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Presentazione del volume di Carlo Tassi “Pensieri e altre carabattole”.
Giovedì 16 novembre 2023, ore 17, Biblioteca Ariostea

Giovedì 16 novembre 2023, alle 17, presso la Biblioteca Ariostea in Via delle Scienze, 17, a Ferrara sarà presentato il libro del nostro Carlo Tassi, edito da Este Edition. Dialoga con l’autore, il giornalista Sergio Gessi

“Like a rolling stone”. Lasciatemi subito dire che non mi trovo d’accordo con il titolo di questa intensa raccolta di pensieri e di vita. Tutto si può dire tranne che si tratti di carabattole. Carabattola, una parola dall’etimologia evangelica che porta con sé il significato di “cosa di poco conto”. Surge, tolle grabatum tuum, et ambula. Come sabbia nelle scarpe. Non è certo questo il caso delle pagine di Carlo. Al suono onomatopeico cui, invece, mi porta la parola, assocerei, piuttosto, l’immagine di una pietra rotolante, a rolling stone.

I pensieri, infatti, scorrono, cadono giù, quasi a strapiombo, da una cima di montagna innevata, fragorosi, rumorosi, pesanti, travolgenti, insistenti, persistenti, avvolgenti, potenti. Come una valanga impetuosa che spazza via tutto. Spazzano via il tempo, la paura, la noia, la gioia, i ricordi, la tristezza, la felicità, la bellezza, la bruttezza, l’ansia, la giovinezza, la vecchiaia. (…)

Parte della prefazione al libro di Carlo che ho avuto l’onore di preparare, su suo gentilissimo invito, ma lascerei la parola a lui.

Pensieri e altre carabattole è nato dall’urgente bisogno di mettere un po’ d’ordine nella mia stanza delle idee. Con quei fogli scritti di notte, da tanto tempo in attesa d’essere etichettati in qualche modo, ormai sempre più tra i piedi, che non sapevo più dove e come sistemarli. Un giorno mia moglie Cristina mi dice: ‘Smettila di portarteli ovunque, rileggerli e rigirarli ogni momento … Fanne un libro e non pensarci più!’.
Forse aveva ragione lei. Forse, da fogli sparsi un po’ ovunque come carabattole, dovevo decidermi a considerarli elementi variabilmente creati per un unico insieme, come i frammenti di un mosaico. Pensieri, sogni, memorie e brevi racconti, appunto. Semplici parti di un qualcosa che a ben vedere rivela chi sono io. Ci vuole del coraggio a scrivere!”.

Vi aspettiamo numerosi, dunque.

Carlo Tassi, nato a Ferrara nel 1964, impara a disegnare ancor prima di imparare a scrivere e non smetterà più. Innamorato di fumetti da sempre, da ragazzo scopre la passione per la letteratura americana leggendo autori pulp come Lovecraft e Howard, ma anche Fante, Bukowski, Steinbeck. Studi di architettura, una laurea in scienze e tecnologie della comunicazione, vari mestieri, dall’operaio al grafico e illustratore freelance, poi l’approdo al giornale online “Ferraraitalia”, quindi a Periscopio,  come autore e vignettista.

Evento a cura del Consorzio Eventi Editoriali, Cover del libro dell’autore

UN BEL POSTO DOVE VIVERE.
9 suggerimenti per costruire piccoli mondi a misura d’uomo

Un bel posto dove vivere.  9 suggerimenti per costruire piccoli mondi a misura d’uomo

Un un contesto sociale sempre più urbanizzato e sempre più mobile sembra essersi modificato radicalmente il legame delle persone con i luoghi e delle comunità con i territori che abitano. Da un lato, come ha notato Marshall McLuhan, più aumenta la mobilità e, in particolare, la velocità della mobilità, più viene distrutta la possibilità della comunità”; dall’altro gli spazi sono sempre più privatizzati e ridotti a merce, trasformati in mero panorama in alcuni casi, spesso de-classificati a contenitori di beni e di oggetti, ridotti a supporti per il traffico di merci ed informazioni o, peggio ancora, deprezzati e ridotti a discariche per le esternalità della produzione e del consumo. Malgrado questo non possiamo che vivere in un ambiente senza mai dimenticare che la qualità della nostra vita dipende ampiamente dalla qualità dell’ecosistema in cui viviamo.

L’uomo del futuro, che abbiamo imparato a conoscere attraverso l’immaginario cinematografico scaturito dagli incubi visionari di Philip K.Dick, rimane un monito e allo stesso tempo una sinistra possibilità. Oggi comunque nessuno può vivere nei circuiti digitali dove viaggia il capitale globale e dove scorrono le informazioni; nessuno può ancora vivere bene nei circuiti della logistica planetaria, dove circolano le merci stipate nei container, non meno delle persone inscatolate nei charter; non possiamo vivere a lungo e in salute in non luoghi e negli ambienti degradati; per fortuna gran parte di noi vive ancora in uno spazio fisico, in un territorio, in un posto che si può riconoscere come “casa”.

Malgrado si viva sommersi da prodotti materiali e servizi c’è ancora chi resta convinto che la qualità della vita e la salute dipendano anche dalla possibilità di respirare aria pulita, bere acqua pura, godere di buoni paesaggi, mangiare cibi naturali e salubri, coltivare buone relazioni personali, vivere in spazi a misura d’uomo, disporre di tempo libero, conoscere gli altri e conoscere se stessi. Il sistema socio-economico in cui viviamo non nega affatto queste possibilità: lo fa però attraverso la trasformazione dei bisogni in merci e servizi, attraverso il mercato, la privatizzazione e, in ultima istanza (e purtroppo) attraverso la distruzione dell’ambiente, delle culture, dei beni comuni e collettivi.
Emerge con tutta evidenza la miopia di un discorso collettivo tutto centrato sul PIL, sulla crescita, sul teatrino della politica totalmente succube dei poteri forti della finanza, dove la democrazia diventa una rappresentazione rituale e stereotipata, dove la sostenibilità viene ridotta a semplice argomentazione, quasi sempre priva di applicazioni concrete. A fronte di questo c’è l’opportunità per ogni cittadino di cambiare rotta, di uscire dalle conversazioni politicamente corrette, di guardarsi attorno, di pensare e di proporre qualcosa, lavorando su ciò che è vicino e di cui ci si può prendere cura direttamente.

Cosa chiedere dunque, cosa suggerire? Cosa serve per costruire qualcosa di meglio a partire dal basso, dal territorio e dalle comunità? In che modo dare senso e contenuto alla massima “pensare globalmente agire localmente”?

  • 1. Servono spazi ben organizzati dal punto di vista urbanistico, nei quali poter vivere a misura delle fragilità umane, partendo dal presupposto che i bisogni essenziali delle persone vengono prima di quelli riconducibili alle merci; un territorio organizzato in modo tale che le fasce più deboli della popolazione, anziani, bambini, diversamente abili e ammalati, possano esercitare l’elementare diritto alla cittadinanza, alla mobilità pedonale, al gioco e alla sicurezza e, in tal modo, possano vivere la propria naturale socialità indipendentemente dall’esistenza di prodotti e servizi a pagamento. Il territorio non può essere regolato dalla logica della speculazione e della corruzione che rappresenta fin troppo spesso il volto visibile del mercato.
  • 2. Servono luoghi di vita nei quali poter praticare e sviluppare la nostra capacità di contemplazione esteticaLuoghi che valorizzino il patrimonio ambientale e culturale, dove si presti grande cura alla qualità urbanistica ed architettonica, alla qualità dell’aria che si respira e dell’acqua che si beve. Non è più sostenibile la vita in territori abbruttiti dai quali si evade di tanto in tanto per godere a pagamento di spazi dedicati ad un benessere momentaneo.
  • 3. Servono infrastrutture tecnologiche intelligenti, piattaforme diffuse che favoriscano l’apprendimento, che generino capacità, che diminuiscano gli sprechi e che non esproprino le persone dei loro talenti per sostituirli sempre con merci e servizi a pagamento. Le tecnologie abilitanti che si presentano in forma di reti ed autostrade digitali, sistemi di controllo intelligenti, sistemi di coproduzione energetica e quant’altro, rappresentano un modo per attivare il protagonismo e la responsabilità delle persone e un mezzo per rendere le comunità maggiormente protagoniste del proprio destino.
  • 4. Serve un modo nuovo di guardare ai bisogni delle persone, capace di separare ciò che è essenziale in termini di promozione della libertà e delle capacità personali e dei gruppi da ciò che è indotto dalla coazione al consumo. Il bisogno è sia una carenza che una motivazione, una spinta all’azione: non è più sostenibile che il bisogno venga esclusivamente ridotto ad una funzione della produzione, mentre questa dipende dai giochi di una finanza completamente sganciata dalla realtà della vita delle persone. Non è bene che i bisogni vengano definiti in via esclusiva da una casta di professionisti il cui unico scopo è salvaguardare ed ampliare la propria sfera di influenza con i relativi benefici economici.
  • 5. Serve una conoscenza reale e diffusa del territorio, della cultura e dell’ambiente in cui si vive; spesso è qui infatti che sono presenti straordinari saperi, conoscenze e competenze che non possono essere ridotte al mero folklore o relegate al campo dell’obsoleto; esse costituiscono di per sé potenziali micro agenzie formative non formali che si collocano al di fuori dei circuiti (scolastici) ufficiali. In Italia la ricchezza di questo patrimonio è straordinaria: si tratta di importanti dimensioni di senso che possono acquisire una rilevante dimensione anche economica se si esce dagli stereotipi dei mercati di massa e si osservano con cura le opportunità dei mercati di nicchia. Queste agenzie non formali di apprendimento vanno riscoperte a valorizzate in modi innovativi che vadano oltre la logica del nobile e antico imparare a bottega.
  • 6. Bisogna riconoscere e valorizzare, accanto all’economia formale, l‘economia informale, conviviale e familiare, che comunica e produce senso attraverso lo scambio di beni e servizi non contabilizzati. È il recupero dell’economia del dono, dell’informalità, della socievolezza che può dare più valore alla vita sociale senza nulla togliere all’importanza dell’economia ufficiale.
  • 7. Serve una consapevolezza diffusa circa i danni alla salute che sono causati da uno stile di vita dissipativo, dall’alimentazione insalubre spinta dalla corsa al profitto, dal vivere in ambienti inquinati, pensati per le merci e non per gli uomini che, ridotti a consumatori, quelle dovrebbero semplicemente produrre e consumare. Le evidenze sono chiarissime pubblicamente dichiarate dalle agenzie sanitarie ma sempre disattese alla prova dei fatti.
  • 8. Servono nuove storie, nuove narrazioni e nuovi miti capaci di sostenere un cambiamento di enorme portata che ci investe nel profondo. Bisogna infatti riconoscere che sono le strutture narrative ben più dei numeri e delle statistiche che ci consentono di comprendere il mondo come ben sanno tutti i manipolatori della pubblica opinione, i professionisti dei media e i pubblicitari.
  • 9. Soprattutto servono persone capaci di motivare ed entusiasmare, di portare modi alternativi di vedere le cose dentro processi decisionali che sono attualmente abbandonati agli interessi della speculazione ed ai meccanismi apparentemente impersonali della burocrazia e della finanza.
Su tutte queste tematiche esiste un ampio dibattito che fatica però a tradursi in pratica; da un lato la comunicazione è soffocata e traviata dalla retorica mainstream; dall’altro troppi attori interessati si sono impadroniti della forma ma non della sostanza di queste argomentazioni: capitale sociale, resilienza, crescita sostenibile, sviluppo di comunità, innovazione sociale, programmazione partecipata, integrazione di politiche locali, governance locale, inclusione, sono le etichette che ad ondate successive si abbattono sui territori, solitamente senza alcuna consapevolezza dei fini e dei valori che veicolano e dei vincoli che pongono se correttamente applicate.
Purtroppo basta girare ed osservare lo scempio degli ultimi 30 anni per capire come all’aumentare della retorica della sostenibilità sia aumentato anche e in misura decisamente maggiore il danno prodotto.
Impossibile uscirne?
NO, se appena si riconosce l’impotenza di un pensiero basato sull’unico feticcio della crescita ad ogni costo e sull’idolatria del mercato e del profitto per il profitto;
NO, se si sanno cogliere e valorizzare i semi di cambiamento che già esistono, assumendo consapevolmente un ruolo di cittadini più attivi attenti a quello che abbiamo intorno e vicino.
Intanto, facciamo un sforzo per uscire dai miti dissipativi ed iniziamo ad inventare, costruire e raccontare storie buone e diverse.
Si può fare,
Passaparola!

Le storie di Costanza /
Novembre 2062 – Il piastrino medicale

Le storie di Costanza. Novembre 2062 – Il piastrino medicale

A novembre c’è la nebbia e si mangiano le castagne arrosto. Zeus-t le deposita ancora bollenti nelle ciotole di legno e le trasporta volando ai commensali. Buone e calde sanno d’autunno e di tepore, sono gialle e dolci.  Mi trovo a casa della prozia Costanza e della nonna Cecilia in via Santoni Rosa. Qui abitano i ‘santoniani’, buona parte dei miei parenti.

Sono le sedici, sono tornata da Trescia e invece di andare dritta a casa mia, ho fatto una deviazione girando in questa via stretta e corta dove abitano i miei nonni e i miei zii. Mi piace venire in questa casa, perché la prozia mi dice sempre che sono bella e brava, perché la casa è accogliente, perché i canarini che qui vivono, sono colorati e canterini e mi allietano le giornate con la loro presenza saltellante.

Pit-x è l’uccellino meccatronico che abita nella voliera di Costanza. Saltella sempre di qui e di là e fa girare la testa velocemente, un piccolo periscopio sempre in movimento. Mi sono seduta in terra sul tappeto di mollan che è posizionato in parte sotto la voliera e in parte la precede, creando una piccola area coperta dove è piacevole riposare.

Sono qui senza scarpe, con i jeans e un maglione, i capelli legati, alcuni braccialetti di stoffa colorata legati al braccio sinistro, vicino al cinturino dell’orologio, me li ha regalati Dylan.

Sul braccio destro ho invece posizionato il piastrino medicale, piccolo computer che serve per rilevare l’eventuale anomalia dei miei parametri vitali. È collegato ad una grossa macchina dell’ospedale, in modo che se succede qualcosa, i sanitari mi chiamano e io vado là per farmi curare.

Per fortuna non capita quasi mai che delle persone vengano allertate per recarsi urgentemente dai medici. I controlli periodici bastano per scongiurare la presenza di malattie gravi e il piastrino dorme silente attaccato al braccio. Molte persone non lo vogliono, dicono che quell’affare mette ansia e che non si può permettere ai medici di spiare continuamente lo stato di salute della gente.

Facciano come preferiscono, io lo voglio, a me piace averlo al braccio, lo trovo tranquillizzante. So che, se mi dovesse succedere qualcosa di grave, ci penserebbe il piastrino ad aiutarmi.
Quasi tutti i miei compagni di università lo usano, mentre molte persone anziane lo detestano, lo considerano un’intrusione inaccettabile nella normalità della loro vita.

Credo che questa opposizione di vedute sia proprio un segnale dei tempi che passano. I giovani trovano normale e utile portare il piastrino, gli anziani il contrario. Non fa parte della loro storia, delle loro abitudini. Quel piccolo computer da polso è un forte indicatore di come la meccatronica e i suoi apparecchi accompagnano la nostra vita, praticamente in tutto. A noi giovani sembra normale, ai vecchi sembra intrusiva la sua presenza e coercitivo il suo uso.

I piastrini sono graziosi. Ci sono sia monocolore sia variopinti e alcuni hanno anche delle piccole pietre incastonate. Il mio ha un brillantino minuscolo che lo fa luccicare quando il braccio è girato in modo da incontrare direttamente la luce. Sul mio polso brilla per un attimo una piccola stella, poi la luce scompare e resta la presenza di quell’oggetto che ci conosce alla perfezione.
Sa quanti battiti ha fatto il nostro cuore da quando siamo nati, quanti ne ha fatti nell’ultimo anno, nell’ultimo giorno e nell’ultima ora.
Sa più di quanto ne sappiamo noi della nostra salute, forse è proprio questo tipo di sapienza che fa paura, a cui bisogna abituarsi un po’ alla volta. I nativi del piastrino sono diversi dagli altri esseri umani, hanno incorporato dentro la loro percezione corporea (ciò che è il loro corpo) un apparecchio che li aiuta ma non è congenito, è tardivo e applicato.

Il piastrino può anche essere portato come un collare legato al collo. Una specie di collana un po’ rigida che manifesta la sua presenza quotidianamente. A me messo al collo non piace, sembra un po’ un collare per cani, un po’ un monile di una sfinge egizia e un po’ un cappio. Troppo impegnativo e omologante. Lo preferisco al braccio, è più discreto, più anonimo. Accompagna senza invadere, è presente in maniera meno aggressiva.

Quanto il nostro corpo sia autentico e quanto sia bionico, cioè aiutato da apparecchiature costruite, rende alcune considerazioni sulla durata della vita e sulla sua qualità, attuali. Retine finte, dita finte, fegati prodotti in laboratorio, impianti ed espianti di quasi tutti gli organi vitali, farmaci che fanno crescere e rimpicciolire organi esistenti, potenti intromissioni sui DNA dei bambini, quanto su quello degli anziani. Molte malattie scomparse, altre appena arrivate. Una vita lunga, piena di accidenti. Questo è quello che ci garantisce quest’anno che si avvicina alla fine.

Novembre è il penultimo mese dell’anno. Se uno guarda fuori dalla finestra capisce il perché. È un anno vecchio quello che ci accompagna in questi giorni, tetro. Ha già vissuto la primavera e l’estate, i suoi giorni migliori sono sbocciati tra i fiori e si sono arroventato col caldo di agosto.

Settembre ha ingiallito le foglie e colorato d’azzurro il cielo, ora restano novembre e dicembre e poi un nuovo anno arriverà con tutti i suoi campanelli. Come quello della befana, che il nuovo anno accompagna. Novembre è grigio e nebbioso, novembre è buio. Eppure, a me piace. Si può stare seduti sul tappeto e leggere, parlare, pensare, fantasticare. Fare ipotesi su come sarà il Natale, su come sarà il prossimo anno.

Quando il tempo col suo grigiore lascia spazio alla fantasia umana come forme di rimedio e sollievo, nascono i migliori pensieri, il cervello si rigenera in un processo introspettivo che non ha bisogno di riscontri che vengono dai tramonti rossi e dalle mattine bianche e brillanti. Il pensiero di novembre si rigenera nel cervello e nel cuore. Trae linfa vitale dai ricordi e sostanza nelle aspettative.

Qui seduta sul tappeto sto pensando che per Natale regalerò un piastrino a Dylan, il mio migliore amico. Credo che ne sceglierò una versione semplice, color metallo con sfumature azzurre. Lo vorrei quadrato con il cinturino di cauton trasparente.

Il cauton è un polimero traspirante e leggerissimo, un cinturino di cauton pesa circa due grammi. Come non averlo. Così uno si dimentica il piccolo computer da polso e convive con esso come con i suoi capelli e le sue unghie. Dylan ne ha già uno, ma si lamenta perché dice che è troppo grande e colorato. In realtà è a strisce rosse, bianche e blu. Ricorda la bandiera francese. È ora di cambiarlo e di renderlo più moderno, ci sta.

Pensando al regalo da fare a Dylan mi torna in mente che, circa dieci anni fa, alla prozia Rachele è successa una disavventura. Davanti alla palazzina dove abita a Torino c’è un tombino. In una mattina piovosa la prozia è scivolata sull’asfalto davanti a casa e, per mantenersi in piedi, si è appoggiata con il braccio destro al muro vicino. La malaugurata sorte ha voluto che, a causa dell’urto violento del polso contro il muro, il piastrino si sia staccato e sia caduto nel tombino.

Così sono iniziate tutta una serie di manovre per recuperarlo, prima compiute direttamente da Rachele e poi da buona parte del vicinato che un po’ alla volta, allertato dalla strana posizione semisupina della prozia davanti alla porta di casa, si è avvicinata per portare il suo aiuto a quella povera donna sofferente.

La sofferenza non dipendeva però da un problema fisico appena insorto e la strana posizione non era causata da un malessere improvviso, ma semplicemente dal fatto che la prozia era stesa a terra e aveva infilato il braccio nel tombino per recuperare il suo piastrino. Nel tombino sono così stati inseriti pezzi di stoffa, di plastica, fil di ferro, uncini più o meno lunghi, stringhe, lacci per le scarpe, fibbie, corde con piccoli arpioni fissati in testa. Non c’è stato niente da fare, in piastrino è rimasto sul fondo del tombino.

Dopo diversi tentavi la prozia e i vicini si sono trovati tutti bagnati e doloranti per strada e l’impresa è stata abbandonata, anche perché, come tutti gli apparecchi meccatronici, anche i piastrini temono l’acqua e quello di Rachele era ormai inzuppato e moribondo.

È stato Pino a decidere che era ora di abbandonare l’impresa di recupero: “lasciamolo lì, ormai non c’è più niente da fare, portiamo in salvo noi stessi da questa pioggia, prima che ci venga la polmonite”. Alcuni vicini si sono adeguati subito alla proposta, altri hanno messo in atto un ultimo tentativo di recupero, per poi abbandonare definitivamente l’impresa.

Il piastrino medicale, ormai fuori uso, è stato recuperato il giorno dopo da un netturbino. Dopo essere stato ripulito, è stato deposto in uno dei cassetti del comodino di Rachele, come ricordo nefasto di quel che può succedere nelle giornate di pioggia. Per comprarne uno nuovo ci vuole circa uno stipendio di un impiegato, non uno sproposito, ma nemmeno un nonnulla. Ci sono anche sottomarche che hanno prezzi molto più bassi per chi non può permettersi altro.

Esiste anche una diatriba politica sul fatto che sia o non sia il caso di fornirlo a tutti gratuitamente, di fornirlo facendo pagare solo il ticket, di renderlo gratuito solo per i giovani, solo per gli anziani. Il dibattito prosegue e non sembra volersi arrestare. Intanto il tempo passa, e gli strilli dei politici riempiono la piazza.

Di fatto, ognuno compera il piastrino in base ai soldi che ha. Due anni fa io e mio fratello Gianblu ne abbiamo regalato uno alla prozia Costanza, per il suo compleanno. Prima ci ha abbracciato e poi ci ha detto con la sua voce squillante: “Grazie ragazzi miei, terrò il vostro regalo nel comodino e quando sarò vecchia vedrò di utilizzarlo!”

La zia ha novant’anni, ma il minicomputer al polso non se lo mette mai. È proprio vero che l’idea di vecchiaia e giovinezza ha una componente di soggettività importante. Anche per il concetto di utilità e non utilità è così, come per quello di salute e non salute, di essenzialità.

Così ognuno continua a fare ciò che vuole, a usare o non usare il piastrino medicale, facendo impazzire i sanitari e rivendicando nella quotidianità l’autonomia di decidere ciò che significa libertà. Viene rivendicata l’autonomia di decidere se la regolarità dei parametri vitali determina l’essenzialità dei giorni che viviamo.

Non so. Mi viene in mente l’accidentalità degli eventi che fanno battere il cuore, il colore delle emozioni e il vento della passione che spira forte e violento.  Il cuore che batte forte è uno dei pochi eventi che, qualche volta, riesce a cambiare la nostra vita.

I parametri vitali si alterano e l’esistenza cambia strada senza necessariamente passare dall’ospedale. Allora il piastrino può anche squillare ma nessuno lo ascolta, come quando il navigatore viene spento per ritrovare il senso della strada che si farà. Nel cammino, nel vento, per il tempo che sarà.

N.d.A.
I protagonisti dei racconti hanno nomi di pura fantasia che non corrispondono a quelli delle persone che li hanno in parte ispirati. Anche i nomi dei luoghi sono il frutto della fantasia dell’autrice.

Per leggere gli altri articoli di Le storie di Costanza la rubrica di Costanza Del Re clicca sul nome della rubrica o il nome dell’autrice

Passante di Mezzo a Bologna: La resistenza cresce

Passante di Mezzo a Bologna: La resistenza cresce

Continua la lotta contro il Passante di Mezzo a Bologna. Giovedì attiviste e attivisti del comitato Chico Mendes, residenti del quartiere Navile, e altri della galassia “No Passante” si sono riuniti sotto la sede regionale dell’Arpae Emilia Romagna a Bologna.

Appena iniziata la “spentolata” di protesta, dall’Arpae sono scesi subito a parlare con i manifestanti.

“Abbiamo chiesto all’Arpae dati aggiornati sull’inquinamento dell’aria, forniti dalle nuove centraline lungo la tangenziale, ci hanno detto che le centraline non sono gestite da Arpa ma da Autostrade, e che i dati vengono pubblicati dall’Osservatorio ambientale per il Passante, dove comunque siede anche Arpae. I dati finora pubblicati, accorpati e trimestrali non sono sufficienti, né confrontabili con quelli della VIA. Ci hanno assicurato che porteranno la nostra richiesta in Osservatorio” riassume Elisa, attivista di Chico Mendes “noi continueremo a pressare e vigilare affinché ciò avvenga”.

“Altro punto cruciale è la Valutazione di Impatto Ambientale che risale al 2016, già scaduta (dopo 5 anni ndr) e riproposta senza alcun aggiornamento, nonostante si basi su dati, studi e tendenze già smentiti dai processi in corso, che sottostimano l’inquinamento del traffico”. Le associazioni aspettano a questo riguardo la sentenza del Tar al quale hanno fatto ricorso.

Dall’inizio del 2023 però sono partiti i cantieri “preliminari” per il Passante che già hanno portato all’abbattimento di migliaia di grandi alberi per il cosiddetto “lotto 0”.

“Nonostante siamo in assenza di un Progetto Esecutivo del Passante di Bologna (fermo al Ministero competente), qui a Bologna già si chiudono parchi e giardini pubblici, e si abbattono migliaia di alberi, che costituiscono un patrimonio comune” denunciano gli attivisti.

L’assemblea no Passante è stata finora promotrice di grandi manifestazioni popolari (come quella del 22 ottobre 2022 con 30 mila persone) oltre a continue “spentolate” rumorose sotto al Comune di Bologna per contestare il “greenwashing” e chiedere la Valutazione di Impatto Sanitario.

Mercoledì sera intanto l’assemblea cittadina (100 cittadini sorteggiati e rappresentativi della composizione sociale di Bologna), fortemente richiesta da Extinction Rebellion, dopo mesi di incontri e formazione, ha votato un documento conclusivo con svariate proposte. Quella che più spicca è proprio la VIS, la Valutazione di Impatto Sanitario per il Passante, che considera il danno alla salute provocato provocato dall’allargamento del Passante in un’area urbana densamente popolata, tra scuole, case e centri sociali. Allargare il Passante di Mezzo significherà infatti il passaggio di ulteriori 25 mila veicoli al giorno rispetto ad ora, per un totale di 65 milioni veicoli l’anno, con un aumento evidente di poveri sottili e inquinanti. Oggi il Passante produce più del 40% dello smog cittadino, con l’ampliamento, aumenterà ad almeno il 50%, in una zona, quella della Pianura Padana già tra le più inquinate in Europa. A dispetto della lotta al consumo di suolo, 25 ettari di territorio saranno asfaltati tra San Lazzaro e Borgo Panigale, le emissioni di CO2 totali saranno 266 mila all’anno, (+1850) rispetto al non allargamento.

Ora la palla passa al Consiglio Comunale che potrebbe decidere di cassare le richieste “scomode” dell’assemblea cittadina (come la VIS) e accettare solo quelle comode e inoffensive, ma per la Bologna progressista e “verde” (come si dipinge) sarebbe un ulteriore smacco.

Per domenica 19 novembre alle 10, intanto è prevista una nuova “spentolata” di protesta sotto al Comune di Bologna e alle 16 assemblea al circolo Caserme Rosse, via di Corticella.

Linda Maggiori
Sono nata a Recanati nel 1981, fin da piccola ho sempre adorato scrivere e lottare contro le ingiustizie. Laureata in Scienze dell’Educazione e Servizio sociale ho fatto varie esperienze come educatrice. Ho scritto vari libri per adulti e bambini sull’ambiente, sono blogger per il Fatto Quotidiano, collaboro come giornalista con Terra Nuova, il Manifesto, e con la testata di comunicazione ambientale Envi.info. Vivo a Faenza (Ra), con mio marito e i nostri quatto figli, dove da 10 anni sperimentiamo e testimoniamo uno stile di vita sostenibile: senz’auto, a rifiuti (quasi) zero, con solo energia rinnovabile.

CPR A FERRARA: LA CATTIVERIA E L’IGNORANZA.
Eppure si potrebbe cambiare rotta e restare umani

CPR a Ferrara: la cattiveria e l’ignoranza. Costruire un altro carcere,  trattare le persone come virus da isolare, significa solo un rischio per la società. Invece si potrebbe cambiare rotta e “restare umani”. Con risultati migliori. 

Ho un ricordo: l’ultimo comizio in piazza a Ferrara tenuto da Alan Fabbri accompagnato da Matteo Salvini prima dell’elezione a sindaco.
In quella occasione Fabbri disse che se fosse diventato sindaco a Ferrara non si sarebbero più visti i burqa. Non donne con il velo, ma proprio donne con il burqa, ovvero quell’abito che copre integralmente corpo e viso delle donne.
Ora penso che forse sia Salvini che Fabbri intendessero il velo, quello che anche mia madre portava negli anni 70: a Ferrara non ho mai visto donne con il burqa.

Dichiarazioni e promesse fatte con superficialità e cattiveria, non supportate da alcuna realtà e verità.

Ora, costruire un CPR a Ferrara per questa Giunta, che voleva debellare il burqa, parrebbe  essere utile per gestire problemi di irregolarità e criminalità.

Problemi per i quali esiste già un carcere, che si è visto non essere il sistema più adeguato per gestire problemi di irregolarità e che rappresenta un costo in termini di violazione sia dei diritti umani che di quelli economici, in assenza di un reale rischio che le persone migranti perlopiù trattenute rappresentino un vero pericolo per la società.

Ricordo che già le attuali leggi vigenti in materia di espulsione non riescono ad essere applicate per ragioni su cui sarebbe utile tornare a ragionare e che espellere le persone comporta comunque costi molto elevati: esistono infatti già progetti e sistemi di rimpatrio volontario e forzato che faticano ad essere attuati anche per poche persone.

Perché dunque costruire un CPR dove arriverebbero migranti da ogni luogo e che rappresenterebbe un bacino di raccolta di persone trattate come virus da isolare?  Se fosse cosi si costruirebbe davvero un centro di rischio per la salute pubblica.
Oppure saremmo di fronte alla costruzione di una sorta di “albergo” per migranti? In questo caso qualcuno di esterno e non migrante potrebbe rivendicare giustamente il diritto di essere accolto.

Ma sappiamo che i CPR sono in realtà carceri.

Ancora una volta a mio avviso il vero scopo è quello di coprire, spostare, confondere e negare  i problemi piuttosto che risolverli.
Problemi che se non risolti adeguatamente diventeranno ancora più grandi.

Ma sicuramente il ministro Piantedosi verrà a spiegarci meglio e a convincerci che possiamo essere migliori rispetto a quei territori in cui questi centri sono stati chiusi. Verrà a spiegarci come Ferrara diventerà migliore invece che spiegare noi a lui di cosa abbiamo bisogno.

Perché non cambiare la rotta?

Perché non permettere alle persone di girare più liberamente, non quelle pericolose certamente, (ricordo che i migranti sono fotosegnalati tutti gli anni e sono come ho detto sopra sottoposti a controlli ed espulsioni) invece che tenerle in ostaggio per tantissimo tempo con l’attesa del rilascio di un permesso di soggiorno? Magari assumendo più personale di polizia?

Perché non permettere loro di raggiungere amici e parenti che spesso non sono in Italia; di andare a cercare un lavoro altrove o di lavorare in regola per pagare le tasse e potersi pagare un affitto o costruire la propria casa?

Perché non accogliere con gioia i bambini, molti migranti, che nascono e creare nuovi asili per rendere questa città una città viva in cui età e provenienza sono ricchezze da valorizzare?

Bambine e bambini nati o arrivati a Ferrara che non possono possono diventare italiani (Miriam Cariani, tecnica acquarello)

bambina

Certo, questi sono solo esempi di una realtà complessa che alcuni vogliono semplificare, a scapito dei tanti, puntando sulla paura delle persone che sono stanche e non ce la fanno più e per questo sempre più vulnerabili.

Mentre c’è una realtà, fatta di persone che lavorano da anni presso associazioni, organizzazioni, istituzioni , che conosce soluzioni migliori purtroppo di difficile attuazione senza il sostegno di un governo centrale e locale diverso, che abbia a cuore la salute delle persone e non gli interessi di pochi.

È un principio  che vale a Ferrara, in Italia, ovunque.

Sui CPR solo propaganda e disinformazione. Perché non ci dicono che il modello detentivo dei CPR è un assoluto fallimento?

Ferrara, leggo dalla stampa locale, molto probabilmente sarà tra la decina di capoluoghi in tutta Italia a ospitare uno dei nuovi CPR per migranti previsti dal governo Meloni. Mi immedesimo nei panni di un cittadino ferrarese e mi sento un po’ in ansia.

Continuo a leggere e trovo un virgolettato del Sindaco Fabbri: “questo (il CPR) ci consentirà anche di poter chiedere di avere immediato e diretto accesso al sistema di espulsione di soggetti pericolosi per il nostro territorio ferrarese”.

Leggo un ulteriore articolo in cui si minacciano barricate in zona via Aeroporto, sull’esempio delle barricate di Gorino, che respinsero una dozzina di donne migranti, alcune incinta.
E mi rendo conto quanta responsabilità ha la disinformazione e la propaganda nel fare leva su un sentimento di paura ed insicurezza dei cittadini, che avrebbero diritto ad una corretta informazione.

Cosa sono i CPR?

I CPR Centri di Permanenza per i Rimpatri sono dei centri in cui le persone sono detenute per motivi amministrativi. In questi Centri finiscono non persone che hanno commesso furti, rapine o aggressioni, come lascia intendere il Sindaco e i timori di alcuni cittadini particolarmente allarmati, ma quelli che si trovano in Italia senza un regolare permesso di soggiorno, e che per questo devono essere allontanati dal territorio nazionale. I CPR sono, tecnicamente, luoghi di trattenimento del cittadino straniero in attesa di esecuzione di provvedimenti di espulsione (art. 14, D.Lgs. 286/1998).

Stiamo quindi parlando di irregolarità amministrative. L’irregolarità amministrativa non equivale a criminalità. In Italia, si diventa irregolari per banali motivi burocratici, ad esempio perché si è perso il lavoro (la legge Bossi-Fini lega il permesso di soggiorno al contratto di lavoro), o perché si sono visti rifiutare la domanda di asilo, o per altri motivi che non hanno a che fare con la pericolosità sociale. Prova ne è che se si commette un reato non si finisce nel CPR.

Nei CPR si è detenuti a tutti gli effetti, ovvero privati della libertà personale e sottoposti ad un regime di coercizione che, tra le altre cose, impedisce di ricevere visite, di far valere il fondamentale diritto alla difesa legale e ancor più di andarsene a spasso per la città. Si entra in un CPR e si è reclusi fino allo spostamento finalizzato all’espatrio. Fareste le barricate davanti al carcere di Ferrara?

CPR: centri di detenzione in assenza di reato penale

I CPR, quindi, sono luoghi di detenzione a tutti gli effetti, in cui però sono rinchiuse persone che non hanno commesso alcun reato penale. Questi centri di detenzione, però, sono esterni al normale circuito penitenziario e non sono sottoposti ai controlli che l’autorità giudiziaria esercita normalmente nelle carceri. La loro gestione è affidata interamente alla polizia e al Ministero dell’Interno.
I tempi di durata massima della detenzione sono diventati sempre più lunghi: nel 1998 erano di 30 giorni, nel 2023 sono diventati di 18 mesi, con i relativi costi esorbitanti. A questo però non è corrisposto un tasso crescente di rimpatri, anzi: i rimpatri continuano a diminuire, dal 60% del 2014 si è passati al 49% del 2021.

Iconografica CPR in Italia

CPR, storia di un fallimento: quasi il 70% dei rimpatri dai CPR è di soli cittadini tunisini

Sono questi i tratti caratteristici del sistema dei CPR raccolti nel report pubblicato pochi mesi fa “Trattenuti. Una radiografia del sistema detentivo per stranieri” di ActionAid e del Dipartimento di Scienze Politiche dell’Università di Bari. Un lavoro di analisi dettagliata di dati sul sistema di detenzione dei Centri di permanenza per il rimpatrio dal 2014 al 2021, raccolti grazie a 51 richieste di accesso agli atti a Ministero dell’Interno, Prefetture e Questure e a 30 richieste di riesame. Un lavoro di ricostruzione di informazioni, dal dato complessivo fino alla singola struttura, disponibile in formato accessibile e aperto a tutti sulla nuova piattaforma Trattenuti.

Fabrizio Coresi, esperto Migrazioni ActionAid, nelle conclusioni del rapporto scrive “Dall’Italia si rimpatria sempre di meno e con modalità̀ sempre più̀ coercitive. Accanto all’allarmante aumento dei costi umani ed economici della politica di rimpatrio, preoccupa la sempre maggiore diversificazione del sistema detentivo…. Ciò rischia di portare ad una moltiplicazione di strutture detentive non censite, situate in luoghi “idonei” o in aree militarizzate sottratte al controllo della società civile. Il rischio è quello di una ulteriore riduzione della trasparenza e dell’accessibilità di luoghi dove, è bene ricordarlo, le persone vengono private della libertà personale senza aver violato la legge penale”.

Restiamo umani

Alla base della nostra Costituzione, e  di qualsiasi democrazia, vi è il rispetto per la dignità umana e per i diritti universali dell’uomo, che troppo spesso, vengono calpestati. Il rispetto per la dignità umana è emerso dagli orrori delle guerre e dei totalitarismi novecenteschi e rappresenta la base  della nostra conquistata libertà. Dimenticarsene, spalanca le porte a venti pericolosi ed inquietanti.

Come Mediterranea Saving Humans Ferrara denunciamo la mancanza di politiche non propagandistiche, capaci di affrontare seriamente e dignitosamente i fenomeni migratori, ad esempio con corridoi umanitari che consentano a donne, uomini e bambini di ottenere dei visti regolari prima della partenza, così da evitare di intraprendere viaggi mortiferi o di finire nelle mani di trafficanti e aguzzini; la possibilità di superare il trattato di Dublino consentendo una reale ed operativa redistribuzione delle persone nel continente europeo, aumentando ad esempio il personale degli uffici pubblici preposti alla valutazione ed al rilascio dei permessi di soggiorno, così che le pratiche possano essere evase nei tempi di legge, piuttosto che in tre o quattro anni!

Questo governo sceglie, ancora una volta, di considerare la migrazione di uomini e donne come un problema securitario e di ordine pubblico, che si può affrontare solo con repressione, carcerazione, espulsione. E se i reati non sussistono, piuttosto si impiegano tempo e risorse per crearli ex novo.

Anna Zonari
Portavoce di Mediterranea Saving Humans – Ferrara

Per certi versi /
Apologia del cane

Apologia del cane

Credo
Che siamo
Come italiani
Gli unici
Al mondo
A bestemmiare
A imprecare
Con la parola
Cane
A infierire
Sulle parole
Mettendoci
Il cane
Ma perché…
Travis
Mio pastore aussie
Perché
Se guardo
I tuoi occhi
Fedeli
Buoni
Come il pane…C’è chi vi
AbbandonaUomo
Cane
Ogni domenica Periscopio ospita Per certi versi, angolo di poesia che presenta le liriche di Roberto Dall’Olio.
Per leggere tutte le altre poesie dell’autore, clicca [Qui]

Torna a Roma, dal 13 al 19 novembre, CiakPolska Film Festival

CiakPolska Film Festival a Roma dal 13 al 19 novembre: film che raccontano la cinematografia polacca attraverso le opere di grandi autori classici. Inaugura Jerzy Skolimowski

Arriva a Roma, a Palazzo delle Esposizioni, ma con una apertura speciale al Cinema Troisi di Trastevere, da lunedì 13 a domenica 19 novembre, la XI edizione di CiakPolska Film Festival appuntamento con la migliore produzione del cinema polacco.

Si parte lunedì 13 novembre al Cinema Troisi alle ore 19.30 con l’incontro con uno dei maestri del cinema mondiale, Jerzy Skolimowski, regista, sceneggiatore, attore, Leone d’Oro alla carriera al Festival di Venezia 2016, autore di capolavori come Il vergine (1967), La ragazza del bagno pubblico (1970), L’australiano (1978) Essential Killing (2010) e 11 minuti (2015).

Jerzy Skolimowski

Presenterà al pubblico, insieme alla co-sceneggiatrice Ewa Piaskowska, il suo ultimo film EO, vincitore del premio della giuria al festival di Cannes 2022. Un asino, liberato da un circo, inizia un viaggio attraverso l’Europa, durante il quale incontra e conosce le gioie e i dolori dell’umanità più varia. Una versione poetica, dolceamara e profondamente umanista di un road movie che ci aiuta a estendere i confini della nostra empatia. Modererà l’incontro Malgorzata Furdal, autrice di numerose pubblicazioni sul cinema polacco, tra cui un saggio dedicato a Skolimowski.

Da martedì 14 prende il via la rassegna Grandi classici del cinema polacco al Palazzo Esposizioni di Roma, in via Milano 9, che avrà luogo fino a domenica 19 novembre. Una settimana di cinema, resa possibile grazie agli Studi cinematografici WDFiF di Varsavia, che permetterà di riscoprire i capolavori, in versione restaurata, di alcuni grandi maestri che hanno segnato la storia del cinema non solo polacco, ma europeo e mondiale. Da Krzysztof Kieślowski Roman Polański Jerzy Skolimowski. Da Andrzej Wajda a Wanda Jakubowska, Wojciech Jerzy Has, Andrzej Munk Krzysztof Zanussi.

Inaugura la rassegna martedì 14 alle 20.00 Segni particolari: nessuno (1965) alla presenza del regista Jerzy Skolimowski. Il folgorante debutto di Jerzy Skolimowski e al contempo il ritratto di una generazione. È il racconto delle ultime ore di libertà prima della partenza per la leva militare di Andrzej Leszczyc (interpretato dallo stesso regista) e delle sue scombinate peregrinazioni.

Segni particolari: nessuno (1965), di Jerzy Skolimowski

Si prosegue mercoledì 15 alle ore 20.00 con il primo di 5 corti documentari di Krzysztof Kieślowski che verranno presentati nel quadro della rassegna: Sette donne di età diversa (1978). Sette ballerine, un unico ritratto in un documentario che si fa composizione estremamente poetica sull’esistenza. A seguire L’ultima tappa (1948) di Wanda Jakubowska, una delle primissime testimonianze cinematografiche sulla Shoah, ambientato nel campo di Auschwitz-Birkenau, dove la stessa regista fu internata, la pellicola occupa un posto unico e leggendario nel cinema mondiale, nonché nella filmografia di Wanda Jakubowska, prima regista donna polacca ad affermarsi nel cinema.

Sette donne di età diversa (1978), di Krzysztof Kieślowski
L’ultima tappa (1948) di Wanda Jakubowska

Giovedì 16 alle ore 20.00 è in programma l’incontro con il regista cinematografico e teatrale,  sceneggiatore e docente Robert Gliński che parlerà di Wojeciech Jerzy Has (regista a cui lui stesso ha dedicato nel 2012 il documentario Trecce), maestro indiscusso della “scuola polacca” di cui è in programma la proiezione di Come essere amata (1963). Felicja ricorda i tempi dell’occupazione tedesca, quando diede rifugio nel suo appartamento a un attore, Wiktor, di cui si era innamorata. Has, autore del leggendario Manoscritto trovato a Saragozza, tra i film polacchi più ammirati di tutti i tempi, in Polonia come all’estero, tra i suoi ammiratori Francis Ford Coppola e Martin Scorsese, realizza un’originale opera “storica”, in chiave non eroica, ma melodrammatica. Precede la visione di Come essere amata il cortometraggio La radiografia (1974) di Krzysztof Kieślowski. Nel quadro di una natura incontaminata, la telecamera raccoglie le confessioni dei ricoverati in un ospedale, i loro sogni e le loro paure.

Si prosegue venerdì 17 alle 20.00 con Teste parlanti (1980) di Krzysztof Kieślowski. Quando sei nato? Chi sei? Che cosa vorresti? Le interviste di Kieślowski a 44 polacchi, in ordine cronologico da 0 ai 100 anni. Uno dei documentari più famosi e premiati del regista polacco. Presentano Alessandro Aniballi e Daria Pomponio, nei 10 anni di attività di Quinlan.it.
A seguire Il coltello nell’acqua (1962) di Roman Polański, film d’esordio del regista polacco, Premio FIPRESCI a Venezia, primo film polacco candidato all’Oscar come miglior film straniero. Una coppia invita un giovane autostoppista per una gita in barca. Thriller carico di tensione e desiderio, Il coltello nell’acqua è il lungometraggio d’esordio di Polański.

Il coltello nell’acqua (1962) di Roman Polański

Sabato 18 novembre si comincia alle ore 17.00 con Ritornello (1972) di Krzysztof KieślowskiLa routine lavorativa di un’impresa di pompe funebri riflette lo spirito più profondo di una società dominata dal controllo. A seguire uno dei film più famosi della cinematografia polacca e una delle riflessioni più acute sulla Shoah, La passeggera (1964) opera capitale del grande maestro Andrzej MunkSu una crociera in rotta per Amburgo, alla passeggera Liza, che fu kapò ad Auschwitz, pare di riconoscere in un’altra viaggiatrice una delle sue prigioniere.

La passeggera (1964) di Andrzej Munk

Alle ore 20.00 La terra della grande promessa (1975) di Andrzej Wajda. Łódź, fine Ottocento: Karol, giovane nobile impiegato come capo ingegnere tessile, progetta di costruire una sua fabbrica; viene aiutato nell’impresa dal tedesco Maks e dall’ebreo Moryc. Ma in un mondo dominato dal denaro, la realizzazione dei sogni ha certamente un prezzo. Kolossal di grande potenza visiva, candidato all’Oscar come miglior film straniero nel 1976.

La terra della grande promessa (1975) di Andrzej Wajda

L’ultimo giorno della manifestazione domenica 19 novembre prende il via alle ore 17.00 con la proiezione speciale, in occasione della rassegna, di IDA (2013) opera di uno dei registi polacchi più conosciuti della scena contemporanea Paweł Pawlikowski, premio Oscar nel 2015. La diciottenne Anna, orfana cresciuta in convento, decide di farsi suora. Poco prima di prendere i voti, scopre di avere una zia ancora in vita, Wanda, la sorella di sua madreInsieme a lei la ragazza affronterà un viaggio alla scoperta di sé stessa e del proprio passato. A seguire alle ore 20.00 Sono stato un soldato (1970) di Krzysztof Kieślowski che a proposito del film dichiarò: È un documentario su degli uomini che hanno perso la vista facendo il soldato durante la Seconda Guerra Mondiale. (…) Io gli chiedo di raccontare i loro sogni. È di questo che il film parla in realtà.

Chiude la rassegna Illuminazione (1972) di Krzysztof ZanussiIl giovane Franciszek studia fisica, si innamora, si sposa e dà alla luce un figlio. L’improvvisa morte di un amico lo mette in crisi e lo costringe a prendere coscienza della fallibilità delle certezze scientifiche. Pardo d’Oro al Festival di Locarno del 1973, divenuto film di culto nella Polonia degli anni Settanta, Illuminazione presenta le tematiche più care al regista.

Illuminazione (1972) di Krzysztof Zanussi

La Rassegna “Grandi Classici del Cinema Polacco” è a cura degli Studi Cinematografici di Film e Documentari WFDiF (Documentary and Feature Film Studios). Organizzata da Studi Cinematografici di Film e Documentari WFDiF (Documentary and Feature Film Studios) e Istituto Polacco di Roma. In collaborazione con Azienda Speciale Palaexpo e promossa dall’Assessorato alla Cultura di Roma Capitale. Partner: Raggio Verde Subtitles. La rassegna è finanziata dal Ministero della Cultura e del Patrimonio Nazionale della Repubblica di Polonia nell’ambito del progetto INSPIRING CULTURE.

Partner di CiakPolska 2023 IAM (Istituto Adam Mickiewicz), POT (Ufficio Turistico Polacco), Cinema Troisi-Piccolo America, Bergamo Film Meeting, Trieste Film Festival – Alpe Adria Cinema Fantafestival. Media Partner: Quinlan.it, Sentieri Selvaggi e Cineclandestino.
Ingresso gratuito fino a esaurimento posti
Per la serata inaugurale del 13 novembre al Cinema Troisi, per l’incontro con Jerzy Skolimowski e la proiezione di EO, info e biglietti su https://cinematroisi.it/

Per le successive proiezioni del Festival al Palazzo delle Esposizioni Roma: Le prenotazioni si effettuano su www.palazzoesposizioni.it dalle ore 9,00 del giorno precedente alla proiezione fino a un’ora prima.

Proiezioni in versione originale con sottotitoli italiani

Informazioni e foto Ufficio stampa STORYFINDERS 

LIBERATE ASSANGE
UN FLASH MOB CHE DIVENTA SPETTACOLO

Ferrara, 11 novembre 2023
Ferrara si è svegliata. Lo scorso 20 settembre al cinema Apollo erano circa in 400 a vedere “ITHAKA”, il bellissimo docufilm di Ben Lawrence sul giornalista australiano Julian Assange,  attraverso le parole di suo padre, un padre perso e ritrovato. Allora, Alessandro Tagliati, uno dei promotori del Comitato Ferrara per Assange, aveva parlato appena 10 minuti per raccontare l’incredibile storia di un giornalista libero che per aver rivelato i crimini del governo e dello stato maggiore dell’esercito americano è stato perseguitato, quindi sbattuto in prigione, e ora in attesa di estradizione negli Stati Uniti dove è stato condannato a più di 170 anni di prigione.

Ricordo le facce di quella sera all’uscita dal cinema. Facce stupite e turbate, nessuno: nessun grande giornale, nessuna televisione, nessun giornalista sotto padrone, si era preso la briga di raccontargli le tappe della tragica epopea di Julian.  i una tragedia umana e politica.

Alessandro Tagliati, attivista per Julian Assange

Oggi, dopo meno di due mesi da quella serata, l’impegno per rompere il muro del silenzio ha suggerito agli attivisti ferraresi, con l’aiuto degli amici di  Bologna, la messa in scena di un evento di piazza. Il flash mob è diventato un piccolo spettacolo: scenografie (le scale, la gabbia rossa), maschere, musica e canzoni si sono intrecciate agli slogan, ai cartelli, ai volantini  e agli striscioni rossi con le frasi di Assange.

In Piazza Castello, nel centro di Ferrara, passanti e turisti si fermavano a guardare ed ascoltare: alla fine si era formato un gruppo di spettatori interessati.

Morale: per parlare di Julian Assange e farsi ascoltare, la creatività è fondamentale. Per fortuna, ai sostenitori si Assange e della Libertà di Stampa, questa dote non manca.

 

Ecco qualche scatto dell’evento.

 

               

 

Per informarsi e per aderire alla lotta per la Libertà di Julian Assange e la Libertà di Espressione e di Stampa: 
www.facebook.com/ferraraperassange
freeassangebologna@proton.me

Per leggere gli articoli di Francesco Monini su Periscopio clicca sul nome dell’autore

Omaggi di guerra: i pensieri dei bambini

Omaggi di guerra: i pensieri dei bambini,

Ecco i pensieri dei bambini e delle bambine della mia classe raccolti il giorno dopo il passaggio sulla città di Ferrara (e sulla scuola primaria “Bruno Ciari” di Cocomaro di Cona) di tre aerei da guerra che, come riportato dalla stampa locale, “hanno omaggiato la città” in occasione dell’attestato di cittadinanza onoraria consegnato dal vicesindaco Nicola Lodi al Comando Operazioni Aerospaziali dell’Aeronautica Militare di Poggio Renatico.

Il rombo così assordante ci aveva spaventato e i bambini e le bambine mi avevano chiesto se quelli fossero aerei da guerra; io mi ero impegnato ad informarmi.
Così il giorno dopo a scuola, prima di raccontare ciò che avevo letto, ho chiesto loro quali emozioni avevano provato mentre passavano quegli aerei che facevano quel rumore. Questo è quello che hanno raccontato.

Quando ho sentito passare nel cielo quei tre aerei…

– mi ha dato fastidio alle orecchie;
– ho avuto paura che cadessero nel cortile della scuola;
– ero curioso perché volevo vedere come erano fatti gli aerei;
– non ho sentito perché stavo saltando le foglie e stavo urlando forte;
– ho avuto paura perché pensavo che fossero aerei da guerra;
– ho avuto paura perché credevo fosse un aereo di Israele che venisse da noi;
– ho avuto paura che ci potessero scambiare per nemici;
– non ci ho fatto molto caso perché stavo correndo;
– ho avuto paura che lanciassero un missile per sbaglio;
– mi sembrava strano perché quando passano gli altri aerei non fanno tutto quel rumore;
– ho avuto paura perché pensavo fossero aerei russi;
– ne ho sentiti anche degli altri quindi non mi sono preoccupato;
– ero curioso di sapere perché sorvolavano la nostra scuola;
– ero tranquillo;
– ho avuto paura che atterrassero vicino a noi;
– mi ha lasciato indifferente perché non mi ha disturbato;
– non mi sono spaventato perché al mare, ogni tanto, passano quegli aerei;
– ho avuto paura ma non so dire perché;
– pensavo fossero le frecce tricolori;
– ero triste perché il rumore degli aerei mi ha ricordato le persone che hanno perso la casa e gli affetti per la guerra;
– ho avuto paura che, per sbaglio, sganciassero delle bombe.

Quando ho raccontato che quello era una specie di “regalo” alla città per un “compleanno”, i più sono rimasti in silenzio con gli occhi stupiti.
Dopo una decina di secondi di silenzio, un bimbo è intervenuto timidamente dicendo: “Se al mio compleanno qualcuno mi fa un regalo pauroso, io mi spaventerei così non festeggerei bene con i miei amici”.
Il suo timido intervento ha avuto molti consensi in classe testimoniati dai tanti “Anche io!”

Comunque la pensiate, questi sono i pensieri di bambini e di bambine che saranno il nostro futuro, che ci piaccia o no
.
Non tutti i bambini e le bambine la penseranno come quelli in classe con me ma se, ai politici, interessa davvero il futuro vale la pena ascoltare seriamente i loro pensieri per preparare da subito un presente di pace, fatto anche di “omaggi di pace”, in modo da garantirsi un futuro di convivenza pacifica.

Diario in pubblico /
Senza fine…

Diario in pubblico. Senza fine…

 In queste giornate di fine autunno mi risveglio con il solito rumore del garage in costruzione attiguo alla mia casa. Le solite tonanti voci degli operai che commentano, tra un urlo e un altro, la progressione dei lavori e lo scarabattolio di attrezzi spostati e altri rumori indefiniti.

Mi ritorna in mente una canzone, Senza fine, che canticchio a mo’ di consolazione, adattandola alle condizioni del presente: «Senza fine, tu sei un’opera senza fine. Hai avuto tanti ieri, non so quanti domani, ma ormai rompi sempre di più!» Quasi a significare una ricezione della canzone, misteriosamente i rumori cessano e un gelido silenzio invade la via e i suoi dintorni. Riprenderanno? Chissà!

I misteri non s’allentano. Da qualche notte un minaccioso rumore, come di ansito prodotto da macchine, invade il mio salotto. Chiamo in aiuto esperti che, con l’orecchio a terra, seguono il rim-bombo. Continua. Organizziamo una spedizione presso i vicini di casa che negano ogni addebito. Poi d’un tratto, come è apparso, il rumore scompare. Que sera, seraOrmai do fondo alle mie scarse conoscenze di canzonette, ma l’attesa si fa sempre più acuta e i nervi traballano.

Seguo con attenzione le cronache cittadine, appassionandomi (poco, a dire il vero) delle proposte e discussioni sulle candidature di sinistra. Approvo incondizionatamente la relazione di Ilaria Baraldi, mentre a Firenze avanza e poi viene distratta la candidatura dell’amico Tomaso (mi raccomando una sola m) Montanari.

Continuo a studiare Italo Calvino e la sua contiguità con l’ambiente e i personaggi ferraresi. Quasi da non credere. Mah! Chissà cosa direbbe il mio Maestro Claudio Varese, primo e fondamentale studioso dello scrittore.

Poi, quasi a consolidare lo spirito di servizio verso la letteratura che entrambi condividiamo, arriva la telefonata di Fiorenzo Baratelli e allora le dighe si aprono e ancora una volta parliamo e discutiamo l’opera del nostro Cesare Pavese.

Sempre più sconsolato mi appresto ad aspettare la proposta della donazione delle carte Cicognara e del Neoclassicismo che ho offerto alla Biblioteca Ariostea, ma il silenzio è totale, Chissà! Senza fine?

Per leggere gli altri articoli di Diario in pubblico la rubrica di Gianni Venturi clicca sul nome della rubrica o il nome dell’autore.

FERMARE IL MASSACRO DI GAZA
Corteo a Ferrara, sabato 11 novembre, partenza ore 15,30

Fermiamo il Massacro di Gaza
Partecipa al Corteo a Ferrara

Partenza alle 15,30 da Piazzale dei Giochi (via Porta Catena)

Mentre scriviamo, mentre parliamo, mentre passeggiamo, mentre guardiamo la televisione, mentre viviamo… continua senza sosta il massacro a Gaza. 2 milioni di persone, un popolo di profughi è in trappola, la fuga verso sud impossibile. I bombardamenti non si fermano, l’esercito israeliano continua l’avanzata a Gaza City, lascandosi dietro una scia di sangue.  Finora più di 10.000 civili palestinesi sono morti, tantissimi i bambini. Netanyahu, contestato in patria e in tutto il mondo, ma appoggiato senza riserve da Biden, si oppone alla tregua. A morire sono e saranno i civili inermi, i palestinesi e anche i 240 ostaggi innocenti in mano ad Hamas.
(Effe Emme)

 

Aggiornamenti da Gaza:

GAZA. Esodo a sud, migliaia a piedi verso una salvezza che non c’è

Storie in pellicola /
Un giorno tutto questo sarà tuo…

“One day all of this will be yours”, il cortometraggio di Losing Truth ci descrive un futuro incerto, dove manca l’aria, ormai irrespirabile, un luogo senza musica dominato dal grigiore. A figli e nipoti lasciamo un’eredità terrificante…

Sceso il sipario sul Ferrara Film Corto Festival e dopo avervi presentato “L’allaccio”, di Daniele Morelli, menzione Speciale della giuria del festival, oggi è il turno del Premio al miglior corto nella categoria “Ambiente è Musica” al regista Losing Truth con l’opera “One day all of this will be yours”: Per l’impatto emotivo suscitato dalla giusta alchimia ottenuta tra musica e immagini che sensibilizza l’osservatore sulle questioni ambientali arrivando a toccare le coscienze.

Il corto è stato realizzato in sole 72 ore per Artivis(mo) Contest 2021, del novembre 2021 [(Artivismo /Arte + Attivismo + mo (ora)], dove ha vinto il premio ‘Video-Art Category’. Per la sua realizzazione non sono stati usati filmati di stock e il regista ha realizzato tutto da solo. Oltre a varie candidature in numerosi festival, ha vinto il premio all’Ariano International Film Festival nell’agosto 2022 come “Best Documentary – AIFF Green”.

Di fronte al titolo viene alla mente Lord Fauntleroy, quando, nel film “Il piccolo Lord” (1980), sulla collina verdeggiante da cui si ammirano gli ampi possedimenti inglesi, dice all’amato e delicato nipote Cedric: “tutto questo sarà tuo, un giorno”.

Invece no, siamo all’antitesi, parliamo di tutt’altra eredità, quell’amaro regalo che noi, incoscienti abitanti dell’Antropocene, stiamo facendo alle generazioni future: un mondo in disastrosa rovina.

La natura ci ha messo alle strette e tra qualche anno il nostro pianeta potrebbe non essere più vivibile. Almeno non lo sarà per noi umani, perché Lei, Madre Natura, troverà il modo di andare avanti. A causa dell’indifferenza verso un futuro che sembra sempre troppo lontano, ma che in realtà è sempre più vicino, la situazione sta diventando irreversibile.

Nemmeno i supereroi potrebbero salvare questo mondo terribilmente devastato, ferito.

Non esiste un Pianeta B e stiamo consegnando alle generazioni future l’eredità peggiore: un mondo fatto di mascherine, dove l’aria sarà irrespirabile, dove il canto degli uccelli non esisterà più e dove l’acqua sarà quasi indisponibile. Aridità di risorse e sentimenti.

A circondare i superstiti, solo rifiuti, plastica, detriti, scarti, smog, nebbia, fumo e assenza totale di note e di musica. Mancano i colori, le tonalità del grigio stanno sostituendo il rosso-arancio del sole e il giallo dei girasoli. Tutto è plumbeo. Dallo schermo si percepisce l’odore acre del disastro. È un quadro raccapricciante, triste e spaventoso. Ma reale.

Ai (tristi e miseri) posteri stiamo dicendo: un giorno (non troppo lontano) tutto questo sarà tuo! Purtroppo. È già troppo tardi per invertire la rotta?

Per vedere il corto:

Losing Truth (alias Damiano Petrucci) è un artista multimediale con oltre dieci anni di esperienza nel mondo della fotografia e della musica. Nel 2020, si diploma in “Musica Elettronica e Composizione Audiovisiva Digitale” presso il “Conservatorio Licinio Refice” di Frosinone dove tutt’ora studia musica elettronica, sound design e composizione audiovisiva.

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“Che c’entra Roma con un Candidato Sindaco di Ferrara?”
Intervista ad Anna Zonari, portavoce di La Comune di Ferrara

Intervista ad Anna Zonari, portavoce di La Comune di Ferrara: “Che c’entra Roma con un Candidato Sindaco di Ferrara?”

Ieri sul Carlino Ferrara è uscita la notizia che saranno i leader nazionali di PD, M5S, Sinistra Italiana e probabilmente anche il Terzo Polo a decidere la figura del Candidato o Candidata Sindaco di Ferrara, sbloccando la  situazione in cui si è trovato il Tavolo dell’Alternativa, ovvero la scelta tra Laura Calafà e Fabio Anselmo. Qual è stata la vostra reazione a questo inatteso sviluppo?

Siamo rimasti molto sorpresi. Ci sembra quanto meno anomalo che si ricorra a Roma per affrontare una questione locale, che dovrebbe coinvolgere in primis i partiti che in questi mesi hanno lavorato, a detta loro, con buoni risultati, ad un programma unico. I ferraresi apprezzano questa scelta, o avrebbero preferito che l’intesa fosse raggiunta con gli attori locali, che conoscono il territorio e le sue esigenze?

Avete incontrato recentemente il tavolo dell’alternativa, a cui avete fatto una proposta metodologica precisa. Com’è andata?

Ci era sembrato ci fosse stata una attenzione alle questioni che abbiamo posto, che sono soprattutto legate alla necessità di sperimentare un diverso metodo politico. Anche per questo motivo, questa decisione di rivolgersi a Schlein, Conte e Fratoianni ci stupisce. In particolare, ai rappresentanti del Tavolo dell’Alternativa abbiamo esposto la necessità di un maggiore coinvolgimento della società civile ferrarese sia nella stesura del programma, che nella scelta dei candidati. Un approccio che viene spontaneo partendo dall’assunto che l’amministrazione di una città non è affare solo dei partiti o di chi l’amministra.

Dunque il metodo serve a mettere a fuoco il merito, cioè il programma e a scegliere il candidato?
Esatto. Il come scegli di fare le cose è già politica.

Voi avete detto più volte che non rifiutate il ruolo e l’importanza dei partiti, ma che se ci si ferma a quel tavolo, sarebbe una scelta che non riuscirà a coinvolgere tutti quei cittadini che non si riconoscono nelle scelte della attuale Giunta di destra che governa Ferrara. La scelta di rivolgersi al livello nazionale cambia la vostra visione?

Nessuno di noi è pregiudizialmente contro i partiti. Comprendiamo e apprezziamo il lavoro svolto dal Tavolo per creare un clima di collaborazione e coesione tra le forze d’opposizione. E’ stato un lavoro necessario, doveroso, ma a nostro avviso, non sufficiente. Abbiamo evidenziato un rischio: che molti ferraresi vedano questo metodo politico come “calato dall’alto”. La decisione di esternalizzare una questione locale a Roma, se confermata, accentua la nostra impressione.

Cosa pensate di fare ora?

Continueremo con la nostra proposta politica. Abbiamo organizzato per domenica 19 novembre un world cafè [Vedi qui il comunicato stampa con l’Invito], un metodo efficace per dare vita a conversazioni informali, concrete e costruttive su questioni cruciali che interessano la nostra città: cultura, arte, giovani, sicurezza, equità sociale, inclusione, democrazia partecipata, rigenerazione urbana, mobilità, economia, beni comuni, scuola, università… per una Ferrara più giusta, più verde e solidale. Abbiamo invitato la società civile, il volontariato sociale e culturale, i gruppi informali, i comitati che in questi ultimi anni si sono mobilitati e anche i partiti del Tavolo dell’Alternativa, perché crediamo che i programmi si possano costruire dal basso, a partire dalle idee, competenze ed esperienze di chi abita, conosce ed ama la propria comunità.

E il candidato sindaco?

Crediamo, anzi l’abbiamo già toccato con mano. In città ci sono tante risorse, competenze e disponibilità da coinvolgere e valorizzare. Non ci sono solo Laura Calafà e Fabio Anselmo ad essere disponibili. Ma li ringraziamo per essersi fatti avanti e al world cafè sono invitati anche loro.

Oggi sulla stampa c’è una intervista alla consigliera Pd Ilaria Baraldi che mi sembra “cantare fuori dal coro” ed espone ragionamenti più vicini ai vostri. Dice la Baraldi: “Non si sceglie un candidato in quanto donna, non lo si sceglie perché è molto conosciuto. C’è il tempo e ci sono le modalità più aperte e inclusive per comporre un quadro che sia il più positivo e solido per affrontare una campagna elettorale che ci qualifichi davvero come alternativa”. E più avanti giudica negativamente la scelta di far scegliere a Roma il candidato sindaco. Voi cosa ne pensate? 

Ho letto sulla stampa locale l’intervista di Ilaria Baraldi, è la prima apertura che arriva da un politico ferrarese. Se posso aggiungere un pensiero personale, non mi sembra un caso che venga da una donna. Aspettiamo Ilaria il 19 novembre, lì di sicuro troverà una modalità aperta e inclusiva.

Come definiresti questo vostro gruppo di cittadine e cittadini de La Comune di Ferrara? Una formazione politica, una lista elettorale, un gruppo di pressione?

Lo definirei un esperimento e allo stesso tempo un invito, anche una sfida, che parte da un gruppo spontaneo di cittadine e cittadini e si rivolge ad altre cittadine e cittadini. Crediamo che tutte e tutti siamo chiamati ad incidere a partire dal posto in cui ciascuno di noi opera e a qualunque titolo: ognuno si deve sentire interpellato. Non c’è più tempo per esitazioni.
Servono atti di responsabilità che superino l’indifferenza, la sottomissione o la speranza che sia qualcun altro, magari una sorta di salvatore, a risolvere i nostri problemi. Serve ingegno, creatività, coraggio. Come dice papa Francesco serve “fare germogliare sogni, suscitare profezie e visioni, suscitare speranza, riscaldare il cuore e orientare lo sguardo”.

Nelle scorse amministrative del 2019 l’astensione raggiunse quasi il 40%: più di 40.000 ferraresi non andarono a votare. La vostra iniziativa ha anche l’obiettivo di richiamare al voto almeno una parte del popolo degli astenuti. Per quale motivo questa volta dovrebbero votare?

Tanta gente non vota più, perché, si è sentita delusa e non più rappresentata dalla politica. Personalmente conosco parecchie persone che, con dolore, hanno rinunciato ad esercitare questo diritto, anche persone di una certa età che mai avrebbero, per loro senso civico, immaginato un giorno di smettere di votare. Un Diritto che, ricordiamo, è sia una conquista, che una pratica di democrazia. Crediamo che tanta gente possa tornare a votare, anzi avrebbe voglia di tornare a votare, se vedesse condizioni diverse, modi nuovi di fare politica. E’ la politica dunque che deve cambiare! Al contempo, nella nostra città, ci pare di assistere ad un crescente desiderio di partecipazione, di visione, competenza ed innovazione.

Un’ultima curiosità, perché questo nome: La Comune di Ferrara? Volete fare la rivoluzione?

Ad una delle prime riunioni, uno dei partecipanti, per rimarcare l’importanza di un maggior protagonismo femminile nella vita politica, ha detto ridendo: Basta parlare di Comune di Ferrara…perché non La Comune di Ferrara!
Tant’è che il sottotitolo è Femminile. Plurale. Partecipata. Rievocare oggi dalla memoria storica, un termine come La Comune, significa anche assumere la complessità  e l’incertezza del nostro tempo, le grandi sfide che pone, e contemporaneamente tentare, dal basso, di immaginare e lavorare per un cambiamento di visione politica e di metodo.

Emergency: il protocollo d’intesa Italia-Albania sul trasferimento di 36.000 migranti è un ennesimo attacco al diritto di asilo.

Le politiche di esternalizzazione delle frontiere sono fallimentari e controproducenti per la protezione delle persone in movimento, ma hanno incoraggiato la tratta di esseri umani e reso le traversate più pericolose

Oltre all’esternalizzazione delle frontiere, ai porti sempre più lontani per le navi delle Ong che svolgono attività di ricerca e soccorso, alla stretta sulla protezione speciale, alle procedure accelerate di frontiera, alla riduzione di tutele persino per i minori stranieri non accompagnati, i migranti troveranno sulla loro strada verso l’Europa altri ostacoli, frutto del recentissimo Protocollo d’intesa tra Italia e Albania

Il focus dell’accordo – siglato il 6 novembre dalla presidente del Consiglio, Giorgia Meloni, e dal primo ministro albanese, Edi Rama – ruota intorno al trasferimento dei migranti soccorsi in mare dalle navi italiane di Guardia Costiera o Guardia di Finanza o comunque di competenza delle autorità italiane verso un Paese – l’Albania – che non fa parte dell’Unione europea e dunque non è vincolato a rispettarne i criteri in fatto di diritti umani.

“Di fatto è un modo per impedire che i migranti possano mettere piede sul suolo italiano – e quindi europeo – e chiedere asilo, come invece prevede il diritto europeo e internazionale. L’ennesimo attacco al diritto di asilo e a quanto prevede l’articolo 10 della nostra Costituzione”

Anche se il testo precisa che l’intesa intende agire in conformità al diritto europeo e internazionale, oltre a quello italiano, i 36 mila migranti che potranno essere trattenuti ogni anno in Albania difficilmente potranno avvalersi del diritto al colloquio presso la commissione territoriale italiana competente a decidere sulla richiesta d’asilo. Allo stesso modo resterà solo teorico il diritto al ricorso di fronte a un eventuale diniego: le strutture previste dall’accordo saranno centri chiusi, con forti profili di illegittimità perché la detenzione dovrebbe essere consentita solo come estrema ratio e con un provvedimento di un giudice e, anche se sulla carta il Protocollo consente l’accesso nelle strutture di avvocati, organizzazioni internazionali e agenzie europee che danno assistenza ai richiedenti protezione internazionale, è praticamente impossibile che questi diritti vengano rispettati.

Passando dagli annunci ai fatti, non c’è riferimento nel testo all’annunciata esclusione delle persone vulnerabili dalla misura, che per EMERGENCY desta molti dubbi sulla sua effettiva applicazione. A livello operativo si farebbero degli sbarchi selettivi per far scendere donne e bambini in Italia e si porterebbero poi gli altri in Albania? Chi valuterebbe chi è vulnerabile e chi no, sulla base di quali criteri?

Tutte le persone soccorse in mare  dovrebbero raggiungere un luogo sicuro nel minor tempo possibile perché naufraghe prima che migranti. Tutti dovrebbero essere considerati vulnerabili e ricevere un trattamento dignitoso e una protezione adeguata nel rispetto del diritto internazionale e comunitario”.

L’Italia inoltre si impegnerebbe ad “allontanare” i migranti superato il tempo limite di permanenza nelle strutture dedicate in Albania, ma al momento questo non avviene neanche nel caso dei migranti trattenuti dai CPR italiani per mancanza di accordi bilaterali per il rimpatrio.

Al di là delle contestazioni più strettamente giuridiche o pratiche, per noi di EMERGENCY è la logica che sottende questo accordo a essere inaccettabile.

Le politiche di esternalizzazione delle frontiere hanno già dato prova di essere fallimentari e controproducenti per la protezione delle persone in movimento, ma un effetto l’hanno avuto. Hanno incoraggiato la tratta di esseri umani e reso le rotte e le traversate più pericolose, con oltre 20 mila morti nel Mediterraneo dal 2014 a oggi

Emergency

Parole a capo
Anna Martinenghi: “Faccio cose del secolo scorso” e altre poesie

Anna Martinenghi: “Faccio cose del secolo scorso” e altre poesie

“La poesia ha questo compito sublime: di prendere tutto il dolore che ci spumeggia e ci rimbalza nell’anima e di placarlo, di trasfigurarlo nella suprema calma dell’arte, così come sfociano i fiumi nella celeste vastità del mare”
(Antonia Pozzi)

FACCIO COSE DEL SECOLO SCORSO

Faccio cose del secolo scorso
non fotografo il cibo
dimentico di filmare il concerto
ho un’agenda nella borsa
e scrivo cartoline che non arrivano

Sono figlia della carta
della plastica
del Vinavil sulle mani
di Amazon su Postalmarket
e dei lavoretti col Das
ma non ho sposato Simon Le Bon

Ho visto i televisori crescere
i telefoni rimpicciolire
con molti soldi
potrei comperare un biglietto per lo spazio

Nella collana del tempo
sono un anello del mezzo
stringo una mano
a chi è passato attraverso le guerre
e l’altra a chi vedrà la fine
di questi cento anni

 

UN TEMPO DI PAROLE SEMPLICI

Ho avuto un tempo
di parole semplici
in cui i negozi erano botteghe
i bar osterie
le bidelle/bidelle
un tempo d’intervalli e merende
di prestini/verdurai e pettinatrici
che sembrava andare lento
e invece correva

Uno sbocconcellar di sillabe
d’indovinate corrispondenze
pagnottine e focacce
a far scarpetta nel sugo dell’infanzia
in cose che capivo
in posti che diventavo

Abbiamo cresciuto parole
come serpenti velenosi
figlie di nessuno
e ora che abbiamo
snack
la location
e una mission
siamo riusciti
a complicare il pane*

*parole di uno bravo (Samuele Bersani)

 

SERVE SPAZIO PER LA POESIA

Serve spazio per la poesia
vuoti di pensiero
sgombero di parole
serve rastrellare le foglie
ascoltare i silenzi
serve il bianco fra le parole
come neve a cambiare il paesaggio
serve ogni dolore inutile
e ciascun abbraccio che lo consola
serve essere caduti molte volte
e molte volte aver ricominciato
serve rabbia e dolcezza
tutte le emozioni di cui siamo fatti
servono paura e coraggio
in misure sempre sbagliate
serve tracciare cerchi
per capire il dentro e il fuori
serve ridere tanto e tantissimo amare
anche quando è un errore
anche quando fa male
la poesia è lì
nello spazio che insegna
ciò che davvero siamo

 

IL BACIO DELLE API

E quando alla morte
dovrò restituire
la forma di questo esistere
non voglio andare in alcun posto
non voglio fare nessun viaggio
voglio essere aria nell’aria
erba nell’erba
sasso sotto l’acqua del torrente
il rosa all’alba di certe mattine
il respiro umido della mia nebbia
voglio sparire dai ricordi
e piovere sugli ombrelli
farmi giallo di margherita per il bacio delle api
foglia di betulla
riccio di castagna
una macchia di vino sulla tovaglia
coincidere con la vetta dei monti
col cuore degli insetti
essere sale nell’acqua di mare
dopo il lento andare del fiume
per sentire tutta insieme
questa vita cos’è

 

IL BACIO PER TUTTI

Ci sono persone con cui scambio poesia
me la lasciano fuori dalla porta
senza una firma
senza un biglietto
ma io so riconoscere da chi arriva

Ho solo il vuoto da rendere e la grazia ricevuta
spero di essere io la prossima volta
a lasciare qualcosa fuori dalla loro porta
qualcosa di cui abbiano bisogno senza chiedere
qualcosa per cui non ci sia bisogno di ringraziare

Ci sono persone a cui rubo poesia
e loro nemmeno se ne accorgono
tanta ne hanno nei loro gesti
nel loro essere
nel loro restare

Dico loro
«sei un poeta»
ma i veri poeti non sanno di esserlo
come fa la neve che a tutti dona il bianco
che per qualcuno è candore
per altri solo fastidio

 

SENZA BIGLIETTO

Alla fine
sono diventata esigente
anche con i miei errori
tanto vale sbagliare in grande

Alla fine
ciò che sono
è ciò che mi permetto d’essere
come mi trattano una mia concessione

Alla fine
sono un bassorilievo
di scarso spessore
un corallo rotto
aggrappato allo scoglio

Alla fine
non siamo i controllori
delle nostre vite
ci siamo saliti
senza biglietto

(Queste poesie di Anna Martinenghi sono tratte dalla silloge appena uscita “Faccio cose del secolo scorso” con Controluna Edizioni di Poesia).

Anna Martinenghi è nata a Soncino (Cr) in una notte di neve del 1972. Nel 2007 ha vinto il concorso indetto dalla casa editrice EDIZIONI CINQUEMARZO di Viareggio, pubblicando la sua prima raccolta in versi liberi “DIDASCALIE” a cui sono seguite la silloge “NUDA” (2009) – “PAROLE POVERE” (2010).
Nel 2010 a seguito della vittoria della XXI edizione del concorso letterario organizzato dall’associazione culturale “Il paese che non c’è” di Bergamo ha pubblicato la silloge “FOTOSENSIBILE” con l’editore Franco Colacello di Bergamo. Nel 2011 la nuova raccolta di poesie “IL CIELO DI SCORTA E ALTRE OFFERTE DELLA SETTIMANA” è stata segnalata durante il premio nazionale “SCRIVERE DONNA 2011” presieduto dalla poetessa Maria Luisa Spaziani, tale raccolta è stata poi pubblicata nel maggio 2013 dalla casa editrice Linee Infinite di Lodi. Nel 2013 con il testo teatrale “HABLA CON EVA” vince il premio PORTALE SIPARIO nel Concorso “Autori Italiani” organizzato dalla Fondazione Teatro Italiano “Carlo Terron” di Milano in collaborazione con la rivista SIPARIO.
Nel 2017 ha pubblicato la raccolta di racconti “SEI TROPPO GRANDE PER CAPIRE CERTE COSE“, Edizioni del Gattaccio – Milano.
Nel 2020 con Giorgia Ferrari e Chiara Nobilia ha curato l’antologia poetica CON-TATTO in risposta al Covid19. Nel 2021 vince il premio Bukowski nella Sezione poesia con la raccolta “O2. Ossigeno”, Giovane Holden Edizioni. Nel 2022 la stessa raccolta vince il Contropremio Carver per la poesia edita. Nel 2023 pubblica la raccolta “Faccio cose del secolo scorso” con Controluna Edizioni di Poesia.

La rubrica di poesia Parole a capo curata da Pier Luigi Guerrini esce regolarmente ogni giovedì mattina su Periscopio. Per leggere i numeri precedenti clicca sul nome della rubrica.

Ferrara. L’Istituto Copernico Carpeggiani adotta il regolamento Alias.
Arcigay: “è un importante traguardo per i diritti Lgbtqi+ che renderà la scuola un luogo più inclusivo”

L’ITI Copernico Carpeggiani adotta la carriera alias. Matteo Gilli, presidente di Arcigay Ferrara Gli Occhiali d’Oro: «Rende la scuola un luogo più inclusivo per studenti e studentesse che verranno riconosciuti, da oggi, per chi sono veramente»

Un importante traguardo per i diritti Lgbtqi+ a Ferrara: l’istituto Copernico Carpeggiani è  la prima scuola a dotarsi del regolamento alias. La prima di una rete di scuole che da tempo stanno lavorando e ragionando sull’adozione di questo importante strumento di inclusione e di rispetto, anche con la collaborazione del CAD di Arcigay.

Il Centro Antidiscriminazione ha in questi mesi realizzato una formazione proprio con i dirigenti e docenti dell’Einaudi, del Copernico e del Vergani per affrontare il tema della carriera alias.

«È in momenti come questi che sono particolarmente orgoglioso dell’istituzione scolastica ferrarese – afferma Matteo Gilli, presidente di Arcigay Ferrara Gli Occhiali d’Oro – soprattutto se la scuola è quella dove sono cresciuto e mi sono formato. Un applauso all’ ITI Copernico-Carpeggiani per essere il primo Istituto a dotarsi del regolamento alias. L’Istituto non è il solo ad avere intrapreso il riconoscimento della carriera alias a Ferrara, anche altre scuole stanno adottando questo strumento e di questo sono felice sia come persona che come presidente di Arcigay».

«Arcigay e il CAD – prosegue Gilli – in questi anni hanno erogato ore di formazione affinché tutto questo fosse possibile, supportando le scuole nel percorso di adozione dello strumento. Introdurre la carriera alias rende la scuola un luogo più inclusivo e più sicuro per quegli studenti e studentesse che verranno riconosciuti, da oggi, per chi sono veramente. Quel luogo in cui ci si forma e si diventa adulti e che deve essere prima di tutto una casa, una seconda famiglia che ti supporta in ogni fase del percorso scolastico. L’augurio è che questa sia la prima scuola di tante in città e che il lavoro che svolgiamo quotidianamente sia di aiuto per una Ferrara più inclusiva e per tutt*».

Arcigay Ferrara Gli Occhiali d’Oro

La politica sulle droghe e la crisi climatica

La politica sulle droghe e la crisi climatica

Nel febbraio 2023 è stata costituita la Coalizione internazionale per la riforma della politica sulla droga e la giustizia ambientale. Una coalizione – come sottolineano i promotori – “emergente”, non gerarchica, multilingue, transnazionale e in crescita, costituita da soggetti provenienti da spazi, esperienze e prospettive diverse e composta da sostenitori, attivisti, artisti e accademici provenienti sia dal movimento di riforma della politica sulla droga che dal movimento ambientalista e climatico. I membri provengono da Bolivia, Brasile, Colombia, Myanmar, Paesi Bassi e Regno Unito.

Di recente è stato reso pubblico un rapporto innovativo della Coalizione internazionale per la riforma delle politiche sulla droga e la giustizia ambientale  che riunisce prove che rivelano come il sistema di proibizione della droga – la cosiddetta “guerra alla droga” – stia minando l’azione per il clima e portando alla violenza e alla criminalità organizzata molti Paesi con ecosistemi estremamente preziosi e minacciati, tra cui l’Amazzonia e altre foreste tropicali.

 Il rapporto, frutto di un lavoro collettivo di scienziati, accademici e attivisti di tutto il mondo (attualmente coordinati da Health Poverty Action), delinea i modi principali in cui la politica sulla droga ostacola la giustizia climatica, a partire dalla proibizione delle droghe che ne spinge la produzione e il traffico in aree remote e vitali della biodiversità, dove i profitti del commercio vengono reinvestiti in altre attività dannose per l’ambiente, come l’estrazione mineraria illegale, l’accaparramento di terre e il disboscamento.

Il rapporto punta il dito sul proibizionismo che ha rafforzato e arricchito gruppi criminali organizzati e violenti, ha creato un’economia sommersa, abbastanza potente da destabilizzare interi paesi, lasciando che i funzionari legiferassero nell’interesse della criminalità organizzata piuttosto che a favore delle persone e del pianeta.

Al centro del rapporto c’è un appello al movimento ambientalista affinché consideri maggiormente che il proibizionismo della droga è un fattore chiave della criminalità organizzata, della corruzione e del sequestro statale nelle regioni ecologicamente fragili e che affrontare l’emergenza climatica richiede un’azione urgente e coordinata da parte dei movimenti politici per l’ambiente e la droga, per sostituire il proibizionismo con una regolamentazione che sostenga le persone e il pianeta.

Siamo di fronte, certifica il rapporto, a tassi “straordinari e ostinatamente costanti” di perdita delle foreste tropicali. Il Gruppo internazionale di esperti sul cambiamento climatico delle Nazioni Unite (IPCC) ha chiesto un’azione urgente per proteggere e ripristinare le foreste, rafforzandone la governance e la gestione.

Politici, ministeri dell’ambiente, ONG e gruppi della società civile di tutto il mondo cercano, seppur con limiti, contraddizioni e ritardi, di  mettere in campo “risposte di governance urgenti per proteggere i più grandi pozzi di carbonio del pianeta, mitigare i cambiamenti climatici e scongiurare la catastrofe climatica.

Ma questi sforzi, ammonisce la Coalizione, rischiano di essere destinati al fallimento finché coloro che sono impegnati nella protezione dell’ambiente trascureranno di riconoscere e affrontare l’elefante nella stanza, ovvero il sistema globale di proibizione criminale delle droghe, popolarmente noto come war on drugs.

Gli attori criminali traggono profitto dal proibizionismo, ossia dal regime internazionale della politica sulle droghe – ideato e sostenuto principalmente dai Paesi del Nord globale e mantenuto dalle Nazioni Unite – che ha creato un’economia sommersa non regolamentata e immensamente potente.

Un’economia ombra che sta minando il progresso ambientale e la governance nelle frontiere della foresta tropicale del mondo, le giungle del Sud-Est asiatico, le foreste dell’Africa occidentale e le foreste pluviali dell’America centrale e meridionale, che rappresentano alcuni dei più grandi serbatoi di carbonio del pianeta e sono assolutamente fondamentali per il nostro futuro climatico, ma che purtroppo rappresentano anche le principali rotte del traffico di droga nel mondo.

Ne consegue che per proteggere queste regioni ecologicamente fragili è necessario andare alla fonte del sistema di ombre che le minaccia: le leggi e i trattati che rendono illegali le droghe.

Il documento delinea, in sintesi, tre modi fondamentali in cui la politica sulle droghe ostacola la giustizia climatica: 1.  le geografie del proibizionismo, che spingono la produzione e il traffico di droga in aree remote e vitali della biodiversità; 2. il reinvestimento dei profitti della droga in altre attività dannose per l’ambiente; 3. la politica sulle droghe che crea le condizioni di base per la devastazione ambientale.

L’attuale sistema di proibizione va demolito e al suo posto vanno costruite alternative di politica delle droghe che funzionino per la salute pubblica e del pianeta, sostituendo il proibizionismo con una regolamentazione che sostenga le persone e il pianeta.

Anche perché è acclarato che la strategia della “guerra alla droga” perseguita negli ultimi 30 anni e le politiche proibizioniste basate sullo sradicamento della produzione e sull’interruzione dei flussi di droga, nonché sulla criminalizzazione del consumo, non  abbiano dato i risultati sperati e siamo sempre più lontani dall’obiettivo annunciato di sradicare le droghe.

Per leggere gli altri articoli di Giovanni Caprio su Periscopio clicca sul nome dell’autore

TERZO TEMPO
La lunga storia della canzone ufficiosa del baseball

Una partita di baseball dura in media tre ore ed è scandita da un sacco di pause, durante le quali il pubblico statunitense è solito prendersi il centro della scena: infatti, oltre a consumare grandi quantità di cibo, sugli spalti ci si bacia di fronte alla kiss cam, si fanno bizzarre proposte di matrimonio e, soprattutto, si canta. Ebbene, il brano più conosciuto dal pubblico nordamericano è senza dubbio Take Me Out To The Ball Game, la cui storia merita un approfondimento.

Si tratta di una semplice canzonetta in 6/8, scritta nel 1908 dal paroliere Jack Norworth e dal pianista di origine polacche Albert von Tilzer, entrambi non particolarmente interessati al baseball. Senonché, un cartellone pubblicitario affisso nella metropolitana di New York dette l’ispirazione a Norworth, le cui liriche leggere e spensierate divennero ben presto una canzone vaudeville, ossia un brano adatto a essere interpretato in uno spettacolo teatrale perlopiù satirico. Il genere vaudeville, infatti, raccontava l’attualità dell’epoca attraverso melodie orecchiabili e un po’ d’ironia. Sta di fatto che Take Me Out To The Ball Game riscosse un gran successo nei teatri statunitensi, ma l’apertura dei primi cinema e la progressiva diffusione della radio contribuirono al declino del suddetto genere.

Così, nel giro di qualche anno la canzone di Norworth e von Tilzer passò dai teatri alle arene sportive: nel 1934 fu suonata per la prima volta in uno stadio di baseball a Los Angeles, e precisamente in una partita tra studenti delle scuole superiori; l’anno successivo, invece, venne addirittura proposta durante la fase finale del campionato MLB. Diventò infine popolarissima a partire dagli anni ’70, cioè quando lo speaker Harry Caray iniziò a far cantare al pubblico il ritornello del brano durante il cosiddetto seventh-inning stretch, la breve pausa del settimo inning.

Caray lo intonò dapprima di fronte al pubblico dei Chicago White Sox, poi, a partire dal 1982, fece lo stesso assieme ai tifosi dei Cubs, ossia l’altra squadra di Chicago. Fatto sta che al Wrigley Field, stadio dei Cubs, non c’è pausa del settimo inning senza Take Me Out To The Ball Game: tifosi celebri quali Eddie Vedder, Ozzy Ousbourne, Vince Vaughn e Bill Murray [Qui] l’hanno cantata, e continueranno a cantarla, assieme al pubblico di Chicago, proprio come faceva Caray. Basti pensare che al di fuori dello stadio dei Cubs è presente da più di vent’anni una statua che ritrae lo stesso Harry Caray nella sua posa più iconica, cioè quella in cui porge simbolicamente il microfono agli spettatori [Qui].

Insomma, l’intenzione originaria dei due autori del brano – adattarlo agli spettacoli vaudeville – è stata fagocitata dal trascorrere del tempo e dalla popolarità del baseball. Eppure, le due dimenticate strofe di Take Me Out To The Ball Game conservano un collegamento con il genere teatrale di cui sopra: in quei versi, infatti, si parla di una certa Katie Casey, pseudonimo inventato da Norworth per riferirsi all’attrice vaudeville Trixie Friganza, con cui lo stesso paroliere newyorchese ebbe una relazione durante la stesura del testo.

Norworth descrive tale Katie Casey come una donna intraprendente, progressista, disinibita e apparentemente appassionata di baseball: caratteristiche che secondo gli storici nordamericani corrispondono a quelle mostrate, sia sul palco che nella quotidianità, dalla suddetta Trixie Friganza, la quale contribuì all’ascesa del movimento femminista negli Stati Uniti.

D’altronde, Friganza partecipò attivamente a numerose campagne per i diritti delle donne, sovvenzionando le suffragette e parlando più volte in pubblico. Durante l’enorme manifestazione a favore del suffragio universale del 28 ottobre 1908, pare che la stessa attrice abbia arringato la folla di New York con le seguenti parole: “Non credo che ogni uomo – o perlomeno nessun uomo che io conosca – sia più idoneo a formare un’opinione politica di quanto lo sia io”

Cover: foto di WGN-TV

“Teatro e Guerra. Capitani e guerrieri ridicoli sulle scene della Commedia dell’Arte”
Primo appuntamento Webinar 10 novembre ore 17

Il primo appuntamento WebinarTeatro e guerra. Capitani e guerrieri ridicoli sulle scene della Commedia dell’Arte”, Venerdì 10 novembre alle ore 17,00 avrà come relatore il prof. Fausto De Michele. Professore associato di Lingua e Letteratura Italiana presso l’Università di Graz e di Letterature Comparate presso l’Università di Vienna.
Ha pubblicato numerosi saggi e libri su vari autori europei del Novecento, sulle teorie del comico, sulla Commedia dell’Arte e sulla ricezione di Pirandello.
Ciclo di incontri “Teatro e guerra. Capitani e guerrieri ridicoli sulle scene della Commedia dell’Arte”
1️⃣ Venerdì 10 novembre
2️⃣ Venerdì 17 novembre
3️⃣ Venerdì 24 novembre
4️⃣ Venerdì 1 dicembre
📲 Potete seguire la diretta dell’evento sulla pagina Facebook di Fabio Mangolini, sul canale YouTube di Cornucopia, Fabio Mangolini e quello dell’Università degli Studi di Ferrara – Dipartimento Studi Umanistici.
Cornucopia Performing Arts Lab – Ferrara
cornucopiaperformingarts@gmail.com

Programma completo e primo incontro con Fausto De Michele

Ciclo di incontri: “Teatro e guerra. Capitani e guerrieri ridicoli sulle scene della Commedia dell’Arte”
Primo appuntamento: “Guerrieri ridicoli e guerre vere”;

 

In copertina: Personaggi della Commedia dell’Arte, attribuito a Francois Bunuel (1578-1590)

Gli spari sopra /
Quando il vento si poserà

“Io chiedo quando sarà, che l’uomo potrà imparare a vivere senza ammazzare, e il vento si poserà.”

 

La tragedia Palestinese / Israeliana è un argomento su cui sono particolarmente sensibile, da tanto tempo. E’ dal giorno dell’orrore compiuto nei Kibbutz che vorrei scrivere qualcosa, anche se non aggiungerà molto ai fiumi di inchiostro e ai commenti dei bravi giornalisti e politici occidentali. Le parole, le frasi, i pensieri mi si bloccano sui polpastrelli al momento di digitarli su una tastiera. Vorrei sputarli più che scriverli, vorrei gridarli più che commentarli, vorrei partecipare, agire, fare qualcosa perché quella martoriata regione sia terra di pace, come forse non è mai stata.

Da quando la questione Palestinese mi sta così a cuore? Dalle scuole medie, dal tempo del massacro di Sabra e Shatila, perpetrato dalle falangi libanesi cristiano-maronite con la complicità e l’aiuto dell’esercito israeliano al cui capo, in qualità di Ministro della Difesa, c’era un certo Ariel Sharon. Le modalità furono molto simili a quelle utilizzate da Hamas nel Kibbutz a Kfar Aza: una carneficina tenda per tenda, in quanto si trattava di due campi profughi, lasciando disseminati sul terreno dai 700 ai 3.500 morti (a seconda delle fonti), tra cui molte donne e bambini. La barbarie viene da lontano, è insita in quell’essere fatto ad immagine e somiglianza di Dio che sono gli uomini.

Mi immagino i commenti indignati ed esterrefatti di alcuni lettori: “cosa c’entra, qui si sta parlando di un macello recente, il passato è passato”. Il passato non è passato. Se anche lo fosse, non ha lasciato sedimentato nulla, la storia si ripete, all’infinito, nel sangue degli innocenti, da Erode a Dio stesso, sempre uguale, sempre diversa.

Ora vorrei aggiungere un pensiero, che credo in Italia sia ormai fuorilegge. Io, bambino di tredici anni appena compiuti, sono diventato filo palestinese dal 18 settembre 1982. E qui vedo le moltitudini che si nutrono della stampa e della tv italiana inveire e gridarmi in faccia di essere filo Hamas, additandomi come connivente morale di un branco di criminali, invasati dalla droga e dalla religione. Ecco, qui vorrei azzardare alcune similitudini, sconvenienti, e sicuramente minoritarie nel pensiero comune delle nostre solide democrazie occidentali: le falangi libanesi, gli squadroni cristiano-maroniti, Ariel Sharon, Hamas, Bibi Netanyahu, sono portatori di morte, tutti allo stesso modo. Ognuno di loro fonda la propria ideologia sulla persecuzione e sullo sterminio del nemico. Il nostro amico Bibi ritiene che non potrà mai esistere uno stato Palestinese, i capi di Hamas dalle loro suite in Qatar (!) pensano che la soluzione finale debba essere unicamente la distruzione di Israele. Qual è la grossa differenza fra i tagliagole e la consolidata democrazia di Israele? Le armi con cui si uccidono i bambini? Barbare le lame, chirurgiche le bombe?

Ricordo, per chi non lo sapesse, che sono ateo e comunista e quindi mai potrò stare dalla parte di un gruppo di criminali fascisti, invasati dalla religione come Hamas; ma non posso stare zitto quando si parla di una violenza cieca solo da una parte del muro del lager di Gaza. Non posso.

La storia dello Stato di Israele nasce alla fine della seconda guerra mondiale. Leggendo in rete, o meglio utilizzando testi storici, ognuno si può fare una opinione. Non è mia intenzione quella di parteggiare in maniera ottusa come stessimo parlando di un derby. Più ci si informa, più crescono i dubbi. C’è tanto, troppo di più.

Nei miei ricordi di bambino, e di adolescente poi, Arafat e l’OLP erano additati come terroristi fanatici nemici dell’occidente, mentre probabilmente erano il vero argine contro l’ottusità sanguinaria del nascente movimento di Hamas. Al liceo indossavo un bomber con la spilla dell’OLP, del PCP, la pezza del Che, e l’immancabile spillina della S.P.A.L. Ero un pericoloso estremista, ma le mie posizioni da allora non sono poi cambiate di tanto.

Gli oppressi e gli oppressori, gli invasi e gli invasori, la diaspora e la nakba, hanno davvero la stessa dignità nell’evoluto mondo occidentale? Oppure cambiano a seconda della geografia, della religione, dei punti cardinali e delle parti dei muri da cui si vedono?

Ricordo le foto di Berlinguer abbracciato ad Arafat, e ricordo pure come quelle due figure mi rappresentassero, mi ricordo la dignità e l’orgoglio delle mie, anzi delle nostre idee. Oggi, a parte poche piazze, poche figure (mi viene in mente la giornalista Francesca Fornario, per citarne una su tutte) i miei pensieri sono fuori moda, fuori dal tempo, fuori di testa.

In copertina: foto Libertinus su licenza Creative Commons

Parole e figure /
Piccole talpe crescono – Strenne Natalizie

Piccole talpe crescono: “Il desiderio di una piccola talpa” del coreano Kim Sang-Keun, esce il 13 novembre con Kite edizioni. Storia di amicizia, di tenerezza, di quiete, di casa accogliente e di soffice neve, pensando già al Natale

Natale si avvicina e, come tradizione, iniziamo le nostre Strenne Natalizie (sempre, rigorosamente, senza renne), per avere e suggerire tante idee di bei libri sotto l’albero.

Iniziamo con un albo che esce il 13 novembre, “Il desiderio di una piccola talpa” del coreano Kim Sang-Keun, una vera gemma preziosa, la tenera storia di una piccola talpa che si è appena trasferita, che non conosce ancora nessuno in città e, pertanto, si sente molto molto sola.

I colori sono tenui, delicati, il bianco della neve, l’azzurro del cielo, l’oro delle stelle, a fondersi con il giallo pallido utilizzato per il calore. Le illustrazioni, realizzate con matita colorata, pastello e penna, sono silenziose e sobrie e mostrano distese innevate e selvagge con solo pochi alberi e qualche fermata dell’autobus. Paesaggio degno di una fiaba che pare aspettare solo il Natale, le sue luci, le sue musiche e il profumo di zucchero filato e di caramello. Magari anche di popcorn davanti alla tv.

Ecco allora che, di ritorno verso casa della nonna, dopo il primo giorno di scuola, la piccola talpa incontra una palla di neve, la saluta e, mentre la fa rotolare verso la fermata dell’autobus, comincia a raccontarle come si sente, lei lo ascolta in silenzio.

Fare amicizia con qualcuno fatto di neve comporta non pochi rischi. La talpa vorrebbe portare a casa con sé sull’autobus pubblico questo nuovo amico, ma si sa, gli autobus sono per gli animali, non certo per la neve, e nessun conducente, a partire dalla volpe, accetta di far salire a bordo quella strana coppia. Prima di trovare un autista disposto a farle salire entrambe sull’autobus a piccola talpa dovrà inventarsi diversi escamotages: e se modellasse la neve in un orso, regalandogli uno zainetto o il suo cappello?

Le cose non andranno proprio come aveva sperato, ma alla fine, fra le stelle cadenti, la tenerezza, gli abbracci e il calore della nonna che sempre c’è e ascolta, il suo desiderio verrà esaudito. In un campo innevato, ci sarà un ospite speciale, mentre orme rassicuranti vengono incontro. Tutto questo proviene dalla magia o dalla nonna? C’è differenza?

Kim Sang-Keun, Il desiderio di una piccola talpa, Kite edizioni, Padova, 2023, 52 p.

Kim Sang Keun, foto di Shinhye Min

Libri per bambini, per crescere e per restare bambini, anche da adulti.
Rubrica a cura di Simonetta Sandri in collaborazione con la libreria Testaperaria di Ferrara

CHIAMATA ALLA SOCIETÀ CIVILE E AL VOLONTARIATO SOCIALE

CHIAMATA ALLA SOCIETÀ CIVILE E AL VOLONTARIATO SOCIALE
Domenica 19 novembre 2023, dalle 15,00 alle 18,30

presso il Centro Sociale il Quadrifoglio di Ponte

( Viale Girolamo Savonuzzi, 54 Pontelagoscuro )

Vuoi progettare insieme il programma per una Ferrara più Verde e Più Giusta?
Vuoi scegliere insieme il Candidato/a sindaco/A?
Allora questo invito è per te
.

In vista delle elezioni di giugno 2024, crediamo nell’importanza che sia la società civile, il mondo del volontariato sociale e culturale e la parte attiva della cittadinanza che ha manifestato e lottato in questi anni,  a confrontare le proprie idee, indicare i programmi per una Ferrara migliore, proporre persone competenti e motivate  e scegliere attraverso il voto le figure del Candidato/a Sindaco/a insieme alla sua squadra.
Ti proponiamo di condividere questo importante compito e questa grande responsabilità, attraverso metodi e strumenti democratici e partecipativi.

Il 19 novembre utilizzeremo il World Cafè, un metodo efficace per dare vita a conversazioni informali, vivaci, concrete e costruttive che riguardano questioni cruciali per la nostra città: cultura, arte, giovani, trama verde, energia, economia, equità sociale, lavoro, salute, beni comuni, democrazia partecipata, inclusione, scuola, università, sicurezza, mobilità, rigenerazione urbana, donne…

Per questo invitiamo associazioni, gruppi informali, cittadini attivi, assieme ai partiti e alle formazioni politiche del Tavolo dell’Alternativa domenica 19 novembre dalle ore 15.00 alle 18.30 presso il Centro Sociale Il Quadrifoglio, Viale Savonuzzi 54 a Pontelagoscuro.

La nostra è una comunità vivace, ricca di idee, competenze, esperienze, talenti che possono essere messi a disposizione per costruire insieme un programma dal basso. Vuoi accettare questa sfida?

Porta qualcosa da condividere con gli altri e una tazza per ridurre i rifiuti.

E’ importante, per motivi logistici ed organizzativi, segnalare la propria partecipazione, tramite email.

Ti aspettiamo!

La Comune di Ferrara

Per saperne di più, per aderire, per sostenere La Comune di Ferrara:
Email: info@lacomunediferrara.it
Sito internet: www.lacomunediferrara.it
Pagina Facebook: https://www.facebook.com/profile.php?id=6155137603411

ferrara futura appunti per una città biblioteca

Ferrara Futura:
appunti per una Città Biblioteca.

Ferrara Futura: appunti per una Città Biblioteca.

Scrive l’inarrivabile Borges : “Ho sempre immaginato il Paradiso come una specie di biblioteca”. Ma il lettore, che si accinge a proseguire la lettura, non si spaventi. Il paradiso-biblioteca, è una delle idee, delle tante invenzioni del bibliotecario capo della Biblioteca Nazionale Argentina, come quell’altra, la biblioteca infinita che si ottiene cambiando ogni volta una sola sillaba, un solo carattere alla Divina Commedia e a tutti i milioni di libri pubblicati.

Qualcuno si è spinto oltre: “Nella prossima vita voglio essere un libro”. Questo, per non annoiare oltre, può bastare per dire dell’enorme potere emotivo, evocativo ed educativo che può derivare dall’incontro con un libro e con i libri riuniti assieme, una biblioteca, grande o piccola che sia. Per molti, oltre il 60% degli italiani , questo incontro non è ancora avvenuto. Colpa dello Stato, dei governi delle città e colpa nostra, di tutti gli amici del libro che non sono riusciti ad indicargli la strada.

I  futuri della città 

In tanti suoi romanzi degli anni ’50 e ’60 – tanti quanti,  anche 4 in un anno, un oscuro autore di science fiction doveva sfornarne per sopravvivere – Philip K Dick  ci insegna cose importanti, che solo dopo decenni scienza e letteratura comprenderanno  del tutto. Un modo affatto diverso di vedere e vivere il futuro.

Una creazione di P. K. Dick sono i pregog  (i pre-cognitivi, una super razza frutto di una delle mutazioni dell’Homo Sapiens nel Dopobomba. I pregog non sono degli indovini o dei veggenti,  non “predicono il futuro”, ma gettano lo sguardo sui molti futuri che si aprono davanti a noi.  Futuri possibili, più o meno probabili, ma soprattutto “futuri alternati”, in continuo mutamento.  A distanza di un anno, o di un giorno, o solo di un’ora, un futuro molto probabile può diventare improbabile. E viceversa, un futuro improbabile, può ripresentarsi come il futuro principale e largamente favorito.

Parlare del “futuro della città”, quindi anche del futuro di Ferrara, credo debba rispondere a questa intuizione: dobbiamo abbandonare il singolare e adottare il plurale: non esiste un unico e generico futuro, ma una pluralità di futuri “alternati”, più o meno possibili e probabili.

Ferrara ha molti futuri davanti a sé, anche se temo che programmi e slogan elettorali confezionati in vista delle imminenti amministrative non ci diranno molto in proposito. Se non qualche aggettivo molto bello da pronunciare. Ferrara Verde. Ferrara Sicura. Ferrara Smart. Ferrara Accogliente. Ferrara Ciclabile … Tutti d’accordo, ci mancherebbe. Ma cosa significa concretamente? Da dove partire? E con quali materiali, con quali utensili e con quali obiettivi pensiamo di costruire quel futuro di Ferrara in cui ci piacerebbe vivere?

Io, per deformazione passionale, voglio partire dai libri, dalla lettura, dalle biblioteche. Provare a spiegare come un argomento che può sembrare antico (la prima biblioteca censita è vecchia all’incirca 2.600 anni), che può sembrare di nicchia [proprio i libri?!? scusi tanto, ma ci sono temi e problemi un tantino più importanti]

Da dove partire: l’invenzione della collaborazione

Sui libri – sui materiali documentari: su carta o su qualsiasi altro supporto – e sulle biblioteche, non partiamo da zero. Negli ultimi quarant’anni in Italia si è fatto un enorme lavoro in campo bibliotecario e biblioteconomico. Il 18 giugno del 1986 nasce il Servizio Bibliotecario Nazionale Nazionale (SBN).

Un progetto ciclopico, talmente ambizioso da sembrare fantascientifico: catalogare, mettere in rete, e quindi disponibili al pubblico, tutti documenti di tutte le biblioteche italiane. I risultati, sempre in aggiornamento, sono straordinari.

Oggi il Catalogo Unico l’OPAC SBN  conta 6.900 biblioteche in rete, 20 milioni di record, 115 milioni di documenti catalogati, oltre 400 mila utenti al giorno. Ogni cittadino in ogni momento può consultare il catalogo unico in linea, fare una semplice ricerca e accedere al prestito interbibliotecario.

Tutto questo è stato reso possibile grazie ad una scelta precisa che è risultata vincente. Non si è partiti dal vertice, dalla Biblioteca Nazionale, raggiungendo a cascata tutte le altre biblioteche (è quello, ad esempio, che ha fatto la Francia con risultati inferiori all’Italia), ma lavorando in modo orizzontale, puntando cioè sulla collaborazione di migliaia di biblioteche – da quelle dei grandi istituti pubblici e universitari fino a alle piccole biblioteche decentrate e di paese –  raggruppate in più di 100 poli bibliotecari e catalografici.

Il celebre motto di S.R. Ranganathan “Ad ogni lettore il suo libro. Ad ogni libro il suo lettore” , l’accesso universale e gratuito alle fonti della conoscenza e il diritto alla soddisfazione di ogni bisogno informativo si materializza con il Catalogo Unico e grazie alla collaborazione bibliotecaria.

Questo è solo il primo passo, per realizzare a pieno il diritto fondamentale (perché “La conoscenza” è a tutti gli effetti un “Bene Comune”, come l’acqua, la sanità, l’istruzione) non basta il Catalogo Unico.  Come non è pensabile l‘Istruzione senza un luogo fisico che si chiama Scuola, così la Conoscenza, racchiusa (chiusa) in milioni di documenti (cartacei o elettronici) ha bisogno della Biblioteca per raggiungere tutto il suo pubblico.

Quale pubblico? Tutti e ognuno di noi: ognuno ha bisogno, in ogni momento della sua vita, di istruirsi e informarsi su qualche cosa. Ha bisogno della Scuola. E ha bisogno della Biblioteca, perché in biblioteca non sei solo davanti al mare magnum informativo della Rete, ma trovi assistenza, guida e consiglio per recuperare il documento e l’informazione che stai cercando.

Scuole e biblioteche. I dati si riferiscono al 2019, ma possono servire per un piccolo confronto.
Le scuole primarie in Italia sono 11.627 , suddivise tra 2.504 scuole dell’infanzia, 7.435 scuole primarie e 1.688 scuole secondarie di primo grado (è noto però che mancano, sempre promessi,  almeno 2.000 asili nido).
Le biblioteche pubbliche e private, statali e non statali, aperte al pubblico in Italia sono invece 7.425  (escluse quelle scolastiche e universitarie).

Per rendere effettivo il Diritto alla Conoscenza, le biblioteche pubbliche (che non sono poche, almeno in Nord e Centro Italia) dovrebbero raddoppiare di numero, tenuto conto di una loro diffusione capillare sul territorio, dovendo servire un pubblico di bambini, e ragazzi, ma anche di adulti e di anziani. E dovrebbero raggiungerlo là dove le persone vivono: in centro e nelle periferie, nei paesi, nei borghi, nelle frazioni.

Facciamo il caso di Ferrara

Ferrara non è un’isola, quindi parte delle cose che seguono possono valere per tutta Italia. Qualcosa, però, va detto sull’ultima triste stagione delle biblioteche ferraresi e del Servizio di Pubblica Lettura.

Da un decennio assistiamo ad un preoccupante calo di interesse verso il valore sociale e culturale delle biblioteche: blocco dei concorsi e delle assunzioni, calo degli addetti comunali al servizio, riduzione dei fondi destinati all’acquisto librario, ricorso alla esternalizzazione della gestione delle biblioteche.

Negli ultimi 4 anni, con l’avvento della attuale Amministrazione di Destra, il disinteresse diventa abbandono. Sull’onda del periodo di chiusura e di semi-apertura dovuto alla pandemia, la riduzione dell’orario di apertura delle biblioteche diventa permanente (e indecente, almeno nel caso della Biblioteca Ragazzi Niccolini), continua il calo degli addetti comunali e il ricorso alle esternalizzazioni.

Chiusa sine die la videoteca comunale Vigor. Abbandonato il progetto di realizzare una nuova grande biblioteca nella Zona Sud (i locali vengono destinati a raddoppiare la sede del Comando dei vigili urbani). Pochi fondi per l’acquisto delle novità librarie: siamo ormai a meno di 1 euro per abitante (quando lo standard minimo sarebbe di 2 euro per abitante). Poco, anzi niente, per le iniziative e piccole attività culturali in biblioteca. Di conseguenza, prestiti e transazioni informative in biblioteche sono andati a picco.

In alto mare – anzi, la nave non è mai salpata – una importante proposta di Ranieri Varese, realizzare un’unica Grande Biblioteca di Storia dell’Arte, anche se fisicamente collocata in più sedi: statali, municipali, universitarie e private. Come? Con un po’ di soldi, neanche tanti, per catalogare alcuni preziosi fondi storici. Ma la condizione necessaria e sufficiente è la volontà politica e la concreta disponibilità di tutti gli enti proprietari. Ancora una volta, il nodo è la collaborazione, una pratica che a Ferrara fa una gran fatica a varcare Porta Paola.

Riuscirà il nuovo governo che si insedierà a Ferrara a posare finalmente gli occhi sulle sue tante biblioteche e far ripartire lo sviluppo e la qualificazione del sistema nel suo complesso e del servizio per i cittadini utenti? Possiamo solo augurarcelo. Anche se, cercherò di accennarne nell’ultima parte di questo articolo, per giungere alla Città Biblioteca occorre fare molti altri passi.

Per una Città  Biblioteca

Come potrebbe essere una Città Biblioteca?  Quelli che seguono sono appunti sull’avvenire.  Per questo, torno a Borges e al suo paradiso. Alla biblioteca infinita e ubiqua. O a quello che, per scherzo ma con convinzione,  ripeto sempre: “Vorrei che le biblioteche rimanessero aperte anche di notte, come le cattedrali nel medioevo”. La fantasia (Rodari docet) è generativa, ci aiuta a immaginare, e le cose non immaginate non diventeranno mai una realtà, nemmeno in una piccola parte. Ecco quindi un elenco “fantastico”.

  • La biblioteca (le biblioteche pubbliche) possono e devono diventare il primo riferimento informativo per il cittadino. In quel luogo (in quei luoghi) non troverà solo libri e  documenti da consultare e da prendere a prestito, ma tutte le informazioni di base che gli possono servire: sugli orari degli uffici degli sportelli specializzati, sull’orario delle corriere e degli autobus, sulle cose che accadono nel quartiere e nella città.
  • Troverà un luogo accogliente, dove sedersi e dove prendere un caffè o una bibita alla macchinetta. Troverà una sala (grande o piccola) da prenotare per una riunione o assistere a una iniziativa culturale, una mostra di vecchie fotografie, una lettura a voce alta, un laboratorio creativo per bambini e per adulti. Troverà, almeno in alcuni orari, uno che ne sa più di lui, un bibliotecario mediatore, che lo aiuterà a trovare quello che sta cercando.
  • Le Biblioteche pubbliche, grandi e piccole, dovranno essere ubique, formare cioè una fitta trama urbana, in tutti i quartieri e tutte le frazioni. Quante allora? Se penso a Ferrara, un Comune di poco più di 130.000 abitanti, mi verrebbe da dire: non meno di 30. Come le scuole, come le le parrocchie, un po’ meno dei bar. [Sto sparando troppo in alto? Devo ricordarvi che la mia è solo una fantasia].
  • Ma se le biblioteche pubbliche non sono solo (come pensano i tanti che non ci sono mai entrati) “un posto pieno di libri”, ma spazi protetti dedicati e deputati alla socialità, all’incontro, allo scambio non economico tra le persone, non sarebbe giusto che ogni cittadino di qualsiasi età avesse una biblioteca pubblica a pochi passi da casa? Non sarebbe un suo diritto?
  • Le biblioteche pubbliche, come le scuole del resto, dovrebbero essere aperte molto più di adesso. E almeno alcune: anche al sabato, anche alla domenica, anche alla sera. 
  • Le biblioteche pubbliche devono essere in carico alla Amministrazione Comunale ed avere, ognuna di loro, almeno un dipendente bibliotecario e documentalista adeguatamente formato. La responsabilità dell’apertura e delle attività della biblioteca verrebbe però condivisa con un’associazione di privati cittadini.
  • A Ferrara c’è una magnifica esperienza di biblioteca completamente autogestita, la Biblioteca Popolare Giardino, sotto il Grattacielo, che dimostra come tutto questo sia possibile e replicabile in tutti gli ambiti urbani.
  • In biblioteca vorrei che si potessero prenotare, comprare e ritirare libri, audio, video e altri documenti, attraverso una piattaforma apposita collegata alle librerie cittadine. Lo sconto del 10% praticato sul prezzo di copertina verrebbe “girato” alla biblioteca per finanziare piccole attività culturali.
  • Un furgoncino Interlibro girerà per la città per consentire il Prestito Interbibliotecario e il rientro dei documenti nella sede originaria. Se le biblioteche saranno tante, quel furgoncino pubblico dovrà girare da mane a sera, senza sosta, ma sarà una gioia vederlo passare tra i cento corrieri al servizio della multinazionale esentasse Amazon.

Ho finito. Oppure no, non proprio, ma rimando le idee più pazze per una prossima puntata. Per ora, arrivederci. Ci vediamo in biblioteca.

Per leggere gli articoli di Francesco Monini su Periscopio clicca sul nome dell’autore

C’È CHI DICE NO.
La lettera di dimissioni di Craig Mokhiber, direttore dell’Ufficio di New York dell’Alto Commissariato delle Nazioni Unite per i Diritti Umani

La lettera di dimissioni di Craig Mokhiber, direttore dell’Ufficio di New York dell’Alto Commissariato delle Nazioni Unite per i Diritti Umani.

Caro Alto Commissario,
questa sarà la mia ultima comunicazione ufficiale a Lei in qualità di Direttore dell’Ufficio dell’Alto Commissariato per i Diritti Umani di New York.

Scrivo in un momento di grande angoscia per il mondo, anche per molti dei nostri colleghi. Ancora una volta, stiamo assistendo a un genocidio che si sta svolgendo sotto i nostri occhi e l’Organizzazione che serviamo sembra impotente a fermarlo. Come persona che ha indagato sui diritti umani in Palestina fin dagli anni ’80, che ha vissuto a Gaza come consulente delle Nazioni Unite per i diritti umani negli anni ’90 e che ha svolto diverse missioni per i diritti umani nel Paese prima e dopo, questo è profondamente personale per me.

Ho lavorato in queste sale anche durante i genocidi contro i Tutsi, i musulmani bosniaci, gli Yazidi e i Rohingya. In ogni caso, quando la polvere si è posata sugli orrori perpetrati contro popolazioni civili indifese, è apparso dolorosamente chiaro che avevamo fallito nel nostro dovere di soddisfare gli imperativi di prevenzione delle atrocità di massa, di protezione dei vulnerabili e di responsabilità per i responsabili. E così è stato per le successive ondate di omicidi e persecuzioni contro i palestinesi durante l’intera vita delle Nazioni Unite.

Alto Commissario, stiamo fallendo di nuovo.

Come avvocato specializzato in diritti umani con oltre tre decenni di esperienza sul campo, so bene che il concetto di genocidio è stato spesso oggetto di abusi politici. Ma l’attuale massacro su larga scala del popolo palestinese, radicato in un’ideologia coloniale etno-nazionalista, in continuità con decenni di persecuzione ed epurazione sistematica, basata interamente sul loro status di arabi, e accompagnato da esplicite dichiarazioni d’intenti da parte dei leader del governo e dell’esercito israeliano, non lascia spazio a dubbi o discussioni. A Gaza, le case, le scuole, le chiese, le moschee e le istituzioni mediche dei civili sono state attaccate senza pietà, mentre migliaia di civili sono stati massacrati. In Cisgiordania, compresa Gerusalemme occupata, le case vengono confiscate e riassegnate in base alla razza e i violenti pogrom dei coloni sono accompagnati da unità militari israeliane. In tutta la terra regna l’Apartheid.

Questo è un caso di genocidio da manuale. Il progetto coloniale europeo, etno-nazionalista, dei coloni in Palestina è entrato nella sua fase finale, verso la distruzione accelerata degli ultimi resti della vita indigena palestinese in Palestina. Inoltre, i governi degli Stati Uniti, del Regno Unito e di gran parte dell’Europa sono totalmente complici di questo orribile assalto. Non solo questi governi si rifiutano di adempiere ai loro obblighi derivanti dai trattati “per garantire il rispetto” della Convenzione di Ginevra, ma in realtà stanno attivamente armando l’assalto, fornendo sostegno economico e di intelligence e dando copertura politica e diplomatica alle atrocità di Israele.

Di pari passo, i media aziendali occidentali, sempre più prigionieri e vicini allo Stato, violano apertamente l’articolo 20 del Patto internazionale sui diritti civili e politici, disumanizzando continuamente i palestinesi per facilitare il genocidio e trasmettendo propaganda di guerra e incitamento all’odio nazionale, razziale o religioso che costituisce un incitamento alla discriminazione, all’ostilità e alla violenza. Le società di social media con sede negli Stati Uniti sopprimono le voci dei difensori dei diritti umani e amplificano la propaganda pro-Israele. Le lobby israeliane online e i GONGOS molestano e diffamano i difensori dei diritti umani e le università e i datori di lavoro occidentali collaborano con loro per punire coloro che osano parlare contro le atrocità. Sulla scia di questo genocidio, è necessario rendere conto anche di questi attori, proprio come è avvenuto per radio Milles Collines in Ruanda.

In queste circostanze, la richiesta alla nostra organizzazione di un’azione efficace e di principio è più grande che mai. Ma non abbiamo raccolto la sfida. Il potere protettivo di applicazione del Consiglio di Sicurezza è stato nuovamente bloccato dall’intransigenza degli Stati Uniti, il Consiglio di Sicurezza è sotto attacco per le più blande proteste e i nostri meccanismi per i diritti umani sono oggetto di continui attacchi diffamatori da parte di una rete organizzata di impunità online.

Decenni di distrazione dalle promesse illusorie e in gran parte insincere di Oslo hanno distolto l’Organizzazione dal suo dovere fondamentale di difendere il diritto internazionale, i diritti umani internazionali e la stessa Carta. Il mantra della “soluzione a due Stati” è diventato una barzelletta nei corridoi delle Nazioni Unite, sia per la sua assoluta impossibilità di fatto, sia per il suo totale fallimento nel rendere conto dei diritti umani inalienabili del popolo palestinese. Il cosiddetto “Quartetto” non è diventato altro che una foglia di fico per l’inazione e per l’asservimento a uno status quo brutale. La deferenza (scritta dagli Stati Uniti) agli “accordi tra le parti stesse” (al posto del diritto internazionale) è sempre stata un trasparente gioco di prestigio, progettato per rafforzare il potere di Israele sui diritti dei palestinesi occupati e diseredati.

Negli anni Ottanta mi sono avvicinato a questa Organizzazione perché vi ho trovato un’istituzione basata sui principi e sulle norme che si schierava apertamente dalla parte dei diritti umani, anche nei casi in cui i potenti Stati Uniti, il Regno Unito e l’Europa non erano dalla nostra parte. Mentre il mio governo, le sue istituzioni di sussidiarietà e gran parte dei media statunitensi continuavano a sostenere o giustificare l’apartheid sudafricana, l’oppressione israeliana e gli squadroni della morte centroamericani, l’ONU si schierava a favore dei popoli oppressi di quelle terre. Avevamo il diritto internazionale dalla nostra parte. Avevamo i diritti umani dalla nostra parte. Avevamo i principi dalla nostra parte. La nostra autorità era radicata nella nostra integrità. Ma ora non più.

Negli ultimi decenni, parti importanti delle Nazioni Unite si sono arrese al potere degli Stati Uniti e alla paura della Lobby di Israele, abbandonando questi principi e ritirandosi dal diritto internazionale stesso. Abbiamo perso molto in questo abbandono, non da ultimo la nostra credibilità globale. Ma è il popolo palestinese ad aver subito le perdite maggiori a causa dei nostri fallimenti. È un’incredibile ironia storica che la Dichiarazione universale dei diritti umani sia stata adottata nello stesso anno in cui la Nakba è stata perpetrata contro il popolo palestinese. Nel momento in cui commemoriamo il 75° anniversario della Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo, faremmo bene ad abbandonare il vecchio cliché secondo cui la Dichiarazione sarebbe nata dalle atrocità che l’hanno preceduta, e ad ammettere che è nata insieme a uno dei più atroci genocidi del XX secolo, quello della distruzione della Palestina.

Ma la strada per l’espiazione è chiara. Abbiamo molto da imparare dalla posizione di principio assunta nelle città di tutto il mondo negli ultimi giorni, quando masse di persone si sono schierate contro il genocidio, anche a rischio di percosse e arresti. I palestinesi e i loro alleati, i difensori dei diritti umani di ogni genere, le organizzazioni cristiane e musulmane e le voci ebraiche progressiste che dicono “non in nostro nome”, sono tutti in prima linea. Tutto ciò che dobbiamo fare è seguirli.

Ieri, a pochi isolati da qui, la Grand Central Station di New York è stata completamente occupata da migliaia di difensori dei diritti umani ebrei che si sono schierati in solidarietà con il popolo palestinese e hanno chiesto la fine della tirannia israeliana (molti rischiando l’arresto). Così facendo, hanno eliminato in un attimo il punto di vista della propaganda hasbara israeliana (e vecchio tropo antisemita) secondo cui Israele rappresenta in qualche modo il popolo ebraico. Non è così. E, in quanto tale, Israele è l’unico responsabile dei suoi crimini. A questo proposito, è bene ribadire, nonostante le calunnie della lobby israeliana, che le critiche alle violazioni dei diritti umani di Israele non sono antisemite, così come non sono islamofobiche le critiche alle violazioni saudite, antibuddiste le critiche alle violazioni del Myanmar o antiinduiste le critiche alle violazioni indiane. Quando cercano di metterci a tacere con le calunnie, dobbiamo alzare la voce, non abbassarla. Sono certo che converrà con me, Alto Commissario, che questo è il senso di dire la verità al potere.

Ma trovo anche speranza in quelle parti dell’ONU che si sono rifiutate di compromettere i principi dei diritti umani dell’Organizzazione, nonostante le enormi pressioni in tal senso. I nostri relatori speciali indipendenti, le commissioni d’inchiesta e gli esperti degli organi dei trattati, insieme alla maggior parte del nostro personale, hanno continuato a difendere i diritti umani del popolo palestinese, anche quando altre parti delle Nazioni Unite (anche ai livelli più alti) hanno vergognosamente chinato la testa al potere. In quanto custode delle norme e degli standard sui diritti umani, l’OHCHR ha il particolare dovere di difenderli. Il nostro compito, a mio avviso, è quello di far sentire la nostra voce, dal Segretario Generale all’ultima recluta dell’ONU, e orizzontalmente in tutto il sistema delle Nazioni Unite, insistendo sul fatto che i diritti umani del popolo palestinese non sono oggetto di discussione, negoziazione o compromesso in nessun luogo sotto la bandiera blu.

Come sarebbe, allora, una posizione basata sulle norme dell’ONU?
Per cosa lavoreremmo se fossimo fedeli ai nostri ammonimenti retorici sui diritti umani e sull’uguaglianza per tutti, sulla responsabilità per i colpevoli, sulla riparazione per le vittime, sulla protezione dei vulnerabili e sulla responsabilizzazione dei titolari dei diritti, il tutto nell’ambito dello Stato di diritto?
La risposta, a mio avviso, è semplice: se abbiamo la lucidità di vedere al di là delle cortine propagandistiche che distorcono la visione della giustizia a cui abbiamo prestato giuramento, il coraggio di abbandonare la paura e la deferenza nei confronti degli Stati potenti, e la volontà di prendere veramente la bandiera dei diritti umani e della pace. Certo, si tratta di un progetto a lungo termine e di una salita ripida. Ma dobbiamo iniziare ora o arrenderci a un orrore indicibile. Vedo dieci punti essenziali:

1. Azione legittima: In primo luogo, noi dell’ONU dobbiamo abbandonare il fallimentare (e in gran parte falso) paradigma di Oslo, la sua illusoria soluzione a due Stati, il suo impotente e complice Quartetto e la sua sottomissione del diritto internazionale ai dettami di una presunta convenienza politica. Le nostre posizioni devono basarsi in modo inequivocabile sui diritti umani e sul diritto internazionale.
2 Chiarezza di visione: Dobbiamo smettere di fingere che si tratti semplicemente di un conflitto per la terra o la religione tra due parti in guerra e ammettere la realtà della situazione in cui uno Stato dal potere sproporzionato sta colonizzando, perseguitando ed espropriando una popolazione indigena sulla base della sua etnia.
3. Uno Stato unico basato sui diritti umani: Dobbiamo sostenere l’istituzione di uno Stato unico, democratico e laico in tutta la Palestina storica, con pari diritti per cristiani, musulmani ed ebrei e, quindi, lo smantellamento del progetto coloniale profondamente razzista e la fine dell’apartheid in tutta la terra.
4. Combattere l’apartheid: Dobbiamo reindirizzare tutti gli sforzi e le risorse delle Nazioni Unite alla lotta contro l’apartheid, proprio come abbiamo fatto per il Sudafrica negli anni Settanta, Ottanta e nei primi anni Novanta.
5. Ritorno e risarcimento: Dobbiamo riaffermare e insistere sul diritto al ritorno e al pieno risarcimento per tutti i palestinesi e le loro famiglie che attualmente vivono nei territori occupati, in Libano, Giordania, Siria e nella diaspora in tutto il mondo.
6. Verità e giustizia: Dobbiamo chiedere un processo di giustizia transitoria, facendo pieno uso di decenni di indagini, inchieste e rapporti delle Nazioni Unite, per documentare la verità e assicurare la responsabilità di tutti i colpevoli, il risarcimento di tutte le vittime e la riparazione delle ingiustizie documentate.
7. Protezione: Dobbiamo fare pressioni per il dispiegamento di una forza di protezione delle Nazioni Unite dotata di risorse adeguate e di un forte mandato per proteggere i civili dal fiume al mare.
8. Disarmo: Dobbiamo sostenere la rimozione e la distruzione delle massicce scorte di armi nucleari, chimiche e biologiche di Israele, per evitare che il conflitto porti alla distruzione totale della regione e, forse, anche oltre.
9. Mediazione: Dobbiamo riconoscere che gli Stati Uniti e le altre potenze occidentali non sono in realtà mediatori credibili, ma piuttosto parti effettive del conflitto, complici di Israele nella violazione dei diritti dei palestinesi, e dobbiamo impegnarli come tali.
10. Solidarietà: Dobbiamo spalancare le nostre porte (e le porte del SG) alle legioni di difensori dei diritti umani palestinesi, israeliani, ebrei, musulmani e cristiani che sono solidali con il popolo palestinese e con i suoi diritti umani e fermare il flusso incontrollato di lobbisti israeliani negli uffici dei leader delle Nazioni Unite, dove sostengono la continuazione della guerra, della persecuzione, dell’apartheid e dell’impunità e diffamano i nostri difensori dei diritti umani per la loro difesa di principio dei diritti dei palestinesi.

Ci vorranno anni per raggiungere questo obiettivo e le potenze occidentali ci combatteranno ad ogni passo, quindi dobbiamo essere fermi. Nell’immediato, dobbiamo lavorare per un cessate il fuoco immediato e la fine del lungo assedio su Gaza, opporci alla pulizia etnica di Gaza, Gerusalemme e Cisgiordania (e altrove), documentare l’assalto genocida a Gaza, contribuire a portare massicci aiuti umanitari e alla ricostruzione dei palestinesi, prenderci cura dei nostri colleghi traumatizzati e delle loro famiglie, e lottare con tutte le nostre forze per un approccio di principio negli uffici politici delle Nazioni Unite.

Il fallimento delle Nazioni Unite in Palestina non è un motivo per ritirarsi. Piuttosto, dovrebbe darci il coraggio di abbandonare il paradigma fallimentare del passato e di abbracciare pienamente un percorso più basato sui principi. Come OHCHR, uniamoci con coraggio e orgoglio al movimento anti-apartheid che sta crescendo in tutto il mondo, aggiungendo il nostro logo alla bandiera dell’uguaglianza e dei diritti umani per il popolo palestinese. Il mondo ci guarda. Tutti noi dovremo rendere conto della nostra posizione in questo momento cruciale della storia. Schieriamoci dalla parte della giustizia.

La ringrazio, Alto Commissario Volker, per aver ascoltato questo ultimo appello dalla mia scrivania. Tra pochi giorni lascerò l’Ufficio per l’ultima volta, dopo oltre tre decenni di servizio. Ma non esitate a contattarmi se posso esservi utile in futuro.

Craig Mokhiber
New York, 28 ottobre 2023

Testo originale della lettera di dimissioni di Craig Mokhiber

In copertina: Il direttore dell’Ufficio di New York dell’Alto Commissariato delle Nazioni Unite per i Diritti Umani, Craig Mokhiber.

Diario in pubblico /
Dolcetto o scherzetto?

Diario in pubblico. Dolcetto o scherzetto?

Mi reco al concerto che si è tenuto al Teatro Comunale Abbado con l’Orchestra Sinfonica Nazionale della Rai diretta da Robert Treviño. In programma la Quinta Sinfonia di Malher.  Quando è iniziato il celeberrimo Adagietto lacrime liberatorie mi hanno bagnato il viso e la musica ha acuito il dolore per la perdita dell’amatissima Teresa.

Ma riprendendomi mi metto ad osservare con attenzione l’orchestra e i suoi componenti, stupendomi che l’orchestrale dei piatti è una donna quando quella mansione di solito è affidata agli uomini; inoltre sono attirato dal lucore che emana dalle scarpe degli uomini, tutti rigorosamente di vernice nera, che ne rafforzano l’identità e il ruolo. Per le donne, invece, c’è una libertà di scelta che acuisce le differenze di genere.

Proporrei, allora che, pur rispettando il modello, anche loro abbiano le calzature tutte di vernice nera. Uno scherzetto o un dolcetto?

Nel pomeriggio vedo da lontano Moni Ovadia, rigorosamente in tenuta proletaria da lavoro, e i giornali poi daranno la notizia del rifiuto delle dimissioni, per cui rimane direttore del teatro. Tanto rumore per nulla? Dolcetto o scherzetto?

Frattanto la Tenerina, dolce al cioccolato, viene dichiarata il dolce primo della città di Ferrara. Benissimo. Tra le ricette di mia nonna c’è quella che si usava in casa per fare questa torta. Davvero un dolce(tto) e non uno scherzetto!

Rullano i tamburi, ci si interroga affannosamente per “indovinare” chi sarà il candidato al ruolo di sindaco della città proposto dal centro-sinistra. Sarà uno scherzetto o un tentativo serio di compattare la vasta landa in cui corrono i candidati da opporre alla destra governante ora? Spero che non sia uno scherzetto ma un solido dolce, anche se sempre più si rivela la complessità della manovra.

Una straordinaria dichiarazione che commenterò a breve e in altra occasione risulta da ciò che scrive Italo Calvino che parla ‘ferrarese’ e dichiarava nel 1963 che il modello emiliano-romagnolo era quello da lui condiviso e che a quello andava la sua scelta politica, morale, ideologica.

Spero solo che quella sua scelta non risulti né un dolcetto né uno scherzetto.

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Per certi versi /
Ai giovani

Ai giovani

Dove va il tempo
In questo ammasso
Di letame
Dove va
La speranza
Di molti giovani
Senza trame
Torneranno
Tempi di parole
Amiche
Di fatti
Di lavori con dignità
Dove va
La direzione
del clima
Ritmo
Dei giorni
Delle ore
Dove va
Il tempo
Della vita
Delle vite
Di questi
Ragazzi
Condannati
A non crescere mai
Perché invecchiare
Guai
Guai mai
Ragazzi
Dispersi
Al fronte
dei nemiciI fantasmi
Del futuro
Loro consegnato
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