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Ieri 20 anni anni fa moriva Giorgio Gaberščik, per tutti Giorgio Gaber. Magrissimo, un naso lungo in una faccia lunga, una voce calda e bellissima (“Parlami d’amore Mariù”), una mimica inimitabile, la passione per il palcoscenico, il sogno realizzato di sposare il Teatro con la Canzone. Amato da molti, odiato o mal sopportato da molti di più: a destra ma anche a sinistra. Io non l’ho dimenticato, non avrei potuto neanche volendo, ce l’ho spesso in testa, sulle labbra, in punta della penna.

Ma prima di dar spazio, e sarà sempre troppo poco, all’immenso artista (immenso è l’aggettivo giusto) che fu Giorgio Gaber, voglio raccontare una cosa che mi è successa quando ieri ho letto che erano passati vent’anni dalla sua morte. Una cosa piccola, molto normale, che credo capiti più o meno a tutti quando, davanti a un certo fatto, una particolare notizia, ti entra nel cervello il nitido ricordo di una persona che non c’è più. Magari il nonno, la mamma, un vecchio amico. Ma anche un personaggio famoso. Un potente, un politico, un artista, uno scrittore, un arguto pensatore…

E allora scatta automaticamente un’associazione di idee, inizia un monologo interiore, sei entrato nel loop, e formuli mentalmente le tipiche domande impossibili:
Che direbbe oggi Berlinguer davanti allo scandalo Qatar?
E se Adriano Olivetti incontrasse Briatore?
E se tornasse Ennio Flaiano, che aforisma inventerebbe per fotografare il borghese italiano della terza decade del terzo millennio?
E via fantasticando.

D’accordo, è solo un tic mentale, una curiosità destinata a rimanere nubile. Ma il meccanismo è scattato, non puoi non pensarci, e dentro la tua testa sfilano tutti i personaggi,  e ci parli pure; immagini anche la scena, battute comprese.
Cosa direbbe, che canzoni  canterebbe oggi Giorgio Gaber?
Chi metterebbe alla berlina, che coscienze andrebbe a disturbare, chi farebbe arrabbiare?

Io ho concluso che un redivivo Signor G se ne starebbe in perfetto silenzio. Perché puoi anche essere il più bravo di tutti, il più intelligente, il più autocritico, acuto, sottile, sincero, icastico (e Gaber lo era), ma anche l’ironia, l’invettiva, la satira a volte devono arrendersi. Davanti alla politica ridotta come è ridotta oggi, davanti allo sfracello delle idee e dei valori, davanti alla nostra televisione e stampa votate alla ipocrisia, davanti a questo e a tanto altro, anche la satira, maestra di verità, perde tutte le parole. Zitta e muta.

E pensateci, non è quel che già da anni è successo in Italia? La morte della satira.
Eccezioni non ne vedo. La navicella superstite di Fratelli di Crozza? No, nemmeno quella. Perché Maurizio Crozza è  un bravissimo professionista. Mi fa anche ridere certe volte. Ma il suo è un intrattenimento comico, non è la satira. La satira è quella cosa che “graffia fuori e scava dentro di te”.

Torno all’inizio. Ecco tutti gli anelli della mia catena mentale:
Povero Gaber morto 20 anni fa –  mi viene in mente lo straordinario monologo Qualcuno era comunista ricordo le facce recenti  televisive di Letta , di Cuperlo, della Serracchiani  – penso: “Ma cosa direbbe oggi Gaber ai post-post-post-comunisti del Partito Democratico?” – mi torna in mente mia nonna che mi dice quel che aveva detto il moribondo Francesco Ferrucci a quel lazzarone di Maramaldo “Vile, tu uccidi un uomo morto!” – penso un’altra volta al Pd – ora vedo il cartello: “Non si spara sulla Croce Rossa” – parlo con Gaber, ma lui è una statua:  zitto, muto, sbalordito –  una scena da post bomba, è la casapartito del Pd: mitragliata, demolita, sgretolataGaber si fruga nelle tasche, tira fuori i suoi piccoli arnesi di lavoro: uno stetoscopio, un martellino, uno scalpello che sembra un cacciavite. E li butta per terra.

Che satira vuoi fare? Anche perché Giorgio Gaber è un Signore, non un Maramaldo. Che altro potrebbe cambiare, cosa può aggiungere  a quel monologo che ha interpretato centinaia di volte in tutti i teatri d’Italia più di trent’anni fa? Niente. Allora l’unica è mandare a Letta e compagnia Qualcuno era comunista tale e quale, senza cambiare una virgola.

Giorgio Gaber è stato dipinto in cento modi:  il cane sciolto , l’anticlericale, il maestro di una nuova morale, il qualunquista e il compagno, il dissacratore e il moralista, il comunista e l’anarcoindividualista… Tutto e il contrario di tutto, secondo l’amore e l’umore dei cultori o l’ odio vigliacco dei detrattori della sua arte e della sua intelligenza. Ma una cosa è sicura, Giorgio Gaber è stato per decenni il grillo parlante, la scomodissima spina nel fianco della “Vecchia piccola borghesia” (Claudio Lolli) ma anche e soprattutto della Sinistra italiana. Bisognerebbe ascoltarlo e riascoltarlo oggi,  sarebbe un esercizio salutare.

Per questo , dopo il contributo al  non-congresso del Pd del grande Paolo Nori (cercatelo qui su periscopio), è venuto il momento di Qualcuno era comunista, il messaggio accorato e rabbioso di Giorgio Gaber.

Anche se ho il dubbio che sia un po’ troppo tardi. Perché Gaber non c’è più, ma non c’è più nemmeno il Pd.

Guarda il video del monologo

Il testo integrale:

Qualcuno era comunista

Qualcuno era comunista perché era nato in Emilia
Qualcuno era comunista perché il nonno, lo zio, il papàLa mamma noQualcuno era comunista perché vedeva la Russia come una promessaLa Cina come una poesia, il comunismo come il paradiso terrestreQualcuno era comunista perché si sentiva soloQualcuno era comunista perché aveva avuto un’educazione troppo cattolicaQualcuno era comunista perché il cinema lo esigeva, il teatro lo esigevaLa pittura lo esigeva, la letteratura anche: lo esigevano tuttiQualcuno era comunista perché glielo avevano dettoQualcuno era comunista perché non gli avevano detto tuttoQualcuno era comunista perché prima, prima, prima, era fascistaQualcuno era comunista perché aveva capito che la Russia andava piano ma lontanoQualcuno era comunista perché Berlinguer era una brava personaQualcuno era comunista perché Andreotti non era una brava personaQualcuno era comunista perché era ricco ma amava il popoloQualcuno era comunista perché beveva il vino e si commuoveva alle feste popolariQualcuno era comunista perché era così ateo che aveva bisogno di un altro DioQualcuno era comunista perché era talmente affascinato dagli operaiChe voleva essere uno di loroQualcuno era comunista perché non ne poteva più di fare l’operaioQualcuno era comunista perché voleva l’aumento di stipendioQualcuno era comunista perché la rivoluzione? Oggi, noDomani forse ma dopodomani sicuramenteQualcuno era comunista perché:“La borghesia, il proletariato, la lotta di classe, cazzo”Qualcuno era comunista per fare rabbia a suo padreQualcuno era comunista perché guardava solo Rai3Qualcuno era comunista per moda, qualcuno per principio, qualcuno per frustrazioneQualcuno era comunista perché voleva statalizzare tuttoQualcuno era comunista perché non conosceva gli impiegati stataliParastatali e affiniQualcuno era comunista perché aveva scambiato il materialismo dialetticoPer il Vangelo secondo LeninQualcuno era comunista perché era convinto di avere dietro di sè la classe operaiaQualcuno era comunista perché era più comunista degli altriQualcuno era comunista perché c’era il Grande Partito ComunistaQualcuno era comunista malgrado ci fosse il Grande Partito ComunistaQualcuno era comunista perché non c’era niente di meglioQualcuno era comunista perché abbiamo avuto il peggiore partito socialista d’Europa

Qualcuno era comunista perché lo Stato, peggio che da noi, solo l’Uganda
Qualcuno era comunista perché non ne poteva più
Di quarant’anni di governi democristiani incapaci e mafiosiQualcuno era comunista perché Piazza Fontana, Brescia
La stazione di Bologna, l’Italicus, Ustica, eccetera, eccetera, eccetera
Qualcuno era comunista perché chi era contro, era comunista
Qualcuno era comunista perché non sopportava piùQuella cosa sporca che ci ostiniamo a chiamare democrazia
Qualcuno, qualcuno credeva di essere comunista e forse era qualcos’altroQualcuno era comunista perché sognava una libertà diversa da quella americanaQualcuno era comunista perché credeva di poter essere vivo e feliceSolo se lo erano anche gli altri
Qualcuno era comunista perché aveva bisogno di una spinta verso qualcosa di nuovoPerché sentiva la necessità di una morale diversaPerché forse era solo una forza, un volo, un sogno
Era solo uno slancio, un desiderio di cambiare le cose, di cambiare la vitaQualcuno era comunista perché con accanto questo slancio ognuno era comePiù di se stesso: era come due persone in unaDa una parte la personale fatica quotidiana
E dall’altra il senso di appartenenza a una razza che voleva spiccare il voloPer cambiare veramente la vitaNo, niente rimpiantiForse anche allora molti avevano aperto le ali senza essere capaci di volareCome dei gabbiani ipotetici
E ora?Anche ora ci si sente come in dueDa una parte l’uomo inseritoChe attraversa ossequiosamente lo squallore della propria sopravvivenza quotidianaE dall’altra il gabbiano, senza più neanche l’intenzione del voloPerché ormai il sogno si è rattrappitoDue miserie in un corpo solo.

 

Post Scriptum
Volevo mandare il monologo/intervento del Compagno Gaber al quotidiano L’Unità. Insomma, capite, per correttezza professionale…
Ho  un caro amico, Franco, che una volta lavorava in redazione. Molto più in gamba di me, sempre informatissimo. Gli telefono e gli spiego la cosa.
Ma mi interrompe subito – Ma sei fuori?  Il giornale è morto e stramorto. Chiuso dopo lunga e penosa agonia, nel 2017.
– Morto stecchito?- dico io
– Secco.
– Ipotesi di resurrezione?
– Nulla.
Rimango un po’ intontito, ma mi riprendo subito – In effetti è un po’ che non lo vedevo più in giro. Ma, dico io, come caspita fa il partito senza il suo giornale? Mi par di sognare, ma non l’aveva fondato…
– Vuoi che non lo sappia? Io ci lavoravo nel giornale fondato da Antonio Gramsci!
– Incredibile Franco, sai che mi viene in mente?
– Che ti viene in mente?.
– Ho pensato adesso una cosa, ho pensato a che direbbe oggi Antonio Gramsci se gli chiudessero il suo giornale?
– Non so, ci devo pensare un attimo…
– Pensi che Antonio si incazzerebbe?
– Penso che ci rimarrebbe male. Magari direbbe: “ma siete diventati scemi?”
– Cioè si incazzerebbe di brutto.
– Beh, non era nel suo carattere.
– Mi stai dicendo che non si incazzerebbe?
– Beh, un po’ si incazzerebbe.
Cover: Giorgio Gaber in scena al Teatro Comunale di Ferrara (foto Marco Caselli Nirmal)
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Francesco Monini

Nato a Ferrara, è innamorato del Sud (d’Italia e del Mondo) ma a Ferrara gli piace tornare. Giornalista, autore, infinito lettore. E’ stato tra i soci fondatori della cooperativa sociale “le pagine” di cui è stato presidente per tre lustri. Ha collaborato a Rocca, Linus, Cuore, il manifesto e molti altri giornali e riviste. E’ direttore responsabile di “madrugada”, trimestrale di incontri e racconti e del quotidiano online “Periscopio”. Ha tre figli di cui va ingenuamente fiero e di cui mostra le fotografie a chiunque incontra.

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Caro lettore

Dopo molti mesi di pensieri, ripensamenti, idee luminose e amletici dubbi, quello che vi trovate sotto gli occhi è il Nuovo Periscopio. Molto, forse troppo ardito, colorato, anticonvenzionale, diverso da tutti gli altri media in circolazione, in edicola o sul web.

Se già frequentate  queste pagine, se vi piace o almeno vi incuriosisce Periscopio, la sua nuova veste grafica e i nuovi contenuti vi faranno saltare di gioia. Non esiste in natura un quotidiano online con il coraggio e/o l’incoscienza di criticare e capovolgere l’impostazione classica di questo “il giornale” un’idea (geniale) nata 270 anni fa, ma che ha introdotto  dei codici precisi rimasti quasi inalterati. Nemmeno la rivoluzione digitale, la democrazia informava, la nascita della Rete, l’esplosione dei social media, hanno cambiato di molto le testate giornalistiche, il loro ordine, la loro noia.

Tanto che qualcuno si è chiesto se ancora servono, se hanno ancora un ruolo e un senso i quotidiani.  Arrivano sempre “dopo la notizia”, mettono tutti lo stesso titolo in prima pagina, seguono diligentemente il pensiero unico e il potente di turno, ricalcano in fotocopia le solite sezioni interne: politica interna, esteri, cronaca, economia, sport…. Anche le parole sembrano piene di polvere, perché il linguaggio giornalistico, invece di arricchirsi, si è impoverito.  Il vocabolario dei quotidiani registra e riproduce quello del sottobosco politico e della chiacchiera televisiva, oppure insegue inutilmente la grande nuvola confusa del web.

Periscopio propone un nuovo modo di essere giornale, di fare informazione. di accostare Alto e Basso, di rapportarsi al proprio pubblico. Rompe compartimenti stagni delle sezioni tradizionali di quotidiani. Accoglie e dà riconosce uguale dignità a tutti i generi e tutti linguaggi: così in primo piano ci può essere una notizia, un commento, ma anche una poesia o una vignetta.  Abbandona la rincorsa allo scoop, all’intervista esclusiva, alla firma illustre, proponendo quella che abbiamo chiamato “informazione verticale”: entrare cioè nelle  “cose che accadono fuori e dentro di noi”, denunciare Il Vecchio che resiste e raccontare Il Nuovo che germoglia, stare dalla parte dei diritti e denunciare la diseguaglianza che cresce in Italia e nel mondo. .

Con il quotidiano di ieri, così si diceva, oggi ci si incarta il pesce. Non Periscopio, la sua “informazione verticale” non invecchia mai e dal nostro archivio di quasi 50.000 articoli (disponibile gratuitamente) si pescano continuamente contenuti utili per integrare le ultime notizie uscite. Non troverete mai, come succede in quasi tutti i quotidiani on line,  le prime tre righe dell’articolo in chiaro… e una piccola tassa per poter leggere tutto il resto.

Sembra una frase retorica ma non lo è: “Periscopio è un giornale senza padrini e senza padroni”. Siamo orgogliosamente antifascisti, pacifisti, nonviolenti, femministi, ambientalisti. Crediamo nella Sinistra (anche se la Sinistra non crede più a se stessa), ma non apparteniamo a nessuna casa politica, non fiancheggiamo nessun partito e nessun leader. Anzi, diffidiamo dei leader e dei capipopolo, perfino degli eroi. Non ci piacciono i muri, quelli materiali come  quelli immateriali, frutto del pregiudizio e dell’egoismo. Ci piace “il popolo” (quello scritto in Costituzione) e vorremmo cancellare “la nazione”, premessa di ogni guerra e  di ogni violenza.

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Francesco Monini
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