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Le beatitudini sono impronte da seguire

Se nelle beatitudini Cristo si specchia e si riconosce nel volto di ogni uomo, rileggendole continueremo a incontrare anche te, caro Giuliano. Nel Suo volto scorgeremo il tuo, nelle Sue parole le tue; nei Suoi passi anche i tuoi. Quanto mai opportuna trovo pertanto l’idea che avete avuto di accompagnare la foto ricordo di Giuliano con una frase delle beatitudini, forse quella che meglio lo rappresenta: Beati i puri di cuore perché vedranno Dio.

Più che una dedica alla sua memoria penso sia una consegna per noi, parole che c’impegna nel futuro. Perché essere puri di cuore significa saper vedere anche nei volti più sfigurati, nelle situazioni più buie, una presenza, una luce, il volto del Cristo paziente, la possibilità di un riscatto, un lembo di speranza.

È allora con gratitudine e affetto, caro Giuliano, che ti affidiamo al vangelo delle beatitudini, sotto lo sguardo e nelle mani di Colui che le ha proclamate sul monte. Ti affidiamo a quella Parola di vita che è più forte della morte, perché è parola “sovversiva”, che cambia le sorti; parola non nostra e tuttavia seminata e affidata a noi.

Le beatitudini sono impronte lasciate da un Assente affinché siano calcate di nuovo. Il Cristo ci precede, come i discepoli dopo la Pasqua in Galilea tra le genti. Nel volto delle quali Egli ha lasciato la traccia del suo. Tanto che le sue parole risuonano come un invito a riconoscerlo negli uomini e nelle donne delle beatitudini e a farci loro prossimi. Per questo le beatitudini sono ad un tempo profezia e epifania di umanità nuova, sono le inaudite parole che ci abitano nell’intimo sino farci appartenere ad esse.

Sei stato tu a ricordarci che «le beatitudini sono un “dire originario”, una rivelazione appunto, in parole d’uomini». Così prima ancora di essere un momento dell’esperienza religiosa, questa rivelazione «rappresenta una chiave essenziale di accesso al reale, un’interpretazione di un modo di essere dell’uomo nel mondo».

Con i tuoi scritti su Emmanuel Lévinas ci hai pure ricordato la dimensione etica di questa rivelazione sul monte, generativa di una coscienza e di uno stile ospitali. Lo stesso ricordatoci dalla prima lettura (Lettera ai Romani, 14, 7-9) in cui ritroviamo le parole che orientano il vivere e il morire, che strutturano la nostra vista nella forma di un essere per gli altri.

Nessuno di noi, infatti, vive per se stesso, e nessuno muore per se stesso. Si è chiamati alla responsabilità dell’altro, che Paolo concentra nella figura del Signore: se noi viviamo, “viviamo per” il Signore, se noi moriamo, “moriamo per” il Signore. Vivere e morire per lui significa essere e vivere per gli altri: essere per la vita anche entrando nella morte.

Il volto d’altri è irriducibile a una totalità; sfugge alla presa, a ogni tentativo di definizione, delimitazione, possesso. Il volto dell’altro si può solo ricevere come una infinità. Così è la persona, impossibile da conculcare, imbavagliare, possedere. Il volto grida nel silenzio, interpella la nostra responsabilità: “eccomi è l’unica risposta a cui non possiamo svincolarci”.

Ho voluto così rileggere la Parola di Dio, parola risorta, nell’orizzonte delle tue scritture per vederne la luce. Luce di una fede essenziale, in grado di tenere assieme la parola e la vita. Lo ricordasti a un incontro ecumenico durante il quale mi colpì questa tua frase: «Ciò che conta è ciò che ci rende cristiani: vale a dire la comune fede in Gesù. Testimoniamo la verità con la vita».

Ritroviamo questo stesso pensiero in un tuo studio sulla rivista Humanitas, nel quale – citando il filosofo Michel Henry – ricordavi che «La Parola della vita, che è Gesù, ci parla non delle cose o del mondo, ma della Vita stessa. Meglio ancora, essa parla la vita; quello che esprime, non lo pone mai fuori di sé, ma lo conserva in sé come un bene di cui non si disfa mai, giacché è la sua stessa vita».

E nella prefazione al libro di Henry, Parole del Cristo, annotavi: «uno dei luoghi in cui il carattere umanamente sovversivo della parola di Cristo si manifesta nel modo più clamoroso è rappresentato dalle beatitudini». In questi detti in parole umane si nasconde un’altra parola, un Logos originario che va incontro agli uomini nella loro ricerca di senso e li raggiunge nel cuore del loro stesso essere. Quella parola frontale diventa così “consustanziale” all’umano, perché «il luogo delle beatitudini è la stessa condizione umana».

«Se così è» – scrivevi – «il cuore, solo il cuore, può essere il luogo di tale rivelazione». Il cuore diventa luogo di intimità e irradiazione, che ad un tempo ospita ed è ospitato da ciò che è all’origine e originante di ogni altra parola. Perché la vita non è tutta nelle nostre mani e la sua origine non va affatto cercata in noi. Lungi dall’esserne noi il fondamento, la riceviamo da altri per interiorizzarla, lasciarci trasformare e poi donarla nuovamente.

Così meditavi e scrivevi. Così hai cercato di vivere nella quotidianità la tua fede, che mi ricorda i versi del poeta Pierre Emmanuel Verbe Visage (in Jacob, ed. du Seuil, Paris 1970, 163).
“Volto del Cristo unica somiglianza
Che non finisco mai di decifrare
Sulle tue labbra la nostra tutta santa identità”.

Beati i puri di cuore, perché saranno una cosa sola con Dio. Così intrepreta un altro poeta Khalil Gibran.
Questo noi crediamo, questo noi speriamo per tutti, dicendo con Gabriel Marcel «Signore spero in te per noi».

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In copertina: Giuliano Sansonetti – foto da Telestense

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Andrea Zerbini

Andrea Zerbini cura dal 2020 la rubrica ‘Presto di mattina’ su queste pagine. Parroco dal 1983 di Santa Francesca Romana, nel centro storico di Ferrara, è moderatore dell’Unità Pastorale Borgovado che riunisce le realtà parrocchiali ferraresi della Madonnina, Santa Francesca Romana, San Gregorio e Santa Maria in Vado. Responsabile del Centro di Documentazione Santa Francesca Romana, cura i quaderni Cedoc SFR, consultabili anche online, dedicati alla storia della Diocesi e di personaggi che hanno fatto la storia della chiesa ferrarese. È autore della raccolta di racconti “Come alberi piantati lungo corsi d’acqua”. Ha concluso il suo dottorato all’Università Gregoriana di Roma con una tesi sul gesuita, filosofo e paleontologo francese Pierre Teilhard de Chardin.

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