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Un haiku ci salverà. Forse

Un haiku ci salverà. Forse

Come già aveva raccontato Borges riferendosi alla bomba atomica, anche nel caso dell’intelligenza artificiale mi piacerebbe confidare in… un haiku per salvarci dall’ira degli dei nipponici.

Nel romanzo Cronache di Bustos Domecq scritto insieme a A. Bioy Casares e pubblicato nel 1967, Borges racconta la seguente storia:

“In un autunno, in uno degli autunni del tempo, le divinità dello Shinto si riunirono, non per la prima volta, a Izumo. Si dice che fossero otto milioni, ma sono un uomo molto timido e mi sentirei un po’ sperduto tra tanta gente. Inoltre, non conviene maneggiare cifre inconcepibili. Diciamo che erano otto, giacché l’otto è, in queste isole, di buon augurio.

Erano tristi, ma non lo parevano perché i volti delle divinità sono kanji che non si lasciano decifrare. Sulla verde cima di un colle si sedettero in tondo. Dal loro firmamento o da una pietra o da un fiocco di neve, avevano sorvegliato gli uomini. Una delle divinità disse:

Molti giorni, o molti secoli fa, ci riunimmo qui per creare il Giappone e il mondo. Le acque, i pesci, i sette colori dell’arcobaleno, le generazioni delle piante e degli animali, ci sono riusciti bene. Affinché tante cose non li opprimessero, demmo agli uomini la successione: il giorno plurale e la notte unica.

Concedemmo loro anche il dono di provare alcune variazioni. L’ape continua a ripetere alveari; l’uomo ha immaginato strumenti: l’aratro, la chiave, il caleidoscopio. Ha anche immaginato la spada e l’arte della guerra. Ha appena immaginato un’arma invisibile che può essere la fine della storia. Prima che accada questo fatto insensato, cancelliamo gli uomini.

Si misero a pensarci. Un’altra divinità disse senza imbarazzo:

È vero. Hanno immaginato quella cosa atroce, ma anche questa che sta nello spazio che abbracciano le sue diciassette sillabe.

Le scandì. Erano in un idioma sconosciuto e non potei intenderle.

La divinità maggiore sentenziò:

Che gli uomini perdurino.

Così, per opera di un haiku, la specie umana si salvò.”

Ora però c’è una riflessione da fare a proposito del nostro rapporto con le novità tecnologiche: nel caso della bomba atomica gli inventori di quell’ordigno di morte, quegli scienziati politici e militari che immaginarono gli scempi di Hiroshima e Nagasaki, erano pur sempre appartenenti alla medesima specie degli individui che concepirono un “semplice”  componimento di appena 17 sillabe (un haiku per chi non lo sapesse è una brevissima poesia composta da tre versi di 5,7 e 5 sillabe rispettivamente).

Ma con lintelligenza artificiale sarà possibile aspettarsi la stessa cosa? E, cioè, che la nostra specie potrà sfangarsela grazie a un haiku? E soprattutto “chi” potrebbe scrivere un tale componimento, un essere umano o un chat bot (un robot di conversazione)?

Detto in altro modo: l’Intelligenza Artificiale (IA) sarebbe in grado di scrivere un haiku capace di impietosire le divinità dello Shinto?

Mi viene da rispondere: «Spero di no!»

Se riuscisse a farlo e, per così dire, intenerisse i cuori delle divinità Shinto, verrebbe meno proprio la nostra quintessenza umana, perché se c’è una cosa che non può appartenere alla IA è l’immaginazione, cioè quella connessione profonda tra l’esperienza del poeta e quella del lettore.

Per questo occorrerà che sia un essere umano a scrivere l’haiku della salvezza, perché solo se verrà creato da un lui o da una lei della nostra specie, si potrà salvare (salvaguardare), la nostra stessa insondabile, imperscrutabile , irriproducibile “umanità”, dimostrando che esistiamo effettivamente e che non fingiamo di farlo attraverso delle nostre copie.

Ecco il nocciolo della questione.

L’originale e il sostituto (potremmo anche dire l’analogico e il digitale!) sono compagni che costantemente riappaiono nella nostra storia evolutiva, si pensi solo alla “scrittura” (o alle preistoriche pittografie rupestri:  il bovide disegnato sulla pietra “sta” per l’originale osservato e copiato) o, appunto, alla odierna IA (l’intelligenza della macchina “sta” per quella del “cervello umano”).

Ma mentre la prima operazione conserva un suo carattere di continuità che implica la presenza di tutto l’essere umano (per semplificare: sia la componente razionale che quella irrazionale che indusse Michelangelo a chiedere, tra le lacrime, al suo Mosé «Perché non parli?»), la seconda operazione “incarna” solo una parte “discreta”, quella razionale.

Il padre dell’intelligenza artificiale, Alan Turing, sapeva benissimo che il sistema nervoso non era una macchina a stati discreti anzi precisò : “…in senso stretto non esistono macchine di quel genere. In realtà tutto si muove in modo continuo. Ma ci sono molti generi di macchine che possono UTILMENTE essere considerate come macchine a stati discreti, per esempio il cervello…”

Considerare il cervello una macchina discreta si è dimostrata un’idea immensamente fertile, ma a rigore è un’idea FALSA, per una semplice ragione:

il cervello non è e non potrà mai essere una macchina a stati discreti, ma in varie circostanze e per motivi diversi SIMULA di esserlo e riesce a farlo efficacemente. L’IA dunque non fa altro che simulare un’entità (il cervello umano) colta nell’atto di simulare.

La macchina di Turing, fino alle recenti chat bot, simulano dunque una simulazione, quella che il cervello mette in atto per operare con efficacia entro certi ambiti. Perciò non imita il cervello, ma certe strategie usate dal cervello. Pertanto l’IA è soltanto l’efficientamento di una simulazione già attuata dal cervello.

Per concludere riporto i risultati di un esperimento che ho eseguito personalmente: ho chiesto alla IA di “scrivere un haiku per convincere le divinità dello Shinto (e in generale qualunque dio si voglia credere) a non cancellarci dalla faccia della Terra”.

Ecco il risultato:

Risa nel ruscello — petali danzano lievi, ride anche il sole.
[Copilot, assistente digitale basato su IA]

Ho paragonato poi questo (quasi)-haiku alle 17 sillabe scritte da un haijin in carne, ossa e sistema nervoso (nonché capacità di contarle per bene le sillabe):

Il tetto si è bruciato: ora posso vedere la luna.
[Mizuta Masahide]

Nell’haiku umano il poeta manifesta la “sua” volontà di cercare  in ogni situazione una nuova prospettiva, una nuova bellezza, di conservare, comunque, una labile speranza anche di fronte alla distruzione: per questo invita i suoi simile a fare lo stesso salto immaginativo, cosa che nessuna IA potrà mai fare.

Quale dei due haiku, secondo voi, potrebbe convincere le divinità riunite a Izumo a risparmiarci?

Cover: immagine tratta da https://pixabay.com/it/images/search/free%20image/

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Giuseppe Ferrara

Giuseppe Ferrara – Nato a Napoli. Cresciuto a Potenza fino alla maturità Classica presso il Liceo-Ginnasio Q.O. Flacco. Laureato in Fisica all’Università di Salerno. Dal 1990 vive e lavora a Ferrara, dove collabora a CDS Cultura . Autore di cinque raccolte poetiche; è presente in diverse antologie. In rete è possibile trovare e leggere alcune sue poesie e commenti su altri poeti e autori. Tiene un blog “Il Post delle fragole”: https://thestrawberrypost.blogspot.com/

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