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Da quando, e sono tanti anni, mi batto per la messa al bando universale della maternità surrogata mi sento dire che, nelle discussioni,  tiro su muri proprio perché mi esprimo “contro”  una pratica e che questo muro mi impedisce di mettermi in ascolto.  Anni fa quando iniziai a occuparmi di questo tema il mio primo incontro è stato con le famiglie arcobaleno. Gli Incontri, che sono sempre stati segnati dal rispetto reciproco, da subito hanno evidenziato quanto fosse quasi impossibile capirci. Eravamo in una babele.
Le parole cardine per nominare questa pratica, madri, maternità, gestazione , gravidanza, amore, dono, figlio/a, utero, corpo, rimandavano a significanti differenti a seconda di chi le usava e si trasformavano in quel muro che ci impediva di comunicare.
Oggi continuo a riflettere sul quel muro e forse ho trovato” le parole per dirlo” , per spiegarlo concretamente.

Uno degli argomenti più popolari tra coloro che sostengono la maternità surrogata è che se la pratica esiste allora bisogna regolamentarla per evitare che succedano aberrazioni, o almeno limitarne un uso improprio. Il ragionamento che sta dietro a questo assunto è sensato e logico, però, per regolamentare una pratica c’è bisogno di usare le parole.
La legge ha bisogno di parole che siano chiare e comprensibili; ma  per mettere nero su bianco la pratica della maternità surrogata c’è bisogno di disincarnare la parola, si deve usare una parola slegata dai suoi significanti profondi e umani.  Questa legge ha bisogno di slegare le parole dalla carnalità se no non può essere scritta.
Le madri surrogate diventano contenitori, valige in viaggio che portano un pacco … sono de-umanizzate.
Durante la gestazione queste donne, sono affiancate da psicologi che le aiutano a ricordare continuamente che non sono le madri della creatura, ma che stanno compiendo un ”viaggio”  per altri, proprio per evitare quell’attaccamento biologico naturale che si forma nei nove mesi di gestazione, in loro non deve radicarsi in  alcun modo la coscienza di essere gravide. Ma  la parola non è solo una parola di senso che giunge al cervello che, poi, come un software la analizza razionalmente, la parola è anche il pianto del bambino neonato  che appena nasce chiede il contatto con il corpo che lo ha portato in grembo perché è l’universo che conosce, la parola è anche lo strazio di vedere allontanato il frutto del proprio grembo, la parola è la vita e tutte le sfumature emotive che porta con sè.

Quel bambino che nasce da una madre contenitore che si ripete di non esserlo per nove mesi quali parole potrà avere? Quella donna che vende o dona il frutto del suo grembo si ammalerà per questo? Disincarnare le parole ha delle conseguenze su tutti, non solo su chi ne fa un uso, e porta alla famosa disfunzionalità di cui mi sembra sia affetta la società occidentale contemporanea.
E quello che mi è sempre più chiaro è che non ci possono essere parole incarnate per descrivere la maternità surrogata. Dividere la maternità tra gestazione e maternità è disumanizzare tutto il racconto della vita, perché relega la gestazione a un processo puramente meccanico mentre sappiamo che la gestazione è il punto di partenza del lungo viaggio della maternità, un viaggio che prende corpo e che contiene in sé tutti quegli aspetti ambivalenti che fanno parte del mistero della vita.
Dunque questa pratica per essere descritta ha bisogno di sovvertire un ordine simbolico.

Chi come me si schiera “contro questa pratica” mi dice di chiamarla ‘utero in affitto’ proprio per rendere evidente che si sta sfruttando una donna e i suoi organi, ma io mi ostino a chiamarla maternità surrogata perché noi donne durante la gestazione non siamo solo quell’utero, siamo persone con una storia e la maternità non è scissa da quella esperienza gestazionale. Allora poi mi si fa notare che esaltare la gravidanza discrimina le madri adottive – forse loro sono da meno di una madre naturale?  Certo che no! ad alcune di quelle madri adottive (non tutte) mancherà quella esperienza di gestazione (curioso che si parli sempre del dolore di una madre che non può avere figli e quasi mai del padre che non li può avere), ma noi tutti siamo esseri mancanti, tutti prima o poi facciamo esperienza di una mancanza.
È vero alcuni fanno esperienze mancanti durissime altri meno, mistero della vita, ma chi se la sente di mettere in una scala di valori  assoluto le mancanze?
Nessuno è dentro le persone e ne conosce le sofferenze interne
, l’inconscio non fa distinzioni. Per alcuni certe mancanze sono al limite del tollerabile e se non messe in parole diventano tunnel da cui non si esce mai e per me chi non riesce ad avere figli e vuole un figlio a tutti costi in realtà non mette in parola  questa mancanza, non la trasforma in altro.

Eppure la vita terrena non è altro che fare i conti con le mancanze e trasformarle, renderle mancanze feconde, capaci di generare altro! L’adozione è anche questo. Dunque siamo tutti mancanti ma il fatto di esserlo non giustifica il fatto che sia possibile usare qualsiasi mezzo per cancellare quella mancanza. Ricapitolando per mettere in parola questa pratica bisogna de-umanizzare le parole e questo è un processo in atto da tempo che a mio avviso  sta manipolando  la forma mentis delle persone, ecco perché  si deve lavorare sulle narrazioni e svelare quelli che secondo me sono i tranelli narrativi che il  dio mercato utilizza per rendere accettabile una pratica che non lo è.
Il mito transumanista, è al servizio proprio di questo dio mercato, di un dio tecnologia, di  cui la sinistra nel nostro paese curiosamente sta diventando la testimonial!

Basta guardare a cosa sta avvenendo alla Camera in questi giorni di discussione sul DDL Zan, andate a vedere come definiscono le parole sesso, genere e identità di genere; ci sarebbe da ridere se non fosse che  invece è drammatico). In Inghilterra non si può più parlare di donna incinta e si deve dire persona incinta, donna incinta è discriminatorio, non si può più parlare di donne che hanno il ciclo si deve dire soggetti mestruatori. Guardate la campagna della Tampax – il tweet  che voleva essere un inno alla inclusività e a sostegno delle persone transgender “È un fatto: non tutte le donne hanno il ciclo”, si legge nel messaggio del colosso Usa, “un altro dato di fatto: non tutte le persone con il ciclo sono donne.
Celebriamo la diversità di tutte le persone che hanno il ciclo [vedi: #mythbusting , #periodtruths#transisbeautiful ] per fortuna si è trasformato in un boomerang perchè le donne sono insorte!
Ecco è venuto il tempo di capire che con le parole non si scherza. Il femminismo si sta risvegliando. Le donne e i loro corpi non sono merci e gli esseri umani non sono prodotti o pacchi !
Ma per andare a fondo della questione delle parole in tanti campi, per chi è giunto alla fine di questo lungo articolo consiglio questa  conferenza di Nicoletta Dentico (che traduce magistralmente Vandana) con Vandana Shiva dal titolo  Ricchi e buoni? Il volto oscuro della filantropia globale [Vedi qui]– [ perché secondo me mostra  bene come le parole vengano piegate a certi interessi per  somministrare come tollerabili pratiche che altrimenti non lo sarebbero  e come questo avvenga in tutti i campi non solo in quello di cui ho parlato qui sopra.

La logica della costruzione e dei diritti delle cosiddette minoranze (che è la base del progressismo attuale) non può che portare ad un disastro: non sta in piedi ne da un freddo punto di vista logico ne da un più profondo punto di vista emotivo, etico e “spirituale”. E’ esattamente questa logica che sta alla basa del pensiero politicamente corretto (che è palesemente una forma di violenza); ed è sempre questa logica che spinge verso soluzioni transumaniste e manipolazioni di ogni tipo (certo non è il solo fattore). Bisogna pensarci molto seriamente perchè molte cose che sembrano contrarie a questo folle capitalismo neoliberista finanziario che sta portando alla distruzione delle civiltà (e del pianeta) ne sono in realtà i più fortei alleati a livello culturale e sociale.

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Roberta Trucco

Classe 1966, genovese doc (nel senso di cittadina innamorata della sua città), femminista atipica, felicemente sposata e madre di quattro figli. Laureata in lettere e filosofia con una tesi in teatro e spettacolo. Da sempre ritengo che il lavoro di cura non si limiti all’ambito domestico, ma debba investire il discorso politico sulla città. Per questo sono impegnata in un percorso di ricerca personale e d’impegno civico, in particolare sui contributi delle donne e sui diritti di cittadinanza dei bambini. Amo l’arte, il cinema, il teatro e ogni tipo di lettura. Da alcuni anni dipingo con passione, totalmente autodidatta. Credente, definita dentro la comunità una simpatica eretica, e convinta “che niente succede per caso.” Nel 2015 Ho scritto la prefazione del libro “la teologia femminista nella storia “ di Teresa Forcades.. Ho scritto la prefazione del libro “L’uomo creatore” di Angela Volpini” (2016). Ho e curato e scritto la prefazione al libro “Siamo Tutti diversi “ di Teresa Forcades. (2016). Ho scritto la prefazione del libro “Nel Ventre di un’altra” di Laura Corradi, (2017). Nel 2019 è uscito per Marlin Editore il mio primo romanzo “ Il mio nome è Maria Maddalena”. un romanzo che tratta lo spinoso tema della maternità surrogata e dell’ambiente.

Ogni giorno politici, sociologi economisti citano un fantomatico “Paese Reale”. Per loro è una cosa che conta poco o niente, che corrisponde al “piano terra”, alla massa, alla gente comune. Così il Paese Reale è solo nebbia mediatica, un’entità demografica a cui rivolgersi in tempo di elezioni.
Ma di cosa e di chi è fatto veramente il Paese Reale? Se ci pensi un attimo, il Paese Reale siamo Noi, siamo Noi presi Uno a Uno. L’artista polesano Piermaria Romani si è messo in strada e ha pensato a una specie di censimento. Ha incontrato di persona e illustrato il Paese Reale. Centinaia di ritratti e centinaia di storie.
(Cliccare sul ritratto e ingrandire l’immagine per leggere il testo)

PAESE REALE
di Piermaria Romani


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