di Daniela Brogi
Tratto da DoppioZero del 28 Dicembre 2022
Nel giorno della vigilia di Natale se n’è andata l’autrice di uno dei testi più rivoluzionari del secondo Novecento. All’epoca della prima edizione, nel 1973, Elena Gianini Belotti (1929-2022) non immaginava il successo che avrebbe avuto questo piccolo libro, tradotto in quindici lingue e arrivato a vendere più di mezzo milione di copie. Sono numeri che, per un lavoro saggistico, potrebbero corrispondere a un protagonismo pacifico nella storia della cultura italiana del secondo Novecento; eppure questa centralità è vera e non è vera, perché anche se in tante e in tanti, in questi giorni, ci stiamo ricordando del libro più noto di Gianini Belotti, in pochi casi, d’altra parte, potremmo confermare di averlo incontrato a scuola, o all’università, o in ogni caso di averlo sentito citare nel contesto di analisi complessive della società e di verifica dei poteri.
Le tradizioni, i loro assetti, i discorsi che le garantiscono, raccontano e fanno capire anche il modo in cui, producendo memoria pubblica, le istituzioni e i campi culturali definiscono e delimitano i criteri attraverso i quali riteniamo pensabile e indimenticabile il passato, la storia. E così, rispetto a questa parzialità, che molto spesso è stata orientata dalle medesime logiche sessiste dimostrate così bene proprio in Dalla parte delle bambine, il modo migliore di non tradire la memoria di Elena Gianini Belotti è mettere in salvo il valore pieno, passato e presente, di quell’esperienza. Dalla parte delle bambine, infatti, che tra l’altro è uscito venticinque anni prima dell’edizione originale di Il dominio maschile (1998) di Pierre Bourdieu, è un testo bello, importante e famoso, che potrebbe forse rischiare di continuare a essere considerato riduttivamente una lettura “da ragazze”, “da donne”, un libro “generazionale”, nel senso che è stato letto da una generazione intera (ed è vero), o pure nel senso (questo sbagliato) che può essere interessante solo per un pubblico nato in una particolare e lontana epoca. Ecco, questo è falso. Io stessa ho letto Dalla parte delle bambine quasi vent’anni dopo la sua uscita, e quando propongo di leggerlo a studenti che hanno vent’anni oggi, ogni volta, anche per loro, è una scoperta.
Si tratta di un libro che, con autorevolezza gentile, affronta, come dice il sottotitolo, “l’influenza dei condizionamenti sociali nella formazione del ruolo femminile nei primi anni di vita”. Ha quasi mezzo secolo, e lo porta benissimo. È un classico, proprio per la sua capacità di continuare a parlarci, a “saperci” parlare: con una sapienza, per l’appunto, fatta di cultura messa alla prova dall’esperienza diretta e dalla civiltà della relazione.
Questo “avere ancora da dire” accade per ragioni che in parte sono positive, in parte no: le prime riguardano la doppia felicità di scrittura e di metodo, perché Dalla parte delle bambine, fin dal titolo, che definisce così perfettamente uno spostamento di prospettiva rispetto a un mondo pensato essenzialmente al maschile, è un libro nuovo e sperimentale. Sperimentale non in senso retorico, ma concreto: sperimenta sguardo e narrazione lavorando sul campo.
Le ragioni negative della sua attualità riguardano invece la persistenza, anche nell’Italia di oggi, di una cultura della disparità legata al genere; riguardano la persistenza (o il ritorno) di un mondo in cui le convenzioni che hanno stabilito ciò che è tipicamente maschile e ciò che è tipicamente femminile, come spiegava Gianini Belotti, funzionano da dispositivi materiali e simbolici di disuguaglianza, di esclusione e di complessi di inferiorità.
Non è un manuale di comportamento, indirizzato solo a una certa categoria (quella, per esempio di chi affronta un’esperienza di genitorialità); è un testo che ci fa vedere dove portare gli occhi e far nascere i nostri pensieri, e in questo senso è una lettura fondativa per chiunque, perché mostra come per tanti aspetti il nostro destino si giochi attraverso il modo materiale (per questo l’educazione, come pratica, è così decisiva) in cui abbiamo imparato e ci è stato insegnato a stare al mondo. Ma volendo sinteticamente provare a fissare alcuni dei suoi meriti più importanti, potremmo intanto raccogliere quattro primi punti.
Il primo riguarda la capacità di mettere al centro l’educazione dei bambini, intesa però non in senso prescrittivo, retorico, meritocratico, classista, ma pragmatico, vale a dire non spiegando teorie astratte, ma osservando e costruendo un metodo che si avvale del modello delle Case dei bambini di Maria Montessori e della lunga esperienza di costruzione di una cultura della preparazione delle madri al parto. Attraverso una struttura in quattro capitoli (rispettivamente dedicati a L’attesa del figlio: I; La prima infanzia: II; Gioco, giocattoli e letteratura infantile: III; Le istituzioni scolastiche: la scuola infantile, elementare e media: IV), che ripercorrono le principali tappe di quella che potremmo definire la carriera di un bambino o di una bambina, Gianini Belotti ci fa vedere che a seconda di come trattiamo le nostre piccole persone (perché tali sono: persone) li educheremo a desiderare fortemente oppure no certe cose, a vivere certi spazi e esperienze come naturali oppure inaccessibili e impensabili. E così, accanto all’educazione, ecco che il secondo importante fuoco del discorso riguarda l’istruzione delle bambine: argomento affrontato dalle più importanti pioniere del femminismo, anche da Woolf in A Room of One’s Own, e violentemente attuale oggi che ci arrivano notizie sull’interdizione della scuola e dell’università alle donne.
Eppure, anche qui Gianini Belotti può aiutarci a non consolarci troppo attraverso la nostra distanza geografica dai territori talebani, perché le pagine su come i bambini maschi sono educati (attraverso il comportamento dei genitori, il gioco) a pensare di realizzarsi a seconda di ciò che saranno, mentre le bambine sono avviate a un mondo dove troveranno posto a seconda di ciò che daranno o di quanto saranno pronte a usare la seduzione per ottenere le cose, quelle pagine fanno male nel senso che fanno comprendere meglio tante narrazioni più vicine a noi – e fanno perfino capire che una coscienza bambina può essere anche quella di chi, pur avendo raggiunto o persino oltrepassato l’età adulta, non ha consapevolezza della propria oppressione.
La terza speciale eredità di Dalla parte delle bambine riguarda, oltre che questo libro, tutta l’opera di Gianini Belotti, autrice di quindici volumi, inclusi molti testi narrativi (romanzi storici per esempio), che continuano a sperimentare strade nuove per dare voce e racconto a punti di vista insoliti e silenziati dalle discriminazioni di genere, come quello di una bambina vissuta in epoca fascista (in Pimpì Oselì: 1995) o di una donna vissuta nella seconda metà dell’Ottocento artefice della scandalosa scelta di fare la maestra, in Prima della quiete (2003). Si tratta, in questo caso, di un romanzo ispirato a una biografia reale, quella di Italia Donati (1863-1886), portatrice di un nome ispirato alla nascita della Nazione, ma che d’altra parte ci parla anche di come l’unificazione italiana sia avvenuta sul corpo di tante donne oscurate dal racconto storico ufficiale. Attraverso il romanzo, qui come in molti altri casi, Gianini Belotti continua a cercare soluzioni nuove per inventare comunicazione, come dice il sottotitolo di un altro testo: Prima le donne e i bambini (1980).
E infine, ma solo per modo di dire perché con Gianini Belotti non si conclude mai ma si ricomincia sempre, il quarto importante punto che ci consegna è l’attitudine a ragionare di bambini, di bambine e di discriminazioni attraverso lo spazio della scuola, e ragionando in termini di logiche culturali complessive. Ecco, sinteticamente, perché sarà importante leggere e rileggere Dalla parte delle bambine. Finché ce ne sarà bisogno.
Dopo molti mesi di pensieri, ripensamenti, idee luminose e amletici dubbi, quello che vi trovate sotto gli occhi è il Nuovo Periscopio. Molto, forse troppo ardito, colorato, anticonvenzionale, diverso da tutti gli altri media in circolazione, in edicola o sul web.
Se già frequentate queste pagine, se vi piace o almeno vi incuriosisce Periscopio, la sua nuova veste grafica e i nuovi contenuti vi faranno saltare di gioia. Non esiste in natura un quotidiano online con il coraggio e/o l’incoscienza di criticare e capovolgere l’impostazione classica di questo “il giornale” un’idea (geniale) nata 270 anni fa, ma che ha introdotto dei codici precisi rimasti quasi inalterati. Nemmeno la rivoluzione digitale, la democrazia informava, la nascita della Rete, l’esplosione dei social media, hanno cambiato di molto le testate giornalistiche, il loro ordine, la loro noia.
Tanto che qualcuno si è chiesto se ancora servono, se hanno ancora un ruolo e un senso i quotidiani. Arrivano sempre “dopo la notizia”, mettono tutti lo stesso titolo in prima pagina, seguono diligentemente il pensiero unico e il potente di turno, ricalcano in fotocopia le solite sezioni interne: politica interna, esteri, cronaca, economia, sport…. Anche le parole sembrano piene di polvere, perché il linguaggio giornalistico, invece di arricchirsi, si è impoverito. Il vocabolario dei quotidiani registra e riproduce quello del sottobosco politico e della chiacchiera televisiva, oppure insegue inutilmente la grande nuvola confusa del web.
Periscopio propone un nuovo modo di essere giornale, di fare informazione. di accostare Alto e Basso, di rapportarsi al proprio pubblico. Rompe compartimenti stagni delle sezioni tradizionali di quotidiani. Accoglie e dà riconosce uguale dignità a tutti i generi e tutti linguaggi: così in primo piano ci può essere una notizia, un commento, ma anche una poesia o una vignetta. Abbandona la rincorsa allo scoop, all’intervista esclusiva, alla firma illustre, proponendo quella che abbiamo chiamato “informazione verticale”: entrare cioè nelle “cose che accadono fuori e dentro di noi”, denunciare Il Vecchio che resiste e raccontare Il Nuovo che germoglia, stare dalla parte dei diritti e denunciare la diseguaglianza che cresce in Italia e nel mondo. .
Con il quotidiano di ieri, così si diceva, oggi ci si incarta il pesce. Non Periscopio, la sua “informazione verticale” non invecchia mai e dal nostro archivio di quasi 50.000 articoli (disponibile gratuitamente) si pescano continuamente contenuti utili per integrare le ultime notizie uscite. Non troverete mai, come succede in quasi tutti i quotidiani on line, le prime tre righe dell’articolo in chiaro… e una piccola tassa per poter leggere tutto il resto.
Sembra una frase retorica ma non lo è: “Periscopio è un giornale senza padrini e senza padroni”. Siamo orgogliosamente antifascisti, pacifisti, nonviolenti, femministi, ambientalisti. Crediamo nella Sinistra (anche se la Sinistra non crede più a se stessa), ma non apparteniamo a nessuna casa politica, non fiancheggiamo nessun partito e nessun leader. Anzi, diffidiamo dei leader e dei capipopolo, perfino degli eroi. Non ci piacciono i muri, quelli materiali come quelli immateriali, frutto del pregiudizio e dell’egoismo. Ci piace “il popolo” (quello scritto in Costituzione) e vorremmo cancellare “la nazione”, premessa di ogni guerra e di ogni violenza.
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