrire proprio un ritorno alla realtà con nuove armi; quindi non gli UFO come un diversivo o una fuga ma come un modo per procurarsi energie nuove, ‘armi’ nuove e tenere bene i piedi per terra.”.

È il momento di assaggiare la scrittura di UFO 78.
Marco Manfredi
legge dal Primo Movimento del volume:

  1. Roma, mercoledì 1° marzo .

Rumori di acque ruscellanti, fuochi fatui di sintetizzatori, echi lontani di tempi perduti. In den Gärten Pharaos, del gruppo tedesco Popol Vuh. Scelta musicale perfetta. L’occhio della telecamera percorre un corridoio e perlustra scaffali carichi di reperti e cimeli, statuette manufatte chissà dove e chissà quando: dee della fertilità, bestie sacre, demoni minacciosi o imperscrutabili. Tra quei corpi stilizzati, di tanto in tanto, spunta un modellino di piramide tolteca, o di vascello spaziale, dal piglio razionalista  o, all’opposto, baroccheggiante. Nel 1978 la tivù pubblica italiana produceva già programmi a colori, compresa questa puntata di Odeon. Ma nelle case troneggiavano ancora apparecchi in bianco e nero, e le tinte sgargianti di quell’appartamento si potevano solo immaginare: i muri verde cinabro, le mensole verniciate di giallo, i riflessi bronzei dei soprammobili. La telecamera si avvicina a una soglia priva di porta, sovrastata da un grande dipinto. Lo sguardo indugia su architetture in rovina o incompiute, sospese in una notte luminosa. Pochissimi avranno riconosciuto Le temple foudroyé di Savinio. Non l’originale, bensì una copia acquistata a Porta Portese per poche lire….

Una domanda successiva si concentra sulla struttura narrativa, sull’articolazione dei piani temporali e sulle modalità di gestione dei numerosi personaggi: in effetti, afferma Wu Ming 1, si è molto lavorato sulla struttura, per la quale si è scelta una modalità per così dire musicale: c’è un preludio che si riferisce a fatti avvenuti il 26 agosto 1976 e culminati con la scomparsa dei due giovani scout Jacopo e Margherita; già qui troviamo un primo salto temporale, all’oggi in cui intuiamo che il soggetto a cui appartiene la voce narrante (che è ‘altra’ rispetto ai Wu Ming autori) ha ricercato notizie e condotto un’inchiesta su quello e altri fatti posteriori, narrati nei successivi quattro movimenti, tre dedicati ai mesi dal marzo al maggio del 1978 e il quarto al periodo dal 25 maggio 1978 al 25 maggio 2022.

Mi sembra utile, qui, riportare quanto delineato nell’ultimo capoverso del preludio, che mi pare rappresentare, più che la voce narrante, proprio quella autorale dei Wu Ming:
Questa è la storia delle vite che si incrociarono allora, alle pendici della montagna. E se di una vita non si possono conoscere tutte le pieghe, le luci e le ombre, si può almeno provare a raccontarla, usando documenti, interviste, libri e giornali d’epoca, consapevoli dell’incolmabile distanza tra i giorni vissuti e le pagine scritte. Del resto, la sfida del narrare è raggiungere la verità affrontando l’inevitabile, si trattasse anche di lupi mannari e dischi volanti.”.

Mappa semifantastica della Lunigiana per il volume UFO 78 (foto di Maria Calabrese)

Una storia così articolata e complessa ha bisogno di una mappa, osserva acutamente Marco Belli rivolgendosi a Wu Ming 2, che annuisce e mostra la bozza di mappa che loro stessi hanno tracciato e più volte rielaborato, della Lunigiana, luogo reale posto tra Liguria e Toscana, dove hanno collocato l’inventata Comune Thanur in cui vive Vincenzo Zanka figlio di Martin e l’inventato ma possibile e verosimile monte Quarzerone, che fa da magnete, fa confluire le varie storie in una sola storia; un luogo dell’Appennino, un’area marginale, ma una di quelle aree interne che sono la cartina al tornasole, lo specchio dell’intero Paese.

Spesso l’approccio dei Wu Ming è quello di andare a cercare lo sguardo obliquo insieme agli avvenimenti dei margini. Non soltanto perché posizionandosi dai margini si vede meglio il centro o lo si vede da una prospettiva diversa, ma perché in realtà loro sono convinti che i margini sono un centro focale in cui accadono cose che poi magari da lì riverberano verso il centro e che comunque hanno importanza di per sé.

Il pubblico della Resistenza (foto Maria Calabrese)

L’incontro alla Resistenza è arrivato al termine, ma le curiosità di un pubblico numerosissimo (oltre un centinaio di persone e moltissimi giovani) diventano domande che si sposteranno al chiuso, nella sala bar, perché il freddo si è fatto intenso. E a me rimane la voglia, sollecitata dall’ultima schermata che leggo sul monitor che proietta il file della “colonna sonora di UFO 78” che Wu Ming 1 non riesce ad illustrarci, che mi vado subito a cercare nel blog GIAP della Wu Ming Foundation e che mi riprometto di ascoltare.

Intanto mi viene incontro l’intervista di Loredana Lipperini ai due autori nella trasmissione Fahrenheit del 3 novembre scorso, al termine della quale si parla proprio della centralità della musica in questo testo. Wu Ming 1 riconosce che la musica fa proprio parte del tessuto, dell’intreccio del romanzo e ricorda che il ’78 rappresentò l’inizio di una stagione di mezzo anche per la musica: cominciavano in quegli anni ad arrivare in Italia Punk e New Wave e al tempo stesso c’era ancora l’onda lunga della musica progressiva degli anni Settanta.

Loro si concentrano su quella che era stata una musica rock progressiva molto particolare; e va citato un personaggio cruciale, sotto questo aspetto, di UFO 78, che è Jimmy Fruzzetti, ufofilo che gestisce un negozio di dischi ad Aulla e che è “colui grazie al quale c’è tutta quella musica in UFO 78”. Una playlist di 24 brani compare nel citato Blog GIAP della Wu Ming Foundation, ed è reperibile su Spotify e Youtube.

Libri e siti citati nell’articolo:
WU MING, UFO 78, Torino, Einaudi Stile Libero Big, 2022
WU MING, New Italian Epic, Torino, Einaudi Stile Libero, 2009

https://www.wumingfoundation.com/giap/
https://www.letteratitudine.it/
fahrenheit qui

Cover: un momento di lettura alla presentazione del volume UFO ’78 al Circolo LA RESISTENZA di Ferrara (foto di Maria Calabrese)

Elon Musk, il nuovo yankee cinese

 

Uno dei fenomeni nuovi è l’arrivo sulla scena politica (non solo quella economica più che nota) delle grandi corporations trans-nazionali, di cui ha parlato nel post del 14 novembre Simone Oggionni [Vedi qui].

Per esempio Elon Musk, attualmente il più ricco al mondo (200-230 miliardi di patrimonio personale), con le vendite della sua Tesla in Cina (diventata la prima compagnia di auto straniera) ha fatto tali profitti da comprarsi Twitter per 44 miliardi.
A Musk i suoi 534mila follower non bastano, meglio un potente social per influenzare il mondo come fa anche Jeff Bezos di Amazon con il Wall Street Journal. I ricchi si mettono in proprio e contano ormai più dei primi ministri anche perché i politici cambiano con le elezioni (a parte gli autocrati) e i ricchi no.

In Cina Tesla ha venduto solo nel 3° trimestre 2022 83 mila auto, un quarto del totale mondiale (344mila), meno del colosso cinese nazionale BYD ma più delle altre case che vendono auto elettriche (cinesi incluse).
A Shangai dal prossimo mese produrrà col nuovo stabilimento Tesla un milione di auto all’anno (Model 3 e Model Y) sia per il mercato locale cinese che Europa ed Australia.

I Cinesi acquisteranno nel 2023 6 milioni di auto elettriche e Tesla è in pole position. Musk ha stretti rapporti col vice di Xi Jinping (che resterà almeno per altri 5 anni), Li Qiang (che viene dato per prossimo premier).
Li Qiang ha favorito la nascita della prima fabbrica Tesla nell’area speciale di Lingang e ha garantito quella assistenza durante la pandemia che non ha avuto Apple (migrata in Vietnam). Tesla è l’unica azienda a cui i cinesi concedono di non avere una joint-venture con altri cinesi o lo Stato e una riduzione delle imposte sui profitti (15% anziché 25%).

Come mai la Cina è così prodiga nei confronti del miliardario sudafricano? Le multinazionali sono diventate dei moderni ‘Stati’ che possono influire su molte cose (inclusa la geopolitica) ma hanno però un punto debole: non hanno eserciti. In attesa che questo avvenga, in un mondo in via di de-globalizzazione, chi può, fa affari coi cinesi.

Musk, in una intervista al Financial Times, ha ricambiato le gentilezze ricevute dallo stato cimese, dichiarando che Taiwan dovrebbe diventare una “zona amministrativa speciale”, facendo un grande favore alla Cina, la cui politica (con Taiwan) èuno Stato due sistemi”, strategia che prelude ad una sua annessione ben prima del 2050.

Elon Musk ha dato un aiuto fondamentale all’Ucraina mettendo a disposizione il suo sistema satellitare Starlink/Space X a banda larga dopo la distruzione delle infrastrutture da parte dei Russi.
Ai primi di ottobre aveva però chiesto agli Usa di pagarlo, proponendo anche un piano di pace per nulla peregrino: riconoscimento della Crimea russa e garanzia di rifornimento idrico, neutralità militare dell’Ucraina (dunque fuori dalla Nato) e un nuovo referendum per le province russofone del Donbass.

Per Musk questo sarà l’accordo: “Si tratta solo di capire quanti morti servono ancora prima di realizzarlo”. Musk sa bene che il potere tecno-finanziario gli dà la possibilità di muoversi come uno Stato potente.
Certamente più potente dell’Europa, del tutto ammutolita e allineata all’atlantismo Usa.

Musk intrattiene, come già detto, buoni rapporti con la Cina, che gli ha chiesto di non vendere nel suo territorio i kit per collegarsi al suo sistema satellitare Starlink/Space X.
Ovviamente la Cina non ha bisogno di chiedere “per favore” a Musk di non venderli in Cina: le basta un qualsiasi provvedimento amministrativo (non osservando da 22 anni alcuna regola che pure le aveva imposto il WTO per entrare a farne parte). Quindi vuol dire che si riferisce non tanto alla Cina ma a Taiwan, che dipende per il suo internet da 15 cavi sottomarini e che ha fatto un investimento di 25 milioni di dollari per connettersi via spazio in caso di danneggiamento.

Del resto, avendo già l’Occidente regalato lo spazio alle multinazionali di Musk e Bezos (in concorrenza tra loro), non resta che da temere il dragone cinese che potrebbe da un momento all’altro porre il veto ai satelliti dei due miliardari.

Da qui l’importanza di investire in social e giornali e nella geopolitica e “tenersi buona” la Cina. Anche Amazon è (non a caso) un grande investitore cinese (nel porto Nigbo farà una enorme piattaforma per importare prodotti da Germania e UK). Così fanno anche altre multinazionali come Starbucks che ha inaugurato la 6millesima caffetteria in Cina (ne aprirà altre 3mila entro il 2025).

Le multinazionali vanno dove fiutano l’odore dei soldi e il mercato cinese è, potenzialmente, di 1,4 miliardi di consumatori.
Non stupisce quindi che, nel momento in cui materie prime ed energia diventano essenziali per il loro sviluppo, esse guardino a chi le possiede (Cina) con crescente interesse. Una evoluzione paradossale perché erano state 20 anni fa incoraggiate proprio dagli Americani (e dai Dem in particolare) a crescere in un mondo globale. Ora però la Cina si è ‘messa in proprio’: diventa sempre più competitor degli Usa e cerca di sedurre le multinazionali made in Usa con favori nel proprio mercato e materie prime oggi essenziali a questi giganti.

Se non si costruisce un modello di sviluppo alternativo a quello degli algoritmi e dell’intelligenza artificiale guidata dai colossi privati e dai mercati, basato sul primato del lavoro, dell’occupazione e dell’umano sulle macchine, sulla difesa della Natura  e non sulla sua distruzione per la ricerca di una crescita infinita, correremo a perdifiato verso impoverimento e crescente caos.

Solo una Europa indipendente da Usa e Cina potrebbe dare corpo a questo processo. Purtroppo in questo vuoto di iniziativa i grandi ricchi fanno i loro interessi e si sostituiscono all’Europa.

Cover: Elon Musk,  foto ZoomViewer su licenza Wikimedia Commons

Parole e Figure /
Mumin, dei troll super speciali

I Mumin sono una famiglia di troll davvero molto speciali, simili a buffi e amichevoli piccoli ippopotami bianchi dalla coda sbarazzina.

Sono simpatiche creature nate nel 1946 dalla fantasia della finlandese Tove Jansson (1914-2001), figlia di padre scultore (Viktor Jansson) e di madre illustratrice (Signe Hammarsten-Jansson) e cresciuta tra una vivace casa-atelier di Helsinki e un solitario isolotto dell’arcipelago finlandese, Pellinge.

Tove Jansson (1956), foto Reino Loppinen

Il mondo di arte e fantasia di cui è circondata fin dall’infanzia l’accompagna durante la sua vita, nutrendo la sua vocazione di pittrice, vignettista e scrittrice per bambini e adulti e ispirandole la serie dei Mumin che le è valso, tra gli altri, nel 1966, il Premio Andersen, il più importante riconoscimento internazionale dell’editoria per bambini e ragazzi.

Tove Jansson appartiene alla minoranza di lingua svedese ed è considerata “monumento nazionale” in Finlandia, dove nel 1994 le celebrazioni per il suo ottantesimo compleanno sono durate un intero anno. Nota in tutto il mondo per i suoi libri per l’infanzia, a partire dagli anni Settanta ha iniziato a rivolgersi con lo stesso spirito, ironico e sottile, umano e poetico, anche agli adulti con una decina di libri, di cui cinque pubblicati in Italia, pur continuando a coltivare il filone dei libri per l’infanzia.

Tove Jansson nel 1956, foto Reino Loppinen

In Italia, le strisce dei Mumin, che l’hanno resa celebre, sono tornate grazie alla casa editrice Iperborea, specializzata in letteratura nordica, che, nel 2017, ha pubblicato Mumin e le follie invernali, un primo libro che raccoglie alcune delle storiche strisce della scrittrice (la saga era stata pubblicata, per la prima volta in Italia, in singole strisce sulla rivista Linus e in parte da Black Velvet). Ora, con una nuova collana, Iperborea ripubblica l’intera serie delle strisce, per la prima volta a colori, riproposti comesingole storie, nel formato classico Iperborea usato per il lungo (20×10 cm).

L’idea dei Mumin arrivò all’artista dopo una lite con i fratelli Olov, futuro fotografo, e Lars, futuro scrittore e fumettista: per sfogarsi Jansson si chiuse in bagno e si mise a disegnare un piccolo furente troll che chiamò Snork. Dopo qualche anno, Snork comparve accanto alla sigla con cui firmava le sue vignette; nel 1945 cambiò nome in Mumin e divenne il protagonista del suo primo romanzo per bambini, Mumin e la grande onda.

Ma come è fatta questa famiglia di Mumin? Sono personaggi avventurosi, eccentrici, simpatici, comici, poetici, ospitali e aperti al mondo. Circondati da altri curiose figure, a metà tra uomini e animali, troviamo papà e mamma Mumin e il piccolo Mumin con la sua fidanzata Grugnina, la vanitosa. Nella stretta cerchia di amici ci sono il giramondo Tabacco, il pasticcione Sniff, il cugino Ombra, la dolce Mimla e la sorellina Mi, l’intrigante Puzzolo, il filosofo Spinello e i lontani parenti Fungarelli.

Particolarmente delicato Mumin s’innamora, l’ultimo uscito con Iperborea ad agosto scorso, dove, in una valle allagata colpita da un terribile diluvio, Mumin, partito a salvare gente, porta a casa la diva capricciosa Miss La Guna, la stella del circo travolto dall’acqua, della quale si innamora perdutamente. Ma tra i capricci della Miss e l’arrivo del suo acrobata Emeraldo, l’ingenuo spasimante dovrà fare i conti con la differenza fra poesia romantica e realtà e soprattutto con Grugnina che si allea con Mimla e la sorellina per dargli una lezione. Verso il lieto fine, in un mondo tutto a sé.

Se poi volete vedere il museo dedicato ai Mumin, sappiate che a Tampere si può.

Museo dei Mumin, Tampere, Finlandia

Libri per bambini, per crescere e per restare bambini, anche da adulti.
Rubrica a cura di Simonetta Sandri in collaborazione con la libreria Testaperaria di Ferrara

Le storie di Costanza /
Novembre 1959 – Gemma e Gianin

Gemma

Tra Carolina e Mina Viscioli c’era Gemma. Una signorina molto miope che, per poterci vedere almeno un po’, era costretta a portare occhiali dalla montatura robusta e dalle lenti spesse e curve. Due fondi di bottiglia le deformavano gli occhi e li facevano sembrare più bovini di quello che già erano.

Nonostante gli occhiali, ci vedeva molto poco. Gli interventi chirurgici che permettono ai miopi di recuperare quasi interamente la vista, fattibili ai nostri giorni e rimborsabili dal sistema sanitario nazionale, non erano ancora stati sperimentati e i miopi, fino agli anni ’90, dovettero accontentarsi dei “lentoni”.

Gemma amava molto i colori rosso e oro-luccicante, con cui venivano smaltati i bottoni e tinte alcune rifiniture di passamaneria, perché erano i colori che riusciva a mettere a fuoco con maggiore precisione e che trasmettevano le immagini più nitide ai suoi occhi malati.

La nonna Adelina, che faceva la sarta, le aveva confezionato più volte abiti luccicanti in cui, almeno uno dei fili della composita trama della stoffa, era color oro, oppure, con minor soddisfazione della cliente, argento o rame.

Sempre per questa sua predilezione cromatica, nell’ultimo decennio della sua vita, Gemma aveva preso l’abitudine di legarsi al collo un cordino luccicante, con cui era stata sigillata la carta di un panettone natalizio, senza cedere minimamente alle pressioni di tutti i suoi parenti e amici affinché se lo togliesse dal collo almeno ai funerali.

Come un soprano

A Messa, con quel cordino al collo, cantava sempre nel banco di prima fila con un tono di voce altissimo e gracchiante. Una volta chiesi alla nonna Adelina perché la signorina cantasse a quel modo e lei mi rispose: “Perché è una soprano!”.  Non so se lo pensasse davvero o se non sapesse cos’altro dirmi. Sta di fatto che la risposta mi fece molto ridere e che la nonna fece finta di non sentire.

Nonostante Adelina non avesse studiato musica, aveva un fratello che suonava il violino e doveva esserle venuto il dubbio che i gorgheggi di Gemma non fossero proprio ortodossi. Ma, serbando nel suo cuore il dubbio, non mi disse mai nulla e continuò ad etichettare la signorina come un soprano.

Credo che altre persone del paese condividessero la stessa strategia e che questo abbia rinforzato la propensione di Gemma a cantare sempre così, migliorando, ogni anno che passava, il numero e la complessità dei gorgheggi.

Io e mia cugina Ines ridiamo ancora adesso quando ci raccontiamo di quei concerti, ma forse non lo dovremmo fare, un po’ per pietà e un po’ perché, a modo suo e con una certa originalità, la signorina era una fuoriclasse autodidatta.

La nonna Adelina aveva ragione a soprassedere. Gemma credette per tutta la sua vita di essere una brava soprano e fu meglio così.

Far di conto

A parte gli occhi, non era affatto brutta. Corporatura minuta e proporzionata, aveva dei capelli castani che portava raccolti sulla nuca, utilizzando forcine rigorosamente rosse. Era intelligente ed era lei che si occupava della gestione amministrativa della macelleria.

Nel 1959 non esistevano fatture, commercialisti, registratori di cassa e calcolatrici elettroniche. Esistevano i libri contabili che venivano compilati a mano con la matita copiativa e conservati in cassaforte.

Gemma era velocissima a fare i conti e non sbagliava mai. Un po’ per una propensione innata e un po’ per l’esercizio continuo, sapeva fare addizioni, sottrazioni e divisioni con diversi decimali, senza sbagliare mai nemmeno una virgola.

Mia madre ricorda la fortuna di averla avuta come prima insegnante di calcolo e racconta che, grazie a questi insegnamenti, in prima elementare sapeva già fare conti complicati, senza sbagliare mai nulla. Probabilmente questo rinforzò la sua autostima, al punto che imparò matematica molto velocemente e si meritò voti altissimi fino alla fine della sua carriera scolastica.

Anche se vi erano acquisti da fare o il mercato di Casalrossano dove andare a contrattare, era sempre Gemma la candidata migliore e le sue sorelle le cedevano volentieri il bastone del comando, confidando sul suo acume e sulla sua esperienza. Lei ne approfittava e così Carolina era relegata a fare i lavori più pesanti che sporcavano le mani, mentre Mina faceva un’altra professione.

Gianin, l’amore proibito… non troppo

Come Carolina, la più anziana delle tre sorelle, nemmeno Gemma era sposata. Un po’ uno scandalo per quegli anni. Aveva una relazione con un macellaio loro dipendente i cui figli la chiamavano zia, tanto erano abituati a vederla.

Gianin, il suo innamorato, aveva una famiglia, ma la posizione di Gemma e la garanzia di stipendio e carne fresca aveva fatto sì che si creasse un ‘ménage sui generis’, accettato da tutti.

Mia madre si ricorda di alcuni viaggi seduta sul biroccio in mezzo a Gemma e Gianin. Con la scusa di portare la piccola Anna a fare un giretto in pasticceria a Casalrossano, un giretto ‘allo scoperto’ lo potevano fare anche loro.

Andavano a Casalrossano, si sedevano nella pasticceria sotto i portici e ordinavano il rosolio e i bignè. Oppure acquistavano cubetti di torta sbrisolona, dolce tipico padano fatto con farina di mais, zucchero, strutto, burro, ricoperto di mandorle.

Un dolce semplice e povero di origini contadine ma gustoso e croccante, lo si fa ancora adesso e ne esistono diverse varianti, a seconda della zona lombarda nella quale ci si trova. A mia madre non è mai piaciuto particolarmente, ma piaceva a Gianin e quindi facevano una volta a testa. Una volta i bignè e una volta la sbrisolona.

A mia madre la pasticceria Saltafos piaceva molto e si divertiva in quelle gite domenicali a cui era abituata e che considerava normali. Molto tempo dopo realizzò, senza offendersi e senza cambiare la bellezza del ricordo, che la sua presenza era stata un po’ strumentale.

Serviva ai due innamorati come scusa per la gita, ma non era solo questo. Anna era bella e intelligente e loro avevano imparato ad apprezzare la sua predilezione per i bignè e la sua capacità di fare i conti della macelleria con acume e precisione.

Come una famiglia

Quando Gemma comprava stoffa luccicante per i suoi abiti ne comprava sempre due metri in più, in modo che Adelina potesse confezionare due vestiti: uno per lei e uno per la bambina. Così quando andavano al Saltafos, le due appartenenti al ‘gentil sesso’ erano vestite allo stesso modo e questo aumentava l’impressione di Gemma di avere una vera famiglia.

In quelle occasioni la sua soddisfazione raggiungeva l’apice e lei si pavoneggiava con la bambina per mano e il suo innamorato segreto al fianco. I sentimenti in gioco erano buoni e l’opportunismo c’entrava, tutto sommato, poco.

Il rapporto era stabile da anni e la quotidianità tranquilla. Gemma, Gianin e Anna non erano una famiglia in senso stretto, però si volevano bene e ciascuno di loro era molto affezionato agli altri due e sempre pronto per quei viaggi domenicali a Casalrossano.

Credo che quella meno contenta fosse la moglie di Gianin, ma non ne sono troppo sicura. Non ho mai saputo, di scenate, rivendicazioni e amarezze di alcun tipo. Semplicemente, a un certo punto, si era creato quel ménage e tutti si erano adeguati. Gemma faceva sempre tanti regali ai figli di Gianin, che le volevano molto bene.

Carolina e Mina sapevano delle vicende sentimentali di Gemma, ma non se ne preoccupavano. Ognuna delle tre signorine aveva una vita sentimentale autonoma, che non interferiva con la vita delle altre due e la gestione della casa e della macelleria veniva tenuta separata dai vari innamoramenti. I sentimenti personali non venivano discussi e nemmeno criticati, ognuna delle tre aveva dei motivi per non farlo.

Gemma dirigeva bene il negozio e cantava da soprano. Qualità apprezzate in tutta Cremantello. Era una persona stimata e a nessuno importava molto delle sue gite al Saltafos. Che facesse i conti e avesse sempre buona carne, a buon prezzo, era l’aspettativa di quasi tutti i Cremantellesi. A tale aspettativa lei sapeva rispondere con molta efficienza.

Gianin era piccolo e magro. Squartava vacche con abilità e impacchettava interiora senza lasciarne scivolare dall’incartamento nemmeno un brandello. Nel 1959, l’unica carta che si usava era porosa e color giallo sbiadito, comunemente chiamata ‘carta da macelleria’.

I pacchi con la carne acquistata venivano tenuti insieme grazie a un modo particolare di piegare l’involucro rovesciando i bordi e premendo vigorosamente tale rovescio verso il basso.

Un inverno Gianin si ammalò di tubercolosi e Gemma diventò triste. Con gli occhi sempre pieni di lacrime, smise definitivamente di vederci e prese a camminare rasenti i muri, con le mani in avanti per verificare col tatto se ci fossero ostacoli sul suo cammino.

Giuseppe e Albino, i figli di Gianin, andavano tutti i giorni ad aggiornare Gemma sulla salute del padre e in cambio si portavano a casa dei bei pezzi di carne, con cui fare il brodo per il povero ammalato.

Poi arrivò il peggio. Gianin fu mandato a curarsi in sanatorio e la macelleria dovette continuare l’attività senza di lui.

Fu un brutto periodo e mia madre cominciò ad andare tutti i pomeriggi, dopo scuola, ad aggiornare i libri contabili, perché Gemma non ce la faceva più e Carolina e Mina non erano capaci. Imparò così molto giovane come si gestisce un negozio e si innamorò di quel lavoro commerciale, per sempre.

Gianin dopo un po’ guarì e tornò dal sanatorio. Riprese le sue attività normali e ricominciò a fare il macellaio a tempo pieno, il padre a tempo pieno e il marito e l’amante part-time. Mia madre dice che non era né bello né particolarmente brillante, ma gli occhi di una bambina non vedono tutto ed è meglio così.

N.d.A.
I protagonisti dei racconti hanno nomi di pura fantasia che non corrispondono a quelli delle persone che li hanno in parte ispirati. Anche i nomi dei luoghi sono il frutto della fantasia dell’autrice.

Per leggere tutti i racconti di Costanza Del Re è sufficiente cliccare il nome dell’autore o sulla sua rubrica Le storie di Costanza.

“Rimanere” nella professione infermieristica

Non tutte le sale d’aspetto in un ospedale hanno la stessa voce.
Ognuna è diversa nel timbro, cambia a seconda delle sale d’aspetto. A volte questo timbro è dolce ed esile, altre volte secco e squillante.
Le sale d’attesa dei servizi di oncologia ed ematologia non hanno voce: predomina il silenzio.
Un silenzio lungo, prolungato, a tratti soffocante.
Io ci sono stata.
Eppure le persone che sostano in quella sala d’attesa una voce ce l’hanno e per questo ho deciso di raccontare l’esperienza di due infermiere Donatella e Dorina che hanno prestato servizio rispettivamente in onco-ematologia e in radioterapia.
Loro quelle voci le hanno ascoltate. Ora sono entrambe in pensione.
Hanno svolto con orgoglio la loro professione raccogliendo la stima di tutti: colleghi e utenti.
La figura dell’infermiere è in prima linea nell’affrontare la malattia accanto al medico.
La professione infermieristica vive un momento di criticità: i giovani non la scelgono. Spesso chi la sceglie ad un certo punto della propria carriera lavorativa la lascia per fare altro.
L’argomento è molto complesso.
Tra l’altro chi lo tratta, spesso, è qualcuno che da tempo ha abbandonato l’operatività di questo lavoro.
Ho deciso, così, di dare spazio a chi è rimasto fino alla fine della propria carriera lavorativa chiedendo a loro: Come si fa a “rimanere”?
Donatella ha prestato servizio in ematologia e negli ultimi anni in onco-ematologia sede di Ferrara quando le due specialità si sono unite.
Quando le faccio la domanda rimane perplessa. Mi dice che a volte le è stato chiesto perché avesse scelto questa professione, ma per la prima volta qualcuno le chiede perché si rimane nella professione.
Donatella alza gli occhi quasi per cercare una risposta più in alto rispetto alla mia figura. Si tocca il mento e poi mi guarda dicendomi: “Fare l’infermiera non è come fare un altro lavoro. Non è sempre facile. Sono rimasta per i sorrisi, i pianti, le carezze delle persone che ho incontrato durante il mio percorso lavorativo.
Alcuni di loro li vedo ancora, quando vado a fare la spesa, faccio una passeggiata in centro o mi capita magari di andare a fare una visita.
Ho tifato per i pazienti che ho incontrato nel tentativo di raggiungere il traguardo della guarigione e quando questo non è stato possibile abbiamo deposto insieme le armi tendendoci per mano o guardandoci negli occhi.
Ci vuole il coraggio da parte di entrambi. Non lo si può fare se non te la senti”.
Dorina Adelaide è un’infermiera che ha lavorato in altre realtà prima di approdare in radioterapia. Una volta terminata la sua carriera lavorativa ha deciso di laurearsi in psicologia ed oggi, come volontaria, sostiene i pazienti e i loro famigliari in un punto d’ascolto presso la Radioterapia Oncologica di Ferrara.
Il colloquio con lei non è una tappa obbligatoria per chi affronta il percorso di cure radioterapiche, è riservato solamente a chi lo desidera.
La stessa domanda la faccio a Dorina. Rosicchia un’unghia, quasi cercasse un pensiero lontano – “Cosa mi ha fatto rimanere? La passione per il mio lavoro, la volontà di esserci per l’altro che ha bisogno e se lo ascolti ti orienta anche quando pensi di aver perso, anche solo per un istante la “bussola” per essergli d’aiuto.
Dal momento in cui ho iniziato a lavorare con utenti di radioterapia ho capito l’enorme ricchezza emotiva che mi trasmetteva il paziente oncologico raccontandomi il suo dolore, non tanto fisico che sicuramente avrebbe trovato soluzione, ma emotivo.
E’ il dolore che non puoi raccontare o non vuoi raccontare a nessun’altro se non a te stesso o a pochi altri.
Ecco perché ho pensato di aprire un punto di ascolto”.
La sera prima di mettermi a letto ripenso a tutti gli infermieri/e che sono rimasti, che non hanno teorizzato sulla professione, l’hanno vissuta. Ci hanno messo mente, forza fisica, cuore, anima.
Prendo in mano un libro che mi ha regalato anni fa un’oncologa. Non l’ho mai prestato per timore non mi fosse più restituito. Ogni tanto ne leggo alcune parti. Una di queste lo riporto qui.

C’era una grande forza che univa fra loro gli uomini di buona volontà e i sofferenti, una grande catena di affetto, di solidarietà d’amore… Per quella forza universale, ogni uomo che combatteva il dolore e la paura della morte era simile a quelle piccole formidabili cose di ogni giorno che noi sapiens sapiens ci perdiamo o non apprezziamo perché non abbiamo tempo e testa per farlo.
Tratto da L’albero dei mille anni di Pietro Calabrese.

“COMICHE” IN OSPEDALE TRA CELATI, GOFFMAN E ASTERIX

 

Ogni volta che purtroppo ho a che fare con gli ospedali, il pronto soccorso, la sanità pubblica penso queste cose:

1) che se sento ancora qualcuno che sostiene o agisce affinché si taglino ulteriori fondi ai servizi pubblici (sanità, istruzione, trasporti, informazione) perché “così paghiamo meno tasse” o “perché abbiamo un debito enorme”….Ecco, se lo sento ancora, non rispondo delle mie azioni;

2) che Non c‘è più paradiso di Gianni Celati è un racconto visionario e decisivo, dove si dice tutto ciò che conta, tutto l’essenziale, sia sugli ospedali che sulla società contemporanea. Leggetelo, è bellissimo. Lo trovate nella raccolta Cinema naturale (Feltrinelli, 2001, libro vincitore del premio Chiara di quell’anno);

3) che per chi dice che chi lavora nel pubblico è un fannullone i casi sono due: o non ha mai avuto a che fare seriamente né con la sanità (beato lui!), né con la scuola (poveretto!), oppure è un farabutto in malafede. Oppure ancora sta scherzando, ma sono scherzi di merda.

Ah, a proposito, mentre sono in ospedale, al pronto soccorso, mi giunge la conferma che Calenda&Renzi candideranno Letizia Moratti presidente della regione Lombardia. Letizia. Moratti. Sì, proprio la principale responsabile della distruzione della scuola pubblica, durante i governi Berlusconi, con la controriforma della scuola che porta il suo nome, con i suoi tagli radicali.

Avevano già fatto abbastanza per meritarsi il nostro (o almeno il mio, ma so di non essere solo) disprezzo politico, Calenda e Renzi, ma ogni giorno ci danno nuove occasioni per confermare questo brutto sentimento nei loro confronti, che ci piacerebbe tanto poter evitare.

Se poi si resta un po’ di più al pronto soccorso, ovvero come minimo le canoniche 5-6 ore per un codice azzurro, cioè mediamente critico, il libro di Celati da leggere assolutamente diventa un altro: Comiche (Einaudi, 1971, ma recentemente ripubblicato da Quodlibet per la cura di Nunzia Palmieri).

Stando qui, in ospedale, sembra di stare nel libro: gente che farnetica, scene comiche e tragiche, malati in barella che urlano ad altri malati deambulanti “cosa giri?!”, altri malati che imprecano e bestemmiano contro l’Italia e contro medici e infermieri, colpevoli di non avergli assegnato un secondo loro meritatissimo codice arancione…

L’ospedale così si trasforma, come nel libro di Gianni Celati, in un manicomio. Sono entrambe, del resto, istituzioni concentrazionarie, istituzioni totali, come le chiamava Erving Goffman.

Aggiornamento delle 14.09.
Ancora al pronto soccorso, entrato alle 9 per dei banalissimi (ma urgenti) raggi.
In questo momento, una paziente molto anziana e male in arnese, ferma da sola sulla lettiga, urla a squarciagola, di continuo, parlando da sola e autorispondendosi, simulando un tripudio di voci, tutte nella sua testa, dunque apparentemente sragionando (ma a me pare invece piuttosto lucida nei contenuti che esprime):
“Carlaaaaa! Dove sei? Carla vieni qua che ti voglio vedere. E poi: Danielaaaaa! Non c’è!!!!! Vieni qua che andiamo via. Voi non andate via. Io voglio andare a casa mia. E poi: “basta, spegnete le luci”. E ancora: “Milvaaaaaaaa!!!!! Carlaaaaa! Mi tiri via quella roba lì? Carla mi porti a casa? Ho paura. Vienimi a prendere. Signoraaaaaa! Mammaaaaaa!!!!”

Mi sento sempre più dentro Comiche di Gianni Celati e mi chiedo quando mi lasceranno finalmente uscire dal libro (che amo, per carità, ma essere diventato uno dei personaggi mi sembra troppo). Oltretutto, ricordo che il regista Memè Perlini aveva chiesto una volta a Gianni di farne un film, che poi non si è mai fatto, ecco ora, che surreale onore, lo sto vivendo dal vivo, come una comparsa di quel lungometraggio mai girato (e che sarebbe ora di girare, cari registi di tutto il mondo in ascolto!).

Aggiornamento del giorno dopo alle 11.03
Rilasciato – come un ostaggio – dal pronto soccorso alle 17 di ieri (entrato alle 9 di mattina, come dicevo, per dei raggi).
Tornato a casa. Rientrato in ospedale oggi su richiesta del pronto soccorso per ulteriore visita di controllo, il settore è 1E0, ambulatorio 5. Mi dicono di andare all’entrata 1.
Chiedo in portineria come raggiungere l’ambulatorio in questione e le indicazioni sono le seguenti: ascensore fino al primo piano, arrivare al corridoio con la lettera E, riprendere l’ascensore per arrivare al piano terra.
Faccio così e mi rendo conto che dall’entrata 2, cioè dallo stesso piano della portineria, sarebbe stato sufficiente girare a sinistra e mi sarei risparmiato questo girotondo, arrivando perfettamente e rapidamente al settore giusto.
Arrivato comunque, anche se così tortuosamente, al settore indicato, vado all’ambulatorio 5, come scritto sulla mia prenotazione e come detto dal medico del pronto soccorso.
La dottoressa dell’ambulatorio 5 mi dice: no, deve andare all’ambulatorio 8. Ora non è più Celati, è Goscinny-Uderzo, Le dodici fatiche di Asterix, quel pezzo sul lasciapassare A-38 in cui i nostri eroi, Asterix e Obelix sfidano la burocrazia romana.

Eccoci qui. (To be continued…anche se spero di no!)

Aggiornamento del 12 novembre 2022, tre giorni dopo le avventure appena narrate.
Il presidente della regione Emilia Romagna e prossimo probabile candidato alla segreteria nazionale del Partito Democratico ha rilasciato una dichiarazione alla Nuova Ferrara in cui promette mai più attese così lunghe al pronto soccorso.

La sua credibilità è, però, nulla, perché il 18 gennaio 2020 aveva già promesso (sul Corriere/Bologna) questo:
“Sui pronto soccorso «serve una svolta sui tempi» che dovranno essere contenuti («massimo 6 ore fra l’arrivo, l’eventuale ricovero o il ritorno a casa»). «Inoltre cambieremo i codici e assumeremo nuovo personale e realizzeremo spazi in cui è più garantita la privacy. Lavorare nel sistema dell’emergenza-urgenza è uno dei lavori più usuranti, serve un sistema di premialità, ne parlerò con il ministro Speranza ma come Regione siamo pronti a mettere dei fondi nostri».”

POST SCRIPTUM
Ci tengo a ringraziare sentitamente tutti le/i mediche/medici, gli/le infermieri/e, gli/le OSS che ho conosciuto in questa 24 ore. Sono bravissime/i e fanno i miracoli, in una situazione di sovraccarico e stress lavorativo che è un grande scandalo italiano che dovrebbe essere quotidianamente al centro del dibattito pubblico e dei ragionamenti di qualsiasi governo, in modo da produrre immediati investimenti e risultati significativi e invece non lo è.

Quello che ho scritto accade in Emilia Romagna, regione notoriamente all’avanguardia sui servizi pubblici, quindi non oso immaginare cosa succeda quotidianamente in altre regioni italiane (vale a dire: lo immagino e credo di saperlo, purtroppo). Servono investimenti, ingenti e urgenti, nei servizi pubblici: sanità, scuola, trasporti, informazione.

Il governo Meloni lo farà? Dubito. È un governo di destra e gli investimenti nel settore pubblico non sono, storicamente, nelle corde della destra.
Ci vuole un governo di sinistra, peccato che la sinistra, che in Italia esiste e potrebbe anche essere maggioritaria, non abbia però alcuna rappresentanza politica credibile. Almeno per ora.

(To be continued anche questo, per fortuna!)

“Pace, guerra, transizioni. Le prospettive della sinistra”: un intervento dal convegno organizzato da www.luciomagri.eu

di  Simone Oggionni

Quello che segue è il testo dell’intervento che ho svolto al convegno organizzato insieme a Luciana Castellina, Famiano Crucianelli, Mattia Gambilonghi, Filippo Maone, Massimo Serafini e Vincenzo Vita a Rimini, il 29 e 30 ottobre, dal titolo: “Pace, guerra, transizioni. Le prospettive della sinistra”. Sul sito di radio radicale si possono trovare i video dell’intera due giorni.

Come diceva Lenin, «ci sono decenni in cui non accade nulla e settimane in cui accadono decenni».

Quest’oggi il Financial Times pubblica un articolo di Adam Tooze, analista e storico della Columbia University, con un titolo suggestivo, che spiega precisamente le settimane che stiamo vivendo: «Benvenuti nel mondo delle poli-crisi (delle crisi multiple)».  Mi stimola mettere in rapporto Lenin e Tooze, per alcune ragioni che a me paiono molto evidenti.

Parlo per esempio, per fare davvero soltanto degli esempi, di quattro cose.

La prima. Due giorni fa Putin, intervenendo al Valdai Discussion Club, che è un think tank molto legato al governo russo, ha affermato non a caso che «il mondo sta entrando nel suo decennio più pericoloso, imprevedibile e importante dalla fine della seconda guerra mondiale». Pericoloso, imprevedibile e importante, dice il presidente russo a un passo dal conflitto nucleare, sostenendo — e anche questa affermazione va sottolineata in rosso —  che non userà l’atomica e che l’unico Paese al mondo ad avere usato nella storia armi nucleari contro uno Stato non nucleare sono gli Stati Uniti d’America.

Nello stesso intervento Putin ha ribadito la necessità di un nuovo ordine mondiale, di un multipolarismo che abbia come centri l’Asia (attenzione: ha citato l’Asia, non  la Cina), i Paesi islamici, le monarchie del Golfo.

Seconda cosa. Settimana scorsa si è svolto il congresso del PCC, di cui in Italia non si è parlato, se non per la questione Taiwan o per qualche gossip laterale legato a Xi Jinping. È stato invece un congresso straordinariamente importante, l’evento politico più rilevante degli ultimi cinque anni in uno dei Paesi cruciali della scena del mondo. A me ha fatto riflettere una delle code del congresso, l’assemblea del Comitato per le relazioni Usa-Cina, un vecchio organismo creato sessant’anni fa e animato da grandi industriali e boiardi di Stato. Xi Jinping ha inviato una lettera al Comitato dai toni molto distensivi, proponendo a Biden «più strette comunicazioni e collaborazioni tra Cina e Stati Uniti» allo scopo di «aumentare la stabilità e la certezza globali per promuovere la pace e lo sviluppo del mondo».

Ed è (terza cosa) una risposta, così possiamo leggerla, al primo incontro tra Biden e il nuovo premier britannico Sunak nel quale al contrario sono state poste al centro delle strategie anglo-americane le «pericolose sfide poste dalla Cina» sul piano economico, commerciale, energetico e tecnologico.

Infine, a proposito di Cina, ancora settimana scorsa il Consiglio Europeo ha ribadito di avere messo in agenda una revisione complessiva dei rapporti europei con la Cina. L’impressione è che la Via della Seta concepita soltanto tre anni fa con il coinvolgimento di 16 paesi europei si sta trasformando in un vicolo cieco. Per l’anno prossimo è atteso un provvedimento per ridurre l’acquisto dalla Cina di materie prime ritenute cruciali, dopo che nel febbraio scorso era stato varato un piano  europeo — e non mi pare casuale — per aumentare la produzione di microprocessori.

Che cosa ci dicono queste quattro cose, apparentemente non collegate?

Che la Russia è impantanata in una guerra che immaginava rapida e tutto sommato indolore ma che la sta invece concretamente esponendo al rischio di un isolamento e soprattutto al rischio di un allentamento dei rapporti con la Cina.

Che la Cina, saggiamente, vuole mantenere un profilo di autonomia, tiene i rapporti con la Russia, non si presta a toni bellicistici, ovviamente, ma vuole ricostruire direttamente con gli Stati Uniti un nuovo equilibrio, perché non può non temere — e allo stesso tempo vi si prepara — uno scenario di scontro militare per l’egemonia mondiale. Che gli Stati Uniti stanno cogliendo l’opportunità della guerra ucraina per accrescere il proprio potere (commerciale: basti vedere le opportunità che si sono create sul terreno della vendita del gas naturale liquefatto all’Europa; e militare: da un ulteriore, e definitivo, allargamento della NATO alla guerra combattuta per procura con l’obiettivo appunto di contenere e respingere la Russia). E che infine l’Europa è il vero anello debole dello scacchiere mondiale.

E allora torno all’articolo di Adam Tooze, che a un certo punto scrive: «negli anni Settanta, sia che tu fossi un euro-comunista, o un ecologista o un incallito conservatore, potevi attribuire le tue preoccupazioni a una singola causa: il capitalismo, una crescita economica eccessiva o troppo debole, un eccesso di indebitamento. Ora non è più così».

Coglie nel segno. Oggi non esiste una causa unica, non esiste una crisi unica.

Non solo perché al crocevia dei problemi che ho elencato si somma e si interseca la gigantesca dimensione della crisi ambientale, su cui non mi dilungo. Non solo per la abnorme dimensione della nuova crisi sociale.
Cito solo due dati: 10 miliardi di euro profitti netti realizzati da Eni nei primi nove mesi del 2022 con un aumento del 311%; e una dinamica dei prezzi superiore di 6,6 punti percentuali rispetto a quella salariale con più della metà dei lavoratori dipendenti italiani in attesa del rinnovo di un contratto nazionale scaduto.

Ma anche perché esiste un elemento nuovo, che riguarda il capitalismo e anche la guerra, che a me pare emerga con enorme evidenza (un’evidenza paradigmatica) nella vicenda che riguarda Elon Musk.

Musk lo conosciamo tutti: è l’uomo più ricco del mondo, con un patrimonio di 232 miliardi di dollari, amministratore delegato di Tesla, fresco proprietario anche di Twitter. Negli ultimi otto mesi ha fatto due cose che ci interessano da vicino sul terreno della guerra.

A febbraio ha assicurato l’invio in Ucraina dei terminali internet Starlink della sua azienda Space X, garantendo le comunicazioni militari e civili in Ucraina, le sue risorse di connettività satellitare, dando informazioni anche sull’avanzata russa, dopo che ovviamente come primo gesto offensivo l’esercito russo aveva messo fuori uso le linee telefoniche e telematiche ordinarie ucraine.

Ai primi di ottobre, quindi poche settimane fa, ha invece interrotto il servizio, chiedendo al governo statunitense di farsene carico, e ha proposto, sempre via twitter, un vero e proprio piano di pace, per nulla peregrino: riconoscimento della Crimea russa, garanzia del rifornimento idrico costante alla Crimea, neutralità militare dell’Ucraina (dunque fuori dalla Nato), e un nuovo referendum per le province russofone dell’Est.
Ancora meno peregrina è la postilla con cui ha accompagnato la proposta: «è altamente probabile — dice Musk — che il risultato sarà questo, si tratta di capire quanti morti servono ancora prima che si realizzi».

Perché ho parlato di Musk? Perché il destino del conflitto tra Russia e Ucraina è nelle mani, tra gli altri, di un uomo che non è alla guida di uno Stato ma di un’azienda tecnologica privata, anzi di un vero e proprio impero.
Ed è una storia che racconta meglio di qualsiasi altra la realtà del capitalismo tecno-finanziario, di quella che qualcuno ha iniziato a definire il «colonialismo digitale» e che, ben oltre Musk, si fonda su poteri big tech che ormai sovrastano i poteri pubblici delle istituzioni democratiche.

Concludo con qualche stimolo.

Il primo. Non esiste un’idea alternativa di un modello di sviluppo possibile senza fare i conti con gli algoritmi e l’intelligenza artificiale. Cioè con il tema della loro proprietà, oggi nelle mani di una manciata di soggetti privati e che noi dovremmo pretendere di ricondurre a poteri pubblici democratici. E non esiste questa idea alternativa senza fare i conti con il tema, sempre più impellente, della rivendicazione dell’umano e della sua dignità contro lo strapotere delle macchine.

Secondo. Non esiste un’idea alternativa di un modello di sviluppo possibile senza fare i conti con la crisi ambientale, che ha acquisito una radicalità e un’impellenza oggettive, che ormai ogni persona intellettualmente onesta riconosce.

A queste evidenze noi dobbiamo aggiungere il fatto che non esiste un’idea alternativa di un modello di sviluppo possibile senza un orizzonte socialista, cioè fuori dall’idea di una società egualitaria, che affronti il nodo dei rapporti di produzione e che definisca un modello di democrazia più profonda, consiliare, che riconsegni potere e protagonismo ai lavoratori e ai cittadini.

E qual è il livello minimo a cui collocare queste idee? L’Europa. Non ho alcun dubbio. E non è impossibile. Perché è vero che siamo parte integrante del problema, del sistema e del modello che non funziona, ma anche i liberali hanno un istinto di sopravvivenza e di auto-conservazione che dal nostro punto di vista è importante.

Lo dimostrano per esempio le dichiarazioni di qualche giorno fa di Bruno La Maire, Ministro dell’Economia francese, che ha detto a chiare lettere che «il conflitto in Ucraina non deve sfociare nella dominazione economica americana e nell’indebolimento dell’UE. Non possiamo accettare che il nostro partner americano ci venda il suo GNL a un prezzo quattro volte superiore a quello al quale vende agli industriali americani». Giusto per mettere le cose in chiaro.

L’Europa potrebbe allora, e dovrebbe, fare sentire la propria voce.
Rivendicando una politica industriale autonoma, un piano energetico comune e un protagonismo nel processo di pace, che passi dall’idea banale che il compromesso, il negoziato e la pace sono alternativi alla prosecuzione della guerra.
Per farlo occorre mettere in soffitta l’atlantismo. Lasciatemelo dire nella maniera più netta possibile: va di moda rivendicare atlantismo. Più che una moda: è il lasciapassare che consente l’accesso ai luoghi che contano, la patente necessaria per governare e per essere considerati credibili. Io mi rifiuto invece di pensare che l’atlantismo debba essere il destino dell’Europa o quello della sinistra europea. La guerra fredda è finita, anche per loro.

Vedete, non ho parlato del risultato delle elezioni, malgrado mi siano chiare le responsabilità e le insufficienze di tutti e di ciascuno.

Mi limito a dire che non vedo nei gruppi dirigenti della sinistra italiana, nelle sue diverse componenti, una consapevolezza storica che sarebbe invece necessaria. Che occorre ripartire da una cultura politica e da una analisi, e non da suggestioni elettorali o contingenti, tutte piegate sulla tattica e sul presente.
E che occorre farlo valorizzando e mettendo in rete quello che c’è e che si muove e scommettendo su quello che potrebbe essere. Occorrerebbe unire e rafforzare con coerenza una identità, una visione, un punto di vista. E poi decidere dove collocarla, in quale processo politico reale.

In autonomia, con la nostra autonomia, ma immersi dentro i rapporti di massa, dentro i luoghi nei quali già esiste una massa critica sufficiente. Questo è probabilmente il nostro compito, delle prossime settimane e dunque dei prossimi decenni.

Dal Convegno “Pace, guerra, transizioni. Le prospettive della sinistra”  registrato a Rimini il 29 e il 30 ottobre 2022.

L’evento è stato organizzato da www.luciomagri.eu.

Sono intervenuti: Famiano Crucianelli (medico), Francesca Mattei (assessore al Patto per il Clima e il Lavoro, Agricoltura e Giovani del Comune di Rimini), Isabella Paolucci (segretaria di Rimini, Confederazione Generale Italiana del Lavoro), Luciana Castellina (giornalista e scrittrice), Leonardo Casalino (professore), Vincenzo Vita (presidente dell’Associazione per il Rinnovamento della Sinistra), Simone Oggionni (responsabile nazionale Cultura di Articolo Uno – Movimento Democratico e Progressista), Gianni Melilla, Francesco Riommi (coordinatore nazionale dell’Unione Giovani di Sinistra), Maurizio Marcelli (sindacalista), Alfonso Gianni (direttore della Fondazione Cercare Ancora), Michele Zacchi, Lidia Campagnano (giornalista), Antonio Lensi, Fausto Gentili, Luigi Garettoni, Edoardo Turi (medico).
https://www.radioradicale.it/scheda/681676/pace-guerra-transizioni-le-prospettive-della-sinistra-prima-giornata

Simone Oggionni è responsabile nazionale cultura di Articolo Uno, dopo essere stato per diversi anni Segretario nazionale dei Giovani Comunisti. Laureato in storia, è autore di saggi per diverse riviste e di libri, pubblicati con Mimesis.

Cover: Lucio Magri con Luciana Castellina (foto tratta da www.collettiva.it, testata online della Cgil) 

Fantasmi /
Baher

l vecchio aprì la gabbia dei conigli e ne tirò fuori uno. L’animale tremava, e anche gli altri si addossavano alla parete in fondo, emettendo brevi grida stridule, presagendo di morire.

Lui sospirò – in fondo gli dispiaceva, ma doveva pur campare vendendo conigli e galline – e con un colpo secco alla testa uccise la bestiola. Poi attaccò il corpo al muro e cominciò a togliere la pelliccia.
“Allora, Fonso – disse Giacinto, che lo stava osservando in attesa di portar via il coniglio scuoiato – come state?”. “Mah – rispose il vecchio – cosa volete, sempre così, si tira avanti. Né male né bene. Solo gran fastidi dell’artrite. Sarà tutta l’acqua che ho preso a pascolare lassù in alto”. “E con i vostri animali, come la va?” aggiunse curioso Cinto. “Si campa e basta. Tiro su un po’ di più di quel che spendo: ghiribizzi non ne ho, basta il mangiare, la legna per scaldarmi, quel che serve per le bestie, un po’ d’attrezzi e i panni di ricambio che mi metto addosso” rispose Fonso. “Sono anziano e faccio con poco”.

Intanto il coniglio era già pronto per Cinto. “Prendete anche una dozzina di uova – gli disse Fonso – che sono fresche”. L’altro accettò l’offerta e pagò, poi i due bevvero un bicchiere di vino e si salutarono.
L’auto di Cinto, una vecchia Panda, sparì dal sentiero della collina. Fonso si asciugò il sudore – gli succedeva sempre di sudare, quando uccideva un coniglio o una gallina, col maiale poi non ne parliamo – e si sedette sulla panca davanti alla vecchia casa. Le nuvole correvano nel cielo, stava calando la sera. Le montagne erano giganti azzurri nell’aria viola. Le ombre stavano diventando lunghe, c’era una grande pace.

Era l’ora preferita da Fonso: quella in cui uno si sentiva più sé stesso, ma anche più solo. Sua moglie era morta anni prima, non avevano figli. Lui aveva risposto mille volte di no agli inviti del sindaco che voleva si ricoverasse nella casa di riposo per essere accudito. Si sentiva ancora in grado di badare a sé stesso e a vivere del poco che aveva: l’orto dietro casa, gli animali, una modesta pensione da cantoniere comunale. Quello che pesava davvero era la solitudine. Aveva pochi amici; uno di questi era il parroco, don Pietro, un poco più giovane di lui, con il quale aveva grandi discussioni, molto serene, e giocava tante partite a dama.

Fonso si riscosse, era ora di cena. Diede da mangiare ai conigli e chiuse le gabbie. Le galline erano già nel pollaio. Entrò in casa e si lavò le mani col sapone nel piccolo bagno che si era costruito qualche anno prima. Poi si sedette e tirò fuori un paio d’uova sode, la bottiglia del vino, un pezzetto di salame e una pagnotta. Mangiò lentamente nel silenzio, con gli occhi fissi alla finestra, dove il cielo diventava nero e si riempiva di stelle. Sulle colline si accesero molti puntini luminosi: erano le lucciole, amate compagne della sera. Dopo un po’ di tempo andò a coricarsi.

*  *  *

L’indomani Fonso scese in paese in auto a riscuotere la pensione e per qualche acquisto. Vide che nella piazza c’erano le giostre: era tempo di Carnevale. Si strinse nelle spalle: ricordò quando, da bambino, sua madre lo accompagnava a vedere le maschere e tornavano a casa con un pezzetto di torrone e qualche caramella. Ne mangiava una alla volta, adagio, per farle durare, il torrone lo assaporava a briciole.
Salutò qualche faccia nota e passò all’osteria per bere un bicchiere di vino e chiacchierare una mezz’ora. Entrò e si avvicinò al bancone. Mentre aspettava il vino, udì la conversazione di due paesani che raccontavano un fatto accaduto la sera precedente: sulla collina vicina a quella dove lui abitava, era stato notato qualcuno che si aggirava intorno ad una casa di contadini. Una donna che stava raccogliendo il bucato se ne era accorta e aveva gridato: la creatura era fuggita, sparendo nei boschi.

Tornò a casa facendosi molte domande. Chi si nascondeva sulle colline? Che cosa cercava? Era un uomo o una donna? Era già successo che degli estranei arrivassero improvvisamente nelle case lì intorno, ma si trattava di nomadi. Il pensiero dello sconosciuto – o della sconosciuta – lo accompagnò per alcuni giorni: certe sere gli pareva che lo spiasse, nascosto nella faggeta che sovrastava la sua casa.

Finché una notte, nel dormiveglia, sentì dei rumori che provenivano dalla legnaia. Si ricordò di aver lasciato il portone soltanto accostato. Si alzò, indossò il giaccone, afferrò la doppietta e la caricò, poi uscì all’aperto. Nel chiarore della luce lunare che inondava il cortile, vide una forma umana in piedi vicino alla legnaia. “Chi sei? vieni avanti con le mani in alto “ proferì ad alta voce. La forma uscì dal cono d’ombra e si rivelò: era un ragazzino, magrissimo e spaventato, che teneva le braccia sopra la testa. Fonso si avvicinò e vide che tremava violentemente. Abbassò il fucile e per qualche minuto i due stettero immobili a guardarsi. Poi il vecchio parlò. “Chi sei? Cosa cerchi?”. “Fame” rispose l’altro. “Fame. Io non mangiato. Tu mi dai pane?”.

Fonso non ci mise molto ad agire. “Vieni dentro” disse. E si avviò in casa, col ragazzo dietro. Entrarono in cucina e il vecchio mise sulla tavola pane, formaggio, vino e qualche fetta di prosciutto. Il ragazzino mangiò avidamente. “Piano, piano – disse Fonso – se no ti fa male. Piano”. Terminato il pasto, l’ospite inatteso guardò fisso Fonso, che gli domandò: “Come ti chiami? Da dove vieni”. “Io Baher, vengo da Afghanistan. Padre e madre morti, un fratello non so dove sta ora” rispose il ragazzo, che ricominciò a tremare. Indossava vestiti laceri, di stoffa leggera. “Senti – gli disse Fonso – adesso ti scaldo l’acqua e fai un bagno, dopo puoi dormire sul divano in cucina, vicino al fuoco. Domattina guardiamo cosa si può fare”. Aspettò che il ragazzo si lavasse, poi gli diede un pigiama di flanella, una coperta pesante e lo sistemò sul divano. Baher si addormentò quasi subito.

Fonso andò a letto, ma per un bel pezzo non chiuse occhio. Il sonno arrivò, pesante, verso la mattina. Quando si svegliò, il vecchio andò subito in cucina ma Baher non c’era più. Se n’era andato con i suoi vestiti laceri, indossando anche il pigiama. Con lui erano spariti pochi soldi che erano sulla credenza.

*  *  *

Passarono alcuni mesi e poco a poco Fonso dimenticò il ragazzo. All’istante c’era rimasto male, ma poi aveva pensato ai disgraziati che per fuggire dai posti dove erano nati attraversavano il mare e terre straniere, e che morivano annegati. Li vedeva nella vecchia televisione che accendeva qualche volta. Baher era solo al mondo e per sopravvivere aveva anche rubato. Ma non poteva essere cattivo, così giovane. Ecco – aveva pensato Fonso – bisogna distinguere i buoni dai cattivi, sempre. I buoni vanno aiutati, i cattivi no.
Un pomeriggio d’autunno, mentre spaccava della legna nel cortile, udì un rumore, come quello che fanno gli animali quando si muovono nel bosco. E se lo vide improvvisamente davanti. Era ancor più magro della volta precedente, malvestito e smunto.

Baher si avvicinò e s’inginocchiò davanti a Fonso. “Perdona se ho rubato… perdona” disse. E si mise a piangere, tremando. Il vecchio lo aiutò ad alzarsi: era leggero, leggero. Guardò il ragazzo in faccia, a lungo. Poi, con un sospiro, lo fece entrare in casa. Era ora di cena e mangiarono insieme. Poi Fonso disse, come l’altra volta: “Fai il bagno, e poi dormi sul divano. Ma stavolta non fuggirai, vero? Domani andremo da don Pietro per vedere se ti può tenere in canonica. Altrimenti puoi restare qui. Potrai andare a scuola e studiare, trovare un lavoro. Ti aiuterò. Vuoi?”. “Sì”, rispose Baher. “Io resto. Non scappo più”.

Racconto inedito, proprietà dell’autore

In copertina: Hussein, il bambino profugo che legge tra la spazzatura – immagine tratta da Avvenire.it : “Hussein legge. Legge nonostante tutto. Nonostante la guerra, la violenza, la sporcizia di questo mondo. E la sua immagine di piccolo rifugiato, così forte, in un cassonetto, con in mano un libro, ha saputo conquistare tutti. Hussein ha 10 anni è un profugo siriano e sta insegnando con pura inconsapevolezza la speranza e l’intimità, la compagnia e la forza che può offrire un libro in qualsiasi circostanza sotto qualsiasi latitudine.”.

Germogli /
Paperon de’ Piantedosi

 

E così la nave Ocean Viking sbarcherà a Tolone facendo scendere tutti i migranti. Il ministro Piantedosi aveva vietato lo sbarco della stessa nave nel porto di Catania, per un “carico residuale” di esseri umani definito “non vulnerabile”. Quindi raus, fuori, “sciò”, “tornate domani”, “proprietà privata”, “girate al largo”, “sparite!” come i cartelli affissi da zio Paperone ai cancelli di casa, per tenere alla larga dai suoi dollari la banda Bassotti e chiunque potesse increspare il suo ménage di avaro (ma, almeno lui, simpatico) misantropo.

“Non possiamo accoglierli tutti noi”. Giusto, se fosse vero. Matteo Villa, ricercatore per l’Istituto Studi di Politica Internazionale (nato, per ironia della sorte, nel 1934 ad opera di intellettuali di orientamento fascista), ha pubblicato alcuni dati dell’Alto Commissariato delle Nazioni Unite per i Rifugiati (Unhcr).

Numero dei rifugiati accolti da alcuni Stati europei nel 2021 in rapporto alla popolazione del paese ospitante: in Italia sono lo 0,2% della popolazione. Tra gli altri, in Francia sono lo 0,7%, in Germania l’1,5% e in Svezia il 2,3%. Peggio (o meglio, per qualcuno) di noi Ungheria e Polonia.

Ma è un dato dell’ultimo anno. Chissà lo storico dei richiedenti asilo in rapporto ai rifugiati.

Eccolo. Germania: 1,49mln di rifugiati, 232 mila richiedenti asilo. Francia: 543mila rifugiati, 82mila richiedenti asilo. UK: 223mila rifugiati, 83mila richiedenti asilo. Spagna: 219mila rifugiati, 91mila richiedenti asilo.  Italia: 191mila rifugiati, 53mila richiedenti asilo (sempre Unhcr).

Nel frattempo la Francia ha detto che l’accordo per la ricollocazione dei migranti sbarcati in Italia va disatteso, perchè l’Italia ha violato il diritto internazionale. Posizione furba e cinica. Però i numeri sono quelli sopra.

Grettézza s. f. [der. di gretto]. – Qualità, carattere di persona gretta, sia per ciò che riguarda lo spendere, sia (e più spesso) per ciò che concerne il modo di pensare e di giudicare, quindi piccineria, meschinità: gdi mented’animo.
(Treccani)

Cover: Zio Paperone, Milano, 14 dicembre 2007. Presentazione del nuovo Topolino (immagine su licenza Flickr)

Parole a capo
Isabella Bignozzi: “Trasparenze” e altre poesie

“Per il poeta, scrivere significa abbattere il muro dietro cui si nasconde qualcosa che è sempre stata lì.”
(Milan Kundera)

Da: Le stelle sopra Rabbah (Transeuropa 2021)

Margine

Considera l’attimo
l’aria che intaglia le cose
il profilo in ombra di una madre
considera l’acqua
le sue vie calcaree
le sue furie di sale
somiglia alla grazia
questo suo scavare gelido
molle di luce
dici
non c’è scampo allo splendore
ai feroci richiami del giorno
il dolore è margine di bellezza
e noi qui
nell’eterno nitore di settembre

Trasparenze

Notte di enigmi lucenti
alla finestra crateri
aria di pietra, sabbia rossa, maschere d’oro
tempo che traspare
connubio di vetro, il respiro trattenuto delle costellazioni
qui
l’odore di un buio d’edera.
Sul pianoforte un metronomo addormentato

Notturno

Il poeta del secolo non ha antologia
è un pazzo che biascica seduto all’angolo
sotto un lampione di nebbia al neon
che crede un ventre gravido di luna

Da Memorie fluviali (MC edizioni 2022, collana Gli insetti, a cura di Pasquale Di Palmo)

Alba

Sanguina il gelso
nel pianto degli archi
un adagio in minore
suonato di taglio
si misura nel crollo
la premura d’amore
negli steli recisi
la morte che ha cura
balsamo miele
mio barbaro
mia nuda tra le dita
preghiera
e tu
candido altare
alba di vetro
che ogni cosa sai
del nuovo giorno
spezzami piano.

Al peso degli addii (poesia inedita)

Al peso degli addii
riservi la tua quiete, un albeggiare
scura il proseguire
ma tu non dire
le tue vele a chi non cade
col rosso agli occhi, nel disalbero
parlami di una porta socchiusa
idea che scivola, ipotenusa
che nega i perpendicoli della croce
una voce
che chiama, senza sera
attendimi in panne sotto la bufera
fermezza tua che rimane nella cura
dei perduti come fosse vera
tra queste case rotte una voliera
aperta, che fa tremare
di precisa primavera

Il pensiero di noi più accorto (poesia inedita)

Il pensiero di noi più accorto
vive nel buio d’alga di un lago
se sale distende un bagliore
ai segnati altipiani, guardiani
di chiuse serre al petto
dove fa equatore
quest’azzurra pena
dal pomeriggio scalzo
la città s’appende a una nube
è all’acqua, agli altari
il vederti attendere gli androni,
i tabelloni, portarmi pace
al meridiano astrale
raggio d’oro – tu – in una cattedrale

Isabella Bignozzi ha svolto a lungo attività clinica e di ricerca, ed è autore di comunicazioni scientifiche
di rilevanza internazionale. In ambito umanistico ha pubblicato racconti, prose artistiche, testi poetici,
saggi e contributi critici su varie riviste letterarie. Con alcuni suoi scritti è presente su «Inverso –
Giornale di poesia», «Poesia del nostro tempo», «Versante ripido», «Atelier poesia», «rivista
ClanDestino», «larosainpiu», «La foce e la sorgente», «Formicaleone», «Le parole di Fedro», «La poesia e
lo spirito», «Poetarum Silva», «NiedernGasse».
In poesia ha pubblicato Le stelle sopra Rabbah (Transeuropa 2021) e Memorie fluviali (MC edizioni, collana
Gli insetti, a cura di Pasquale di Palmo). Con la prosa inedita La notte è stata finalista alla 35^ edizione
del Premio Lorenzo Montano (2021), e con la poesia inedita Come madre alla 36^ edizione (2022). Con il
romanzo storico a memoriale Il segreto di Ippocrate, edito da La Lepre edizioni, è stata finalista al premio
Como 2020.
Scrive per «Pangea», cura la rubrica La parola dell’attuale su «Poesia del nostro tempo», e lo spazio web
«L’Astero rosso – luogo di attenzione e poesia».

La rubrica di poesia Parole a capo curata da Pier Luigi Guerrini esce regolarmente ogni giovedì mattina su periscopioPer leggere i numeri precedenti clicca [Qui]

Tutte le Ragioni per spostare dal Parco Bassani il concerto del Boss. E per portare a termine il progetto incompiuto del parco

 

Già a inizio luglio avevo scritto su Periscopio, quando erano passati pochi giorni dalla costituzione del comitato Save The Park, che aveva visto l’adesione di tanti cittadini assieme a numerose associazioni ambientaliste e animaliste ferraresi. Come ormai risaputo il comitato si oppone all’utilizzo del parco Bassani per il concerto di Bruce Springsteen, previsto per il 18 maggio del prossimo anno.

Per descrivere e argomentare le ragioni del no al concerto vorrei riprendere quanto scritto dall’allora presidente della sezione ferrarese di Italia Nostra, architetto Andrea Malacarne, e dal sottoscritto, e pubblicato sull’Annuario CDS 2002, riguardo il Parco Urbano di Ferrara, il cui progetto di tutela e valorizzazione redatto nel 1996, aveva previsto “una serie di opere, di grande semplicità, trattandosi di parco-campagna, necessarie a renderne semplicemente fruibile il territorio”[1].

Così scriveva nel suo articolo Malacarne, il quale proseguendo affermava che dall’anno di redazione diversi aspetti del progetto non avevano visto alcuna realizzazione, principalmente per il mancato e costante “flusso di finanziamenti che sarebbero richiesti ogni anno, e fino a completa realizzazione dello stesso, data l’importanza strategica del funzionamento del parco per la vita dell’intera città”.

Dal canto suo l’architetto Giulia Tettamanzi scrive, nel 2007, nella sua tesi di dottorato[2] che: “Il parco appartiene al sistema delle aree agricole e al sistema insediativo diffuso e le sue peculiarità derivano non tanto dalla presenza di emergenze naturalistiche, quanto piuttosto dall’essere un territorio sostanzialmente rimasto inedificato, a prevalente uso agricolo e a contatto fisico con la città storica”.

Si sta indicando, ovviamente, non solo, l’area pubblica intitolata nel 2003 a Giorgio Bassani, quanto l’intero territorio (vedi figura sotto) che, come già altre volte ricordato, si spinge dalle mura nord della città fino all’argine del Po, e all’interno del quale acquista senso lo spazio relativo al Parco Bassani assieme alle funzioni pensate per esso.

“Funzioni, afferma Tettamanzi, per le quali è mancato un progetto coordinatore che, soprattutto, proponesse chiari indirizzi quale luogo di interfaccia tra la città murata e la campagna coltivata, e che ha portato, per quasi vent’anni, a un uso del Parco non compatibile rispetto alle finalità con cui era stato ideato, e cioè “area di particolare interesse paesaggistico e ambientale”, come recita il Piano Paesistico Regionale.

Nell’Annuario CDS del 2002 [3] avevo sviluppato una serie di considerazioni legate all’accordo agro-ambientale previsto ai sensi del Piano Regionale di Sviluppo Rurale 2000-2006, che aveva individuato nell’area del Parco Urbano di Ferrara “una zona privilegiata per l’accesso a contributi” denominati misure 2h e 2f. Proposta poi approvata dal Consiglio Comunale nell’ottobre 2001 che obbligava gli uffici competenti ad individuare l’area problema per l’applicazione della misura 2h, quella finalizzata in particolare al rimboschimento dei terreni agricoli.

All’uscita del relativo bando nel marzo 2002, e individuata l’area, l’obiettivo fu individuato nella costituzione all’interno del Parco di un mosaico ecosistemico imperniato sulla formazione di quattro zone boscate in diversi punti del territorio considerato.

Questo, assieme ad altre iniziative e progetti mai attuati, stride con quel motivo di orgoglio di cui parlava Andrea Malacarne1 per il fatto di aver preservato 1200 ettari di territorio agricolo protetto a contatto diretto con il lato nord della cerchia muraria.

Dall’inizio del nuovo secolo più nulla è stato realizzato dei tanti progetti possibili per uno sviluppo dell’area, organico e aderente alle nuove esigenze che andavano manifestandosi nella società ferrarese, ma senza snaturarne le originali finalità naturalistiche e paesaggistiche. Giulia Tettamanzi parla di una “assoluta mancanza di un progetto di paesaggio”, a cominciare dall’interramento, previsto dal PRG di allora, della strada ad alto scorrimento (via Bacchelli), che costituisce una barriera e una “cesura paesaggistica”2 insormontabile tra l’area delle Mura e il Parco.

Stefano Lolli, a questo proposito, in un articolo del 2003 [4], rilevava che le tante idee e progetti scaturiti negli anni dall’istituzione del Parco richiedevano “un progetto operativo organico, ad esempio dando vita a una sorta di Autorità delle Mura e del Parco in grado di coordinare le azioni e gli investimenti, sia pubblici che privati“. Scelta che potrebbe risultare utile, continua Lolli, “anche per il comparto Sud della città – nell’amplissima zona tra l’attuale aeroporto, le aree agricole della Sammartina, il Po di Volano – dove si parla con insistenza di una destinazione a parco che leghi ambiente e attività produttive.”

Di tutto ciò si è persa anche memoria se si pensa come negli ultimi due decenni sia mancato qualsiasi tipo di riflessione sulla possibile evoluzione di questa ampia zona di territorio, mentre invece ne è stato fatto un uso assolutamente incoerente con l’iniziale progetto.

L’Addizione verde, il territorio agricolo che dalle Mura arriva al Po

E’ alla luce di queste considerazioni e di questi ragionamenti che assume un senso e una valenza ancor più rilevante la scelta della costituzione di un comitato per la salvaguardia del Parco Bassani che in realtà diventa strategico per la salvaguardia e lo sviluppo di tutto il territorio che si spinge fino al Po. E l’esistenza stessa e l’attività del comitato (che ha raccolto oltre 40.000 adesioni) potrebbe, a mio avviso, diventare occasione per riaffrontare questa tematica da troppi anni abbandonata.

Ancora una volta viene in aiuto quanto scritto dall’architetto Tettamanzi nella tesi di dottorato: “il nodo della questione rimane la difficoltà contingente di adattare in modo efficace i milleduecento ettari del Parco Nord di Ferrara ai modelli di vita attuali, prestando attenzione al fatto che un’operazione di valorizzazione e promozione non entri in contrasto con la sostenibilità della tutela, attraverso la proposizione di una nuova “funzione”.

La richiesta di non effettuare al Parco Bassani il previsto concerto e anche altri eventi simili nel prossimo futuro dovrebbe allora essere solo un inizio, un primo momento di una attività più articolata che prenda in considerazione l’intera area del Parco Urbano.

In questa direzione va una ulteriore iniziativa: la proposta avanzata da un gruppo di cittadini ferraresi, che in un mese ha raccolto circa 600 firme, perché il Consiglio Comunale discuta lo spostamento del concerto di Bruce Springsteen del 18 maggio 2023 dal Parco “Giorgio Bassani” in un’area idonea nella zona Sud della città.

Di seguito il testo della proposta di deliberazione

PROPOSTA DI DELIBERAZIONE

Oggetto: Spostamento concerto di Bruce Springsteen del 18 maggio 2023 dal Parco Urbano ” Giorgio Bassani” in un’area idonea nella zona Sud della città

IL CONSIGLIO COMUNALE
premesso che:

– l’Amministrazione Comunale è fortemente impegnata nell’organizzazione di un grande concerto con la partecipazione di Bruce Springsteen presso il Parco Urbano “Giorgio Bassani” per il 18 maggio 2023, ritenendolo idoneo per questo ed altri eventi simili che si potrebbero svolgere nella suddetta area;

– il Regolamento del Verde pubblico e privato del Comune di Ferrara, redatto nel 2013, nella Premessa riporta che: “Il verde urbano deve essere concepito come ‘valore aggiunto’ da tutelare, perché svolge importanti funzioni climatiche ed ecologiche, urbanistiche e sociali. Contribuisce al miglioramento della qualità urbana rivestendo anche un importante ruolo cii educazione ambientale. Il verde, inoltre, svolge funzioni essenziali per la salute pubblica contrastando l’inquinamento atmosferico, termico ed acustico”;

– sempre Io stesso Regolamento all’art.9, comma 7, sottolinea che nel periodo tra marzo e luglio la tutela dell’avifauna sia particolarmente delicata e che gli abbattimenti di essenze arboree vadano assolutamente evitati considerato che:

– il Parco Urbano Bassani è stato concepito e costruito, sin dalla sua progettazione, come un’opera di rinaturalizzazione di uno spazio cerniera tra l’area urbana, quella agricola e il fiume, con una vocazione che non si presta allo svolgimento di eventi con le caratteristiche di quello sopra previsto;

– la sede del concerto potrebbe essere compromessa seriamente, soprattutto in caso di maltempo, per quel che riguarda il manto erboso, la tutela igienico-ambientale degli specchi d’acqua e il rispetto della biodiversità della nicchia ecologica costituita dalla galleria vegetale arbustiva, formatasi negli anni lungo la massicciata dell’ex-ferrovia Ferrara-Copparo, come anche per quel che riguarda l’avifauna stanziale e stagionale che nidifica in loco;

– un ampio tratto delle Mura storiche patrimonio dell’UNESCO sarebbe potenzialmente e pericolosamente coinvolto nell’evento;

– una petizione on line organizzata dal comitato civico Save the Park, che chiede che il concerto venga spostato in altra sede, ha raggiunto circa 40.000 sottoscrizioni

IMPEGNA IL SINDACO E LA GIUNTA COMUNALE

– a comunicare pubblicamente lo stato dei rapporti, nonché gli eventuali impegni di carattere economico, tra l’Amministrazione Comunale e gli organizzatori del concerto previsto di Bruce Springsteen per il 18 maggio 2023

– a individuare nell’area Sud della città, e in particolare in quella di pertinenza del demanio statale, il luogo idoneo per io svolgimento di tale evento in data 18 maggio 2023 e procedere conseguentemente, anche mediante uno studio e un approfondimento apposito
– a sviluppare un nuovo Parco urbano nell’area suddetta, anche con la vocazione di tenere grandi eventi con caratteristiche simili a quello sopra descritto.

 

Note

[1] Italia Nostra e “l’addizione verde”, Andrea Malacarne, Annuario Socio Economico Ferrarese, 2002, Cds Edizioni, Ferrara
[2] Giulia Tettamanzi, “Il Parco Nord a Ferrara. Un progetto aperto”, Quaderni della Ri-Vista. Ricerche per la progettazione del paesaggio, Firenze, University Press, n. 4, vol. 1, 2007.
[3] Il Parco Urbano, Gian Gaetano Pinnavaia, Annuario Socio Economico Ferrarese, 2002, Cds Edizioni, Ferrara.
[4] Stefano Lolli, “Il Parco Bassani”, in “Ferrara, Voci di una città”, n. 19, 2003

Cover: Il flash mob al Parco Bassani organizzato l’ottobre scorso dal Comitato Save The Park

Elezioni Lombardia: Il Pd che schifa la Moratti fa un favore alla Destra e si candida a una solitaria sconfitta

(Milano 08.11.22) L’abiura della destra che ha fatto Letizia Moratti con motivazioni abbastanza convincenti, e la contemporanea auto candidatura alla presidenza della Regione Lombardia, è una doppia notizia interessante.
Un’opportunità che il gatto e la volpe della politica italiana, i due del terzo polo, non si sono fatta scappare.
È difficile sapere come andranno a finire le candidature finali. E più difficile ancora, ovviamente, prevedere l’esito elettorale. Di sicuro dopo oltre venti anni di egemonia leghista, per la prima volta la regione Lombardia è diventata contendibile. Certo, è una partita che va giocata bene. Con lucidità strategica e, se serve, anche
un po’ di spregiudicatezza.
Tutto quello che, ancora una volta, a giudicare dalle prime reazioni, il Pd non sembra avere.
Portatrice di un blocco sociale importante, non solo nel mondo economico e dei moderati più in generale, Letizia Moratti ha molto seguito anche in quello del volontariato. È sempre stata una donna di centro. Come tanti altri che hanno navigato più o meno a lungo nella destra, e poi sono approdati in vari modi al Pd. Basti pensare a Casini…. Quindi, fare tanto gli schizzinosi per rivendicare una purezza identitaria, magari in splendida solitudine, con un bel turno di inutili primarie, sembra un lusso che proprio, se vuole qualche chance di vittoria, il Pd non se lo può permettere.
Una candidatura Moratti su un programma progressista, concordato insieme a una squadra ben assortita, può avere tanti vantaggi politici.
Intanto aumenta di molto le possibilità di vittoria.
Poi consentirebbe al Pd di tornare, dopo oltre venti anni, al governo della più importante regione d’Italia.
Darebbe un altro colpo micidiale alla Lega e a Salvini.
Determinerebbe uno sconquasso nella maggioranza di governo. E da una regione di questa importanza, avrebbe un moltiplicatore di efficacia nella sua attività di opposizione al governo nazionale.
Eviterebbe la discutibile candidatura di Cottarelli, appena eletto al Senato.
E finalmente riuscirebbe, comunque, a fare un primo esperimento di campo largo con il terzo polo. Anche perché i 5 Stelle, ancora una volta, hanno anticipato un no sprezzante ad una alleanza con il Pd.
Insomma che vuol dire fare politica? Se vuole crescere, dove potrà prendere i voti se non da quelle aree da dove sono in uscita, come i moderati di centro destra, che rifiutano l’egemonia della destra estrema della Meloni. E con loro, perché no, anche gli esponenti più significativi che non si ritrovano più in quello schieramento. In una politica liquida in tempi di grandi e continui cambiamenti, niente di più normale che ci sia un riposizionamento degli esponenti politici.
I dirigenti locali e nazionali dei Dem, sembrano non capirlo. E mostrano invece una ferale tendenza all’auto compiacimento per la sconfitta. Un bel suicidio di testimonianza, da dare pressoché sicuro con un candidato di bandiera, vale ben più del più importante governo regionale.
Se questo è fare politica! io credo che valga sempre l’anatema di Nanni Moretti: “Con questi dirigenti non vincerete mai”. Auguri.

VITE DI CARTA /
“La Fortuna” di Valeria Parrella

 

Valeria Parrella [Qui] cammina assorta lungo le strade di Pompei. Il quotidiano per cui scrive l’ha mandata a visitare l’Antiquarium  chiuso al pubblico prima ancora di essere inaugurato a causa della pandemia da Covid 19.

Dunque si trova lì per lavoro, tuttavia la visita alla città prende a poco a poco un’altra piega. Il silenzio in cui sono immerse le strade le riporta alla memoria quando, nella sua infanzia, aspettava che la madre uscisse dal lavoro, dal suo ufficio situato proprio all’interno della zona archeologica, e intanto faceva un giro per Via dell’Abbondanza o raggiungeva il Foro.

È una sorta di agnizione ad afferrarla: la memoria a lungo sepolta di episodi dell’infanzia e insieme la memoria collettiva, perché Pompei assume ora questo significato, è ciò che siamo stati e siamo anche nel presente, travolti da un prodigio che non ha i tratti spettacolari di una eruzione vulcanica, ma ci stravolge, proprio perché è un virus ostile che non vediamo.

Di recente ho ascoltato su Youtube la versione dell’autrice sulla nascita di questo La Fortuna, uscito presso Feltrinelli nel maggio del 2022, che lei definisce il suo romanzo più autobiografico, nonostante sia ambientato a Pompei negli anni che precedono l’eruzione del Vesuvio e racconti a lungo lo straordinario prodigio cominciato il 24 agosto del 79 d.C.

La Fortuna è un romanzo su quanto si riesce a reggere la sorte… quanto vogliamo sfidare le Parche, sulla gioia di vivere però spenzolata sul tremendo”.

Sull’onda di questa affermazione ho riletto d’un fiato tutto il libro e ho ricostruito la vita di Lucio, il protagonista che è anche narratore in prima persona. Volevo ritrovare la sua biografia personale e al tempo stesso la coralità della vita di Pompei e  dell’Impero di Roma nel primo secolo dell’era cristiana.

Volevo anche fare sintesi della sua vita, impadronirmi del senso che anche lui ha capito di poterle assegnare nell’ora più buia, mentre era al comando della flotta entrata in mare durante l’eruzione e che ha salvato parte delle navi e degli equipaggi e tutti gli esseri umani all’intorno, fin dove possibile.

Lucio è nato in un giorno di terremoto, mentre la terra tremava; il nome è lo stesso di un caro amico del padre anche se per il bambino che cresce in città e sulla riva del mare, giocando con gli altri bambini, la luce arriva a metà.

Da un occhio Lucio non vede, ma questo non gli impedisce di studiare come gli altri e di nuotare senza stancarsi. Non gli impedisce di amare profondamente il mare e di maturare il grande desiderio della sua vita: vivere su una nave e governarla nella navigazione.

Per estrazione sociale Lucio a sedici anni deve lasciare la sua Pompei, per andare a studiare eloquenza e retorica alla scuola di Quintiliano [Qui] a Roma; nel suo destino c’è la carriera da senatore e lui si piega ad assecondare i piani del padre e a servire Roma.

Studia insieme a Secondo, suo coetaneo e nipote di Plinio il Vecchio e vive nella casa di Plinia, la sorella del grande naturalista. Conosce di persona l’Imperatore Tito ed è alla sua presenza che Plinio, durante una cena, lo spinge a svelare la sua vera grande passione, presente anche il padre:

guidare una nave…vivere una nave…curare le navi come mio padre cura le sue province e Cesare cura tutti noi”.

Lucio non si sente menomato per il fatto di vedere da un occhio solo, è vero infatti che “un limite è un limite solo se uno lo sente come un limite, sennò non è niente”, come gli dice prontamente Plinio.

Che aggiunge: ”Tuo padre deciderà per te. Però io sono circondato di persone che vogliono sempre più di quello che hanno e più di quello di cui cono capaci: cattivi amministratori, cattivi governanti, cattivi uomini. E mi commuove incontrare un giovane uomo che sa quello che vuole, e quello che vuole è meno di quello che potremmo offrirgli”.

Ora Lucio, che è vicino ai diciotto anni, è a Miseno presso la flotta e occupa la nave dell’amico Porzio, il cui nome è Fortuna; l’inizio della navigazione coincide con la festa della primavera, quando “il mondo torna a mettersi in movimento, le grandi onerarie tornano a riempirsi di carichi e l’acqua è di nuovo la strada su cui andare e venire”.

Quando in agosto si scatena l’eruzione del Vesuvio e il prodigio che viene dalla terra scuote aria e acqua, sulla stessa nave Lucio affronta il mare ed è come entrare nella notte.

E quando Plinio, l’amato ammiraglio, dopo ore sotto una grandine di cenere decide di lasciare la Fortuna per raggiungere Stabia, il comando della flotta e l’incarico di scrivere il diario dell’impresa passano a lui.

Con lui i duecento marinai, che remano sulle navi rimaste, affrontano un’altra notte fatidica, la notte del maremoto che li sballotta e li fiacca lasciandoli disperati, decisi a tornare indietro.

In un frangente esiziale come questo Lucio capisce come reagire per calmarli  e comprende finalmente a che serve la filosofia che ha studiato alla scuola di Quintiliano, a cosa le esercitazioni di retorica.

Avviene in lui la sintesi dei due uomini che avrebbe potuto essere, quello desiderato da suo padre e l’uomo di mare che  ha scelto di diventare. Pensa: “Marinai che hanno il doppio dei miei anni sono venuti implorando perché spiegassi loro cosa stava accadendo.

Come se fossi più vicino di loro agli dei, mi hanno chiesto di interpretare i segni. A questo serviva quel magazzino di vite altrui che Quintiliano ci ha lasciato in dote: a orientarci quando non si vedono le stelle, come stasera”.

Ho riletto l’epilogo e ho esaurito la mia ricerca. Nel periodo che segue l’eruzione Lucio ricostruisce la sua vita in una convivenza non facile con il trauma che il prodigio gli ha procurato, eppure ritrova nella memoria dell’infanzia e nel sorriso della madre perduta un motivo per vivere nel presente.

“Anche quando sembra tutto sparito un uomo si ferma e ricorda e in quella memoria germoglia il futuro come fiore del deserto”.

Per leggere gli altri articoli e indizi letterari di Roberta Barbieri nella sua rubrica Vite di cartaclicca [Qui]

UN DIBATTITO SUL SISTEMA CARCERE:
Giustizia, Pena, Detenzione, Recupero

Conversazione sul tema:

Giustizia, Pena, Detenzione, Recupero

Giovedì 10 novembre 2022, ore 17,30
Ferrara, Circolo Arci Bolognesi
piazzetta San Nicolò n. 6

intervengono:

Pietro Buffa, direttore generale Formazione Dipartimento Amministrazione Pena
Gian Carlo Perego, Arcivescovo di Ferrara
Pasquale Longobucco, presidente Camera Penale di Ferrara
Paolo Li Marzi, segreteria regionale UILPA Polizia Penitenziaria
Roberto Cavalieri, garante regionale dei detenuti dell’Emilia Romagna
Giacomo Berdondini, presidente regionale federazione Rugby

Coordina Stefano Cavallini

 

Due spunti di lettura sul tema a cura della Redazione di Periscopio

Uno

La nostra Costituzione cristallizza nell’art. 27 il significato di responsabilità penale e la funzione della pena e recita al comma 3 “le pene non possono consistere in trattamenti contrari al senso d’umanità e devono tendere alla rieducazione del condannato”.

Dalla lettura dell’articolo emergono due principi fondamentali, ossia:

  • il principio di umanità della pena, in forza del quale il legislatore non può prevedere pene le cui modalità siano lesive del rispetto della persona e
  • il principio della finalità rieducativa della pena, secondo cui le pene non devono essere volte unicamente alla punizione del reo ma devono innanzitutto mirare alla sua rieducazione, quale requisito fondamentale per il suo reinserimento nella società.

In tale prospettiva, la nostra Costituzione prevede la rieducazione quale finalità ideologica della pena. In particolare, è compito dello Stato favorire la presenza delle condizioni necessarie affinché il condannato possa successivamente reinserirsi nella società in modo dignitoso, creando così i presupposti perché, una volta in libertà, non commetta nuovi reati.

Va da sé, a maggior ragione, che un sistema fondato solo sull’intimidazione generale produca effetti di astio e tenda a strumentalizzare il reo, ovvero a spettacolarizzare la giustizia.

Del resto, la pena non è una vendetta sociale e solo laddove sia orientata alla rieducazione del condannato e alla sua risocializzazione riuscirà concretamente ad aspirare al debellamento della recidiva. In tal modo, infatti, si offre al condannato la possibilità di orientare la propria esistenza nel rispetto di quella altrui, conformemente alle regole del vivere sociale.

Due

Sono 74 i suicidi in 10 mesi del 2022. Per le carceri italiane è il dato più drammatico degli ultimi 13 anni con i numeri più importanti a Foggia e San Vittore a Milano. A tenere il conto è Antigone, l’associazione che si occupa dei diritti dei detenuti che svolte l’attività anche con l’osservatorio sulle condizioni dei detenuti, un organismo che si occupa, tra le altre cose, di analizzare e fare il punto su quanto avviene dietro nelle strutture penitenziarie, con focus anche sui suicidi.

Ad allarmare i rappresentanti dell’organizzazione presieduta da Patrizio Gonnella, è proprio il numero delle persone che negli ultimi dieci mesi si sono tolte la vita in carcere. Storie distinte e differenti su cui gli esperti fanno un’analisi precisa. «Si tratta del numero più alto «a quando si registra questo dato – scrivono nel documento relativo al punto sulla situazione al primo novembre -. Il precedente drammatico primato era del 2009 quando al 31 dicembre si erano suicidate 72 persone. Oggi, a fine anno, mancano ancora due mesi». Non solo, un altro elemento sottolineato dal documento dell’associazione riguarda un altro fatto: «Quando nel 2009 si suicidarono 72 persone, i detenuti erano circa 7.000 in più».

“Verde Speranza”, in ricordo di Amatrice

Libri che fanno bene, libri che fanno del bene. Libri fatti per bene.

Ci sono illustrazioni che si fondono con fotografie in bianco e nero di Amatrice dopo il drammatico terremoto del 2016 (di Francesco Patacchiola) nel libro Verde Speranza, di Stella Nosella, illustrato da Marianna Balducci, edito da L’Orto della Cultura nel 2020. Un bianco e nero che ha fermato il tempo, i colori delle pagine di questo libro, di cui parte del ricavato è destinato al sostegno della Croce Rossa di Amatrice, sono sbiaditi, puff, spariti. Le tonalità di grigio sono attraversate solo da tocchi di verde, il colore della speranza.

 

È un delicato racconto dedicato a rinascita, gentilezza, solidarietà, speranza e amore per la Natura che, se protetta e custodita, è capace di ripagare con doni davvero straordinari e unici. Un gesto gentile, seppur piccolo, può fare la differenza.

Speranza è una piantina su cui Giulio, piccolo abitante di Amatrice, inciampa di ritorno da scuola, in un giorno come tanti, uguale a tutti gli altri. È assorto, guarda per aria, immaginando di trovare, in quella via distrutta e piena di vetri, crepe e calcinacci, quella che una volta era la sua casa.

Giulio inciampa, cadendo, su qualcosa di improvviso: è una piantina esile, un po’ buffa, che sbuca dall’asfalto crepato, con un’unica tonda fogliolina verde. Arrabbiarsi perché causa della sua sbucciatura al ginocchio? Assolutamente no, è tenera e indifesa, meglio salvarla mettendola in un vaso trovato nel garage diroccato e portarla in quella che una volta era la sua stanza, nella casa ancora distrutta dal terremoto. Solo lì può avere un posto sicuro tutto per lei, non può certo portarla con sé nella sua nuova casa, dove c’è spazio a malapena per il suo spazzolino da denti! Va aiutata. Anche lei, come lui, ha perso tutto, ogni cosa è andata distrutta, costretta a farsi spazio come meglio riesce, in un posto che non è il suo.

Giulio, che vive in un container con la sua famiglia, si arrampica giorno dopo giorno sulle macerie per accudire la sua piantina – che chiama Speranza – proteggendola dal freddo e dalle intemperie sperando di vederla crescere e di vedere la sua casa di nuovo ricostruita.

Un disegno di quella piantina va poi assolutamente portato ai volontari della Croce Rossa che avevano fatto con lui ciò che stava facendo per quella piantina. Da veri supereroi. Mentre nel container il papà prepara i fusilli al pomodoro, lontano dalle cose brutte.

Giorno dopo giorno Giulio si prende cura della sua piantina, con dedizione e amore.

Spuntano i fiori ma Speranza non fiorisce, il tempo passa. Quando tutto intorno a lui pare non cambiare mai e anche l’unica foglia di Speranza sembra arrendersi, qualcosa di sorprendente stravolge il destino di Giulio e quello della sua amata città.

La speranza non muore se coltivata. Ogni piccolo gesto conta, se fatto per gli altri e con amore. … Perché tutto può ricominciare da un piccolo e generoso gesto gentile.

Pagina facebook del libro

 

 

 

Stella Nosella (autrice), Marianna Balducci (illustratrice), Francesco Patacchiola (fotografo), Verde Speranza, L’Orto della Cultura, 2020, 50 p.

Libri per bambini, per crescere e per restare bambini, anche da adulti.
Rubrica a cura di Simonetta Sandri in collaborazione con la libreria Testaperaria di Ferrara.

SEGUENDO I SASSOLINI DI POLLICINO
Un piccolo libro di Daniele Lugli raccoglie le “briciole di verde” di una storica rivista ferrarese

Pollicino non è solo una favola

C’era una volta Pollicino, il piccolo protagonista di una delle favole più famose. Scritta da Charles Perrault, e tradotta in italiano anche da Carlo Collodi, narra la brutta avventura di sette fratelli abbandonati nel bosco dal padre, così povero da risultare incapace di provvedere al loro sostentamento. Come risaputo, Pollicino salverà sé stesso e i suoi fratelli grazie allo stratagemma dei sassolini con cui ritroverà la strada di casa e le braccia della madre, contraria alla scelta del marito, ma costretta da lui a questa terribile decisione. Recidivo, il padre li abbandonerà una seconda volta e Pollicino, finiti i sassolini, proverà con le briciole di pane, che però risulteranno inutili. Gli uccellini se le mangeranno, beffando così lo scaltro bambinello.
La favola prosegue fino al lieto epilogo, che però non mi sembra particolarmente interessante ripercorrere qui, perché il rimando mi serve solo come assist per ricordare perché oltre trent’anni fa, da responsabile del Circolo ferrarese di Legambiente, decisi di ispirarmi proprio a questa favola per battezzare il giornalino locale dell’associazione.

Nasceva così “Pollicino. Briciole di verde, supplemento aperiodico della più prestigiosa rivista culturale Luci della città, il cui direttore, il vecchio amico Stefano Tassinari, assunse per cortesia e condivisione culturale, anche la sua direzione editoriale, non essendo io un giornalista e quindi non potendo, per legge, farlo in proprio.
Anche la grafica, intesa come persona che si occupa dell’impaginazione della rivista, veniva da Luci della città ed era Laura Magni. Il primo numero di “Pollicino” fu scarno, come le risorse di cui disponeva l’associazione: solo due fogli, che da patito di fumetti, ebbi l’idea di illustrare con le tavole di un racconto di Moebius. Testi e immagini erano disaccoppiati, anche se le tavole erano tratte da una storia in qualche modo ispirata all’ambientalismo: il viaggio futuribile in un pianeta lussureggiante, abitato da piante e animali fantastici.

Non sarò il mediano di Ligabue, ma questo è un ulteriore assist, per parlare di un bellissimo libretto, piccolo come Pollicino, uscito da poche settimane per Le edizioni La Carmelina. Simpatica copertina di Giulia Boari e prefazione di Elena Buccoliero, che di Pollicino. Briciole di verde fu una delle più importanti collaboratrici, insieme all’autore del libro, l’instancabile Daniele Lugli.

Pollicino ha avuto sette vite, come si dice abbiano i gatti. Al primo numero, regolarmente ‘tipografato’, come le riviste serie, succedettero fasi di semplice ciclostile, come si conveniva alle riviste alternative, ma povere. Il salto editoriale si ebbe però dalla fine degli anni novanta al 2005-6, quando Pollicino divenne inserto di Terra di nessuno, la storica rivista della Associazione Ferrara Terzo Mondo, diretta dal vulcanico Luca Andreoli. Sarebbe ingeneroso non ricordare questa importante Associazione da cui negli anni novanta nacque la Cooperativa Commercio Alternativo, la seconda centrale italiana operante nell’ambito dell’equo e solidale, ovvero nell’import di prodotti realizzati in Paesi del Sud del mondo, rendendo protagonisti, a casa loro, del loro futuro, coloro che anche oggi non vogliamo accogliere nei nostri Paesi.

Il libro di Daniele Lugli raccoglie in modo ragionato e ordinato gli articoli scritti per Pollicino durante la sua storia.  Una storia ricca perché, sempre grazie a Commercio Alternativo e quindi a Ferrara Terzo Mondo, venne costituito in un ampio appartamento su Viale Cavour, il Centro Alex Langer, una bellissima esperienza di condivisione di sede e attività tra diverse Associazioni cittadine, con annessa biblioteca ed emeroteca.
Il Centro, che non a caso era stato unanimemente intitolato ad Alexander Langer, il “viaggiatore leggero”, era votato ad iniziative centrate su ambiente, pace, nonviolenza, sviluppo sostenibile, vera cooperazione internazionale tra Nord e Sud del mondo.

Gli articoli – scrive giustamente nella sua introduzione Elena Buccoliero – hanno retto bene gli anni e a distanza di qualche decennio ci parlano ancora.” (vedi sotto il testo integrale n.d.r.)

La ricchezza di temi affrontati nel libro da Daniele è anche frutto della fortunata formula editoriale di Pollicino, che costruiva le sue pagine, partendo da una parola, da una suggestione, da un concetto, non necessariamente legato all’attualità, ma che a questa spesso tornava attraverso i contributi dei tanti, valenti amici che per Pollicino hanno scritto. Ricorderò i più assidui, in rigoroso ordine alfabetico: Franco Cazzola, Roberto Dall’Olio, Michele Fabbri, Andrea Malacarne, Marzia Marchi, Giangaetano Pinnavaia, Luigi Rambelli, Mario Rocca, oltre ai già citati Elena Buccoliero e Daniele Lugli e naturalmente al sottoscritto.

Impossibile dar conto della varietà dei temi toccati da Daniele, con una scrittura brillante, profondamente ironica e a tratti divertente, capace di sorprenderci, con incipit fulminanti o citazioni illuminanti. Il consiglio è di comprarlo e leggerselo con parsimonia, sorseggiandolo come un vino d’annata.

Per incoraggiarvi, rileggiamo insieme l’incipit del pezzo I nomi della guerra  (gennaio-febbraio 2002). Sembra scritto ieri, invece che vent’anni fa. Buona lettura dunque.
Conflitto
“Così la guerra si viene a situare nel contesto, più ampio e diluito, dei conflitti che la vita privata e pubblica quotidianamente ci propone. In fondo non è che un duello su vasta scala… una continuazione della politica con altri mezzi aveva detto von Clausewitz. È un’opzione tra le altre, disponibile per raggiungere gli scopi della politica, che infatti non ha mai preso sul serio il ripudio della guerra previsto dalla Carta dell’ONU e dalla nostra Costituzione. Per sapere se si deve o no fare la guerra basta applicare la formula di Rosen. Se P = probabilità di vincere la guerra, C = costi della guerra, CT = costi tollerabili, la decisione sarà per la guerra se CT per P maggiore di C. Certo ci sono valutazioni non semplici da compiere, ma se C e CT si guardano bene dal ricadere sui decisori questi hanno un compito facilitato. Un’accorta aggettivazione, a seconda dei popoli e del momento storico, aumenta il consenso: guerra santa, giusta, inevitabile, umanitaria…

Daniele Lugli, Sassolini di Pollicino, Ferrara, edizioni La Carmelina, 2022

Introduzione di Elena Buccoliero

I fratellini procedevano nel bosco
In coda Pollicino spargeva sassolini.
Li seguiva uno struzzo dall’impercettibile sorriso.

È un piccolo libro prezioso quello che abbiamo tra le mani.

Gli articoli che vi sono raccolti – scritti da Daniele Lugli per “Pollicino”, rivista del circolo ferrarese “Il raggio verde” di Legambiente, in un arco di tempo compreso tra il 2000 e il 2005 – hanno retto bene gli anni e a distanza di qualche decennio ci parlano ancora. Lo fanno a più livelli, come l’autore sa fare, con quello strabismo invidiabile che in uno stesso testo, o conversazione, accosta in un lampo il molto lontano con l’incredibilmente vicino e in quel transito ci riporta a quello che siamo, ripulisce le nostre lenti affinché possiamo capire più profondamente noi stessi e ciò che stiamo vivendo. Tra i temi: le diseguaglianze crescenti, la guerra, la crisi ambientale, l’inquinamento dell’aria e dell’acqua, le religioni, e poi la violenza sulle donne, i diritti dei bambini, le migrazioni, il traffico, la città, la felicità, il futuro…

Alcuni eventi vengono in risalto in modo particolare: la marcia Perugia-Assisi “Mai più eserciti e guerre” organizzata dal Movimento Nonviolento e dal Movimento Internazionale della Riconciliazione il 24 settembre 2000 nell’anniversario della prima, indetta da Aldo Capitini nel 1961; il G8 di Genova di cui prevede lucidamente ciò che si sarebbe poi verificato in quelle ore drammatiche; l’attentato alle Torri Gemelle di New York dell’11 settembre 2001 e la guerra che ne seguì. Ma ci sono anche eventi cittadini, quali i cicli di incontri che la Scuola della Nonviolenza andava proponendo settimanalmente, al Centro “Alexander Langer” che allora era sede anche per Legambien-te e per il Movimento Nonviolento.

Già si è detto di uno strabismo invidiabile. È lo stesso che da sempre Daniele esercita nel suo guardare il mondo. Non è solo la capacità di ragionamenti glocal, come forse si diceva in quegli anni per indicare il tener nto del contesto globale e della realtà locale. Strabica è anche la dimensione del tempo, grazie alla cultura onnivora e profonda che gli consente di parlarci con la stessa familiarità della tradizione ebraica o della Rivoluzione Francese, della cultura greca o del nostro tempo, del tempo che verrà.

Sono tanti i luoghi della prossimità. C’è indubbiamente la città, la comunità, ma c’è anche una dimensione più intima, quella che riguarda i desideri e i bilanci del presente o del passato, il rapporto con il tempo e con chi non c’è più. Si abbandona qualche volta al ricordo, dedica più di un pensiero ai giovani con la stessa tenerezza che manifesta a ogni incontro nelle scuole o nei luoghi che li riguardano, e sfiora in diversi pas-saggi l’infanzia. Lo fa splendidamente con “I diritti negati delle bambine e dei bambini” ma ci ritorna in più punti, parlando di diseguaglianze, di inquinamento, di guerra.

Erano anni, quelli, in cui l’autore esercitava con crescente passione gli impegni di nonno, e nei suoi scritti traspare la meraviglia di scoprire il mondo accanto a una piccolina, rievocando i primi anni della paternità e ricomponendo frammenti della propria infanzia, anche solo per misurare quello che è cambiato. Dall’esperienza intima agli equilibri e squilibri collettivi, ancora una volta.

Una proposta lega tutto questo ed è la nonviolenza che Daniele ha conosciuto accanto a Aldo Capitini ma studiato, sperimentato e corteggiato si potrebbe dire ancor prima di quel rapporto così importante e certamente nei decenni a venire. È questo il filo che tiene insieme temi apparentemente distanti ma, in fondo, facce possibili di quel prisma che è la condizione umana. L’autore ce le mostra di volta in volta in modo sempre competente, profondo, non scontato.

Dalla nonviolenza le sue riflessioni traggono il fiato e danno indicazioni anche al nostro presente nonostante i cedimenti, di tanto in tanto, al pessimismo della ragione.

Questo piccolo libro prezioso è piacevole da leggere per come è scritto. L’autore usa una lingua limpida, scevra di retorica, affinata nella ricerca dell’essenziale. Nello iato tra ideali e realtà apre un terzo tempo che attraversa ogni pagina ed è il gioco, l’ironia, la passione per il linguaggio, il gusto per il rovesciamento. È, qualche volta, una lama che squarcia il velo rapida ed efficace più di tante parole, ma in altri momenti concede una via di fuga, indica una possibilità.

Nello spiazzamento Daniele Lugli si salva e ci salva. Ci tiene con sé per arrivare a concludere, con l’intelligenza di uno Sherlock Holmes: La violenza – che ben conosciamo – è dunque una soluzione impossibile. Ciò che resta, esclusa la violenza, per quanto improbabile, è la nonviolenza

Per contrastare il Progetto Fe.Ris. nasce Forum Ferrara Partecipata: le prime adesioni

 

A seguito della positiva discussione avuta il 24 settembre scorso, intendiamo, come Associazioni, Organizzazioni sociali e cittadini, dare vita al Forum Ferrara Partecipata.

Tale Forum prende le mosse dall’intenzione, in primo luogo, di bloccare il progetto FERIS: esso è radicalmente sbagliato, privo di utilità pubblica, ambientalmente non sostenibile, regressivo rispetto ad un’idea di città che guarda al futuro.

La nostra iniziativa di contrasto di tale progetto, per fermarlo e modificarlo in termini sostanziali, vuole basarsi su un lavoro di informazione e coinvolgimento della cittadinanza, sui necessari approfondimenti tecnico-giuridici collegati ad esso e sulla pressione nei confronti delle istituzioni e della politica.

Nello stesso tempo, Forum Ferrara Partecipata vuole intervenire per elaborare anche ipotesi alternative rispetto all’idea di ridisegno della città e del suo futuro. In questo senso, riteniamo necessario cogliere il nesso ( e le contraddizioni) tra il progetto FERIS e il Piano Urbanistico Generale, di cui è iniziata la discussione, promuovere un dibattito largo in città in proposito, affermarne un’idea di luogo di condivisione, socialità e solidarietà, contrastare le logiche di privatizzazione degli spazi pubblici.

Infine, a differenza del percorso individuato dall’attuale Amministrazione Comunale, vogliamo far leva sull’idea della partecipazione diffusa e dal basso, ingrediente fondamentale per far avanzare le nostre idee per il futuro della città.

Forum Ferrara Partecipata vuole essere uno spazio inclusivo e largo, partendo dai presupposti sopra delineati, con la consapevolezza che esistono molte forze ed energie che possono lavorare ed unirsi per produrre un progetto per gli anni a venire della nostra città.

L’adesione è aperta a tutti i cittadini, le associazioni, le organizzazioni sociali che condividono la necessità di opporsi e contrastare il progetto Fe.ris. e che comunicheranno la loro adesione alla mail: forumferrarapartecipata@gmail.com

LE PRIME ADESIONI

Associazioni: 

Associazione Evangelica CERBI di Ferrara

Associazione Ferrara Sostenibile 2030

Associazione Fiumana

Circolo Laudato si’

Comitato Acqua Pubblica di Ferrara

Donne per la Terra

Extinction Rebellion Ferrara

Italia Nostra

Legambiente Ferrara

Parents For Future Ferrara

Pirati del Po

Plastic Free Ferrara

Pontegradella in transizione

Teachers For Future Ferrara

UISP

WWF

Singoli cittadini

Gianpaolo Balboni

Antonio Barillari

Andrea Bregoli

Lorenza Cenacchi

Francesca Cigala Fulgosi

Andrea De Vivo

Stefano Diegoli

Marco Falciano

Romeo Farinella

Laura Felletti Spadazzi

Andrà Firrincieli

Claudio Fochi

Giovanna Foddis

Sergio Foschi

Lidia Goldoni

Alessandra Guerrini

Alessandra Guidorzi

Adriano Lazzari

Andrea Malacarne

Marzia Marchi

Simona Massaro

Cinzia Mastrorilli

Ornella Menculini

Francesco Monini

Michele Nani

Corrado Oddi

Michele Pastore Cinzia Pusinanti

Marcella Ravaglia

Patrizia Ronchi

Michele Ronchi Stefanati

Gabriella Sabbioni

Santo Scalia

Davide Scaglianti

Georg Sobbe

Milena Stefanini

Alessandro Tagliati

In copertina: Il grande spazio della Cavallerizza nella ex Caserma Pozzuolo del Friuli, per la quale il Progetto Fe.Ris. prevede un intervento privatistico.

Ma non erano solo 4 gatti? Invece a Roma sfilano in più di 100.000: un grande movimento pacifista chiede alla politica di fermare l’invio di armi e propone una agenda di pace

Ma non erano solo 4 gatti? Invece a Roma sfilano in più di 100.000:
un grande movimento pacifista chiede alla politica di fermare l’invio di armi e propone una agenda di pace

C’è differenza tra un camion di mele e un chilo di patate?
Eppure giornali e telegiornali, con pochissime eccezioni, hanno dato insieme la notizia delle 2 manifestazioni per la pace di Roma e Milano, come fossero due cose paragonabili: tutte mele o tutte patate.

Rifaccio la domanda.

Che differenza passa tra un imponente corteo pacifista di più di 100.000 persone (Roma) e un raduno di 4.000 aderenti al Polo di Centro di Calenda e Renzi (Milano) che invece continua ad appoggiare l’invio di armi e la linea atlantista e bellicista dei governo?  Aritmeticamente la differenza tra le due iniziative è più o meno di 96.000 persone, numeri impietosi che già qualcosa ci dicono. Ma tra “pace subito” (Roma) e “ancora guerra” (Milano) la differenza è ancora più radicale, e tutta politica.

Lo dice bene Rosy Bindi, anche lei in marcia a Roma, in un intervista su Il Fatto Quotidiano: “Qualcuno diceva che il pacifismo era finito, mentre questa straordinaria manifestazione dimostra che c’è una maggioranza sociale che vuole fermare le armi e chiede alla politica di ravvedersi”.

Dal basso, appunto.  La coalizione Europe for Peace non è stato solo l’organizzatore ma il collettore di tantissime realtà locali, nazionali e internazionali. Alla fine, alla marcia per la pace hanno aderito circa 600 gruppi, organizzazioni, associazioni, cristiane e laiche. Un altro numero importante, la prova di quanto sia diffuso, in tutto il paese e in tutti gli strati sociali, il sentimento pacifista. Un No alla guerra e alle armi, e un No alla insensata e guerrafondaia politica filoatlantica del governo Draghi, sostenuto da tutti i partiti, tranne Fratelli d’Italia, e ribadita dal governo della Destra con le prime dichiarazioni di Giorgia Meloni a Bruxelles.

Dunque,  il primo dato di cui tener conto è il seguente. Il variegato popolo pacifista, sfottuto e da tanti decritto come minoritario e marginale, o peggio, disfattista e filo putiniano, ieri a Roma si è preso una clamorosa rivincita contro le menzogne. Di più,  il movimento si è preso prepotentemente, anche se pacificamente la scena, ed è diventato un attore politico che vuole contare.

In secondo luogo, questo montante movimento per la pace è riuscito a unificare realtà e sensibilità diverse e a costruire una piattaforma (politica, serve ripeterlo) comune. Tutta la grande costellazione di gruppi e associazioni cattoliche fedeli al messaggio di Papa Francesco. Tantissime associazioni e movimenti espressione del mondo laico, come Arci, Anpi, Libera, eccetera. Le Ong nazionali e internazionali impegnate nel soccorso in mare dei migranti. Infine, altro dato importante, l’adesione convinta della Cgil, il più grande sindacato d’Italia con oltre 5 milioni di iscritti.

Inoltre, al contrario di quanto sostengono i commentatori delle grandi testate padronali e governative,  la manifestazione del 5 novembre, e i centomila partecipanti (più uno, se consideriamo Papa Francesco in viaggio apostolico in Bahrein e quindi assente giustificato) al grande corteo sono arrivati in piazza San Giovanni senza bandiere di partito e con obiettivi condivisi e richieste molto precise.

Hanno gridato contro Putin il dittatore, ma anche contro la Nato e la voglia espansionistica degli Usa. Hanno solidarizzato con il popolo Ucraino sotto le bombe e in fuga in milioni, ma anche contro tutte le vittime della guerra, compreso il popolo russo. Hanno chiesto ai soldati di gettare le armi e disertare.
Hanno manifestato contro l’invio di armi che servono solo a prolungare all’infinito la guerra e la scia di morti innocenti.

Non è un movimento che spera in una vaga idea di pace, ma che propone con forza un’agenda politica precisa per uscire da questa guerra fratricida. La strada della pace subito, la scelta giusta è anche l’unica opzione possibile, dopo il clamoroso fallimento della linea bellicista che gli Stati Uniti hanno imposto all’Europa.
L’agenda è molto semplice: stop all’invio di armi, immediato cessate il fuoco, avvio del negoziato.

Senza gli USA, aggiungo io. E senza la NATO. Può e deve essere l’Europa a trovare una soluzione ai problemi dell’Europa.  Invitando al negoziato l’ONU come garante internazionale.

In copertina: immagine dal Corteo di Roma del 5  novembre 2022 – foto Dario Lo Scalzo, pressenza

Per certi versi /
Vidi la pace

Vidi la pace

La pace
Divenne corpo
La vidi
Nel naufragio di Efeso
Uscire stremata
Perfettamente nuda
E stravolta
Dal disastro
Dei morti
In mare
Si diresse al tempio
Eraclito era là
Lui e la guerra
Padre e re di tutte le cose
Io sono la madre
Disse la pace
Lui
Ribadì altero
Senza opposti
Senza conflitto
Non ci sarebbe nulla
Ma io sono la madre
a sua volta disse
la pace
Senza di me
Nulla potrebbe nascere

Ogni domenica periscopio ospita ‘Per certi versi’, angolo di poesia che presenta le liriche del professor Roberto Dall’Olio.
Per leggere tutte le altre poesie dell’autore, clicca [Qui]

PRESTO DI MATTINA /
Non ti scordar di me

Ognissanti: Non-ti-scordar-di-me

Solo da pochi giorni siamo transitati per il valico di Ognissanti; crinale che accorda e rincuora cuori fuori di sé, scordati; valico tra alte cime in cui si danno appuntamento e si incontrano i vivi e i viventi, così sono i nostri cari in noi.

A Ognissanti escono dall’ombra come grappolo d’uva dopo la vendemia, racimoli rimasti nascosti tra le foglie della vigna del tempo interiore. Resta la memoria a guida del cuore.

Così a Ognissanti si prega che la memoria non ci abbandoni, che resti viva nei vivi e nei viventi. Marco e Luca sono concordi nel ricordare le parole di Gesù ai Sadducei: «Dio non è dei morti, ma dei viventi; perché tutti vivono per lui».

A Ognissanti la promessa del salmista si annuncia nell’intimità più profonda di ciascuno e dice: «Si abbracceranno verità e fedeltà amorosa, si baceranno giustizia e pace, la fedeltà salirà dalla terra, si affaccerà dai cieli la vita nuova» (Sal 85, 12-13). Non si deve scordare allora che il cielo è già in me ed io in coloro che l’abitano già.

A Ognissanti il cielo sconfina nella terra e la terra è attratta verso il cielo; a Ognissanti non solo ricordiamo ma pure siamo ricordati, custodiamo e siamo custoditi, abitiamo e siamo abitati: i vivi nei viventi e questi in noi. Questo florilegio scaturisce da un perseverante confidare gli uni negli altri ed ha nome, tra i cristiani, di comunione dei santi.

Scrive Antonia Pozzi [Qui]:

Ho tanta fede in te. Mi sembra
che saprei aspettare la tua voce
in silenzio, per secoli
di oscurità.
Tu sai tutti i segreti,
come il sole:
potresti far fiorire
i gerani e la zàgara selvaggia
sul fondo delle cave
di pietra, delle prigioni
leggendarie.
Ho tanta fede in te. Son quieta
come l’arabo avvolto
nel barracano bianco,
che ascolta Dio maturargli
l’orzo intorno alla casa.
(Confidare, in Parole. Tutte le poesie, Àncora, Milano 2015, 175).

Attivare la memoria: una guida del cuore

Ferdinando Bandini [Qui] – (Vicenza, 1931-2013), poeta, scrittore e docente di stilistica e metrica all’Università di Padova – è stato definito dal critico letterario Giorgio Luzzi un “attivatore di memoria”.

Il suo poetare è infatti atto comunicativo più che di provocazione, volto a ricollocare le parole dimenticate, i nomi innominati; portarli alla luce, renderli di nuovo in dialogo non solo con la quotidianità, ma con l’umanità.

Dai microcosmi quotidiani, ristretti e celati, le parole salgono attraverso gli occhi stupefatti del poeta, dilatandosi a misura dell’universo e oltre, fino a provar di nominare le stelle, una da una:

In quest’azzurro di settembre che si dilata
oltre i confini dei miei occhi verso
regioni dove non arriverò mai
ci sono chicchi d’uva che altre bocche
schiacceranno tra i denti ignorando
questo mio torrido angolo di sete.

Presenze minime e ignorate, come acini spremuti, trovano grande risonanza nei testi di Bandini, che sono composti non solo nella lingua italiana, ma pure in quella latina e dialettale.

I suoi versi, come pagine di dizionario in cui ritrovare i nomi smarriti, significati nascosti e anche le parole indecifrabili a colpo d’occhio, indugiando su quelle degli specialisti di botanica, entomologia, ornitologia.

Uuno spazio, una radura per seminare o far dischiudere le parole ignote come, nel giorno di Ognissanti, si aprono gli spazi eccelsi dei beati e santi sconosciuti: «La poesia è distacco: non una fuga ma la scelta di uno spazio dove ci si colloca per vedere se il proprio “esserci” (dentro quelle cose) ha una qualche parvenza o conforto di trascendente verità» (Le ragioni della poesia, cit. da G. B. Beccaria, in Fernando Bandini, Tutte le poesie, Mondadori, Ebook, Milano 2018, 6).

Ma una volta la vita trascorreva più dolcemente
e della memoria ancora non sentivamo il peso.
Le cose che furono non sembravano lontane,
come ora, dalle presenti,
anzi a lungo ci parve che il passato e il futuro
si divertissero a tessere insieme con lo stesso filo
la tela ingegnosa dei giorni.
Il cumulo degli anni ha lacerato quella trama.
Ma dove è finita la maggior parte del tempo?
Ora, purtroppo, giace soltanto nel profondo del cuore!
Nel cuore allora la nostra memoria va a cercare
i ricordi sepolti del passato,
ed è felice di averne trovato uno: come quando un bambino
vagando solo per i campi a novembre
dopo la vendemmia trova – che gioia! –
un grappolo maturo che era rimasto nell’ombra.
Nessun pensiero del futuro ci preoccupa,
E per le vigne vendemmiate del tempo
ama vagare il nostro tardo autunno.
Memoria, non abbandonarci, per lungo tempo
sii guida preziosa del cuore!
(ivi, 506).

La origini della festa di Ognissanti

La collocazione di Ognissanti, il primo novembre, ha radici antiche, risalenti ai Celti, che celebravano il capodanno per una decina di giorni, a partire dal 1° novembre, quando le sementi sono ormai sepolte nelle viscere della terra da dove attendono di rinascere a nuova vita al risveglio della primavera.

I Celti consideravano i morti come “morituri”, separati mai del tutto da noi e dunque ancora in grado di comunicare con i vivi. Moriturus è infatti participio futuro dal verbo mori/morire: stare per morire; il termine preso a sé ha valore di sostantivo e di aggettivo.

Anche nascituri, è participio futuro di nasci/nascere, parola che si addice anche ai nostri cari quando li ricordiamo nel cono di luce della fede di Ognissanti, o anche solo nell’intimità trafitta e dolente della nostra coscienza e memoria separate.

E tuttavia anche così l’incredula fede è spiraglio di un tenue riflesso di luce al tramonto, barlume fumigante di speranza, aurora in statu nascendi, vita promessa, in gestazione di una futura comunione. Dies natalis, fin dalle origini cristiane, è ricordato come il giorno della morte dei martiri, santi o semplici cristiani, il giorno del loro nascere in Cristo: «vita è nascosta con Cristo in Dio» (Col 3, 3).

L’uomo si ricorda, ma anche Dio

Nella Bibbia Zaccaria è nome ‘teoforico’, al pari di molti altri nomi delle Scritture che sono portatori di Dio: nel senso che dicono qualcosa di lui. Il nome deriva dal verbo ebraico zakàr (circa 250 ricorrenze) da cui provengono i sostantivi zéke (= ricordo, 22 ricorrenze) e zikkaròn (= memoriale, 23 ricorrenze) e significa: “Dio si ricorda”.

Ricordare imita il mestiere della levatrice. In esso si cela quel dinamismo dello spirito per cui, rientrando in se stessi, si fa venire alla luce un fatto o una persona del passato, perché possano rivivere nel presente.

Nelle attestazioni bibliche tuttavia ricordare non è semplice evocazione, un perdersi nel passato, ma costituisce un esercizio spirituale del presente, che si proietta nell’avvenire, radicandolo nell’esperienza di relazione e di alleanza del passato.

Ricordare è legare, trasformare e portare a compimento, è tenere aperta la vita alla promessa nascosta in essa. Ricordare è seminare nuovamente ciò che si è raccolto. Ricordare chiama ad un coinvolgimento attivo, un esserci, un agire entrando nelle situazioni e prendendo posizione.

Nell’alleanza biblica, come nel memoriale eucaristico, si crea una relazione biunivoca, un reciproco dare ed avere. Entrambi, Dio e l’uomo si ricordano vicendevolmente, e quando ricordano parlano l’un l’altro, dicono: “eccomi”.

Il fiore di Ognissanti: “Myosotis alpestris”

Dev’esser proprio questo il fiore di Ognissanti: ho pensato con meraviglia stupita e grata, vagabondando bracconiere tra le 790 pagine di tutte le poesie di Bandini. Pagina dopo pagina è un universo arboreo e fiorito, vasto come una foresta, curato come una riserva protetta, catalogato come un orto botanico, cosmo abitato da un andirivieni di insetti e di uccelli di ogni specie, di volti e ricordi familiari e ignoti:

«Alberi molti gli alberi, acacie, olmi, catalpe, mandorli, meli, il cotogno, il carpine, il platano, frassini, l’ontano, il faggio, l’acero, il bagolaro, cembri, peschi, mirti, ligustri, il caco, il pino, l’agave, l’araucaria, le còrnole o cornioli, l’uvaspina, il prùgnolo…

E tanti fiori e tante erbe: la genziana, il bucaneve, e miosotidi, campanule, pervinche, aquilegie, e fucsie, primule, la rosa selvatica, il rododendro, i settembrini, il tarassaco, il dente-di-leone, l’alchechengi, la lunaria, l’aquilegia, l’erbaspagna, il croco, l’agèrato, il calicanto, la cicuta, il fiore del piretro, la bardana, i gialli fiori del topinambùr e delle forsizie, la dalia curva sul suo peso di grazia, le pulsatille, la filipendola, lo spanavìn o pancuco (acetosella), le campanele (campanule), i pissacani (tarassaco), le galinele (valerianella)» (ivi, 18).

Così è anche l’universo di Ognissanti, una moltitudine immensa, differenziata ed unita, innumerabile come le piante e i fiori sulla terra: «Apparve poi una moltitudine immensa, che nessuno poteva contare, di ogni nazione, razza, popolo e lingua. Tutti stavano in piedi davanti al trono e davanti all’Agnello, avvolti in vesti candide, e portavano palme nelle mani» (Ap 7,9).

Ad un certo punto fu dalla poesia in latino Ranus aureus, come da una radura, illuminata a poco a poco dalla luce del mattino, che, inattesa, si è mostrata ai miei occhi, una “miosotide”.

In “Ramo d’oro” è il ricordo della madre che vien raccontato, quando il poeta aprendo il libro d’ore materno, suo “codice dell’anima”, scopre come segnalibro un “Non-ti-scordar-di-me”.

Quieta presenza che riaccende il lume su altre presenze e così prende forma nella memoria con il ricordo di quei fiori anche quello della festa di Ognissanti: «Quanto li avevi amati! Ricordo un anno lontano:/ era tornato il giorno (il primo di novembre)/ quando secondo il rito si celebra la festa/ di tutti i santi».

Pianta dai molti fiori, azzurri e con fauci gialle a cinque petali, uniti insieme si fanno compagnia; una comunione che salta subito agli occhi, quando l’incontri cammin facendo ai bordi dei fossi. Comune nelle zone montane può ben figurare come umile florilegio della comunione dei santi.

La comunione dei santi

Il poeta immagina così un dialogo con la madre sul significato di Ognissanti, giorno in cui si ricordano tutti i santi; proprio tutti, anche coloro di cui non si ha memoria nel calendario.

Santi ignoti, quelli della porta accanto o in lontane terre sperduti, quelli nascosti “da un’ininterrotta oscurità” nel quotidiano vivere, che non sono ricordati sugli altari, ne dipinte le loro effigi.

Questi santi sconosciuti assomigliano – dice il poeta – ai non-ti-scordar-di-me «che nei margini erbosi / delle strade aprono i loro piccolissimi occhi celesti», e guardano e vigilano sui viandanti, anche qualora non si accorgessero di loro. Questi fiori come i santi senza nome Dio li cinge «di un’altra luce», che solo lui conosce.

Mentre sfoglio il vecchio libretto di preghiere
che vedevo spesso tra le tue mani,
dalle pie carte è scivolata fuori
una miosotide.
Quanto a lungo, madre, per quanti anni in silenzio
questo codice della tua anima aveva
racchiuso nel suo buio le fragili corolle
del fiore rinsecchito?
Ma il colore del fiore, sebbene sbiadito,
ancora ricordava la stagione di un’antica
primavera e i cieli che il tempo portò via
con sé mentre fuggiva.
I fiori che nei margini erbosi
delle strade aprono i loro piccolissimi
occhi celesti e che i poeti chiamano
non-ti-scordar-di-me
quanto li avevi amati! Ricordo un anno lontano:
era tornato il giorno (il primo di novembre)
quando secondo il rito si celebra la festa
di tutti i santi.
Nei viali cittadini cadevano a volo
le ultime foglie, risuonava cavo
il vento d’autunno entrando nei camini
con la sua voce opaca
e tu parlavi dei santi al bambino:
«Il cielo annovera numerosi beati
del tutto sconosciuti e sono loro
che questo giorno venera.
Non li onorano frequentati altari,
non è dipinto in qualche antico quadro
il loro volto: sono morti e nessuno
sa come si chiamino.
Questi, la cui vita è trascorsa in una
ininterrotta oscurità, Dio li accoglie
tra gli stessi santi più grandi e li cinge
di un’alta luce.
Il mondo è sordo e non riesce a capire
e si chiede a che serva quest’avaro
tesoro di virtù che nessuno attesta,
sepolto nel segreto del cuore.
Lo chieda al Creatore dell’Universo
che ha sparso i cieli d’astri non ancora scoperti
e colora il silenzio dei deserti
d’innumerevoli fiori.
Lui sa perché il fiore della miosotide
che nessuno vede mostri la sua bellezza
in terre desolate fino al giorno
in cui morirà».
(ivi, 313-314)

Ognissanti: “un azzurro fiorire di misotidi” nel “singhiozzo rattenuto, incessante, della terra” (Antonia Pozzi).

Non monti, anime di monti sono
queste pallide guglie, irrigidite
in volontà d’ascesa. E noi strisciamo
sull’ignota fermezza: a palmo a palmo,
con l’arcuata tensione delle dita,
con la piatta aderenza delle membra,
guadagnamo la roccia; con la fame
dei predatori, issiamo sulla pietra
il nostro corpo molle; ebbri d’immenso,
inalberiamo sopra l’irta vetta
la nostra fragilezza ardente. In basso,
la roccia dura piange. Dalle nere,
profonde crepe, cola un freddo pianto
di gocce chiare: e subito sparisce
sotto i massi franati. Ma, lì intorno,
un azzurro fiorire di miosotidi
tradisce l’umidore ed un remoto
lamento s’ode, ch’è come il singhiozzo
rattenuto, incessante, della terra.

Madonna di Campiglio, 13 agosto 1929
(Dolomiti, in Parole. Tutte le poesie, Àncora, Milano 2015, 24).

Per leggere gli altri articoli di Presto di mattina, la rubrica di Andrea Zerbini, clicca [Qui]

La sanità che verrà: arrivano le multinazionali

 

L’Italia spendeva per la salute pubblica prima del Covid (2019) il 6,4% del Pil (un terzo in meno di Germania e Francia, e meno anche di Spagna e Portogallo). Con il Covid siamo risaliti al 7% del Pil (com’era in passato, periodo in cui la sanità italiana era tra le migliori al mondo), ma eminentemente per spese di emergenza e vaccini.
Il precedente Governo indicava un 6,1% di spesa sul Pil al 2025, inferiore a quello del 2019. Crescono così le spese per prestazioni private (40 miliardi nel 2019). E poiché gli anziani aumentano di numero, è evidente che ciò comporterà una spesa maggiore e un servizio pubblico sempre peggiore per tutti noi, il che farà crescere la sanità privata.

Il personale è calato di 40mila unità negli ultimi 10 anni col blocco del turn over inaugurato dal governo Berlusconi nel 2005 e proseguito per 14 anni fino al Governo Conte 1, che ha aumentato le assunzioni del 10%.
Uno studio di Milena Gabanelli mostra come nel periodo 2022-2027 dei 103mila medici oggi occupati nel SSN ne andranno in pensione 29mila e altri 13mila ne mancano per il blocco del turn over (totale 42mila), mentre in teoria dalle scuole di specializzazione ne arriveranno 42mila.
Sulla carta sono sufficienti, in realtà ne mancheranno moltissimi. Basta guardare a ciò che accade in Lombardia coi medici di famiglia: i posti sono in teoria 626, ma chi li frequenta di fatto sono 331 (la metà). La realtà è che ne mancheranno moltissimi, specie tra i medici di famiglia. Per gli infermieri vale lo stesso discorso.

Questo spiega i continui allarmi di Anaao (il sindacato dei medici). Così si spiega anche il fenomeno delle cooperative di medici “a gettone”, soprattutto nei pronto soccorso, che percepiscono il doppio o triplo di quelli standard ma generano gravissime disfunzioni in quanto si tratta di medici con minore esperienza. Si stima che nei week end e di notte la possibilità di trovare un medico “a gettone” sia ormai nei pronto soccorso del 50%.

Le cause di tutto questo vanno individuate in gravissimi errori di programmazione, sia del Ministero della Salute sia del Ministero dell’Università.

Il blocco del turn over spiega perché oggi oltre la metà dei medici ha più di 55 anni, la percentuale più elevata d’Europa, superiore di oltre 16 punti alla media Ocse.
Ovviamente in sanità c’è una correlazione diretta tra personale e servizi reali al cittadino, anche se l’apologia mediatica del digitale e della telemedicina vorrebbe convincerci del contrario.

La crisi del personale porta poi ad abbandonare per primi proprio i servizi meno ambiti, che sono quelli territoriali (rispetto agli ospedalieri) e quelli periferici rispetto a quelli cittadini. Per questo, in una situazione di emergenza, è necessario andare oltre l’immatricolazione aggiuntiva degli iscritti a Medicina (pur necessaria), che avrà però effetti tra 6-9 anni. Risorse professionali in tempi brevi possono essere reperite solo attingendo a due bacini:

  1. L’assunzione di laureati in Medicina abilitati all’esercizio della professione e degli specializzandi nell’ultimo anno di formazione con contratti libero-professionali o a termine – una sorta di praticantato retribuito, che non è una misura tampone ma un modo di apprendere dalla esperienza che favorisce il completamento della formazione.
  2. Il part-time senior: la possibilità per chi (infermiere o medico) si trova negli ultimi 3 anni di lavoro, di svolgere un part-time (con contributi integrali per la pensione) e di poter poi proseguire nel lavoro anche oltre il termine pensionistico. L’assunto è che lavorando part-time, moltissimi lavoratori anziani siano disponibili a lavorare più anni di quanto previsto dalla scadenza naturale, garantendo all’azienda la parte più importante delle loro professionalità ma facendola risparmiare, in modo che l’azienda stessa abbia le risorse economiche per assumere in prospettiva un giovane a full time.

Nel 2026 dovrebbero partire mille case di Comunità finanziate dal PNRR, ma i rischi che non abbiano personale a sufficienza sono altissimi. Ciò spinge chi se lo può permettere verso i privati.

A fianco dell’aumento costante delle spese per prestazioni sanitarie erogate dai privati, si assiste ad un’evoluzione del ruolo delle farmacie, che stanno diventando erogatrici di servizi una volta  appannaggio dei medici di famiglia o dei servizi territoriali pubblici.

Ciò spiega l’espansione delle multinazionali americane (Boots ha già oltre 70 farmacie, Penta Investment e Dr. Max ne hanno 32,  McKesson Corp ha acquistato nel 1999 quote in AFM  di Bologna, Lloyds è già presente con 260 punti vendita) e di altri grandi gruppi (come quello nazionale di Farmacie Italiane con 47 farmacie e 20 parafarmacie), consentita dalla legge 124/2007 per il “mercato e la concorrenza” del governo Gentiloni.

Queste corporate hanno già acquisito in Italia il 10% del mercato, dove operano 19mila farmacisti.
Anche in questo caso tra riduzione dei laureati in farmacia, vendita delle vecchie farmacie, entrata nel mercato dei grandi gruppi, si profila una profonda modifica del ruolo antico del farmacista che consigliava e del presidio sanitario che garantiva, specie nei piccoli Comuni e si passa direttamente al “business as usual”, cioè ad una logica prevalentemente commerciale. Con tanti saluti a quel servizio personalizzato che le farmacie garantivano sul territorio (in Francia esiste una legge che impedisce ai grandi gruppi di avere più del 49% delle farmacie).

Non si trascuri poi la micidiale combinazione data dalla riduzione di personale sanitario abbinata allo sviluppo della telemedicina.
Amazon (con Amazon Health Services) ha comprato per 3,9 miliardi One Medical, catena di assistenza sanitaria di base che opera sotto la rete di cliniche Healthcare.
Amazon punta così a diventare il primo operatore privato, dall’assistenza di base alle farmacie online e ai servizi di teleassistenza.

Benvenuti nel nuovo mondo sanitario digitale.

Cover: Immagine tratta dal sito di Altroconsumo

Storie in pellicola / La bellezza delicata di essere fratelli

Corti, che passione!

Debutto natalizio in grande stile per Disney che, il 2 novembre, ha presentato il nuovo, magico cortometraggio di Natale, Il Dono, in supporto del partner di beneficienza di lunga data Make-A-Wish, una onlus il cui scopo è realizzare i desideri di bambini e bambine con gravi patologie. Il lancio è avvenuto sui vari profili social Disney in 46 Paesi tra Europa, Nord America, Sud America, Africa e Asia.

Il corto rappresenta il capitolo conclusivo della trilogia di Natale, Una famiglia, infinite emozioni, con quella stessa famiglia che si prepara al periodo delle festeall’arrivo di un nuovo bambino.
Il Dono racconta una storia di unici legami tra fratelli, vissuta attraverso gli occhi della più piccola, Ella, che deve adattarsi alle nuove dinamiche familiari create dal nuovo arrivo. Al cuore della storia troviamo un adorato peluche di Topolino che unisce presente, passato e futuro. All’inizio del corto Max, il fratello maggiore, dà il peluche di Topolino a Ella per regalarle un po’ di conforto durante la notte. Sarà poi lei a donare il peluche al nuovo arrivato in segno di benvenuto. Il tutto, nella versione italiana, con la bella colonna sonora Tutto e ancor di più, interpretata da Diana Del Bufalo, attrice e cantante che ha già collaborato con Disney prestando la propria voce a Isabela Madrigal in Encanto, film vincitore dell’Oscar nel 2021 e ambientato tra le montagne colombiane.


Il Dono
segue il corto iniziale del 2020, Lola, che parte nel 1940, mostrandoci la bambina Lola ricevere un peluche di Topolino. Prosegue con Lola diventata ormai anziana, che negli anni continua a preparare le decorazioni di Natale con sua nipote Nicole, e si conclude ai nostri giorni, con Nicole ormai adulta e madre di una famiglia che si allargherà ulteriormente in quest’ultimo capitolo. Bella storia di un legame profondo nonna-nipote, rafforzato anche dalle tradizioni natalizie tramandate di generazione in generazione.
Un Nuovo Papà è invece il secondo capitolo arrivato nel Natale 2021.
Qui si seguivano Nicole, cresciuta e diventata mamma, e i suoi bambini Max ed Ella mentre davano il benvenuto in famiglia al nuovo papà adottivo Mike. Al centro della narrazione, uno speciale libro di favole per celebrare la magia che si crea quando si trascorre del tempo insieme. Perché favole, famiglia, magia e Natale vanno assolutamente insieme.

I corti di Natale 2020 e 2021 hanno superato i 184 milioni di visualizzazioni in tutto il mondo.
Ci aspettiamo lo stesso successo per questo terzo appuntamento.
Perché questi corti restano delicati e una grande passione di grandi e piccini.

FERRARA E LE CITTÀ INVIVIBILI
Addenda apocrife alle Città di Calvino

 

Già il Gran Kan stava sfogliando nel suo atlante le carte delle città che minacciano negli incubi e nelle maledizioni: Enoch, Babilonia, Yahoo, Butua, Brave New World.

E Marco Polo: Puoi aggiungerne altre di città invivibili e maledette, o una sola, addormentata sopra una gran pianura, che ne riassume molte.

Cangiascutmai è la città che cambia nickname, detta pure Camàlea, Da rossa che si fa faticosamente all’inizio del secolo XX, in armonia con i mattoni delle sue case, diventa nera in un batter d’occhio – e di legnate – per oltre un ventennio, per tornare rossa. Da poco è nuovamente nera. I cittadini si bastonano da sé, con pesanti schede elettorali.

Si è detta Bicicléta, il solo mezzo di trasporto che può portare al socialismo. Fa procedere alla giusta velocità, trasporta pesi incredibili, accompagna, in luogo del bastone, il passo che con gli anni si fa insicuro.

Ora è Màkina: tutti in auto, i pedoni sono automobilisti provvisoriamente appiedati. L’auto segna il passaggio all’età adulta, spesso anche a miglior vita e lo stesso concepimento. Qualche parte della città ne era faticosamente risparmiata. Ora non più da nessun mezzo, per quanto ingombrante.
Occorrono però interventi radicali per trasformarla nella mitica Tiro, la città dei TIR, come pure si vorrebbe.

E’ detta pure Nèbia,  Calìgo la dicono i visitatori goranti, Fumàna, i quasi mantovani. È indescrivibile perché non si vede niente. Lo spasso consiste nell’appoggiarsi al muretto – circonda il fossato del grande Castello, al centro della città – e dire “Vedi che non si vede. Si taglia con il coltello. Ci puoi appoggiare la bicicletta…”. 

Pandèmia è un nome che condiviso con altre città. Si stava molto in casa. Balli e canti dai balconi ora sono cessati. Quancuno esce ancora mascherato e con i guanti, per non lasciare impronte.

È anche chiamata  Sgàrbia, da un mecenate, generoso con i soldi di tutti. Invita gli amici a prendere posti di rilievo in città. Sono spesso persone stimate nei campi loro. Al suo tocco si trasformano. Una sorta di re Mida al contrario, lo si direbbe. I suoi ammiratori si salutano dicendosi “Capra, capra,  capra”,

Bàlbia è uno scutmai che pure si sente. Onora un grande trasvolatore, caro al mecenate esteta, forse perché raccomanda “A quel prete dategli delle bastonate di stile”. Ed era solo un prete di campagna.

Naòma è nome popolare. Non so se il Naomo locale – taluno lo vede bene emulo di Pietro Gonnella – abbia preso lo scutmai da un personaggio del comico Panariello, abituato a umiliare i suoi interlocutori.
Le sue gesta sono molte e quasi leggenda. Noto solo che sia Panariello che Gonnella sono un dono della città di Fiorenza alla quale la Ferrara Cangiascutmai ha dato Savonarola e il più noto degli Aldighieri.

La città, o almeno una sua parte, è detta Fòbia: ama il nero, ma non il negro, soprattutto se nigeriano.
Ha soppiantato, nel rigetto, il sempreverde zingaro e l’albanese, che ha ultimato la sua breve stagione.
La Nigeria, leggo, prende il suo nome dal fiume Niger. Questo però non deriverebbe dal latino niger ma dal portoghese negro o preto, che vogliono dire appunto nero.
È la differenza tra la zuppa e il pan bagnato. Ma se sono portoghesi si spiegherebbe l’aspirazione – proclamata a gran voce dai fobici – di condividere il nostro benessere senza pagare.
Mi piace di più che il nome derivi dal Tuareg gber-n-igheren (il fiume dei fiumi), abbreviato in ngher, un nome locale utilizzato lungo il medio corso nei pressi di Timbuctù. e, aggiungo, lungo il Po: negher, negar.

Infine Pentàgona, per la forma benaugurante della città, ispirata agli studi del grande Pellegrino Prisciani.
Molto ci sarebbe da dire, Gran Kan, a questo proposito. Forse sarebbe la risposta alle domande sullo scopo dei miei viaggi: “Rivivere il passato, ritrovare il futuro”. Così la città può farsi Tetràgona, pur restando Pentàgona. Non si restringe al quadrangolo del castrum, che l’ha generata. Si fa ferma, costante, resistente a ogni urto e contrarietà; irremovibile di fronte alle odierne sciagure. Lo dice un suo figlio, che ha avuto altrove fortuna: “avvegna ch’io mi senta Ben tetragono ai colpi di ventura”. Allora, Gran Kan, non sarà più tra le città minacciose e maledette.

In copertina: Dettaglio del sarcofago di Prisciano Prisciani,  commissionato dal suo “pio figlio Pellegrino”, come sottolineato nell’iscrizione.  

Parole a capo /
Rita Bonetti: “D’amore e di altre storie”

IL BACIO

A dire il vero non so dirti nient’altro
potrei dirti che c’ero
nell’ombra di quella sera

La tua bocca di fianco
e dopo
più dentro di me

il tuo bacio

Una fossa scavata
nell’anima mia bambina

Bello inventare parole
che mai saranno fra me e te
il giardino che ho dentro
profuma di parole taciute
che non è di parole
che io t’amo

Questa bella ed intensa poesia è inserita nell’ultima fatica letteraria di Rita Bonetti “D’amore e di altre storie (Bertoni Editore, 2021). In una recente conversazione, nella rubrica web settimanale “Circolare poesia”, diretta da Mattia Cattaneo, Rita Bonetti ha parlato dell’amore come “una ricerca su più piani di lettura, per conoscere se stessa sempre meglio. Uno scavo interiore per conoscere, per capire”. C’è una ricerca di un codice amoroso scritto con frammenti della propria storia.
“L’amore, dice Rita, ci salva sempre perché è l’unica cosa a cui aspiriamo e noi nasciamo dall’amore.” Scrivere dell’amore cercando di non essere mai banali, cercando di riconquistare continuamente l’originalità della relazione.
“La maggior parte delle ferite d’amore me le procura lo stereotipo” (anticamera della banalità, ndr.), scrive Roland Barthes in “Frammenti di un discorso amoroso“, (…) “ma quando la relazione è originale, lo stereotipo viene sconvolto, superato, evacuato”. Un antidoto a questo rischio è, per la poetessa bolognese, che la poesia sia strettamente connessa alle proprie emozioni. Come se si cercasse una originalità sempre imprevedibile, inclassificabile, atopica.

L’AMORE

Da un nascondiglio mai dischiuso
riaffiorano i graffi
su cui si è posato il bianco dell’inverno
punge ancora la spina
lascia labbra di sangue

Beato l’amore
che sopravvive agli amanti
e non s’annuvola nel tempo
che appassisce la pelle

La rugiada che specchia la luna
spegne il brivido alla rosa d’inverno
e il dolore si consegna muto
alla profondità di un pozzo
all’ombra spessa che ci trova nudi
senza il coraggio di amare ancora

Tra le cosiddette ‘altre storie’, ci sono poesie che mi hanno colpito per la loro intensità descrittiva ed emotiva. Ad esempio “Al parco una sera“: una sera di primo autunno in malinconica solitudine, camminando tra foglie e pensieri. Oppure frammenti di vita quotidiana ‘tagliata’ da voci giudicanti fuori quadro come “Una bambola“, una poesia che sceglie parole efficaci per evidenziare il contrasto stridente (e purtroppo reale) tra pietas e ignoranza.

UNA BAMBOLA

E’ un’alba livida
di calze smagliate
rimmel colato
e dolore nero

Incespica su tacchi stanchi
non lascia impronte sulla strada
la bambola rotta

Appese ai balconi
le malinconie della miseria
dietro le persiane
un’ombra curva urla “poveraccia!”

Uno spicchio di cielo vira al turchino
oppure
sono occhi brilli di bambino

Appiccicosa e calda
si stringe la mano

All’inizio del suo libro, come una porta d’ingresso, Rita Bonetti mette dei “dettagli“,  come fossero delle indicazioni sulla propria scrittura.

DETTAGLI

Mi è difficile descrivere.
I dettagli
si perdono per strada
come bottoni
di un vecchio cappotto

Scritti spaiati
scatti rubati
bozzetti accennati
di pittura astratta

Qualche segno
e la parola urgente
si stringe forte
all’emozione di vivere

Durante la lettura del libro, ti accorgi spesso che le poesie lasciano aperti orizzonti (davanti al mare in ascolto dei suoi suoni, andando indietro nei ricordi dell’adolescenza e gioventù, in un cielo magico anche senza stelle) quasi volando sopra l’infinito e da lì esplorare ‘nuove profondità’ o con la voglia di staccarsi dalle cose della vita quotidiana che ogni giorno mandano in onda lo stesso copione ma, nonostante tutto, seminano “granelli di poesia in frammenti di carta sottile”.  Sono come fotografie in movimento.

NESSUNA ORMA

Sono sempre le stesse
le cose del mondo

Della gente
i rumori corrotti
i lamenti e brusii

Sulla battigia
nessuna orma rimarrà

La tragedia scolpirà i volti
nelle ore cupe che ci separano
dalla vista del sole
e nessuno ne uscirà liscio

Dal nero dell’inchiostro assorbita
vorrei confondermi con un gabbiano
per la durata di un volo

Un’ultima annotazione sulla bella copertina. Una foto fatta dal figlio Ivan Selva durante un viaggio in Nepal nel 2020. L’Everest di notte in lontananza, un cielo stellato, quasi un sogno. Un’immagine che rimanda un desiderio di spiritualità. Un aspetto che è presente a più riprese in questo bel libro che consiglio.

Rita Bonetti nasce e vive a Bologna. Da sempre innamorata di romanzi e letteratura.
Dopo la laurea in Archeologia presso l’Università di Ferrara, inizia una stretta collaborazione di scrittura creativa con due amiche storiche e nel 2017 pubblica la prima opera narrativa, una raccolta di racconti scritti a tre mani Le Regine di Quadri. Contemporaneamente, l’autrice approfondisce la passione per la poesia e nel mese di Febbraio 2019 esce la sua prima raccolta di liriche “Persiane Blu”, Armando Siciliano Editore. Nel settembre 2019, questa raccolta di poesie si classifica al secondo posto al Concorso Internazionale POETIKA LAB. Il 18 Maggio 2019 la sua poesia Dettagli e l’11 Gennaio 2020 la sua Poesia “Scrivi per me” vengono pubblicate nella rubrica La bottega della Poesia del quotidiano Repubblica di Bologna. La sua poesia Il bacio si classifica sesta tra i dieci vincitori del PREMIO WILDE Concorso Letterario Europeo sezione POESIA D’AMORE. Nel 2020 l’autrice inizia la sua collaborazione con il sito web Lo Scrigno di Pandora, per la pagina della poesia. Nel 2021 viene pubblicato “D’amore e di altre storie”, Bertoni Editore.

La rubrica di poesia Parole a capo curata da Pier Luigi Guerrini esce regolarmente ogni giovedì mattina su periscopioPer leggere i numeri precedenti clicca [Qui]

Vite di carta /
Gigi Proietti e La mandragola di Machiavelli

Vite di carta. Gigi Proietti e La mandragola di Machiavelli

E’ da ieri dopo il consueto giretto al mercato del mio paese che mi frullano nella mente dei flash da La Mandragola, la celebre commedia che Machiavelli compose molto probabilmente nel 1518. Devo mettere a fuoco cosa abbia scatenato queste associazioni che continuano anche oggi, brevi ma insistenti, a mettere in collegamento piccoli fatti della vita quotidiana e pagine della nostra letteratura.

Ho conosciuto Sofia, nata tre settimane fa, mentre dormiva beatamente nella sua carrozzina sgargiante. Ci tenevo a incontrarla e proprio ieri è successo, stando prudentemente all’aperto, in una giornata mite e con un po’ di sole; l’incontro è avvenuto vicino alla chiesa piccola, a due passi dalla piazza, vero crogiolo di avventori, regolarmente dotati di mascherina, che fanno acquisti e chiacchiere vicino alle bancarelle.

E’ nata una bambina, è una gioia. E se anziché essere stata concepita dai genitori che conosco fosse la figlia tanto desiderata da Lucrezia e Nicia? Madonna Lucrezia e l’anziano marito messer Nicia Calfucci vivono agiatamente nella Firenze del primo Cinquecento; il loro grande cruccio è che non riescono ad avere figli. Siamo alla situazione iniziale della commedia; per completarla dobbiamo introdurre il terzo vertice del triangolo amoroso che domina lo svolgimento dei cinque atti.

Si chiama Callimaco ed è giovane e aitante; soprattutto è innamorato pazzo della bellissima Lucrezia; è venuto appositamente per conoscerla da Parigi a Firenze e dopo che l’ha veduta ammette: “Sommi acceso in tanto desiderio d’esser seco, che io non truovo loco”. Non sa dove stare, lo si dice ancora oggi per indicare il massimo del pathos.

Callimaco vuole a tutti i costi conquistare Lucrezia, per appagare il proprio desiderio e per assecondare il suo temperamento intraprendente: se la ‘Fortuna’ lo ha messo davanti a questa passione totale egli impiega ogni suo risorsa, la sua ‘virtù per conseguire lo scopo. Per esempio sa circondarsi di persone che possono aiutarlo fattivamente, a partire dall’amico Ligurio che conosce bene il marito di Lucrezia e assume la regia della beffa con cui raggirarlo.

Vorrei dire a Sofia: pensa, piccolina, in quali aggrovigliate vicende ti sto trasportando. Per far nascere una bimba come te, o un maschietto, lo sciocco messer Nicia si lascia convincere da Callimaco, nei panni di un luminare della medicina, che la moglie rimarrà incinta se berrà una pozione prodigiosa fatta con l’erba chiamata mandragola.

Pozione miracolosa, che presenta il conto però. Il primo uomo che giacerà con Madonna Lucrezia attirerà su di sé il veleno e molto probabilmente ne morirà, e allora bisogna mettere nel letto della signora un “garzonaccio” qualunque che ci lasci la pelle al posto di Nicia.

Cosa non è disposto ad architettare un innamorato! Infatti è Callimaco travestito da povero diavolo a intrufolarsi nel letto, sotto l’attenta supervisione del beffato Nicia nel ruolo di cerimoniere. Ora dobbiamo considerare le donne e Fra’ Timoteo, se vogliamo conoscere per intero il sistema dei personaggi.

Le donne sono due: Lucrezia, che è una donna devota e irreprensibile e rimane sconvolta dalla prospettiva di tradire il marito commettendo un peccato mortale; sua madre Sostrata, che al contrario è donna dai costumi assai liberi e ben volentieri si presta a partecipare alla beffa ai danni del genero. Se con Sostrata entra in scena una figura femminile dai tratti licenziosi, il culmine della corruzione si raggiunge con Fra’ Timoteo, che è spinto a entrare nella macchinosa beffa dalla sola sete di denaro.

L’azione si sposta dalla piazza e dalle case dei protagonisti alla chiesa che è poco distante. Qui il frate dice di avere studiato a lungo il caso e qui riceve Lucrezia e la madre. Vediamo il punto in cui con il suo argomentare astuto egli scardina le convinzioni della donna: è un bellissimo esempio di eloquenza, dove la forza delle parole ottiene effetti straordinari. Dal momento che “madonna Lucrezia è savia e buona – pensa il frate – io la giugnerò in sulla bontà” per prenderla in trappola.

E allora la prima argomentazione riguarda la coscienza e un principio generale: “dove è un bene certo ed un male incerto non si debbe mai lasciare quel bene per paura di quel male”. Il bene certo è che la donna, rimanendo gravida, darà una nuova creatura a Dio; il male che ciò procurerà al garzonaccio che ha giaciuto con lei non è certo, alcuni in questi casi si salvano.

La seconda motivazione riguarda l’atto peccaminoso, che tale non è – continua il frate – “perché la volontà è quella che pecca, non el corpo”, semmai è peccato dispiacere al marito, ma Lucrezia sta invece procurando una gioia a messer Nicia.

Infine l’argomentazione che esce dalla bocca di Fra’ Timoteo ma potrebbe essere pronunciata dal Principe e provenire dalle pagine dell’omonimo trattato, l’opera più conosciuta di Machiavelli, è:  “El fine si ha a riguardare in tutte le cose: el fine vostro si è riempire una sedia in paradiso, e contentare el marito vostro”. Là il bene dello Stato e qui la felicità della famiglia motivano le azioni umane.

Nella bella versione televisiva della commedia uscita alla fine degli anni Settanta per la regia di Roberto Guicciardini, Duilio Del Prete interpreta Fra’ Timoteo e il suo stile è impeccabile, elegante. Totò ha invece vestito i panni del frate nel film girato da Alberto Lattuada nel 1965 e che ha lo stesso titolo della commedia: il suo eloquio è più marcato, i gesti sono ampi e la scena assume un’impronta macchiettistica.

Immagino davanti alla figura di Lucrezia un terzo irresistibile Fra’ Timoteo interpretato da Gigi Proietti. Tra le opere teatrali a cui ha lavorato nella sua lunga carriera non ho trovato La mandragola e, anche se la mia indagine richiede un approfondimento, la lascio per lavorare con l’immaginazione: ora che con la sua morte è uscito dal tempo, lo proietto all’indietro e ne faccio un personaggio della nostra commedia.

Due anni fa, il 5 novembre, al suo funerale l’attore Edoardo Leo ha omaggiato il maestro con parole lucidissime, ha riconosciuto in lui la capacità straordinaria di coniugare maestria nella recitazione, professionalità e leggerezza. Ho capito che erano le parole giuste per definire Gigi Proietti come artista. Grazie ai servizi televisivi sulla sua carriera, in questi giorni così frequenti da competere con i continui aggiornamenti sulle elezioni americane, mi pare di sentirlo più presente di prima nel nostro immaginario.

Me lo vedo già avvicinare Lucrezia con un’aria assorta, lo sento sciorinare le ragioni che alleviano la sua coscienza e la condurranno a scoprire i piaceri dell’amore grazie al giovane e focoso Callimaco. La modulazione della voce è straordinaria e attraversa i toni più diversi, dai più suadenti a quelli perentori; la mimica del volto si piega a rendere evidente il senso di ogni singola parola.

Mi pare meno stupefacente, ora, il finale della commedia. Posso abituarmi al cambiamento repentino di madonna Lucrezia, che dopo la notte trascorsa con l’amante si dichiara pronta a continuare a fare “sempre” con lui “quel che’l mio marito ha voluto per una sera”.

Se la Fortuna è donna, come pochi anni prima Machiavelli ha affermato nel Principe, l’intraprendenza e la forza della giovinezza di Callimaco hanno saputo batterla. Lucrezia è sua. D’altra parte anche lei rivela di sapersi adeguare all’evolversi delle situazioni, è disponibile a mutare seguendo il corso della Fortuna.

Si riconosce nella sua decisione finale una sana concretezza che viene da lontano, almeno dalla visione laica del Decamerone, affermatasi quasi due secoli prima, dalla logica mercantile che vi ha già trovato il suo trionfo, per cui Lucrezia trova il proprio piacere e il proprio tornaconto nel promettersi a Callimaco.

E il beffato Nicia? Non trova di meglio che mostrarsi riconoscente a Ligurio e Callimaco, che come medico ha risolto il suo problema, dando loro “la chiave della camera d’in su la loggia, perché possino tornarsi quivi a loro comodità”. Beffato e felice, viene da concludere.

In realtà lascio concludere la commedia a Fra’ Gigi, che con aria ammiccante saluta gli spettatori, non li trattiene più a lungo, perché la funzione che egli va a dire ora in chiesa alla presenza dei protagonisti è lunga. Ognuno tornerà al proprio posto dopo la messa e il pranzo: lui in chiesa, gli altri a casa.

E’ trascorso un giorno da quando Ligurio ha messo in piedi la complicata beffa e una gaia relatività, che, a conoscere meglio il pensiero di Machiavelli, diviene sempre meno gaia e più amara, ci ha fatto conoscere non uomini e donne ideali, ma colti nella loro concretezza, implicati nei casi della vita, immersi  nella “realtà effettuale della cosa”.

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Inflazione e Bce: l’operazione è perfettamente riuscita, il paziente è morto

 

Inflazione: aumento dei prezzi. Fenomeno economico sulla bocca di tutti, ma che non produce i medesimi effetti nelle tasche di tutti.

Banca Centrale Europea (BCE): istituzione che, quando l’inflazione sale troppo, aumenta il costo del denaro.

In una memorabile scena del film Philadelphia, Tom Hanks – che interpreta il ruolo di un avvocato di successo – dopo essere stato licenziato dal prestigioso studio legale in cui lavora perchè sieropositivo, va da Denzel Washington, anch’esso avvocato nel film, per farsi rappresentare nella causa che vuole intentare al suo studio. Denzel Washington, avvocato meno in carriera del suo cliente, gli si rivolge ad un certo punto con le seguenti parole: “Ok. Adesso spiegamelo come se avessi soltanto due anni”.

Bene. Ci provo anch’io.

Se il mondo richiede un miliardo di mascherine ffp2 ogni giorno, e il sistema produttivo riesce a fabbricarne solo 800 milioni al giorno, ci sono troppe richieste di mascherine – e troppi soldi per acquistarle – in rapporto alla quantità disponibile. Visto che non ce ne sono abbastanza per tutti, chi se le aggiudicherà? Chi è disposto a pagarle di più.

Altro esempio. Covid 19, prima ondata. Lockdown. Il mondo si ferma. Per restare in contatto e non sentirsi totalmente escluse dalla socialità, le persone incrementano l’uso degli strumenti per interagire da remoto: personal computers, webcam, consolle, smartphone. Nel contempo, però, anche la produzione dei chip che servono a far funzionare pc, webcam, consolle, smartphone si ferma. In alcune delle nazioni dove il Covid ha colpito per primo – come la sconfinata Cina –  hanno sede alcune tra le maggiori industrie di chip o semiconduttori. La domanda si impenna, la produzione (quindi l’offerta) dei chip addirittura diminuisce. Risultato: i prezzi decollano.

Questi sono due classici esempi in cui la causa dell’inflazione è l’eccesso di domanda rispetto all’offerta dei beni.

Per rallentare l’aumento dei prezzi, la Banca Centrale fa costare di più i soldi, aumentando gli interessi da pagare per prenderli in prestito. Se ad una famiglia o un’azienda avere i soldi a credito costa di più, ne prenderà meno. Proiettando la cosa su grande scala, il sistema avrà meno soldi da spendere per comprare i beni relativamente “scarsi” rispetto alla loro richiesta (mascherine e chip), con il risultato che il loro prezzo si stabilizzerà, anzichè continuare a crescere.

Questi esempi, tuttavia, raccontano una verità molto parziale sull’attuale crisi dei prezzi. La verità completa la sa e la dice (un po’ in camuffa) anche Christine Lagarde, attuale Presidente della BCE: “Poiché molte delle fonti di inflazione oggi sono dal lato dell’offerta, le politiche del governo che aumentano l’offerta e reindirizzano gli investimenti sono necessarie per sostenere la crescita…Il modo in cui le politiche fiscali sosterranno le imprese e le famiglie nel difficile inverno che ci attende avrà un ruolo importante nella dinamica dell’inflazione. Sono necessarie misure mirate, temporanee e su misura per proteggere i redditi dei più vulnerabili”.

Ok. Adesso rispiegamelo come se avessi soltanto due anni.

Ci riprovo. Christine Lagarde e il suo board si percepiscono come un chirurgo e la sua equipe: hanno uno scopo, quello di rendere stabile la dinamica dei prezzi, così come il chirurgo e la sua equipe devono estirpare il male dal corpo del malato con gli strumenti che hanno: il bisturi. Lagarde si muove rigidamente nell’alveo dei compiti istituzionali della Banca Centrale Europea: allentare o stringere i cordoni della borsa (il costo del denaro) per non far decollare i prezzi. Quando Lagarde afferma che molte delle fonti di inflazione sono “dal lato dell’offerta”, sta dicendo due cose.

Primo: io Lagarde so perfettamente che l’inaudita impennata dei prezzi di gas, elettricità, petrolio non dipende da una penuria di questi beni, ma da una furiosa speculazione sui prezzi, che li ha fatti alzare ben prima dello scoppio della guerra in Ucraina. Quindi il problema della attuale crescita dei prezzi è molto legato ad una distorsione dell’offerta, non ad un eccesso di domanda.

Secondo: quello che io Lagarde posso fare è agire sulla domanda (quanto costano i soldi), non sull’offerta. Quindi non chiedetemi quello che non mi compete. Chiedetelo ai governi.

Il meccanismo distorsivo che sta alterando il normale rapporto tra domanda e offerta, creando prezzi stratosferici sull’energia pur senza penuria dei beni energetici, è agito dai grandi fondi americani che si sono impadroniti (in termini proprietari e funzionali) della Borsa del Gas di Amsterdam (leggi qui sul non paper con cui l’Unione Europea ammette il clamoroso “errore” che ha aperto le porte alla speculazione).

L’equivalente, per la BCE, del paziente per il chirurgo, sono famiglie e imprese. Siamo noi.

Ok. Adesso rispiegamelo come se avessi soltanto due anni.

Nella tua famiglia le entrate sono fisse: stipendio, che è fermo (anche perchè nel 1985 la maggioranza degli italiani stabilì che era giusto non aumentare automaticamente i salari all’aumentare dei prezzi, NdA). Invece le uscite sono cresciute, e cresceranno ancora, per due ragioni fondamentali: la prima è che le bollette continuano a non rispecchiare il rapporto tra domanda e offerta, ma riflettono un prezzo virtuale, basato in massima parte sulle scommesse su quello che varrà l’energia domani. Un prezzo virtuale che diventa reale. Una follia. La seconda ragione è che c’è una parte della popolazione che può ricaricare sul proprio prezzo l’aumento dei propri costi, facendolo pagare almeno in parte a te, quando vai a fare la spesa. Sempre con lo stesso stipendio di prima. Come beffa finale: se vai in banca a chiedere soldi perchè le tue entrate correnti non ti bastano più per vivere, il denaro ti costa (per ora) il doppio di prima. Questa ultima conseguenza dipende da quello che ha fatto la BCE.

Quanto al ruolo della BCE nel calmierare i prezzi, potremmo quindi trovarci in una situazione del tipo: “l’operazione è perfettamente riuscita, il paziente è morto”. Ma il chirurgo Lagarde potrà sempre discolparsi dicendo: io ho fatto il mio lavoro, e tecnicamente l’ho fatto anche bene. Il paziente è morto? Non per colpa mia. E la cosa buffa è che non ha tutti i torti.

Per quanto tempo l’Unione Europea continuerà a trattare i suoi cittadini come quegli specialisti che si occupano della malattia e non del malato? Il dermatologo dà la pomata, l’otorino dà le gocce, lo pneumologo dà l’ossigeno, l’oncologo dà la chemio, il chirurgo taglia. E nessuno che si preoccupi di ascoltare quello che dice l’altro, e soprattutto nessuno che si preoccupi di ascoltare il paziente. Anche Christine Lagarde si occupa della malattia, non del malato. E così fanno i principali organi dell’Unione, e così fanno i singoli governi di questa Europa che non è mai nata. Ed esattamente come nelle strutture sanitarie, a morire prima sono i più poveri.