Skip to main content

A proposito di “Parco Italia”, il progetto di forestazione urbana supportato da Amazon, campione di consumo di suolo

Stefano Boeri Architetti e Fondazione AlberItalia hanno annunciato l’implementazione del progetto che vuole piantare 70mila alberi entro il 2024 con il supporto del colosso della logistica. L’annuncio fa colpo ma si guarda bene dal citare il consumo di suolo. Il prof. Pileri ha fatto alcuni conti per verificare se l’iniziativa è davvero efficace.

Non ci sono davvero più limiti e pare che il partito dell’incoerenza o del “meglio questo che niente” si sia affermato e non tema rivali. Mi riferisco all’iniziativa Parco Italia, presentata in pompa magna a Roma il 14 novembre con intenso battage da parte dello studio Stefano Boeri Architetti (gli stessi progettisti dietro al “bosco verticale” di Milano) e della Fondazione AlberItalia.

Con un comunicato stampa è stato annunciato che “70mila alberi verranno piantati entro la fine del 2024 con il supporto di Amazon”, aggiungendo che “la visione di Parco Italia sul lungo periodo è arrivare a piantare un albero per ogni cittadino delle 15 città metropolitane italiane: 22 milioni di alberi entro il 2040, così da creare una rete nazionale composta da corridoi ecologici in grado di aumentare e proteggere la biodiversità, ampliando la presenza di aree protette lungo la Penisola”.

Premesso che piantare alberi è una cosa giusta, quello che lascia a desiderare di questa iniziativa è la sua dissociazione con la materia prima di cui ogni albero ha bisogno e di cui vive e che è il maggior protagonista nella regolazione climatica e dell’assorbimento di carbonio (a dispetto degli slogan): il suolo.
Quel suolo che lo sponsor di Parco Italia, Amazon, consuma senza freni, come tutto il comparto logistico (506 ettari solo nel 2022). Il comunicato stampa nemmeno lo cita e questo fa molto pensare al perché, se da un lato si invoca la forestazione come atto virtuoso, dall’altro si tiene accesa la cementificazione. Che è disastroso in sé e svuota di senso la proposta o la riduce a greenwashing, a mera occasione di esposizione mediatica a beneficio dei protagonisti.

Certamente il dato di 70mila fa colpo e chi lo vede ne resta impressionato. Ma facciamo ordine.
Iniziamo con il dire che le 14 città metropolitane italiane hanno cementificato la bellezza di 1.502 ettari solo nel 2022 (Secondo i dati dell’Istituto superiore per la protezione e la ricerca ambientale, Ispra, 2023) e i loro capoluoghi ben 321 ettari, il 21,3%.

Nel suo primo metro un suolo stocca un valore medio di 140 tonnellate di carbonio per ettaro (ton/ha) di cui circa 60 ton/ha nei primi 30 centimetri (Lal, 2004). Immaginiamoci che quei consumi abbiamo eliminato i primi 50 centimetri, quindi circa 80 ton/ha. Di conseguenza il consumo di suolo delle città metropolitane di un solo anno equivale a una perdita secca di carbonio nel terreno stimabile intorno alle 120mila tonnellate, pari a un equivalente in CO₂ intorno alle 440mila tonnellate.

Il consumo di suolo di un solo anno ha buttato all’aria un enorme deposito di carbonio perennemente sequestrato sottoterra (ricordiamo che le piante lo assorbono solo in parte e solamente nel loro “breve” ciclo di vita, dopodiché buona parte del carbonio ritorna in atmosfera) che equivale ad aver emesso una valanga di CO₂. 

Solo per compensare questa perdita dovremmo piantare 63mila platani o 880mila aceri campestri e attendere tutto il loro tempo di vita (200 anni per il platano, 80-90 per l’acero) per sequestrare la CO₂ che era già nei suoli ora consumati da quelle città (un platano maturo stocca circa sette tonnellate di CO₂ nella sua vita, un acero 0,5, www.vivaistiitaliani.it/qualiviva).

Che cosa ci dice questo semplice conto? Che non stiamo parlando di niente con l’iniziativa “Parco Italia” se prima, e sottolineo prima, non mettiamo la parola “fine” al consumo di suolo.

Verifichiamo un altro calcolo di quelli proposti da Parco Italia.
Da oggi al 2040 mancano 17 anni. Se le città metropolitane continuano a consumare suolo ai ritmi attuali, al 2040 avranno cementificato 25.534 ettari che potrebbero ospitare, a essere generosi nei miei calcoli, 25,5 milioni di piante, 3,5 milioni in più di quelle promesse da Parco Italia.
Quindi se non fermano il consumo di suolo non solo l’iniziativa non produrrà tutti i benefici che promette, ma neppur andrà a pareggio delle sole piante che ipoteticamente potrebbero essere impiantate a zero consumi. Quindi, ripeto, queste iniziative sono benvenute se e solo se si ferma il consumo di suolo, altrimenti sono specchietti che usano il verde per riprodurre il modello consumista di sempre.
 

Detto questo, che già sarebbe sufficiente per avere ragionevoli dubbi, non possiamo non notare l’imbarazzate sponsorship del progetto: Amazon, ovvero un colosso della logistica.
Quel settore cioè che costruisce capannoni enormi consumando altrettanta quantità di suolo e che non produce statistiche riguardo il suo consumo.
Idem Regioni e ministeri, che mai hanno fatto alcuna ricerca a riguardo. Solo Amazon ha una cinquantina di capannoni per il Paese. Ipotizziamo che coprano una decina di ettari l’uno: fanno 500 ettari (quindi una perdita secca di 150mila tonnellate di CO₂ che era stoccata nel suolo). Questi 500 ettari avrebbero potuto ospitare 500mila alberi (sette volte i 70mila promessi dall’iniziativa sponsorizzata) che avrebbero potuto sottrarre 3,5 milioni di tonnellate di CO₂ piantando platani (ma bisogna spettare 200 anni) o 250mila piantando aceri campestri.

Ma la CO₂ emessa dalla logistica è ben di più di quella del solo capannone perché dovremmo conteggiare anche quella emessa dalle migliaia di viaggi dei tir e dal consumo di suolo delle nuove strade e così via.
Quindi 70mila alberi offerti dal colosso degli acquisti online sono un solletico. Verrebbe quasi da dire “Grazie dell’offerta, rifiuto e vado avanti”, perché il danno di immagine che produciamo alle politiche verdi pubbliche che dovremmo avere e non abbiamo è superiore al beneficio di quei fatidici 70mila alberi. I quali peraltro non verranno piantati su superfici che ora sono asfaltate e saranno depavimentate, guadagnando effettivamente 70 ettari di suolo libero, ma andranno presumibilmente a occupare suoli già liberi e che già assorbono CO₂, visto che su quegli ettari ci saranno arbusti ed erbe. A essere precisi, togliere vegetazione erbacea/arbustiva già esistente per far posto agli alberi implica un ricalcolo della capacità di stoccaggio dei nuovi alberi a cui va sottratto quel che già la vegetazione sottraeva prima.

Dopodiché non si capisce chi pagherà le aree o se queste saranno offerte dai Comuni o altri enti pubblici. Se così fosse, non sarebbe corretto perché le aree hanno un costo ben più alto degli alberi. In ogni caso non pensiate che quegli alberi generosamente offerti da Amazon siano sufficienti a compensare l’impronta della logistica. Secondo il Rapporto Ispra 2023, tra il 2006 e il 2022 in Italia sono stati cementificati per la logistica la bellezza di 5.104 ettari, di cui 506 (9,9%) solo nel 2022. Una cifra enorme che richiederebbe ben altri sforzi compensativi.

Di cosa stiamo parlando? Qualcuno potrebbe dire greenwashing, e non gli darei torto. Qualcuno potrebbe dire che “così è meglio che niente”, ma in questo caso gli direi che non è la risposta giusta, perché noi dobbiamo fare le cose per bene e per bene significa non mettere in secondo piano l’urgenza di fermare il consumo di suolo. Prima viene questo stop.
Personalmente dico che non possiamo più permetterci quel modello andato già fuori da ogni limite. Anche se piantano degli alberelli qua e là, il loro consumo è abnorme. Quindi per ora non mi convince, anzi lo trovo perfino imbarazzante. Il soggetto pubblico deve affrettarsi ad approvare una legge contro il consumo di suolo, e fermare il dilagare della logistica. Ne abbiamo già abbastanza.

Paolo Pileri
Ordinario di Pianificazione territoriale e ambientale al Politecnico di Milano. Il suo ultimo libro è “L’intelligenza del suolo” (Altreconomia, 2022)

Le voci da dentro /
Il caffè del carcerato

Fra i caffè più buoni che ho bevuto c’è sicuramente quello che mi ha offerto in carcere una persona detenuta; era davvero corposo, profumatissimo e sorprendente.
Come non ricordare, a questo punto, la strofa di “Don Raffaè” la canzone di Fabrizio De Andrè che dice: “Ah che bell’ ò ccafè, pure ‘n carcere ‘o sanno fa”.
In carcere si fanno molti caffè, con la moka sul fornellino a gas, per vari momenti della giornata e per varie occasioni. Il testo che segue è una descrizione di questi tipi di caffè.
(Mauro Presini)

Le voci da dentro. Il caffè del carcerato
di D.M.

Salve, cari lettori, si parliamo di caffè, piccola e piacevole pausa delle nostre giornate.

Da quello che ci dice la storia, le prime tracce, i primi aromi, si incontrano tra le popolazioni di pastori del nord dell’Etiopia, dove si narra che essi trovarono il modo di preparare questa bevanda per ristorarsi durante la sosta fra un villaggio e l’altro.

Tutt’oggi l’Etiopia conserva la miglior qualità e il metodo di preparazione più antico.
A seguire, per produzione e quantità, ci sono il Brasile e poi la Colombia, nota anche per la qualità, ed infine, ma non ultima, l’Arabia.

Ma ai giorni nostri, il primato per la sua diffusione e metodo, spetta al nostro paese: l’Italia, vera perla al centro di questi paesi per l’ingegno e la commercializzazione.

Il trucco è la torrefazione, ovvero il modo di lavorare il caffè e soprattutto il nostro singolare modo di prepararlo: l’ESPRESSO!
Difficile trovare gente che durante la giornata non si beva il suo caffè, anche perché ormai ce n’è per tutti i gusti: decaffeinato, ristretto, corretto, macchiato, marocchino, alla nocciola, con panna, eccetera.

Ma, al di fuori di questo mondo che sorseggia e degusta il caffè, c’è un mondo a parte, un paese nella nazione, che usa il suo caffè come un vero e proprio codice che solo i suoi membri possono decodificare, una vera e propria arma per sfidare, offendere, mettere alla prova, umiliare o semplicemente come gesto di buona accoglienza.

Sì, stiamo parlando del caffè del carcerato!!!

Andiamo con ordine:

IL CAFFÈ DEL PRIMO INGRESSO
Appena ti arrestano, dopo matricola e accertamenti, ti buttano in una cella con altri occupanti, che chiaramente non hai mai visto.
Stai sicuro, che dopo il classico buongiorno e le presentazioni, la prima parola sarà: “Siediti, ti preparo un caffè!”

IL CAFFÈ DELL’AMICO
Beh sì, quando sei in sezione, in quei frammenti di tempo che hai per scioglierti un po’ le gambe, spesso si va da un amico che sta in una altra cella, è la prima cosa che si chiede è: “Hai fatto il caffè?”

IL CAFFÈ DEL LAVORANTE
Bene o male, in carcere si lavora un po’ tutti, e quando sei lavorante, chiaramente hai la possibilità di andare in visita in altre sezioni e, se è il tuo turno di lavorare, stai sicuro che quando passerai davanti alla cella di un amico, ti chiederà: “Hai preso il caffè?”

IL CAFFÈ DEL PERDENTE
Il gioco a carte più popolare in carcere è la scopa, a seguire la briscola e la scala 40, ma ancora più popolare è scommetterci sopra un caffè. Ma la perdita del caffè non sarebbe abbastanza, perché abbinato al caffè c’è il comando, ovvero ad uno schiocco di dita e uno sguardo capisci che devi andare a preparare tu il caffè perso.

IL CAFFÈ PROIBITO
Questa è la versione più osé del caffè del carcerato, ovvero il caffè alla “Cicciolina” con le sue molteplici versioni, vera e propria umiliazione per chi lo subisce. Auguri!!!

IL CAFFÈ DEL TRADITORE
Sin dai tempi che furono, la malavita in carcere usa questo metodo per mettere alla prova i presunti traditori. Si invita la persona sospettata in cella per un caffè, mentre lo si prepara si inizia il discorso su cui si presume il tradimento, una volta pronto il caffè si mette a tavola e si chiede alla persona di mettere lo zucchero, se gli trema la mano… beh, si è tradito!!!

IL CAFFÈ SACRO
Ovvero, quello del mattino, quello che ti prepari con le tue mani, che dopo la prima sigaretta ti fa correre subito in bagno!

IL CAFFÈ DEL LIBERANTE
Questo è quello più importante. Quando arriverà il tuo giorno, la tua ora, e la voce dell’assistente romperà il silenzio della sezione gridando il tuo cognome seguito dalle parole: “Liberante!”
Prima di tutto, complimenti, ma poi i tuoi compagni faranno per te l’ultimo caffè, per buon auspicio.

Ora cari lettori godetevi il vostro caffè ma, per quieto vivere, prima di accettare il prossimo caffè guardate bene il contesto.
Siete avvisati!!!

Per leggere le altre uscite di Le Voci da Dentro clicca sul nome della rubrica.

Per leggere invece tutti gli articoli di Mauro Presini su Periscopio, clicca sul nome dell’autore

Parole a capo
Dario Stanca: “Riposa anche l’aria” e altre poesie

Dario Stanca: “Riposa anche l’aria” e altre poesie

La memoria assomiglia essenzialmente a una biblioteca dove regna il disordine alfabetico e dove non esiste l’opera completa di nessuno.
(Iosif Brodskij)

Salvami madre
con le tue parole antiche.
Le ore
come spine
trafiggono
il labbro
nell’umido vespero.

Morire non è dimenticare.

Qui la tramontana
morde sul collo,
e i giorni scendono
come mannaie
nell’inverno
che avanza.

Ma il capelvenere
che hai lasciato
dura ancora
sai
nella tua stanza.

 

*

Riposa anche l’aria
nell’arsura d’agosto.
Deposto è il giorno.

Fermo/sospeso è il tempo.

Il salice tace
sulle basole
addormentate
e il corbezzolo
incanta d’ombra
le vie che scendono
ostinate
fino al mare.

Sulle porte deformate
hanno in bocca tabacco
i vecchi del paese,
e bestemmiano di fatiche,
delle loro tante rese

 

*

 

Dove riposerà
questo tempo domani?
Quest’ora che ci attraversa
impaziente?
Smarrimenti
di memorie minaccia,
di braccia, volti, parole,
di lantane allineate
nel fuoco dell’estate,
del lauro
che sparava al cielo
il suo profumo
(e noi a guardare
seduti sopra il muro).
Dove riposerà
il nostro tempo domani?
Ci rivedrà ancora
come serpi al sole
mani nelle mani?

 

*

 

Acqua di pioggia
bagna l’estate,
e sui vuoti tavolini
rimpianta resta.

Dove sarà la salamandra
che attendeva
nel sole?

Fanno nido
nei miei occhi
voci di bambini,
felicità rincorrono
nell’aria di tempesta.

 

*

 

Sono grumi di sudore
le parole dei poeti.
Visioni e inganni
che scaldano memorie
o lontani inverni muti.

Hanno nomi di uccelli,
musica di foglie secche,
colore di biondi capelli.

A stento, sul foglio, trattenuti.

Dario Stanca (1973), si laurea presso l’Università del Salento, in Filosofia, con una tesi su Carlo Michelstaedter.
Ha curato il volume Anacleto Verrecchia, Meglio un demonio che un cretino (El doctor sax). Per la poesia, ha scritto una prefazione al volume di Giorgio Gramolini, “Vita breve“.
Appassionato lettore di aforismi, ha firmato la postfazione di “Per un piccolo ordine di grandezza”, dell’aforista Amedeo Ansaldi. Ha inoltre curato per Il foglio clandestino, aperiodico ad apparizione aleatoria, n.88/89 una raccolta di aforismi con nota critica sullo scrittore e saggista Antonio Castronuovo.
Di origini salentine, vive e lavora in provincia di Torino.

La rubrica di poesia Parole a capo curata da Pier Luigi Guerrini esce regolarmente ogni giovedì mattina su Periscopio. Per leggere i numeri precedenti clicca sul nome della rubrica.

ASSEMBLEA KOESIONE 22
venerdì 24 novembre alle 20,45 nella la sala riunioni di Via Labriola, 11

Carissime/i sottoscrittori e simpatizzanti del Comitato Koesione22, vi invitiamo all’assemblea pubblica che si terrà

Venerdì 24 novembre dalle 20,45 presso la sala riunioni di Via Labriola, 11

Ci ritroviamo un anno dopo il nostro primo appuntamento (25 novembre 2022).

Il nostro impegno di agire “dal basso” ci ha visti attivi su diversi fronti, in particolare:

  • Petizione al Comune di Ferrara sulla viabilità del Rione: aggiornamento sulla raccolta firme (e possibilità di firmare)

  • Confronto col Comune di Ferrara per

  • Rapporto con altri gruppi nel Forum Ferrara Partecipata

  • Proposte di attività ludiche e socializzanti

  • Mappatura dei luoghi “disponibili” del Rione

  • Progetti con l’Istituto Comprensivo “De Pisis” e  l’Università di Ferrara

Faremo il punto insieme e ragioneremo su altre tematiche e opportunità su cui agire.

Vi aspettiamo numerosi, se conoscete altri interessati invitateli: “partecipare è un piacere da gustare insieme”

Le storie di Costanza /
Albertino Canali e l’orso

Le storie di Costanza: Albertino Canali e l’orso

Esco dal negozio di Camilla con ventiquattro litri d’acqua in bottiglia e li deposito su Marghera. Saluto il portalettere che sta passando. – Ciao Toni, cóme ala? (Ciao Toni, come va?) – Be be Albertino, e a te cóme ala? (bene bene Albertino e a te come va?)
– Mia mal, som che (non male, siamo qui), gli rispondo e alzo il braccio in segno di saluto.

Davanti al numero civico 21 di Via Santoni Rosa, la casa di fronte alla mia, c’è Costanza Del Re che sta spalando la neve. Ha il piumino rosso e i pantaloni, il berretto e i guanti blu. Scarpe da trekking nere e rosse. Sta spostando la neve con una grande pala arrugginita che ha un manico gigantesco.

Doveva essere di suo nonno e ora lei si ostina ad usarla tutti gli inverni per spalare la neve davanti al suo cancello. Il nonno Fiorenzo me lo ricordo anch’io, è morto che avevo quattordici anni. Era un gigante, una persona simpatica, molto intelligente.

Costanza ammucchia la neve a lato in modo da poter uscire di casa senza rischiare di ammazzarsi e, soprattutto, senza mettere in pericolo l’incolumità delle ossa della signora Anna che ha ottant’anni.

Parcheggio Marghera davanti al mio portone e poi mi rivolgo a Costanza:
– Ciao Costanza, stai spalando la neve?
– Perché non si vede? – mi risponde lei.
– Sì, si vede. Vuoi che ti aiuti?
– No.

– Perché no?
– Perché lo so fare da sola. Se lo volevi fare tu, lo dovevi fare e basta, senza bisogno di chiedermelo. Se me l’hai chiesto vuol dire che non eri sicuro di volerlo fare e hai sperato che ti dicessi di no.
– Ma cosa dici?, dammi la pala, lo faccio io! – attraverso la strada e provo a toglierle la pala dalle mani.
– Giù la mani dalla mia pala!”.

Ecco, sono appena stato trattato come un ladro di pale, solo che a casa mia ce ne saranno almeno dieci che non vengono mai usate contemporaneamente e la sua è anche brutta e arrugginita.

– Se vuoi puoi spargere il sale dove ho già spalato, così non ghiaccia – mi dice senza nemmeno alzare la testa per guardarmi. Vedo solo il pon-pon del suo berretto che ondeggia all’altezza delle mie spalle. È di pelo vero colorato di blu. Sembra soffice e carezzevole, chissà dove l’ha trovato.

Probabilmente al mercato di Trescia, le piace andarci, compera le olive col peperoncino e il formaggio di malga, il miele di acacia e il sapone artigianale all’aloe. Qualche volta acquista anche un paio di jeans o qualche berretto che poi mette spesso perché a Pontalba c’è nebbia di frequente e lei detesta l’umidità sulla testa.

– Costanza detesta l’umidità sulla testa. Detesta l’umidità sulla testa. – dico a voce alta.
Lei scoppia a ridere. – Albertino Canali sei matto! Cosa dici? Chi è che detesta l’umidità sulla testa? – ma sta continuando a ridere. Le piacciono i giochi di parole, allentano la pressione sul suo cervello che deve essere, in condizioni normali, molto forte.

Vedo il sacchetto del sale appoggiato ad uno dei pilastri che sostengono il cancello. È sale grezzo mescolato a sabbia di mare, l’ha comprato in ferramenta apposta per il maltempo. Previdente la ragazza.
Spargo un po’ di sale  sul terreno appena ripulito.

– Ne stai mettendo troppo! Io non sono una nababba che può permettersi di acquistare quintali di sale!
– Non sarai una nababba ma una quantità di sale sufficiente per non scivolare te la puoi permettere.
– Si, questo è vero – dice pensierosa.

Si ferma con la pala a mezz’aria. Alza la testa verso l’alto e guarda il cielo, annusa l’aria.
– Fra un po’ nevica di nuovo – dice.
– Si credo anch’io – le rispondo.

Il cielo è tutto bianco, l’aria molto tersa e pungente per il freddo. Ha ragione lei. Fra un po’ nevica di nuovo. Bianco in cielo e bianco in terra. E’ una vera bellezza. Tutto quel bianco purifica dentro e fuori. Ti fa sentire più giovane, con meno fardelli da portare, con meno ricordi da archiviare, con meno sbagli da perdonarsi e da perdonare agli altri.

Per un momento mi sono sentito romantico. Per riprendermi subito, tiro un calcio a un po’ di neve e poi fisso la punta dei miei stivali che sta cambiando colore perché si è bagnata. – Vattene brutta nevaccia dei miei stivali! – dico. Costanza non commenta, sta sicuramente pensando ad altro.

– Questo stare dentro la neve e dentro il cielo bianco aumenta la nostra consapevolezza fisica, ci fa sentire dentro il corpo in maniera diversa, più solida. Un’esperienza sensoriale che si nutre del soffice della neve che piace alle mani, della pulizia dell’aria che solletica il naso, del bianco candido che sorprende la vista. La luce sulla neve abbaglia, luccica,  chissà com’è al polo Nord, credo che sia bellissimo – dice.

Adesso la sorprendo. Mi concentro un attimo e poi spicco un balzo verso il centro della strada e, mentre sto balzando, faccio anche una mezza piroetta in volo. Mentre atterro, mi esibisco in un ruglio da Orso delle nevi:
– Ougrrrr Ougrrr!

Lei si spaventa, lascia andare la pala e per un momento sembra impietrita. Ma, come suo solito, si riprende subito.
– Albertino Canali sei pazzo! – e poi scoppia a ridere.

Proprio in quel momento passa Toni con in mano la posta di Via Santoni.
– Ma cosa state facendo? – ci chiede.
– Io nulla! – dice lei  – È Albertino Canali che si è messo a fare l’orso delle nevi – e poi ride di nuovo.

Toni mi guarda e scuote la testa: – Ma set dre a deentà mat? (ma stai diventando matto)?
– Ma no Toni!, non lo sta diventando, lo è sempre stato! – dice Costanza.

Io e Toni ci guardiamo e poi le diciamo insieme:
– Ma ti dispiace?
– Cosa?, di avere un vicino di casa pazzo? – dice lei.
Ci guarda per un attimo e poi fa un salto sulla neve fresca: Ougrrrr Ougrrr”. Ruglia.

Per leggere tutti i racconti di Costanza Del Re è sufficiente cliccare il nome dell’autore o sulla sua rubrica Le storie di Costanza.

Quella cosa chiamata città /
Saint Louis du Sènégal e gli accordi dell’umanità

Quella cosa chiamata città.
Saint Louis du Sènégal e gli accordi dell’umanità.

Qualcuno scrisse che a Saint Louis du Sénégal si confrontano tre mondi: l’Africa, l’Europa, l’immaginario, ma non riesco a ricordare la fonte.
I portoghesi che fin dal 1415 finanziano le esplorazioni atlantiche africane, non si erano mai spinti di là del Marocco. Iniziano a farlo spingendosi a Madeira, Porto Santo e nel Sahara spagnolo dove doppiano il Capo Bojador.
Solo in questo modo riescono ad intercettare i venti alisei che, soffiando regolarmente verso sud, lungo la costa africana occidentale, gli consentono di spingersi oltre le terre conosciute.

I Portoghesi più che fondatori di città sono stati dei creatori di scali commerciali lungo la costa africana e sull’altro lato dell’Atlantico. Il paese, seppur potente, era piccolo e dovette quindi far ricorso ad esperti di navigazione come il veneziano Alvise Cà da Mosto che sarà tra i primi a descrivere la costa senegalese.

Il veneziano ci racconta di una bocca di fiume larga un miglio, con un’isola nel mezzo e con maree che si susseguono regolarmente, ogni sei ore. Gli unici insediamenti che egli descrive sono villaggi con case di paglia abitate da uomini grandi e grossi e ben formati di corpo, ospitali e gentili. Viene tracciata dunque una geografia fantastica del fiume che sconfina nel mito.
Il fiume Senegal
sarebbe un affluente del fiume Gion (Nilo) che insieme al Tigri, all’Eufrate e al Gange parte direttamente dal paradiso terrestre: “è questa l’opinione di quelli che hanno cercato il mondo”.
Inizia da qui il mito di questa città che si alimenterà, nei secoli successivi alla colonizzazione francese, grazie alle descrizioni di Pierre Loti, Théodore Monod, e alle vicende di Jean Mermoz, che con l’Aéreopostale inaugurerà nel 1930 la rotta aerea tra l’Africa e il Brasile partendo da Saint-Louis.

Il sito nel quale Saint Louis è cresciuta è difficile ed ostile, come lo è, del resto, tutta la fascia continentale nella quale è situata, e questo le conferisce quel fascino di città cresciuta al limite di mondi diversi, a volte dialoganti ma spesso conflittuali.

Il vecchio quartiere coloniale de l’île. (ph. Romeo Farinella)

La città storica, costruita dai francesi su un’isola fluviale, è separata dall’oceano da una lingua di sabbia costantemente erosa dall’innalzamento dell’Atlantico e dagli interventi dell’uomo: un fenomeno che potrebbe portare alla scomparsa della città.
L’estuario del Senegal è caratterizzato da un substrato argilloso e da depressioni che lo rendono frequentemente inondabile. Nella parte terminale del fiume questo allineamento dunoso, denominato Langue de Barbarie, forma un cordone litoraneo lungo circa quindici chilometri e largo tra i centosessanta e i duecentosettanta metri, sul quale sono cresciuti gli insediamenti urbani di pescatori di Guet Ndar e N’dar Toute.
Il fiume Senegal è ovunque, se l’oceano lo percepisci, il fiume lo vivi quotidianamente.

Saint Louis è quotidianamente oscurata dai tagli di elettricità, sommersa dai rifiuti, sacchi e contenitori di plastica dove, nonostante una strumentazione urbanistica di buon livello con tante informazioni raccolte ed elaborate, il patrimonio architettonico cade a pezzi nonostante sia «patrimonio Unesco»; con un traffico totalmente dipendente dal trasporto privato e con mezzi altamente inquinanti, con quartieri sempre a rischio di immersione grazie al fiume e le piogge.

Come può diventare «sostenibile» una città con tali problemi? Di questo parlo regolarmente con i miei colleghi geografi africani che lavorano sul campo e nei loro laboratori perché lo diventi.

La globalizzazione lungo la strada verso Saint Louis du Sénégal (ph. Romeo Farinella)

In ogni caso la regina delle acque è una città unica nel contesto dell’Africa occidentale e sub-sahariana. Quando mi capita di andarci, ogni mattina, svegliandomi, mi appresto ad ascoltare i suoi rumori e i suoi suoni e penso a Karl Kraus e quella sua frase: “ascoltare i rumori del giorno come se fossero gli accordi dell’umanità”. Voci umane, belati di capre, tamburi che suonano, canti ritmati, la voce e il canto del Muezzin, clacson che gracchiano: sono questi gli “accordi dell’umanità” che fanno di Saint Louis un’esperienza sensoriale e spaziale spaesante e positivamente intensa.

In Copertina: Saint Louis du Sènégal. La Langue de Barbarie, la città dei pescatori. (foto Romeo Farinella)

Per leggere gli articoli di Romeo Farinella su Periscopio clicca sul nome dell’autore

Lettera aperta al Sindaco di Ferrara:
“Mantenga la sua promessa di avviare un confronto con i cittadini sul progetto di recupero della ex caserma Pozzuolo del Friuli di via Cisterna del Follo”

Lettera aperta al Sindaco di Ferrara:
“Mantenga la sua promessa di avviare un confronto con i cittadini sul progetto di recupero della ex caserma Pozzuolo del Friuli di via Cisterna del Follo”

Ferrara, 21 novembre 2023

Signor Sindaco,

Lo scorso venerdì 17 novembre abbiamo contato pubblicamente 263 giorni da quando lei, in consiglio comunale, ha riconosciuto che sul progetto di recupero della ex caserma di via Cisterna del Follo sarebbe stato utile ascoltare i cittadini, e ha promesso di iniziare al proposito un percorso partecipativo per arrivare ad una condivisione cittadina sul futuro di quell’area.

E tutti i venerdì da inizio estate, ci siamo schierati in Piazza Municipale per ricordarle la promessa che, con nostra sorpresa, non stava mantenendo.

Pensavamo che, pur tra tanti impegni, per un Sindaco sia un impegno morale quello di mantenere la parola data. Il motivo dell’impegno morale è la democrazia.

Le ricordiamo, signor Sindaco, che non è la prima volta che politici e amministratori ferraresi ignorano i movimenti e i comitati cittadini: sarebbe bene interrompere questa prassi negativa.

Chiediamo quindi un incontro per sottoporle le motivazioni per cui la stiamo sollecitando ad avviare il percorso di coinvolgimento dei cittadini.

Confidando che il dialogo diretto possa aprire spazi di comprensione reciproca, speriamo di poter ascoltare da lei tempi e modi per l’inizio del processo partecipativo promesso.

In attesa di un suo riscontro, inviamo cordiali saluti

Il Forum Ferrara Partecipata

Vite di carta /
“Quando eravamo orfani” di Kazuo Ishiguro, ovvero della incertezza.

Quando eravamo orfani di Kazuo Ishiguro, ovvero della incertezza.

Ancora non so a quale tra i criteri  di giudizio appellarmi e per quale parere definitivo propendere dopo avere letto il romanzo di Ishiguro uscito in Inghilterra nel 2000 e nello stesso anno in Italia presso Einaudi, con la traduzione di Susanna Basso. Il titolo, Quando eravamo orfani.

Faccio il processo alle intenzioni: volevo conoscere un autore che ha vinto il Nobel nel 2017, che è quasi mio coetaneo ed è nato in Oriente, anche se si è trasferito in Inghilterra quando era bambino. Mi piaceva approfittare del fatto che fosse il libro del mese per il gruppo di lettura della Biblioteca al mio paese e che ne potessi parlare con gli altri lettori, di solito appassionati nel confronto a lettura avvenuta.

Ho letto con buona volontà, spingendomi a continuare anche se il ritmo della prima parte, tutta giocata sull’esercizio meticoloso della memoria del narratore-protagonista, mi pareva molto lento, appesantito da frequenti digressioni e dal recupero di ricordi personali ricostruiti fino nel più riposto dettaglio.

kazuo ishiguro quando eravamo orfaniLa narrazione parte dagli anni Trenta: da Londra Christopher Banks ricostruisce gli anni in cui ha frequentato prestigiose scuole inglesi grazie alla adozione di una zia e la brillante carriera di detective che gli sta dando onore e fama. Andando ancora più indietro nel tempo racconta la sua infanzia a Shangai e il successivo trasferimento in Inghilterra dopo essere rimasto solo in seguito al misterioso rapimento dei genitori.

Come ho continuato la lettura: a piccole dosi, con un intenso coinvolgimento nella parte centrale, dove il protagonista torna a Shangai alla ricerca della propria infanzia. Siamo nell’autunno del 1937, nel pieno della guerra sino-giapponese: Christopher è qui, anche dopo tanti anni resta tenacemente attaccato all’idea di ritrovare il nascondiglio in cui sono tenuti prigionieri i genitori. Il padre che lavorava nel commercio dell’oppio e la madre che si batteva per i diritti civili.

Il racconto si snoda tra i ricevimenti e le cene nella parte della città occupata dagli inglesi, la Concessione Internazionale, e le macerie della zona di guerra che si trova esposta all’attacco delle truppe giapponesi. Tra le case distrutte e i corpi dilaniati si avventura il protagonista, armato soltanto della sua curiosità di figlio e di detective.

L’atmosfera risulta tuttavia surreale e incongrua e stride con l’esercizio della razionalità che ci si aspetta da un investigatore. Si aggiunge all’insieme anche l’altro grande tema che caratterizza l’epica classica, l’amore. A Shangai infatti Christopher ha ritrovato Sarah, la donna che ama da tempo anche se non lo ha rivelato con chiarezza al lettore (e a se stesso). Ritrova Akira, il grande amico dell’infanzia. Non si tratta, però, di incontri veri. Tanto attesi e ora non consumati, non portano alcuna modifica sensibile al progetto di ritrovare i genitori.

Nella terza e ultima parte lo ritroviamo nel 1958 a Londra mentre ricorda di avere ritrovato solo la madre a Hong Kong, grazie a un successivo viaggio in Oriente avvenuto tempo prima. Ha accanto la figlia adottiva Jennifer che gli offre il suo affetto. Sa di avere portato a termine la propria missione, quando si sentiva orfano. Missione individuale, che di epico ha poco.

Per motivare il mio giudizio, che sul libro resta sospeso, devo fare ricorso a un paio di categorie narratologiche. La prima riguarda l’organizzazione dei materiali narrativi nell’intreccio: mi sembra troppo espansa la prima parte dedicata all’infanzia e giovinezza vissute in Inghilterra.

Non solo, il cursore del tempo fatica a muoversi in avanti e viene continuamente interrotto e riportato all’indietro dal narratore per rovistare nella sua memoria. Al lettore spetta il lavoro paziente di ricucitura della parti, che solo una volta messe in ordine cronologico dànno chiarezza sul vissuto di Christopher, ma non mi hanno provocano empatia.

Quando nella seconda parte lo si ritrova a Shangai è un sollievo capire che la storia è andata avanti, che ha trovato uno sbocco. Dove, però, si guadagna in ritmo e pregnanza narrativa si perde in plausibilità, in verosimiglianza. L’investigatore inglese che attraversa le macerie della città, trascinandosi appresso l’amico Akira pressoché moribondo e lo incalza come se fosse un arzillo Sancho Panza, fa pensare alla cecità furiosa di Orlando che trascina il suo cavallo morto per le contrade d’Europa.

Tra guerra e amore, lì a Shangai, Chistopher vede sbiadirsi la propria personalità: declina la scelta amorosa lasciando sola Sarah e, in alternativa, non ha i mezzi per muoversi nel labirinto delle macerie alla ricerca dei genitori perduti.

Fin dall’inizio del libro il narratore ha assunto il punto di vista del personaggio protagonista e si è messo alla pari con lui quanto a conoscenza degli eventi che succedono: per tutta la durata del racconto anche il lettore apprende le cose, a mano a mano che accadono, insieme al protagonista che le vive.

La lettrice che sono stata, tuttavia, non si è sentita di condividerle, non ne è stata complice. Le emozioni e i sentimenti di Christopher non vengono infatti esplicitati. Scopre la verità su chi ha manipolato la storia dei suoi genitori e la sua? Ama una donna e adotta una figlia? Si cimenta dunque con i grandi amori della vita, dopo quello smarrito dei genitori? Non li tratteggia e invece si rifugia dietro la fenomenologia della sua vita interiore per quello che si può vedere dall’esterno, disperde nei gesti esteriori la carica emotiva che li origina.

Concludo che a rendermi incerta è la mancanza di complicità nel patto che il narratore ha impostato nel momento in cui si è posto come fonte del racconto.

Qualcuno del gruppo lettura, una minoranza, ha apprezzato la storia per la sua drammaticità e ha avvertito la profonda sensibilità del protagonista. La materia narrativa ha fatto scattare un senso di adesione alle parole del libro e alla sua storia.

Quanto a me, prendo atto che sono i modi della narrazione ad avermi tenuta lontana.

Cover: Shanghai negli anni 30 su licenza di Wikimedia Commons

Per leggere gli altri articoli di Vite di carta la rubrica quindicinale di Roberta Barbieri clicca sul nome della rubrica o il nome dell’autrice

Parole e figure /
Poesie della casetta – Strenne Natalizie

“Poesie della casetta”, della collana ‘Parola magica’ della casa editrice milanese Topipittori ci porta nel magico mondo dell’infanzia e della solitudine della natura

Le poesie-racconti di Rita Gamberini, illustrate da Irene Penazzi – “Poesie della casetta”, edito da Topipittori – ci portano in un ondo magico, di quelli che sogniamo non solo a Natale ma durante tutto l’anno, se non durante tutta la vita stessa.

Ci sono, in queste pagine, le cose umili, piccole e semplici, i tenerissimi ricordi d’infanzia: animali, piante, oggetti, normali eventi quotidiani come una passeggiata, un incontro sul sentiero, un silenzio, un breve scambio di parole, un nido in costruzione, la stufa accesa… Ognuna di queste cose è e diventa parte fondamentale ed essenziale di un mondo privato, una casa di campagna che è rifugio, ma anche osservatorio a cui affacciarsi per incontrare il ‘fuori’ e i suoi straordinari abitanti. Solitudine, bellezza e libertà.

Tutto diventa occasione per un’esperienza di incanto e di meraviglia in cui si mescolano pensieri e sentimenti, memorie e fantasie, dove la natura ha un posto fondamentale. C’è magia in ogni riga, in ogni pagina, in ogni disegno. Appunti presi su quaderni, note. “Ho scritto tanto, pagine e pagine su quaderni, piccoli taccuini, foglietti” dice Rita Gamberini in una sua nota. “Un’esperienza di libertà e solitudine. Raccontini stretti in un paio di fogli e scritti poetici come le nuvole che incombono scure o passano chiare e leggere. Poi è arrivata ‘la casetta’, quella dove vivo, ai limiti di un bosco”, continua. “Ed è arrivato anche Billy, il mio segugio a scuotere il silenzio. Alla casetta ci si arriva andando piano, se non si vuole finire cappottati in mezzo a un campo, tutta discesa e tutta salita, e un via vai di tutto quello che ha a che fare con il vivere in campagna (prati, boschi, animali, trattori, allevatori, viandanti, rumori, suoni, quiete)”.

Tante allora le sorprese e quello che ci si para davanti. Il piccolo alberello che è un albicocco, detto affettuosamente ‘bicuchin’, lascia il posto a un frassino con su un merlo dal becco giallo. Un affettuoso saluto al cane compare ogni mattina al risveglio, c’è pure Alfonso che gioca a briscola sulla soglia di casa e che si perde, anche se si ostina a dire che sa benissimo dove si trova. Alfonso che non c’è più, come non c’è più la sua Novella che scacciava le mucche dalla soglia di casa.

E poi gli uccellini che fanno compagnia, il cane marrone scuro che esce la sera per l’ultimo giretto quando la notte invita le lucciole a ballare, che si accendono e spengono come le luci di Natale. Il piccolo ghiro caduto dal tetto, il sassetto che brilla riposto e attentamente conservato come un cuore da cui scocca una scintilla. L’albero del bosco che non è mai solo e che si specchia nel cielo, il vagare nel bosco calmo senza pensieri, chiamando a raccolta solamente le cose che si possono portare con sé, come qualche fiore o un po’ di stecchi. Mentre lo scoiattolo fa omaggio di un rapido e cortese saluto. Passeggiare …

Continuare così a passeggiare

in mezzo alla campagna

stupidamente assorta nell’erba intirizzita

avere le visioni di quelli che, camminando

si allontanano e anch’io andare più lontano

girando intorno ai muri delle case

le più disabitate dov’è il silenzio

più vocale il suono dei pensieri

fino al freddo scendere di grigie rudezze

che si desidera tanto di rientrare

ridiventare noi che tanto

ci siamo abbandonati all’aria intorno.

Tornare a casa e, il giorno di Natale, bere un caffè morbido, dopo aver arieggiato il cortile, spazzato la casa e preparato la stufa, dopo aver fatto legna. Calore.

Se il mio amore per te fosse un animale

sarebbe creatura primitiva che corre

sopra piste accidentate e nulla lo trattiene

lo ammaestra, solo stanchezza

e sete lo riportano a casa

a cercare riparo sulla soglia

cedere a un pisolino, poi ritornare

attento, sollevare la testa

guardarmi e dire: Noi siamo tempesta.

E ancora lucciole che si (ri)posano la notte, il codirosso spazzacamino che mette su casa. Cicale da zittire, ora parliamo noi, i racconti di piccoli uccellini che lasciano il nido. Silenzio e tanta nostalgia.

Il cappellino imbottito e alla moda è importante, ripara dalla pioggia, come gli amici, il collare ha la medaglietta con il numero di telefono, anch’essa è importante. E poi il legnetto, fa giocare il cane, serve per accendere la stufa e sorregge lo stelo di un fiore. Le scarpette ti portano in giro, ti permettono di ballare e fare bella figura, di correre, di battere un record. Le lacrime ti fanno passare il nervoso.

Ogni cosa, anche piccola, ha la sua importanza. Tempo di osservare e pazienza.

Spazio alla libera immaginazione. Il lettore ci si ritrovi e sogni.

E, infine, ci sono le nuvole basse che accarezzano la terra, le mele renette rosse che stuzzicano l’appetito, il vestito del camminatore, lo straniero che bussa alla porta, l’orto d’inverno con ile sue verze spettinate, il cavallo che scappa, il cacciatore senza fucile, la casetta fuori dal mondo e la neve candida che arriva…

Una casetta fuori dal mondo

al margine del bosco

sentieri e sassi

le mucche al pascolo

i cani ad abbaiare

i trattori ad arare

le querce agitate dal vento

le mele antiche

i fiori rari

farfalle formichine

lucciole rane cicale grilli

istrice tasso topino di campagna

rapaci del giorno e della notte

cinghiali caprioli, persino il lupo

è passato di qua a creare scompiglio.

Parola d’ordine: fare attenzione

avere cura di questo mondo, senza eccezione.

Ma non finisce qui.

Alla casetta arriva anche il mondo lontano:

disordine nel cielo, battaglie sulla terra

non c’è la pace, ma come fare per battere la guerra?

Possiamo ragionare, darci da fare

metterci in testa una cosa sola:

che è sempre meglio usare la parola

Il bello della neve

è che non fa rumore.

Vai a dormire che non c’è

ti svegli e tutto è bianco.

Oh, ma quanta ne è caduta?

Si è attaccata ai rami, ancora ne cadrà.

È neve farinosa, presto si scioglierà

ne è venuta una scarpa o si sprofonderà

fino al ginocchio? Facciamo un bel pupazzo

abbiamo la carota per il naso.

Prendiamo lo slittino

mettiamoci i moon boot

montiamo le catene?

Restiamo un poco a letto, ci conviene.

Rita Gamberini è nata il 18 luglio 1954, a Pavullo nel Frignano, dove vive in una casetta tra le colline dell’Appennino modenese. Laureata in Pedagogia all’Università di Bologna, si è dedicata a teatro, giornalismo e impegnata in attività politica. Ha svolto per anni il ruolo di operatore culturale e di responsabile dei servizi alla persona nella pubblica amministrazione. Da alcuni anni collabora al blog dei Topipittori che l’ha portata a tornare alla scrittura rivolgendo lo sguardo alla forma poetica, con la raccolta Poesie della casetta.

Irene Penazzi nasce a Lugo di Romagna nel 1989 e si forma all’Accademia di Belle Arti di Bologna. Autrice e illustratrice, il suo albo di esordio, Nel mio giardino il mondo (Terre di mezzo Editore), è selezionato nella International Ibby Honour List 2020. Collabora con case editrici italiane e straniere ottenendo riconoscimenti internazionali.

Libri per bambini, per crescere e per restare bambini, anche da adulti.
Rubrica a cura di Simonetta Sandri in collaborazione con la libreria Testaperaria di Ferrara

Via libera per MoReTec in Germania
Una Ricerca fatta a Ferrara e industrializzazione, con occupazione, in Germania… E a Ferrara si dorme.

Una Ricerca fatta a Ferrara e industrializzazione, con occupazione, in Germania… E a Ferrara si dorme.

Via libera per MoReTec in Germania

LyondellBasell ha approvato il progetto del nuovo impianto per il riciclo chimico di rifiuti plastici a Wesseling.

20 novembre 2023 12:45

Lyondelbasell Moretec
LyondellBasell ha deciso di investire nel riciclo chimico su scala dimostrativa, realizzando un impianto con tecnologia proprietaria MoReTec presso il polo petrolchimico di Wesseling, in Germania.
Un impianto pilota è in funzione dal 2020 a Ferrara (leggi articolo con video).
L’impianto tedesco per il riciclo chimico di rifiuti a prevalenza poliolefinica (frazioni miste, packaging multistrato), mediante pirolisi coaudiuvata da catalizzatori, avrà una capacità di trattamento pari a 50mila tonnellate annue e sarà completato entro la fine del 2025.Source One Plastics, joint venture costituita l’anno scorso da LyondellBasell e 23 Oaks Investments (leggi articolo), fornirà la maggior parte dei rifiuti selezionati da avviare a riciclo chimico. L’olio di pirolisi ottenuto nell’unità MoReTec sarà riutilizzato per la produrre a Wesseling polimeri della serie CirculenRevive, con attribuzione mediante bilancio di massa certificato, da impiegare anche in applicazioni sensibili a contatto come l’alimentare o il medicale.La tecnologia MoReTec si avvale di sistemi di catalisi proprietaria che riducono la temperatura del processo, con benefici sul consumo energetico e sulla resa. Inoltre, con un consumo energetico inferiore, il processo può essere alimentato da elettricità, compresa quella proveniente da fonti rinnovabili con emissioni nette di gas serra pari a zero.

A differenza di altri processi di pirolisi, quello sviluppato da LyondellBasell recupera anche il gas di pirolisi trasformandolo in feedstock petrolchimici, riducendo ulteriormente le emissioni dirette di CO2.

Racconto combinatorio

Racconto combinatorio

La sera era tiepida, c’era nell’aria un’acuta fragranza di tigli in fiore e lui vagava distratto per le vie di una città francese. Ad un tratto udì un rumore di cose cadute sull’asfalto e vide il contenuto della borsa di una ragazza sparso in terra.

La proprietaria – bionda, bella, giovane – si dava da fare per raccogliere tutto l’armamentario che le donne portano di solito con sé. Terminata la raccolta, sollevò il viso piantandogli due occhi azzurrissimi in faccia. Le loro teste quasi si scontrarono.

Français?” chiese la ragazza

Non, mademoiselle” rispose lui.

La successiva domanda fu rivolta in italiano. Evidentemente lei aveva capito dall’accento che lui veniva dall’Italia.

“Turista?”

“Sì e no. Sono uno scrittore, cerco ispirazione. In Francia solitamente la trovo…”.

“Ispirazione?  E dove ritiene che si possa trovare?”

“Beh, anche in questa strada. Non sente il profumo dei tigli? È talmente forte che stordisce. Ma lei parla italiano molto bene…”.

“Sono stata in Italia due anni, con una borsa di studio dopo essermi laureata… Mi perdoni, ho finito di raccogliere le mie cose. Arrivederci”.

“Un momento, non se ne vada – disse lui – Non gradirebbe un caffè, o meglio un aperitivo, visto che è quasi ora di cena? C’è un bel bistrot, qui vicino”.

Ci sta provando?” domandò lei, ironica e diretta.

“Ma no, cosa va a pensare? Faccia come vuole, il mio è un invito di cortesia… altrimenti buonasera e tanto piacere”.

La ragazza lo fissò con quei suoi occhi color cielo terso, poi con una buffa espressione di scusa sospirò:

“Va bene, andiamo”.

Si incamminarono lungo la strada che s’inoltrava nel centro storico e arrivarono al bistrot, non molto affollato. Un anziano fisarmonicista all’entrata suonava vecchi valzer musette, malinconici e struggenti.

Si sedettero in un tavolo d’angolo, appartato. Alla cameriera lei ordinò un aperitivo, lui un gin tonic.

“Che cosa scrive?”  chiese la ragazza, curiosa.

“Romanzi polizieschi. Racconti dello stesso genere. Inoltre collaboro con un giornale e alcune riviste per dei reportage”.

“E come va?”

“Non male. Si campa. E lei?”

***

A questo punto la storia termina. Ognuno però può farla proseguire come vuole, trovando lo sviluppo e la fine che più preferisce.

Suggerisco sei percorsi tra i tanti:

  • i due si piacciono a prima vista e s’innamorano, si sposano, hanno figli e vivono felici e contenti (percorso ovvio);
  • l’uomo e la ragazza, dopo una breve, intensa e tormentata storia d’amore, si lasciano e non si vedranno mai più (percorso semi-scontato);
  • entrambi scoprono di nutrire una grande passione per gli scavi archeologici; se ne vanno per il mondo partecipando da volontari a campagne importanti e ottenendo riconoscimenti internazionali (percorso scientifico);
  • tutti e due vanno pazzi per le ostriche e si recano sulla costa bretone, per disputare il campionato nazionale francese dei mangiatori di molluschi bivalvi (percorso gastronomico);
  • lui è in realtà un serial killer e le sue vittime preferite sono le fanciulle bionde con gli occhi azzurri, ma stavolta finirà ucciso, perché lei è un’assassina a caccia di scrittori svagati (percorso thriller);
  • dopo aver parlato e bevuto molto, i due, ubriachi fradici, sono cacciati dal locale, poi si accasciano sull’erba di un giardino pubblico; vengono prelevati dalla polizia e rispediti a casa con foglio di via (percorso inglorioso).

Eccetera, eccetera. La vita è, come si sa, un insieme di combinazioni.

(Da Tre sguardi in uno, Pendragon, 2015)

Per leggere gli articoli di Franco Stefani su Periscopio clicca sul nome dell’autore

“La Comune di Ferrara” 19 novembre 2023
Prima tappa: la società civile davanti alla fragilità

La Comune di Ferrara, 19 novembre 2023.
Prima tappa: la società civile davanti alla fragilità.

 

La chiamata de La Comune di Ferrara alla società civile e ai partiti del tavolo dell’alternativa ha portato a riunirsi al Centro Sociale Il Quadrifoglio di Pontelagoscuro più di 30 organizzazioni del territorio tra associazioni, comitati civici e partiti del tavolo dell’alternativa.

I partecipanti sono stati invitati ad immedesimarsi in una situazione personale di fragilità umana che conoscono  direttamente o che sta loro a cuore: a titolo esemplificativo, una donna di 50 anni disoccupata, una ragazza migrante con problemi di salute mentale, un ragazzo di 25 anni in cerca di lavoro e di casa, un bambino di 11 anni che non ha motivazione allo studio e passa le giornate attaccato allo smartphone, una mamma preoccupata di mandare i figli a scuola in biciletta per via del traffico, un commerciante che non riesce ad arrivare a fine mese con la sua attività, ecc…

Ciascuno di noi, durante un ciclo di vita, dall’infanzia alla terza età, è attraversato da fragilità umane. Cosa significa progettare una città, a partire dai più fragili? Questa la domanda centrale dell’incontro che ha portato alla formazione di 18 tavoli di lavoro, con la tecnica del world cafè.

 

world cafè 5, I Tappa,19 novembre, organizzato da La Comune di Ferrara

A giorni verranno presentati i risultati: proposte concrete per un programma elettorale.
All’incontro erano presenti anche la professoressa Calafà e l’avvocato Anselmo (che per motivi di lavoro non ha potuto fermarsi), al momento le due candidature proposte dal tavolo dell’alternativa.

Prossima tappa de La Comune di Ferrara?Desideriamo sperimentare nuovi metodi per fare politica, più vicini alle esigenze delle cittadine e dei cittadini di Ferrara. Nelle prossime settimane, estenderemo ulteriormente la chiamata, oltre la società civile, con lo scopo di ricercare, come in una caccia al tesoro, i migliori “talenti” presenti in città, persone capaci di prendere in mano i problemi di Ferrara, in un’ottica di squadra”.

 

In copertina: World cafè 1, world cafè 5, I Tappa,19 novembre, organizzato da La Comune di Ferrara

Per certi versi /
La rosa dei nembi

La rosa dei nembi

rugiada
Del cielo
In mille
Mille
Coccinelle
Di luce
Sfoggia i suoi
Petali
Prende
I suoi attimi
Di eternità
Un roseto
Nel giardino
Botanico
Dei miei
Occhi
Tu fiorisci
E sfiorisciTrabocca
La malinconia

Ogni domenica Periscopio ospita Per certi versi, angolo di poesia che presenta le liriche di Roberto Dall’Olio.
Per leggere tutte le altre poesie dell’autore, clicca [Qui]

Presto di mattina /
In ricordo di Antonio Samaritani, storico pomposiano – 2. parte

(Continua. Per leggere In ricordo di Antonio Samaritani, storico pomposiano –  1. parte clicca sul titolo)

Presto di mattina. In ricordo di Antonio Samaritani, storico pomposiano – 2. parte

Una storia della spiritualità uscita dalle persone

Dopo il primo volume del 1989, seguito da quello del 1997 si aggiunse anche il Profilo di storia della spiritualità, che, al di là delle differenze e delle vicende storiche non immediatamente collegabili, rappresenta il filone unificante, quello della spiritualità, ad un livello più alto delle vicende storiche e istituzionali: (A. Samaritani, Profilo di storia della spiritualità, pietà e devozione nella Chiesa di Ferrara-Comacchio. Vicende, scritti e figure, Reggio Emilia 2004).

È questo uno studio ricapitolativo di tutto il percorso euristico e storiografico di Samaritani sulla chiesa locale. Un testo, va tuttavia sottolineato, per nulla riassuntivo. Semmai, come si direbbe oggi, un “ipertesto”. Un ambiente testuale con molteplici accessi; un’agorà in cui convergono e ripartono innumerevoli percorsi narrativi. Un volume in cui vengono ricreate situazioni narrative, esistenziali e storiche, come porte di una città che conducono ai suoi primitivi testi e alle loro successive elaborazioni in una forma nuova: una universitas testuale.

Egli ricordava ancora che storia istituzionale e storia della spiritualità non hanno ragione di correre parallele, «c’è una compenetrazione profonda, per cui l’istituzionale non si capisce senza lo spirituale, mentre lo spirituale ha la sua evidente esplicazione istituzionale» (Radici della spiritualità ferrarese, in Boll. Eccl., 2 /1993, 345).

Così per Samaritani la storia della spiritualità non fu a compartimenti stagni, mero esercizio storiografico, ma si intrecciò con la storia religiosa, con quella economica e sociale. La fatica della ricerca minuziosa altro non fu, alla fine, che il mezzo per offrire più spessore di autenticità e di qualità storica. Per il tipo della spiritualità ferrarese sembra emergere un profilo tendenzialmente statico, che comprende però una grande capacità di mediazione nella pastorale tra il nuovo e il vecchio.

Fare lo storico è stato così per lui una vocazione nella vocazione; una chiamata ad educare, condurre fuori e oltre, che impegnava a ritrovare sé stessi, rischiandosi con la propria realtà sociale, culturale e religiosa in relazione. Al tempo stesso, egli ambiva a vivere relazioni veramente comunicative di senso e di esperienza con gli altri, al fine di rendere più disponibili e motivati come presenza riflessiva e fattiva qui e ora nel nostro tempo di umanità e spiritualità.

Samaritani al vivo, dentro la sua opera

Viene così da fare un raffronto tra Samaritani, medievista e storico pomposiano, con la figura bella ed efficace che Bernard Guenée dà dello storico medievale alla voce “Storia”, nel Dizionario dell’Occidente medievale: «Nel Medioevo lo storico si nasconde spesso dietro la sua opera. Per comprendere quanto ha voluto fare non vi è altra risorsa che analizzare l’opera stessa. Tuttavia, più spesso di quanto non si creda, l’autore compare nel suo racconto e, soprattutto, si preoccupa di dire, nel prologo, quali siano stati i suoi fini e i suoi metodi».

Così è stato anche per Samaritani; bisogna infatti cercare soprattutto nelle presentazioni, prefazioni o introduzioni il suo sentire più vivo e le glosse che disvelano i significati del suo cercare come storico e umanista. In questi brevi testi egli ha nascosto il suo metodo storiografico, ma molto di più la sua passione per la vita e per la gente, il suo amore a Cristo e alla chiesa per vivere la fraternità.

Anche per lui come per uno storico medievale «la storia è un racconto semplice e vero destinato a trasmettere alla posterità la memoria di quanto è accaduto. Anche la liturgia aveva il compito di riprendere ogni anno la vita di Cristo e dei santi. Come la liturgia, la storia è strumento di memoria» (ivi, Einaudi, Torino 2004, 1123).

La sua bibliografia del 2015 si compone di 419 titoli tra libri articoli e presentazioni. L’apparato critico e la bibliografia nelle note che corredano le sue ricerche danno le vertigini. Osservava Luciano Chiappini, presentando la bibliografia del 1996:

«C’è in monsignor Samaritani un’estrema attenzione alla ricerca dei dati e delle notizie. I suoi lavori ne traboccano in misura straordinaria. Ma non si tratta di una forma, sia pur rara e sorprendente, di erudizione. Il dato e la notizia sono sempre considerati in funzione del quadro complessivo, del giudizio di assieme» (Cfr. “Acti laboris comes est laetitia; del comune, compiuto lavoro è compagna la gioia”, Quaderno Cedoc SFR 30/2015).

Ma se si vuole guardarlo negli occhi a capolino sopra gli occhiali mentre vi racconta la sua storia, occorre immergersi nella la sua autobiografia: Vicende e pensieri di un prete della Bassa Ferrarese della seconda metà del secolo XX, Cartografica, Ferrara 2014.

Credo di poter dire della sua autobiografia quello che Michel de Certeau scrisse a proposito del Memoriale di Pierre Favre, uno dei primi compagni di S. Ignazio: «volle prendersi il tempo per avviare una conversazione con sé stesso, modo per intraprenderne una con Dio… Un modo per rintracciare l’azione di Dio che costruisce dal di dentro non soltanto ciascuna persona, ma l’umanità intera, l’autentica storia».

presto di mattina antonio samaritaniCosì Samaritani scrive nella premessa delle sue memorie: «Ho scritto queste mie personali note, quasi sospinto da un bisogno incoercibile di chiarire a me stesso (e per poi lungamente meditarle) sulla piccola vicenda della mia esistenza e anche perché i miei fratelli, sorelle, nipoti, congiunti e amici meglio mi potessero conoscere e capire. Potranno, queste note, eventualmente e senza alcuna presunzione, costituire un minimo contributo alla storia della vita religiosa, ecclesiale, locale e risultare infine una marginalissima testimonianza, fra le tante, delle vicende della Chiesa in Italia, nelle sue fasce più periferiche e meno significative, prima e dopo il Concilio»(ivi, 23).

Microstorie

Vi è, credo, una parola chiave che può servirci come guida per attraversare i sentieri testuali delle sue innumerevoli pubblicazioni e che connota significativamente la ricerca storica di mons. Samaritani: essa è “microstoria”, in grado di declinare lo spirito di Samaritani come storico con il suo desiderio di voler intravedere qualcosa “più giù” ancora, di quanto già avesse scovato nei sotterranei della storia, per scendere di livello e rendersi conto degli strati più bassi, di ciò che in essi è segno flebile o appena affiorante.

Egli era infatti convinto che panoramiche storiche omnicomprensive sono irrimediabilmente affette dall’astrattezza. La storia si costruisce con i frammenti della vita; anzi la storia dei piccoli è l’unica vera storia.

L’ambito della “microstoria” si rivela così per Samaritani campo pionieristico che individua piste di ricerca innovative. Una microstoria che diventa punto di convergenza della vicenda spirituale e di quella umanistica, cono di luce veritativo, rivelativo e critico insieme, per comprendere con più autenticità la “macrostoria”.

Al convegno del 22 novembre 2014 a Cento nella sede della Partecipanza Agraria, organizzato per ricordare mons. Samaritani, presentando la sua autobiografia, ho cercato di mostrare la relazione tra questo testo e la sua bibliografia: di questa ne costituisce la chiave e l’orizzonte interpretativo, pur nella pluralità e differenza degli argomenti, che spaziano dal medioevo all’attualità, da studi corposi a recensioni o presentazioni di poche pagine. Il memoriale fa percepire i singoli titoli bibliografici in un insieme organico; sfaccettature di un prisma che narrano di un’unica esperienza umana e spirituale nel suo divenire complesso, evolutivo e storico: la sua imago hominis.

Dal nostro passato una vocazione alla sinodalità da vivere oggi

Per Samaritani i dati, le notizie che trovava spigolando negli archivi, come le stesse persone, erano sempre valutati nel loro quadro complessivo, nelle loro situazioni esistenziali. Non sorprende dunque la sua spiccata tendenza a porre la storia passata in relazione all’attualità, quasi ci fosse in essa un orientamento, una bussola per la vita civile ed ecclesiale dell’oggi. Lo studio del passato è in vista del vivere nel presente per intravederne spiragli di futuro.

Così, dalle sue ricerche nel passato della nostra storia e territorio, emerge una vocazione plurale, come ordito che tiene unite diversità non locali. Lo rivela un aggettivo preso dai suoi testi: “sinecistico”, che richiama l’unificazione di entità politiche precedentemente indipendenti, estranee, “allogene”, direbbero gli storici,  per riferirsi a popoli e culture non originarie del sito, nate altrove.

È l’abitare insieme nella casa con altri diversi da noi, realizzata proprio dalla e nella convivialità delle differenze; vocazione dunque unificatrice di pluralità molteplici e minoranze diversificate, tendenti a far confluire stili di vita culturali, religiosi e sociali, in modi “distinti ma non dissociati”, in uno scambio reciproco e convergente.

«A modesto parere, – scrive Samaritani – a salvare, rivalutare e perpetuare il patrono civico, il suo duomo e l’unità civica anche in età postridentina, sta la vocazione sinecistica originaria di Comacchio, rilevabile pure in campo ecclesiale» (in La civiltà comacchiese e pomposiana dalle origini preistoriche al tardo medioevo, Bologna 1986, 14).

Anche Cento costituisce una filigrana multipla di esperienze di storia, di spiritualità e di umanità con i suoi quattro borghi “gemmati”, borgo di mezzo fu chiamato il primo, con i suoi Allodieri, piccoli proprietari coltivatori di libere terre, con i Fumanti, gente benestante non originari del luogo e con gli immancabili poveri: «Quei poveri che non conobbero Francesco né nel terz’ordine, né nelle confraternite a base, purtroppo, categoriale», (Il laicato francescano…, Palestra del Clero, 58/1979, 17).

Una vocazione comunitaria alla mediazione e all’integrazione

Ma questo vale anche per Ferrara e la sua storia spirituale. Nel carattere ferrarese e nella spiritualità della chiesa diocesana, è riscontrabile «un timbro di sintesi, non di avanguardia». Ritroviamo anche qui una vocazione ricapitolativa che struttura il profilo identitario locale, interagendo o integrando diversità originarie e provenienti da altrove.

Prova ne sia che il patrono San Giorgio non è un proto-vescovo, né un martire della chiesa locale, ricorda sempre Samaritani, ma viene da fuori: è un santo neo-comunitario, anche se immigrato, un guerriero. Ma proprio grazie al suo essere straniero lo rende sensibile e attento alla mediazione e all’integrazione.

Le sue rappresentazioni, quella nella lunetta del protiro come quella nella scultura bronzea presso la tomba del vescovo Ruggero Bovelli in Cattedrale, rappresentano in sintesi il processo di integrazione delle diversità da guerriero con la lancia in resta a pacificatore con la lancia in riposo: come a dire il passaggio di Ferrara da presidio militare a città umanistica.

San Giorgio è scelto così come alleato di questa chiesa e della città nella difesa delle proprie autonomie e libertà, compagno di viaggio nel processo identitario e unitario, difensore e custode, a presidio del diritto e dell’identità locali. Era un forestiero, ma è diventato cittadino a pieno diritto, civis optimo iure, in favore dei diritti e della dignità di coloro che lo hanno scelto come mediatore.

Antonio Samaritani ha condotto i suoi studi per circoscrizioni territoriali, le Chiese locali. Queste ricerche sono risultate ben definite nella loro dimensione geografica e tuttavia mai anguste, in quanto connesse ad un orizzonte più ampio, sia di letteratura storica sia di ambientazione geografica. Fu la sua cifra stilistica, la capacità di declinare insieme universale e particolare, centro e periferia attraverso un’interazione policentrica.

Parlare di chiese locali ha significato per Samaritani anche riconoscere loro una soggettualità in relazione. Tanto che la loro vocazione sinecistica equivale, nel vocabolario ecclesiale, a vocazione alla sinodalità. La sinodalità è la forma della chiesa, non solo un metodo di convivenza tra diversi, ma una postura interiore ed esteriore del suo abitare nel mondo, tra la gente, con il vangelo.

Attraverso l’esercizio della sinodalità la chiesa è chiamata a esprimere il suo mistero, la comunione che unisce pluralità differenti; e la sua totalità, la sua forma catholica /unita, non è data da una somma di chiese ma dalla loro comunione che unisce differenziando come l’amore.

Il sogno della terra

«Terra, non è questo quel che tu vuoi: risorgere invisibilmente entro di noi?».

Il desiderio della terra è come quello delle storie della povera gente: risorgere in noi. Così ha fatto don Tonino per sé e per noi. Questa potente espressione poetica di Rilke dice bene il servizio ecclesiale e civile di Samaritani, come storico della chiesa.

Far riemergere dentro di noi le coordinate storiche e interpretative del genio cristiano della nostra chiesa diocesana, e non in parallelo ma compenetrandosi con la storia della città, del suo territorio delle sue genti. Di più: essa esprime l’indole e le ragioni dell’amore di don Tonino per la storia minuta, il suo essere incline alle storie della povera gente perché è lì che la terra, l’umano che si trova in essa, hanno bisogno di risorgere, di essere portati alla luce, da noi e in noi.

La storia è come la terra, una soglia che lo storico e pure gli amanti attraversano perché è di coloro che amano e si amano, come ci rammenta Rilke: «logorare un po’ la propria soglia di casa già alquanto consunta, anche loro, dopo dei tanti di prima, e prima di quelli di dopo… leggermente».

E questo per fare entrare in noi la viandante umanità – noi pure viatores e velatores dell’umano direbbe Samaritani, narrando altre storie, incrociando altre vite e accompagnarle entro il mistero di un’altra storia invisibile, di una terra e nuova umanità: «Vedi, io vivo. Di che? Né infanzia né futuro vengon meno… Innumerabile esistere mi scaturisce in cuore».

Non è facile e non è tutta qui la IX elegia di Rilke. È solo il respiro, un battito appena di  un mistero di speranza sepolta che sogna la luce, a cui anche le storie più crudeli anelano, sospirando il riscatto, il capovolgimento del destino celato nell’attesa di risurrezione.

Ma perché, se è possibile trascorrere questo po’
d’esistenza
come alloro, il verde un po’ più cupo
di tutto l’altro verde, le piccole onde ad ogni
margine di foglia (sorriso di brezza) – perché
costringersi all’umano e, evitando il Destino,
struggersi per il Destino?…

Non per curiosità o per esercizio del cuore,
questo, anche nel lauro sarebbe…
Ma perché essere qui è molto, e perché sembra
che tutte le cose di qui abbian bisogno di noi, queste
effimere
che stranamente ci sollecitano. Di noi, i più effimeri.
Ogni cosa
una volta, una volta soltanto. Una volta e non più.
E anche noi
una volta. Mai più. Ma quest’essere
stati una volta, anche una volta sola,
quest’essere stati terreni pare irrevocabile.
E così ci affanniamo, e lo vogliamo compiere,
vogliamo contenerlo nelle nostre semplici mani,
nello sguardo che ne trabocca e nel cuore che non ha
parola…
Anche il viandante dal pendio della cresta del monte,
non porta a valle una manciata di terra,
terra a tutti indicibile, ma porta una parola conquistata,
pura, la genziana
gialla e blu. Forse noi siamo qui per dire: casa
ponte, fontana, porta, brocca, albero da frutti, finestra,
al più: colonna, torre. Ma per dire, comprendilo bene
oh, per dirle le cose così, che a quel modo, esse stesse,
nell’intimo,
mai intendevano d’essere. Non è forse l’astuzia segreta
di questa terra che sa tacere, quand’essa sollecita gli
amanti così
che ogni cosa, ogni cosa s’esalta nel loro sentire?
Soglia: oh, pensa che è, per due che si amano
logorare un po’ la propria soglia di casa già alquanto
consunta,
anche loro, dopo dei tanti di prima, e prima di quelli di dopo…
leggermente.

Terra, non è questo quel che tu vuoi, invisibile
risorgere in noi? – Non è questo il tuo sogno,
d’essere una volta invisibile? – Terra! invisibile!
Che è mai, se non trasmutamento quello che sì
pressante ci commetti?
Terra, tu cara, accetto. Oh, credi, non ci sarebbe più
Bisogno
delle tue primavere per guadagnarmi a te, una,
ah, una sola è fin troppo per il sangue.
Da lungi e senza nome io mi dichiaro a te.
Tu eri sempre nel giusto, e la tua santa pensata
è la confidenza con la morte.
Vedi, io vivo. Di che? Né infanzia né futuro
vengon meno… Innumerabile esistere
mi scaturisce in cuore.
(Rainer Maria Rilke, Elegie Duinesi, Torino, Einaudi, 1978, 55)

Per leggere gli altri articoli di Presto di mattina, la rubrica quindicinale di Andrea Zerbini, clicca sul nome della rubrica o il nome dell’autore.

Presto di mattina /
In ricordo di Antonio Samaritani, storico pomposiano – 1. parte

Presto di mattina. In ricordo di Antonio Samaritani, storico pomposiano – 1. parte

Una prossimità di storia e di vita: sulle tracce della povera gente

«Incline per indole alla storia minuta quotidiana della gente qualsiasi, ho preferito guardare in faccia a quello che mi sembrava il reale, senza orpelli ma senza precomprensioni di favore o di sfavore, in libertà di spirito» (Vita religiosa e autoriforma (cattolica) nella Cento pretridentina (aa 1423-1539), Cento 2008, 3).

In queste poche righe Antonio Samaritani ci ha lasciato intravedere un tratto significativo della sua personalità, del suo sentire e declinare la storia in umanesimo e spiritualità, “amando cordialmente povertade”, direbbe Beltramo de Rupta di Ferrara, eremita con sensibilità pastorale vissuto nel sec. XV. «Lo studio della storia della Chiesa – mi disse in un incontro a Cento – necessita di persone nascoste, di condizione umile, che si interessino degli umili».

In un’intervista su Innovazione (aprile 1993, 5) Samaritani alla domanda: “Cosa ha significato per lei questo impegno di studio e di ricerca?” rispose: “È stato, e lo è tuttora, un realizzo interiore e personale. Una continua ricerca, approfondimento e riscoperta della fede. La storia la vivo come un approccio concreto verso la Verità, una strada angusta ma sicura verso il mistero di Dio».

Molto prima, in un’altra intervista a Il Resto del Carlino del 26 giugno 1979, in occasione del Convegno sulla Cattedrale cittadina, in merito alla sua predilezione per la storia medievale del territorio ferrarese, rispose senza indugiare: «È la storia della povera gente dei secoli X e XI. L’attività caritativa del mondo monastico, dei conversi (i monaci più poveri), dei servi della masnada (i feudatari più umili), è tipica della nostra terra e del Friuli».

Aggiungendo che la storia medievale è un “fermento pluralistico” «con il Medioevo abbiamo rivisto le nostre convinzioni: I poveri di Cristo – Istituto di carità durato dalla fine del ‘300 alla metà del ‘500 – emblematizza il medioevo spirituale per molte diocesi d’Italia e la stessa ‘devotio moderna’ si ispira ai francescani. Chiamiamo in causa, con il Medioevo, anche il Comune di Ferrara perché la nostra storia non si ferma intorno all’area degli estensi».

È solo grazie all’investigazione di minuti e poveri reperti, quali sono le disposizioni testamentarie, che mons. Samaritani ci ha testimoniato che: «L’anima più profonda della mentalità religiosa ferrarese dal 1095 al 1399 è da trarsi dalle due grandi direzioni in cui è andata ad articolarsi la religiosità cittadina: il versante della pietà e quello della carità» (La Chiesa di Ferrara tra pieno e basso medioevo, in La Chiesa di Ferrara nella storia della città e del suo territorio, I, 413, infra).

Un Convegno per ricordarlo

Oggi nel X anniversario della morte, il 18 novembre 2013, l’Arcidiocesi di Ferrara-Comacchio unitamente all’Archivio Storico Diocesano ha organizzato un convegno per ricordarne la figura e la ricerca storiografia in ambito pomposiano, ferrarese e centese. Il convegno si articola in due sessioni, la prima nella mattinata a Cento, l’altra nel pomeriggio in Ferrara a Casa Cini.

Antonio Samaritani, nato a Comacchio il 25 maggio 1926 è ordinato sacerdote a Cento l’11 giugno 1949. Ottenne la laurea in teologia, indirizzo storico, presso la Pontificia Università del Laterano nel 1955. Dal 1969 fu docente presso il Seminario di Ferrara nonché presidente dell’Istituto di cultura “Antica Diocesi di Comacchio” a partire dal 1986 (anno di fondazione) sino al 2004.

Fu socio effettivo della Deputazione provinciale ferrarese di storia patria dal 1960 e consigliere dal 1985. Iniziò la vita pastorale come vicario parrocchiale a Lagosanto dal 1949 al 1952, fu direttore spirituale del Seminario di Comacchio dal 1950 al 1952, poi parroco di Medelana dal 1956 al 1976. Dopo il gravissimo incidente del 1974, dal 1977 si stabilì a Cento, vicino ai familiari; in quell’eremo di pazienza poté quindi dedicarsi a tempo pieno alla ricerca storica e agli studi, alla preghiera di intercessione e al ministero dell’ascolto delle persone.

Storico pomposiano

Abbazia di Pomposa

Samaritani fu editore e curatore degli statuti civili duecenteschi dell’abbazia di Pomposa e poi nel 1963, dei regesti delle prime 860 pergamene (dall’a. 874 all’a. 1199). Questa ricerca documentaria e gli studi sull’Abbazia pomposiana proseguiti in seguito lo designarono “storico pomposiano”.

Decisive in questa sua opera furono le vicende che portarono Samaritani all’acquisizione delle carte di Pomposa presenti a Montecassino; un “recupero tormentato”, un lavoro fatto in collaborazione con l’Istituto dei Beni culturali di Bologna e che sortì l’acquisizione in microfilm del Codice diplomatico del monastero cassinese.

Al suo nome, o meglio, al suo decisivo impulso iniziale è indissolubilmente legata la collana degli Analecta Pomposiana, iniziata nel 1965 con il volume celebrativo del IX centenario del campanile di Pomposa.

Una circostanza che dette avvio al Centro italiano di studi pomposiani, cui si affiancò l‘Istituto per la storia religiosa delle diocesi di Ferrara e Comacchio. (Le origini del monastero di Pomposa fra VI e X secolo, in Analecta Pomposiana, 15 (1990), 15-36.

Alla salvezza si giunge piangenti

Al Convegno Delta chiama Delta del 1996 al Lido degli Estensi in vista del Giubileo del 2000, che affrontava il tema dello stretto rapporto tra religiosità e territorio circostante, Samaritani ricordava che la realtà deltizia del Po è «la realtà antica di una civiltà navigatrice che ha saputo estendere i propri rapporti commerciali fino al Reno, al Rodano, al Danubio ed oltre.

La storia del Delta del Po affonda le proprie origini nel ritrovamento della Stele funeraria di Aufidia Venusta, – una donna ancora pagana del nostro territorio vicoaventino, nel primo secolo dell’era cristiana – rinvenuta tra Argenta e Portomaggiore, riportante lo strazio di una madre privata dell’unico figlio.

La sofferenza della donna, indirizzata ai viandanti “per terra e per fiume” è da considerarsi come l’espressione più autentica dell’indole del popolo deltizio. È con le lacrime agli occhi che si giunge alla salvezza. Emblema significativo dell’emarginazione e della solitudine che caratterizzavano, insieme ad una profonda solidarietà, il carattere degli abitanti del Delta del Po.

La connessione tra la natura tipica della zona e l’insediamento in loco di comunità religiose dedite alla meditazione pressoché eremitica fu amplificata dall’edificazione dell’Abbazia di Pomposa. Centro da cui fu diffuso il messaggio solidale; essa forse in epoca carolingia fu di grande rilievo in quanto anello di congiunzione tra la civiltà ecclesiastica e quella laica; dall’Abbazia, infatti, partì la nuova concezione del pensiero benedettino che, per la prima volta, affiancava al pellegrinaggio la solidarietà, il martiro e l’evangelizzazione come una pacifica crociata» (Fonte, La Nuova Ferrara, 14.9.1996).

«Mediazione e lacrime»

Mediazione e lacrime costituiscono per Samaritani i tratti spirituali dei luoghi a connotazione valliva e fluviale, come i nostri, impregnati da un vangelo latente nella sua gente. Ma proprio in questo contesto di marginale espressione spirituale, proprio in questo retaggio di condizione minoritaria, rispetto ai grandi flussi e figure della spiritualità cristiana, – viene da dirsi infatti: quale buon saluto, quale evangelium possono mai annunciarci il silenzio degli eremiti e le lacrime di una madre e per giunta pagana, in lutto per il figlio morto?

Proprio nella umilissima semplicità di una annunciazione, di un saluto inciso sulla pietra: “Salvete et bene valete”, con cui questa donna, pur schiacciata dal male, augura il bene ai viatores e ai velatores di passaggio, praticando così la regola d’oro gesuana fate agli altri quello che vorreste fosse fatto a voi (Mt 7, 12-14), si rivela così la buona notizia del Regno di Dio, la sua più struggente priorità, quella di consolare e di farsi carico delle lacrime e del dolore degli uomini.

Così è nata la ricerca di una storia “altra”

Samaritani fu sempre alla ricerca per sé e per gli altri di una “storia altra”, come ricorda lo storico francese Fernand Braudel. Tanto da scrivere nell’introduzione al libro su mons. Ruggero Bovelli di A. Baruffaldi circa l’esigenza di una «biografia diversa, “altra appunto”, che potesse evidenziare «quel “particulare” esistenziale tutto bovelliano di accattivante umanità»; come a dire: la storia minuta, le microstorie della povera gente.

Il percorso storiografico di mons. Samaritani fu proprio quello di istruire piste di ricerca e studi coinvolgendo altri studiosi in un tracciato interdisciplinare che facesse emergere profili di religiosità e di civiltà locali, marginali e dunque a valenza e significato sociale e mai disgiunte tuttavia dal contesto storico globale, tenendo insieme e avendo presente sia gli avvenimenti che le strutture: una ricerca che si muovesse dentro e fuori porta, “tra Istituzioni e Società”.

Due secoli dopo il Compendio della storia sacra e politica di Ferrara, Bologna, Forni, 1972 del Manini Ferranti, ecco uscire i due volumi: A. Benati – A. Samaritani, La Chiesa di Ferrara nella storia della città e del suo territorio, I, secoli IV-XIV, Corbo, Ferrara 1989 e II, secoli XV-XX, L. Chiappini, W. Angelini, A. Baruffaldi, coord. A. Samaritani, Corbo, Ferrara, 1997.

Quest’opera è rivelativa e programmatica di uno stile, del declinare insieme chiesa e società, presenza religiosa nella città e nel territorio così da evidenziare il carattere “soggettuale”, relazionale della chiesa diocesana, come chiesa situata in loco, protesa verso l’altro.

Una storia innovativa

Così Samaritani commentava l’esito di quella ricerca: «Innovativa soprattutto come taglio, in quanto protesa a fissare il rapporto tra comunità religiosa e comunità civile della Chiesa ferrarese. E questo a livello, ad un tempo, scientifico nella sostanza e alto divulgativo nella forma.

Era tale sintesi – nel progetto – destinata alla Chiesa diocesana, nell’atto che si andava e sempre più prossimamente si va preparando al sinodo, convocata dal suo pastore. Uno sguardo panoramico quindi, alle origini e all’esperienza dodici volte secolare che si ponesse come strumento alla individualizzazione e al recupero obiettivi della identità specifica di questa nostra tipica Chiesa locale» (ivi, v. I, 341).

Compreso come un servizio culturale, ecclesiale e cittadino che prevedeva un solo volume, divenne in seguito un progetto complesso nella forma di una trilogia, completato da un volume di sintesi sulla spiritualità per «recepire istanze sempre più introspettive e stimolanti, come del resto è invalso dalla paradigmatica Storia d’Italia di Einaudi in poi (…) va timidamente profilandosi all’orizzonte un altro volume dedicato alla storia del sentimento religioso, della spiritualità e della pietà (Bremond, più De Luca, più Braudel, per intenderci) ferraresi e comacchiesi ad un tempo, muovendo dal versante liturgico per approdare a quello laicale e popolare» (ivi, 342).

(Continua domani su Periscopio)

Per leggere gli altri articoli di Presto di mattina, la rubrica quindicinale di Andrea Zerbini, clicca sul nome della rubrica o il nome dell’autore.

Storie in pellicola /
“Il Mai nato”, incontro con la regista Tania Innamorati

Tania Innamorati firma un “mockumentary” su un bambino che non vuole nascere. Premio ‘climate change’ al Ferrara Film Corto Festival 2023 (FFCF), l’abbiamo incontrata per soddisfare alcune curiosità.
Guarda “Il Mai Nato” nella versione integrale in fondo all’intervista.

Dopo “One day all of this will be yours”, oggi vogliamo parlare de “Il Mai Nato”, Premio ‘climate change’ del FFCF 2023 dedicato all’interpretazione della tematica relativa al cambiamento climatico a Tania Innamorati e Gregory J. Rossi per l’originalità e l’ironia con le quali vengono trattati tutti i paradossi di una società contemporanea nella loro complessità. Entrambi i corti parlano di un mondo che non dà più molte speranze, un mondo ormai irrespirabile, invivibile e sanguinante consegnato alle nuove generazioni, che tanto ignare del dramma e del pericolo poi non sono.

Tania Innamorati riceve il Premio ‘climate change’ al FFCF 2023
Tania Innamorati riceve il Premio ‘climate change’ al FFCF 2023

Profondamenti colpiti da “Il Mai Nato”, la storia del primo e unico bambino al mondo che si è rifiutato di nascere, barricandosi nell’utero materno per 18 anni come forma di protesta sociale e diventando un simbolo per le persone di tutto il Mondo, abbiamo voluto incontrare la regista Tania Innamorati.

Ma prima alcune precisazioni. “Il Mai nato” è un ‘mockumentary (un falso documentario) di 20 minuti che racconta, attraverso la voce dei media nazionali e internazionali e di alcuni testimoni, l’epopea di questo bambino che sta bene dove si trova, Sarò Messina.

Un’invenzione geniale che vuole affrontare, in modo ironico, avvalendosi dell’assurdo, le storture della società contemporanea, ponendo un dubbio socio-esistenziale che tutti noi abbiamo avuto almeno una volta: “ha davvero senso nascere in un mondo come questo?”.

Il corto, selezionato in molti festival importanti (fra i quali il “Los Angeles, Italia Film Festival” e il “Bellaria Film Festival”) e vincitore dell’’Audience Award’ al “Festival Afrodite Shorts”, è prodotto dal gruppo tutto al femminile Le Bestevem, in collaborazione con Nero Film, e da Roberto Benuzzi e distribuito da Premiere Film.

Le Bestevem

Molte le curiosità per Tania, che abbiamo raggiunto telefonicamente, soprattutto sulla genesi del corto, su come è stato progettato e poi costruito e sui progetti futuri.

Le Bestevem, ci anticipa, è l’acronimo che racchiude le dieci iniziali delle fondatrici dell’associazione, creata nel 2013, trasformatasi poi in società di produzione. Anche se oggi sono rimaste in tre (Eva Basteiro-Bertolí, cantautrice e produttrice, Ester Stigliano, architetta e scenografa e Tania Innamorati, produttrice e autrice) hanno voluto mantenere il nome a cui restano molto legate. Un logo simile a quello di Barbie, nella sua travolgente femminilità, un sogno, un progetto culturale, una factory di giovani talenti, un modo di vedere e raccontare la realtà. La volontà di realizzare film che raccontino il mondo nei suoi chiaroscuri, accendere un faro su chi non ha luce, su chi non ha voce.

Alcune domande per Tania, allora, tanta la disponibilità, la cortesia e la gentilezza.

Siamo curiosi di sapere come è nata l’idea de “Il Mai Nato”, quale ne è stata la fortunata genesi? Pensiamo che l’intuizione sia geniale…

Al quinto mese di gravidanza ho avuto un’illuminazione: mi sono chiesta, che mondo lascerò ai miei figli? Quello della gravidanza è un momento davvero molto creativo.

Al tempo frequentavo un corso di sceneggiatura e dovevo pensare a un corto, un progetto da inventare e da descrivere. Ecco arrivare l’idea, mi pareva una follia, ma una cara amica, una brava sceneggiatrice, mi ha detto che l’idea era ottima e funzionava. Poi l’ho scritto in un giorno e mi pareva poco professionale averlo fatto in così poco tempo. Ho però provato a metterci le mani in seguito, ma non sono riuscita a cambiare nulla.

Come lo hai costruito, ci sono molte scene di manifestazioni, di proteste o di folle acclamanti. Sembrano tratte dalla vita reale, è così?

In effetti è così. Mi piace molto mescolare immagini esistenti, giocarci, usarle per raccontare quello che voglio. All’epoca ero rimasta molto colpita dal finto trailer di “Shining” montato come una commedia romantica. Mi affascina come musica e montaggio possano cambiare il senso dell’idea del film, stravolgerlo, come ci si possa servire di alcune immagini per raccontare la propria storia. Il 60 percento delle immagini del corto – tratte dal web, da YouTube, da Vimeo o da archivi a pagamento, sempre non troppo costosi – sono di repertorio, le ho usate e montate per raccontare la mia storia. Nel mio ordine e per la mia finalità.

E poi, aggiungiamo noi, qui ci sono le storture di questo mondo, il potere dei social media, le strumentalizzazioni dei politici, la loro incoerenza e il non rispettare le promesse fatte…

Una scena del corto

Perché Sarò Messina?

Mi piaceva il connubio fra il nome tipicamente siciliano Saro e quel verbo futuro da usarsi per un bambino che non voleva nascere, da qui Sarò. Se il nome era siciliano bisognava, di conseguenza, ambientare la storia in Sicilia, ed ecco quindi anche il cognome, Messina; mi pareva una scelta drammaturgia interessante e originale. Il tutto in un contesto non ricco e in certi luoghi anche un po’ degradati. Era un set ideale.

Una scena del corto

Quando avete effettuato le riprese e come avete scelto gli attori?

Le riprese sono state fatte in una settimana, il corto è stato girato interamente e molto prima del montaggio, in epoca pre-Covid. Le mascherine utilizzate parlavano di un mondo divenuto irrespirabile, al momento delle riprese nulla lasciava presagire quello che il Covid avrebbe comportato. Incredibile quindi che quelle mascherine usate per il film siano servite dopo… Alle presentazioni ai festival tutti pensavano, inizialmente, che si trattasse di un film sul Covid. Invece era stato solo un incredibile presagio.

Quanto agli attori, non ho usato attori professionisti, tranne il padre di Sarò. Ci sono poi anche alcuni giornalisti della carta stampata, tra i quali Giorgio Meletti e Guido Torlai. Abbiamo fatto molti provini, tutti siciliani, a parte i ruoli che non lo prevedevano. La nonna di Sarò, Catena, è davvero bravissima. Far recitare in un ‘mockumentary’ un attore non è semplice, l’attore recita sempre e qui servivano persone della società civile che ‘vivono’ la storia. Aurora Peres è la sola attrice adatta a far finta di non recitare che ho voluto. Per questo ho scelto persone di altri mondi.

La nonna di Sarò

Progetti per il futuro?

Oggi il corto va in pensione, ha fatto la sua strada, ha dato le sue soddisfazioni. Anche se, in realtà, stiamo ragionando sulla fattibilità di farne un lungometraggio o una serie.

Sto lavorando su un documentario su due Centri di Recupero per bambine e bambini-soldato, in Uganda e in Congo Kinshasa, per la regia di Christian Carmosino e dal titolo provvisorio “Adieu Maman”.

Ad impegnarmi molto anche il 48 Hour Film Project Roma” e il progetto, per cui abbiamo appena vinto un bando, finanziato dall’ambasciata americana, rivolto ai licei artistici multimediali in Italia, che mira a sensibilizzare i ragazzi sull’ambiente attraverso video da loro stessi girati.

In attesa di tanti (bellissimi) progetti futuri, ci salutiamo. Ad maiora, Tania. E grazie.

“Il Mai Nato”, qui sotto nella sua integralità:

Pagina Facebook de “Il Mai Nato”

Tania Innamorati

Giuliese di nascita, romana d’adozione, è laureata in Dams, diplomata presso il Centro Sperimentale di Cinematografia, ha conseguito un Master in comunicazione presso l’Università per Stranieri di Perugia e un Master in Scrittura Creativa alla Scuola Holden di Torino. Dopo aver seguito la produzione di diversi programmi televisivi per La7 e per TV2000, ha creato la piattaforma Cineama.it: community online per appassionati di cinema finalizzata alla produzione e distribuzione di film indipendenti grazie alle pratiche partecipative della rete, premiata come Miglior Progetto Pilota in Europa da Media nel 2013. Da oltre 10 anni organizza il 48 Hour Film Project Roma, con Le Bestevem di cui è Presidente. Parallelamente scrive, dirige e produce progetti propri. Ha all’attivo il cortometraggio Eve Al Desnudo”, selezionato al Festival di Cannes 2015, sezione ‘Short Film Corner’, le cui musiche sono state concesse da Ian Anderson, leader dei Jethro Tull.

Per una bella intervista a Le Bestelem

 

ELOGIO DEL RACCONTO
Perché i racconti ci assomigliano molto. Come quelli di Carlo Tassi

I racconti ci assomigliano molto. Come quelli di Carlo Tassi

Il genere racconto non gode in Italia di grande fortuna: vuoi mettere “il peso” di un romanzo di 600 pagine? Altrove, penso agli Stati Uniti o all’Argentina, i racconti sono invece merce prelibata, Un autore di racconti (solo di racconti) può raggiungere le vette delle classifiche e può diventare un “classico”. Gli esempi si sprecano: Poe, Carver, Hemingway, Borges, Cortazar… In Italia si arriva al punto di presentare una raccolta di racconti sotto la forma di romanzo. “Se questo è un uomo” di Primo Levi non è un romanzo, sono racconti in una medesima unità di tempo e di spazio. In realtà. un grandissimo autore come Primo Levi ha scritto solo racconti, la stessa cosa si può dire per Italo Calvino.

Ma la mia frequentazione e il mio amore per il genere racconto mi porterebbero lontano. Qui serve a dire che i racconti, anche i racconti di Carlo Tassi, vanno presi sul serio, letti e gustati fino in fondo.  Perché è in fondo, nel finale, che molto spesso si svela il meccanismo a orologeria che sta alla base di tanti racconti.

Carlo Tassi, che con troppa modestia ama definirsi “un architetto mancato”, scrive splendidi racconti, ma è anche uno straordinario disegnatore e illustratore. Ne fanno fede alcune immagini che illustrano questo articolo e che ho rubato dal suo archivio privato che mostra solo agli amici. Da anni Carlo è redattore ed apprezzato autore di Periscopio, sotto il suo nome potete trovare i suoi articoli, i suoi racconti, le sue vignette satiriche.

Carlo Tassi scrive quasi sempre racconti brevi. Sono, credo, i più difficili. Occorre unire la fantasia dell’invenzione con la costruzione di un meccanismo narrativo perfetto, dove l’incipit si apre su una scena che si riflette, e spesso si capovolge in un finale a sorpresa. Spiazzante.  I suoi sono racconti duri, cattivi, senza redenzione. Racconti notturni, onirici, come scaturiti dal sottosuolo della coscienza.

Per questa ragione – gliel’ ho detto anche a voce – il titolo del volumetto che raccoglie per la prima volta le sue prove narrative non mi trova d’accordo. Le sue sono tutt’altro che “carabattole”. Dietro c’è un grande lavoro sulla scrittura, con risultati sempre sorprendenti. Dalla lettura di questi racconti si esce un po’ diversi da come si è entrati, un po’ turbati, con qualche interrogativo in più sulla vita e la morte, e su se stessi.

Forse però, per dire di più e meglio sui racconti di Carlo Tassi, è bene lasciare la parola all’autore. Ho scelto un racconto che a me è particolarmente piaciuto. Lo trovate di seguito, appena dopo una divertente carrellata di animali fantastici usciti dalla sua penna.

Un caso di coscienza
racconto di Carlo Tassi

Il tizio è un’apoteosi di merda umana!
Capelli a spazzola biondo platino, pelle butterata e una cicatrice zigzagante tra guancia e mento, lobi anellati, collo taurino con uno scorcio di tatuaggio che corre giù sotto la maglia sudicia.
Mastica una gomma al sapor di fragola marcia e me la soffia addosso. Mi osserva sfacciato col suo feroce sguardo da ebete.
«Hai bisogno?» gli faccio.
Questo mi sorride aprendo una spelonca inguardabile con una sfilza di dentini color giallo canarino.
Mi si legge in faccia quanto mi fa schifo sto tizio, eppure ostento cortesia, falso come Giuda: «Non farti problemi, se hai bisogno dimmi»
Questo non parla e non smette di fissarmi e sorridere, con una ghigna da prendere a schiaffi e farci l’abbonamento. Così getto la maschera: «Beh, allora che vuoi che ti dica… Vaffanculo!»
Sono al limite, la trottola fotonica mi gira ormai senza controllo. Penso che se non me ne vado va a finire che lo meno, perciò alzo i tacchi e tolgo il disturbo. Tanto più che questo è un marcantonio di quasi due metri per oltre un quintale di ignoranza. Sì, meglio andare. Mi allontano dalla parte opposta quando sento una voce alle mie spalle.
«Scusa, non volevo farti incazzare»
Il tizio ha parlato finalmente!
Mi blocco e mi giro di nuovo verso di lui. La sua espressione è cambiata, ora sembra diverso, con uno sguardo tutt’altro che ebete.
Sembra che qualcosa l’abbia trasformato dandogli uno spessore che prima non aveva. O forse sono io stesso che, sentendo la sua voce, ho cambiato opinione.
Ora vedo due occhi profondi, animati da un certo non so che di pudore e incertezza che fino a un attimo prima non avrei mai sospettato. Persino quell’aspetto sgradevole fino all’insopportabile non è più tale.
Cosa sta succedendo?
«No scusa te per il vaffanculo… Ma se non vuoi che te lo ripeta mi devi dire perché sei venuto da me a fissarmi!» gli dico con una punta di rimorso.
«Beh, la verità è che non so come dirtelo»
«Dirmi cosa?»
«È difficile»
Lo guardo. La pressione mi si alza che ormai sistole e diastole sono in orbita scrotale. «Non capisco… Senti, fa lo stesso. Io me ne vado!»
«Non andare per favore!» sembra supplicare sul serio.
«Oh insomma, che cazzo vuoi?» Se non fosse così grosso gli avrei già sgrullato la faccia di schiaffi.
«Vorrei che parlassimo un po’» risponde calmo e controllato da far schifo.
«Ma di che cazzo vuoi parlare… io non ti conosco!»
«Oh… Sì che mi conosci!» insiste. Poi mi sorride di nuovo, stavolta senza aprire la fogna.
«Senti stronzo, se avessi già visto la tua faccia me la ricorderei… Fa così schifo che stanotte dovrò addormentarmi guardando il poster di Freddy Krueger per togliermela dalla mente e sperare di non avere incubi»
«In verità la vedi tutti i giorni, come adesso»
«Basta m’hai stufato!» trattengo il respiro e parto col cartone. Un ripieno di noccioline tostate a sangue per ricordarsi che se tiri la corda oltre l’orizzonte degli eventi poi questa si spezza.
Ma la manata va a sbattere contro un muro di vetro… Questo s’infrange in mille pezzi o forse più.
Mi guardo il pugno criccato di sangue, il mio sangue.
«Cazzo, lo specchio s’è rotto… Adesso sette anni di sfiga!» esclamo preso da improvviso buon umore.
Sorrido, ma è un sorriso incerto, non proprio convinto. I tagli sulla mano bruciano.

Capita, quando incontri la tua coscienza e non la riconosci.
Capita, quando questa ti parla e non la vuoi stare a sentire.

Ieri ho fatto un’altra cazzata, oggi me ne sto tranquillo e domani chissà.
La cicatrice mi fa prurito, forse domani pioverà.

 

 

 

Il volume di Carlo Tassi “Pensieri e altre carabattole” viene presentato oggi, 16 settembre alle ore 17, alla sala Agnelli della Biblioteca Ariostea. Dialogano con l’autore Sergio Gessi e Giorgia Mazzotti. Il libro è disponibile nelle migliori librerie di Ferrara.

 

Cover e illustrazioni nel testo sono di Carlo Tassi.

Per leggere gli articoli di Francesco Monini su Periscopio clicca sul nome dell’autore

Parole a capo /
Tania Chimenti: “Autunno” e altre poesie

La fantasia è un posto dove ci piove dentro.
(Italo Calvino)

 

La sera dell’appuntamento

La sera dell’appuntamento
ero senza pelle
rivestii la nudità col cappotto
i bottoni arginati entusiasmi in asole
e le mani confinate a metà pugno
nelle tasche sudate
ogni bottone stretto
nella difficile impresa
di essere tra due limiti
mi intimava di restare salda
legata fino al collo
la postura col mondo.

 

Prova d’orchestra

Che si possa decretare
L’ inizio e la fine
Di ogni relazione
Con la certezza che è per l’orchestra
nel segno del legno d’acero la bacchetta
Del movimento a vuoto
La resa
Lo smarrimento
L’attesa.
E invece siamo qui
Ad ascoltare parole senza sinfonia
Fumata nera
La sera.

 

Il mio nome

Chiamami per la prima volta
col mio vero nome
individua la mia essenza
non fare come gli uomini
che chiamano terra
il pianeta fatto d’acqua
si innamorano dei corpi
che sono involucri d’anima
guardano il cielo distante
e non pensano al suono
come vibrazione dell’aria
così che anche il nome
quando mi chiami
è cielo

 

Se le parole perse

Se le parole perse
in rivoli di silenzio sfilacciate
come lettere
sparse nell’infinito alfabeto
tornassero felici di unirsi tra loro
Come la prima volta
sul quaderno del bambino
non squadernerei più le giornate
alla ricerca della verità
lascerei ogni segno legarsi
a caso agli altri
senza cercarne il senso.

*

Ho cercato nell’amore
La salvezza dagli umori corrotti
Il drenaggio degli ematomi
Le carezze sulle cicatrici
La sanguisuga che bevesse
Il mio sangue malato
ma da quando sono guarita
non ho più amato

 

Autunno

Abbiate slanci
Per chi sa che nascere
Ha il peso
Di una foglia che cade

 

Tania Chimenti (Bari, 1968). Laureata in giurisprudenza, si è occupata di risorse umane per una multinazionale, attualmente libera professionista e madre di tre gemelli. Ha tra i vari interessi, quello di dare voce alle emozioni attraverso la poesia. Ha ottenuto in relazione alla partecipazione a diversi premi letterari, menzioni di merito ed inserimento in diverse raccolte antologiche.
In particolare, menzione di merito per la partecipazione al XVI concorso internazionale di poesia inedita dedicato a Poesie per ricordare, Giornata mondiale della poesia, con inserimento nella relativa raccolta antologica “La panchina dei versi“, edizione Aurora. Menzione di merito per la partecipazione al concorso VI premio internazionale Salvatore Quasimodo e relativo inserimento nella raccolta antologica.
Finalista al concorso di poesia il federiciano e relativo inserimento nell’antologia Corallo.
Inserimento nell’Enciclopedia dei poeti italiani contemporanei primavera 2021. Inserimento nell’antologia Cierzo, 2021. Partecipazione al progetto Alessandro Quasimodo legge i poeti contemporanei. Pubblicazione della silloge “ Abbracciami cielo “nella collana Spazio Tempo curata da Alessandro Lattarulo, prefazione di Giuseppe Scaglione edita da Wip edizioni, marzo 2023.

La rubrica di poesia Parole a capo curata da Pier Luigi Guerrini esce regolarmente ogni giovedì mattina su Periscopio. Per leggere i numeri precedenti clicca sul nome della rubrica.

Il sacrificio degli agnelli

Il sacrificio degli agnelli

L’altra mattina alle 7 sento alla radio che l’ospedale di Gaza City, più volte bombardato dagli aerei israeliani, è completamente fuori uso. Niente Elettricità, niente acqua, niente di niente. L’ospedale non c’è più. Nella nursery muoiono anche i neonati. Muoiono senza scampo, in quello che una volta era il reparto di terapia intensiva. L’invasione israeliana continua. Nella striscia di Gaza muore un bambino ogni 3 minuti.
Oggi al telegiornale sento la conta dei morti nella striscia: oltre 11.000 vittime, 4.650 bambini. In quello che era un ospedale, una fossa comune accoglie oltre 170 ricoverati.

Mi sono chiesto, con tutta l’ingenuità che mi rimane: perché la pace non arriva?

Davanti alla strage, al sacrificio degli agnelli, qualsiasi persona di qualsiasi bandiera vorrebbe che le armi tacessero, che si spegnesse il rimbombo degli aerei, che si levasse il fumo per soccorrere gli inermi e per seppellire i morti. Non è forse vero? Perché allora LA PACE, che appare la cosa più semplice, più naturale, più ragionevole del mondo, non arriva mai? Perché ci raccontano che le cose sono terribilmente complicate, che nemmeno i diplomatici e gli esperti più esperti… figuriamoci noi comuni mortali (e lontani) se possiamo capire le implicazioni politiche strategiche economiche…

Tutte le notti gli agnelli piangono, tendete le orecchie e sentirete i loro strilli. Gli agnelli muoiono, ma la guerra è da sempre la nostra compagna. È la guerra – così ci insegnano – ad essere normale, semplice, naturale, non la pace. Che la guerra, non la pace, corrisponde alla nostra umana natura. Che l’uomo è un lupo per gli altri uomini.  E, ingenui come siamo, non abbiamo ancora imparato  l’antica massima di Carl von Clausewitz, che “La Guerra è la continuazione della politica con altri mezzi” ?

Eppure. Eppure sono in tanti, in tantissimi, a scendere in piazza in tutto il mondo per chiedere il cessate il fuoco, la tregua, la pace. Pochi giorni fa a Londra c’è stata una manifestazione oceanica. Talmente gigantesca che, se vi è sfuggita, merita di essere vista.

Manifestazione a Londra per la tregua a Gaza (Fb del Partito Democratico)

Ma Londra è solo un esempio. Questo “popolo ingenuo che vuole la pace”, in Palestina come in Ucraina manifesta tutti i giorni: in Europa, negli Stati Uniti, in Israele. Sfila per le strade delle metropoli come delle piccole città di provincia.

Lo sappiamo, i pacifisti non godono di buona stampa. Se va bene, sono trattati come sognatori e utopisti, spesso come piantagrane, come agitatori, come terroristi tout court. A pochi viene in mente che la marea umana che si mobilita per la pace rappresenta la grande maggioranza del genere umano. Che nessuna donna e nessun uomo, nessuna madre, padre, ragazzo, bambino può sopportare il pianto disperato degli agnelli.

La natura umana corrisponde alla pace, non alla guerra. Eppure la pace è irrisa. La guerra è in minoranza, eppure insanguina il mondo.  Con tutta l’ingenuità che vi rimane, provate a capire perché la pace “non arriva mai”? Forse non arriva perché i Capi di Stato, gli stessi che si dicono impegnati a fermare le armi, non ne hanno nessuna intenzione. Forse perché se si arriva alla pace, la carriera politica di Netanyahu e Zelensky, ma anche di Putin e Biden, sarebbe finita. Addio potere. E che fine farebbe la potentissima e ubiqua lobby delle armi?

Magari il problema è più generale. Il problema è il potere. Per far prevalere la maggioranza e la pace, bisognerebbe abolire gli Stati e i Capi di Stato. Come stanno facendo le libere città kurde.

Ecco, ho cominciato da ingenuo e ho finito come anarchico. Chiedo scusa al lettore, ma il pianto degli agnelli non mi fa dormire.

Cover:  Bambino di Gaza, acquerello di Miriam Cariani da un fermo immagine di un video reale, l’immagine è stata modificata per rispettare la privacy. 

Per leggere gli articoli di Francesco Monini su Periscopio clicca sul nome dell’autore

Lettera aperta: “L’invito a tacere del Sindaco di Ferrara al Vescovo sui Cpr è un atto grossolano e intollerabile”

Gentile Direttore,

come Consigli Pastorali delle Parrocchie del Corpus Domini e di Sant’Agostino, le chiediamo ospitalità per intervenire sulla polemica sorta, ancora una volta, in seguito alle parole del nostro Vescovo Gian Carlo.

Come in passato, sorvoleremo pazientemente sul disagio che proviamo a vedere maltrattata una figura che per noi è paterna e fraterna. Tuttavia non siamo solo cattolici che vedono mortificato il loro pastore, ma siamo anche cittadini consapevoli di questa città, e pensiamo di avere dei diritti.

Di questi diritti, il primo – ma il discorso sarebbe, chiaramente, molto più ampio – è che i nostri amministratori usino il linguaggio con il rispetto che esso merita. Siamo grandi abbastanza per sapere che la politica è usualmente disinvolta nell’uso delle parole, ma riteniamo che sia sempre più necessaria un’inversione di tendenza.

Nel caso specifico:

Invocare il Concordato per chiedere a un Vescovo di tacere quando c’è in ballo la dignità degli esseri umani è un atto insieme grossolano e giuridicamente infondato. È verissimo che Stato e Chiesa sono reciprocamente indipendenti, ma è altrettanto indiscutibile che, quando si riduce l’essere umano in condizioni non dignitose – ed è esattamente questo che avviene nei CPR – la Chiesa interviene, perché ogni uomo è figlio di Dio.

Ridurre ogni confronto politico ad una contrapposizione tra “destra” e “sinistra” è ormai noiosamente fuori dal tempo. Un cittadino maturo non vuole per la sua città soluzioni di destra o di sinistra. Vuole soluzioni efficaci. I CPR non lo sono, per il semplice fatto che generano – sia negli internati che nei cittadini – frustrazione, astio e rivalsa. E una città che si nutre di questi sentimenti ha il fiato corto.

Ritenere di cavarsela intimando al Vescovo (o ad altre figure pubbliche) che, se vuole esprimersi, “si candidi con la sinistra” è semplicemente incomprensibile: dobbiamo forse pensare che, nel prossimo futuro, per esprimere un opinione, non basti più essere cittadini ma si debba iscriversi a una partito o, almeno, schierarsi con una parte?

Infine, ma non per importanza. Non è tollerabile che, ogni qualvolta la Chiesa fa sentire la sua voce, qualcuno si erga a ricordare alla Chiesa stessa che “dovrebbe occuparsi delle anime e delle chiese vuote”. La Chiesa ha a cuore l’uomo e la sua santa dignità, non le statistiche relative alla frequenza della Messa.

Sui CPR esistono posizioni diverse. È comprensibile, e fa parte della dinamica democratica. Entrare in questa dinamica inquinando il linguaggio non fa bene a nessuno, alla nostra città, poi, men che meno.

La ringraziamo cordialmente per l’ospitalità.

I Consigli pastorali delle Parrocchie del Corpus Domini e di S. Agostino – Ferrara

 

In copertina: Il Cpr di Torino. Credits: Agora, periodico del Consiglio comunale di Torino.

Cpr per immigrati come i ricoveri di mendicità dell’800

Cpr per immigrati come i ricoveri di mendicità dell’800.

La rivoluzione industriale iniziò in Inghilterra dal 1730 con un’ondata di invenzioni che avevano meccanizzato la filatura in grandi fabbriche spinte da macchine a vapore e dove lavoravano anche mille operai non qualificati, ma anche donne e bambini. Oltre a macchine per la manifattura come la Cucitrice che faceva il lavoro di 40 cucitrici, c’erano quelle agricole per tagliare il grano venti volte più velocemente o la Piallatrice che faceva il lavoro di 100 falegnami. Nelle miniere di carbone le pompe mosse da macchine a vapore toglievano l’acqua e aumentarono di molto la produttività, anche sfruttando i bambini piccoli che potevano entrare nei piccoli pertugi. Fece impressione la prima indagine Reale del 1832 quando scoprì che almeno 60mila bambini dai 6 anni in su ci lavoravano 12 ore al giorno.

L’enorme aumento di produttività dovuto alla massiccia automazione arricchì in modo stupefacente pochi industriali e commercianti ma non si diffuse affatto a chi lavorava. Per questo dal 1730 al 1840 le innovazioni tecnologiche di allora produssero un enorme peggioramento delle condizioni di vita di contadini e artigiani qualificati ora costretti in fabbriche in mansioni parcellizzate per 12 ore al giorno (l’orario settimanale era nel 1800 di 65 ore) e con salari minori di quelli di 100 anni prima. Le condizioni nelle città sovraffollate erano diventate spaventose con nuove malattie come tbc e colera. Solo dal 1840 in poi le condizioni igieniche migliorarono così come i salari con la nascita dei sindacati e di contropoteri. Finché la classe operaia non si organizzò fu preda delle brame primordiali delle élite di allora e dell’automazione esasperata.

La legge, i tribunali e i “media” (diremmo oggi, allora i pensatori, quelli che avevano studiato) erano dalla parte dei padroni (lo Statute of laboureres del 1351 che prevedeva che non si poteva lavorare per salari più alti o per altri padroni, fu abrogato nel 1863) e si accanivano anche allora contro i poveri. I pensatori del tempo proponevano che le misure di sostegno alla povertà prevedessero degli aiuti tramite i ricoveri di mendicità che però dovevano evitare che i poveri oziassero anziché continuare a lavorare. E la soluzione fu di rendere i ricoveri di mendicità inospitali per spingere le persone al lavoro anziché all’assistenza. Uno studioso li definì un “sistema carcerario per punire la povertà”.

Mi pare che ci sia una assonanza coi Cpr per immigrati del 2023.
Anziché organizzarsi per includere quei 250mila immigrati di cui abbiamo bisogno come Paese per le nostre imprese e campi con vantaggi nostri e loro, li incarceriamo. Allora i “Cpr” erano per i bianchi poveri per spingerli a lavorare nelle fabbriche inglesi, oggi per escludere gli immigrati anche dal lavoro.
I bianchi poveri puniti con lo sfruttamento del lavoro, gli immigrati col carcere. Tempi diversi ma logica simile.

Cover: Mensa per i poveri a Basilea; fotografia del 1914-1918 di Carl Kling-Jenny (Staatsarchiv Basel-Stadt, BILD 13, 606).

Ricominciano le conferenze di “Apertamente” all’Istituto Einaudi:
mercoledì 22 novembre la sociolinguista Vera Gheno parlerà del potere delle parole.

Ricominciano le conferenze di Apertamente all’Istituto Einaudi di Ferrara:
mercoledì 22 novembre con la sociolinguista Vera Gheno parlerà del potere delle parole.

Mercoledì 22 novembre alle ore 11 in aula magna “Giulio Einaudi” presso l’Istituto di Istruzione Superiore “Luigi Einaudi” in via Savonarola, 32, a Ferrara, riprenderanno le conferenze di ApertaMente, ciclo di incontri aperti a studenti e cittadinanza che festeggia quest’anno il suo decennale.
Un’edizione speciale e un calendario particolarmente ricco, che spazia dalla letteratura alla matematica, dall’imprenditoria al giornalismo, dalla storia alla più stretta attualità.
Si comincia appunto mercoledì 22 novembre con la sociolinguista Vera Gheno, che parlerà del potere delle parole.
Si proseguirà lunedì 27 novembre con gli scrittori Pietro Rivaroli e Cecilia Gallotta e, il 30 novembre, con la poetessa Stella N’Djoku, ricercatrice presso l’Università della Svizzera italiana.
I successivi incontri saranno di ambito scientifico: sabato 16 dicembre la divulgatrice Valentina Brombin, parlerà di Antropocene, mentre sabato 13 gennaio la professoressa Maria Giulia Luguresi (Unife) concentrerà il suo intervento su Pitagora e il suo teorema.
Il 2024 proseguirà con Ilaria Potenza, collaboratrice di Sole24Ore, Rolling Stone e Linkiesta, che il 20 gennaio discuterà con gli studenti proprio del lavoro della giornalista. Il 30 gennaio sarà la volta di Alice Bernardi, fornaia e titolare di Filonificio, che parlerà di imprenditoria creativa e sociale.
Nei mesi a seguire, lo storico Andrea Baravelli (Unife) investigherà le ragioni profonde del conflitto in Ucraina (8 febbraio), mentre sabato 24 febbraio si parlerà di transizione di genere con Nicolò Sproccati (interprete del documentario “Nel mio nome”, andato in onda su Sky) e Giovanna Cristina Vivinetto, autrice di “Dolore minimo”, prima raccolta poetica in Italia a infrangere il tabù della transessualità. Il 21 marzo si toccheranno le tematiche della disabilità e della rinascita dopo un incidente con Alessandra Santandrea e Marianna Casciani che presenteranno il libro “La sedia di Lulù”, mentre il 26 marzo si ricorderà, a vent’anni dalla morte, la figura di Tiziano Terzani, con Alen Loreti, curatore del Meridiano Mondadori a lui dedicato. Continueranno infine le collaborazioni con Ente Palio, che organizzerà una dimostrazione di giochi e feste di epoca estense (20 aprile) e con l’associazione Libera, che in due incontri, a febbraio e maggio, porterà anche quest’anno a scuola testimonianze di vittime della mafia.
Per info, orari e programma completo consultare il sito www.einaudiferrara.edu.it o scrivere a: michele.ronchistefanati@einaudife.istruzioneer.it

15 NOVEMBRE 1943: NON DISPERDERE LA MEMORIA

“…di lontano non parevano nemmeno corpi umani: stracci, bensì, poveri stracci o fagotti buttati là, al sole, nella neve fradicia”,
Le parole di Giorgio Bassani hanno consegnato per sempre alla grande letteratura una delle pagine più buie e feroci della nostra storia cittadina.

La notte del 15 novembre 1943, undici personalità molto note nella Ferrara del tempo furono uccise per rappresaglia dai fascisti in risposta all’assassinio del federale Igino Ghisellini. Tra le vittime figurano importanti antifascisti, come il procuratore Colagrande e gli avvocati Zanatta e Piazzi, caduti assieme al senatore Arlotti che, al contrario, era stato compromesso col regime. E poi semplici cittadini trucidati perché ebrei o per il fatto di trovarsi nel posto sbagliato al momento sbagliato, come gli Hanau o l’operaio Cinzio Belletti. Non tutti morirono davanti alla fossa del Castello.

Due di loro furono fucilati vicino alle mura cittadine, presso il Baluardo di S. Tommaso: Girolamo Savonuzzi e Arturo Torboli. Il primo era stato assessore socialista fino al 1920, quando gli squadristi lo costrinsero alle dimissioni. Savonuzzi conservò comunque il suo incarico di ingegnere capo del Comune e fu tra i principali artefici del rinnovamento urbanistico di Ferrara tra le due guerre mondiali. Torboli, invece, in qualità di ragioniere capo del Comune procedette, dopo il 25 luglio ‘43, a liquidare i beni accumulati in città dal disciolto Partito Nazionale Fascista. Pagarono dunque con la vita le loro convinzioni politiche, la loro fede nella libertà e nelle istituzioni.

Girolamo Savonuzzi
Arturo Torboli

Il loro sacrificio è testimoniato da un monumento, ben visibile in viale Alfonso d’Este, che da diversi anni versa in stato di forte abbandono e degrado.
Ignoti hanno asportato nottetempo l’elegante capitello e la croce in ottone che sormontavano la bianca colonna, rimasta sola a testimoniare una strage dimenticata. I nomi di Savonuzzi e Torboli, incisi sulla stessa, sono quasi illeggibili.
È giusto tutto ciò? Non credo. Nell’80esimo anniversario di quella lunga notte del ’43 mi sarei aspettato, oltre alle celebrazioni di rito, un intervento di ripristino e manutenzione di quel monumento e di altri che ricordano la lotta partigiana nella nostra città. Purtroppo, sono ancora molte le lapidi, i cippi e i monumenti disseminati per il territorio comunale che risultano ammalorati o in stato di evidente degrado: ricordano fatti e persone che hanno contribuito a rendere la nostra comunità più giusta e libera, durante il Risorgimento e la Resistenza.

Il monumento in memoria di Girolamo Savonuzzi e Arturo Torboli sulle Mura, ormai in stato di degrado da diversi anni e monco di una parte.

 

È possibile recuperarli implementando i fondi dedicati nel Piano triennale delle opere pubbliche ma sarebbe opportuno coinvolgere in tale impresa anche associazioni e privati cittadini, interessati a non disperdere un patrimonio di memoria comune.

Ferrara non può dimenticare o, peggio, ignorare la sua storia: è ciò che ci ha resi quello che siamo.

Davide Nanni
Consigliere Comunale PD Ferrara

In copertina: monumento alla memoria dell’eccidio del 15 novembre 1943 presso la fossa del Castello. 

Fantasmi /
Ferrara, la città dei fantasmi

80 anni sono passati, ma chi può scordare quella “Lunga notte”? Le squadracce fasciste erano partite da Verona e da Padova; arrivano in piena notte in città, prelevano dalle loro case 72 persone: antifascisti, molti ebrei, alcuni cittadini considerati “traditori” per non essersi iscritti alla Repubblica Sociale, oppositori del regime in genere e le portano alla Caserma della Milizia in piazza Beretta. Fra loro e i 34 antifascisti, ebrei, oppositori del regime che erano già nelle carceri di via Piangipane (arrestati il 7 ottobre 1943) vengono “scelti” i dieci cittadini innocenti da passare per le armi per punire la morte del Federale Igino Ghisellini.
All’alba del 15 novembre davanti a Castello Estense vengono fucilati Emilio ArlottiPasquale ColagrandeMario e Vittore HanauGiulio PiazziUgo TeglioAlberto Vita FinziMario Zanatta; sulle mura presso i Rampari di San Giorgio: Gerolamo Savonuzzi e Arturo Torboli e in via Boldini: Cinzio Belletti che un caso aveva portato nelle vicinanze del Castello quella notte. I cadaveri verranno lasciati davanti al muretto del Castello per tutta la mattina, come monito per i ferraresi. Solo l’Arcivescovo Ruggero Bovelli con un duro intervento presso le autorità fasciste riuscirà a far spostare i corpi.
Alda Costa, la maestra perseguitata dal fascismo, morì meno di un anno dopo quella Notte dell’odio, il 30 aprile del 1944. La città ancora in mano ai fascisti,  un gruppo sparuto al suo funerale, la primavera della Liberazione ancora lontana.
Il racconto, vero e fantastico, di Sandro Abruzzese parla di questo.
(Effe Emme)

Ferrara, la città dei fantasmi
(un racconto di Sandro Abruzzese)

Stasera prima di rientrare verso via Saraceno, prendo un giro largo. Sono in bici in Borgo dei Leoni, il grazioso quartiere centrale dove molti mesi fa, insieme ad Atiscia, conoscemmo la zingara di Berra e i suoi figli in attesa di processo. Lascio alle spalle il Museo di storia naturale, passo nei pressi della scuola elementare “Alda Costa”, un edificio di architettura razionalista che dà l’idea di una stazione dei treni della Lego. Davanti alla scuola tornano in mente gli ultimi, strampalati racconti del vecchio Athos: “tu adesso vedi la pace, tu… “, mi disse in una di quelle occasioni slinguazzando da destra a sinistra, “vedi la città ordinata, le luci. Ma quello che ho visto io, avresti dovuto vederlo, sai? Sicché rastrellamenti, delazioni, traditori. Ah… non farmi parlare, va là. Di mio fratello trovai il corpo. Ammassato era, a tutti gli altri, quella notte, il ’43 era, novembre. Ragazzi prelevati dal carcere dai fascisti per vendetta. Sicché senza pietà li ammazzarono, li ho visti, sai, quei corpi ammassati ai piedi del Castello, lungo il fossato; con questi occhi qui li ho visti: bestie! Nessun nome, nessun colpevole il giorno dopo, uff… Dei cadaveri solo la puzza. Da Verona eran scesi gli assassini. Ma nessuno ne sapeva nulla: bestie! Sicché era amico della maestra, mio fratello Alberto, socialista come lei. Questa la sua colpa.

Era sindacalista, era una brava donna Alda Costa. Per la fame si disperava. Ma mica per la sua, come accade oggi. Per quella dei suoi scolari della campagna si disperava, me lo diceva mio fratello, sai, buon’anima, pace all’anima sua. Sicché la perquisivano, la poveretta, minacce, umiliazioni, percosse, a una donna poi: bestie! Ah! Ma quando è morta, chi è che in tutta la città ha avuto il coraggio di seguirne la bara…dì un po’? Lo sai mica tu? Non ne sai nulla, si capisce. Bene, allora te lo dico io, chi c’era: eravamo don Quinto, poi c’era un vecchio giudice, e io. Ecco chi eravamo: noialtri. Ah! Bella la città ordinata, certo. Bella la pace, si capisce. Ma ordine e pace non voglion mica dire giustizia, sai. Ma lascia stare. Cosa ne volete sapere voialtri.

Il primo maggio o il due era, non ricordo bene. Sicché dall’ospedale partimmo, verso il cimitero. Era chiusa la città, chiusa di poliziotti e silenzio. Porte, finestre, cancelli sprangati. Nessuno nemmeno alla finestra. Un deserto di spettri. Un silenzio. Ah, ma don Quinto se urlava, sicché recitava a voce alta la messa per Alda Costa, così che tutti ascoltassero ugualmente, da dietro le finestre, uff… suscitava un senso di… di… di verità.

Morì l’ultimo giorno d’aprile, la maestra, mi pare. Sicché il don disse che in punto di morte si era comunicata. Non lo so mica se sia vero. Lo disse per i funerali, perché avesse diritto ai funerali. Tutti dovevano sapere. Fu la sua rivincita. Cos’altro avrebbe potuto? Ancora la sua voce mi capita di risentirla.

Mai fatto un solo nome, Alda Costa, mai tradito i suoi compagni, nemmeno sotto tortura, sai. E sì che quei criminali nient’altro che bestie erano.

L’accompagnai. Ero monarchico io, lo sai bene, ma quando ti uccidono un fratello non c’è mica più Stato. Se uccidessero tuo fratello… uff… allora capiresti di cosa parlo. Sicché, mi fanno schifo quelli lì, i fascisti e sai perché? Sono dei codardi. Sicché per mio fratello ci andai al funerale e per fargli intendere che erano dei codardi e lo sarebbero rimasti. Ammazzato come un cane a vent’anni, uff…

Seguire la bara di Alda, è stato come seguire la sua bara, assistere anche lui, mio fratello, nell’ora più nera. Era anche lui lì con noialtri in una città di fantasmi”.

A poche pedalate di distanza dalla scuola “Alda Costa”, un’altra cella, un altro recluso. È la cella del Tasso, poeta folle della vecchia Gerusalemme.

Davanti alla porta d’ingresso, sul muretto, ragazzi siedono, mangiano il gelato. Qualcuno fuma. Una coppia, in piedi, unita, si bacia lungamente. Le bocche congiunte. Gli occhi chiusi. Lei tiene le punte dei piedi alzate. Lui il collo abbassato, le mani cingono i fianchi. Si baciano ininterrottamente. Tutto è sospeso tra quelle braccia protese. Tutto è un’immane promessa e rende come l’illusione che il mondo sia più lieve.

Titolo originale : “Città Fantasma”, tratto da: Sandro Abruzzese, “CasaperCasa”, Rubettino Editore, 2018, pp.177-178.  

© Sandro Abruzzese, è vietata la riproduzione anche parziale del testo.

Cover: Ferrara, Scuola elementare “Alda Costa” su licenza Wikimedia Commons

Per leggere gli articoli e i racconti di  Sandro Abruzzese  pubblicati su Periscopio clicca sul nome dell’autore

Parole e figure /
Io e Pepper, o il ginocchio sbucciato – Strenne Natalizie

Novità sotto l’albero di Natale: il divertimento di sbucciarsi le ginocchia nel nuovo albo di Beatrice Alemagna, “Io e Pepper”, edito da Topipittori

Avevamo parlato di lei sempre a Natale, lo scorso anno, sfogliando il delicato “Cose che passano” e il coloratissimo “Cicciapelliccia”. E sempre nel bel mondo dell’infanzia.

Beatrice Alemagna sorprende sempre, oggi ancora con il suo nuovo albo “Io e Pepper”, i cui disegni e colori ricordano quelli di “Cicciapelliccia”: il racconto di una bambina dai capelli rossi e dai vestiti larghi alla quale capita la cosa più normale per la sua età, una caduta con tanto di graffi e sbucciatura al ginocchio. Inciampa e sbam, cade, la testa era forse fra le nuvole.

Si piange, ci si dispera, arriva pure la consolazione e la rassicurazione da parte di mamma e papà ma, dopo la medicazione e la crema, si forma una crosticina. Come brucia! C’è tutto il nutrito catalogo di comportamenti tipici dei bambini…

Il corpo infagottato, il centro del racconto, in lui una presenza nuova da indagare, alla quale abituarsi, un’estranea. Quella cosa strana va interrogata, cosa vorrà mai da lei, perché si trova lì, quando toglierà il disturbo? Ha forse la malaugurata intenzione di restarsene lì con lei per sempre, appiccicata come un fastidioso chewing-gum sotto le suole che non se ne vuole andare? La segue ovunque, anche in vacanza dai nonni che però non la notano, tanto vale, allora, darle un nome, Pepper, il nome del cane dello zio.

Si sa, tutti i bambini hanno delle croste, anche strane, ma la sua pare la peggiore di tutte.

Un giorno, però, la sorpresa: la crosta rosea dalla brutta faccia e forma, e che un giorno prima o poi dovrà cadere, si anima, prende vita, inizia a parlare, si lamenta del nome orribile affibbiatole; ma fra la bambina e quell’intrusa invadente si stabilisce una forte amicizia. In fondo fa solo il suo lavoro e come tale va rispettata.

Piano piano la ragazzina si abitua a lei, ai suoi cambiamenti, ai sorrisi che pare farle, le racconta di quando si è persa nella foresta, della sua paura dei ragni, del sogno di andare in Giappone, di quello di avere un cane tutto suo. Poi una mattina… e dopo mesi…

Ci sono tante parole, ma le immagini basterebbero, il silenzio potrebbe parlare.

La storia è fresca, divertente e originale, tanta la delicatezza nel raccontare lo spirito ingenuo e acuto dell’infanzia, la poesia, l’ingenuità, l’umorismo che scaccia la paura.

Ingredienti ai quali Beatrice Alemagna ci ha abituati, con la sua fantasia poetica e accattivante e la perenne capacità di stupire e meravigliare.

Un perfetto regalo di Natale, anche per i più grandi che vogliono restare bambini.

Beatrice Alemagna, Io e Pepper, Topipittori, Milano, 2023, 48 p.

Libri per bambini, per crescere e per restare bambini, anche da adulti. Rubrica a cura di Simonetta Sandri in collaborazione con la libreria Testaperaria di Ferrara.

GAZA: CERCASI VOLONTARI PER SERVIZIO DI TELEMEDICINA – VOLUNTEERS NEEDED TELEMEDICINE SERVICE – مطلوب متطوعين من الاطباء للتواصل عن بعد

GAZA: CERCASI VOLONTARI PER SERVIZIO DI TELEMEDICINA

Chi è studente di medicina o medico o conosce studenti di medicina/medici potrebbe far girare loro questo messaggio dicendolo di farlo girare ai loro colleghi? Soprattutto se siete/ conoscete/ conoscete gente che conosce gente specializzata nei campi richiesti?

🚨GAZA: CERCASI VOLONTARI3 PER SERVIZIO DI TELEMEDICINA
VOLUNTEERS NEEDED – TELEMEDICINE SERVICE
مطلوب متطوعين من الاطباء
للتواصل عن بعد

Gaza Medic Voices @gazamedicvoices (associazione di medicɜ con esperienza di lavoro in Palestina) sta organizzando un servizio di telemedicina per supportare da remoto (pro bono) lɜ colleghɜ medicɜ a Gaza nella gestione di casi clinici complessi. Si tratta di un progetto a medio-lungo termine.

Specialità richieste:
– chirurgia vascolare
– traumatologia e ortopedia
– plastica e ustioni
– pediatria
– ostetricia
– oncologia
– radiologia
– neurochirurgia

Se interessatɜ, potete compilare il modulo a questo link
https://forms.gle/MxCKkZdNKoZ5jGad9

Per qualsiasi informazioni potete rivolgervi a
gazaremotemedic@gmail.com

Si prega di dare massima diffusione fra colleghɜ.

 

Immagine di copertina da infopal.it