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Il tramonto dell’impero americano e l’alba del tecnofeudalesimo

Il tramonto dell’impero americano e l’alba del tecnofeudalesimo

Il tramonto dell’impero americano non è né una buona né una cattiva notizia, in astratto: dipende in quale parte del mondo vivi, a quale classe sociale appartieni. E’ un tramonto scalciante, tribolato e feroce, che affetta in trasversale le persone, le famiglie, le classi, le nazioni, i gruppi etnici. Alcuni staranno meglio in un paese che starà peggio, alcuni staranno peggio in un paese che andrà meglio. Molti sono morti e moriranno durante il lungo trapasso imperiale, e non di morte naturale, ma trascinati al fronte o ammazzati fisicamente, socialmente o economicamente da oligarchie impazzite, preoccupate solo di espandere il loro potere o di non vederlo conculcato.

Donald Trump è il frutto avvelenato dell’albero piantato da Bill Clinton. Non il Clinton avvinto nella prurigine dei blow jobs, ma il Clinton ben più fatale della liberalizzazione totale dei mercati finanziari, della affarizzazione totale del sistema delle banche. Caduta l’Unione Sovietica dieci anni prima, l’illuminato capo dell’impero americano – illuminato immaginiamo dal riflesso del sole sui dollari dei suoi finanziatori –  decide nel 1999 che il locus ideale per l’esercizio della democrazia globale è la Borsa: tutti possono investire in azioni, tutti possono diventare ricchi semplicemente facendo girare dei soldi, anche se non sono capitalisti. Tutti possono trasferire soldi (pochi o tanti, o tantissimi) da un angolo all’altro del pianeta con un click. Un sogno.

Per molti privati, americani ma non solo, il sogno diventa presto un incubo. Quando ci rimettono soldi in Borsa passano da creditori a debitori: il sistema li finanzia per tenere alti i consumi, mettendo a garanzia una casa che, di fatto, è della banca, che ha prestato loro denaro fino all’ultimo centesimo del suo (sopravvalutato) valore. Peccato che una elementare regola del credito sia: non devi guardare al valore della garanzia, ma alla capacità di restituzione di chi finanzi. La bolla scoppia attorno al 2008, quando tantissimi privati non riescono più a pagare le rate del mutuo – mutui spesso nati con tassi bassi ma crescenti. Il mercato viene inondato in breve tempo di centinaia di migliaia di case messe all’asta per rientrare dei crediti inesigibili, il loro prezzo crolla per eccesso di offerta, gli strumenti finanziari – nel frattempo venduti in tutto il mondo tramite le c.d. cartolarizzazioni – che hanno come sottostante i mutui non più pagati non rimborsano più, a loro volta, i sottoscrittori; il banco salta. La crisi finanziaria diventa immediatamente economica. Gli attivi di molte banche crollano: se sei un creditore della banca (o di un titolo di debito che hai comprato presso di lei), rischi che non ti vengano restituiti i soldi. Se sei un debitore della banca, ti chiedono di saldare immediatamente tutto il debito residuo. Se vorresti essere un debitore della banca per finanziare un’impresa, una casa ecc…, non ti prestano i soldi perché quelli che hanno già prestato ad altri non rientrano più (c.d. credit crunch).

Nello stesso periodo, per un mare di soldi che affluiscono negli Stati Uniti – intesi come mercati finanziari, Borsa, società di fondi statunitensi – un mare di imprese escono dagli Stati Uniti. Approfittando della globalizzazione targata Clinton (che per gli standard statunitensi era un politico di sinistra) portano i capitali e le fabbriche dove il lavoro costa meno: Asia, soprattutto, ma anche Sudamerica ed est europeo. Le sedi fiscali invece le spostano in paesi dove non pagano tasse. Quindi: molti statunitensi perdono il lavoro, la base industriale degli Stati Uniti progressivamente si riduce, i consumatori americani iniziano ad acquistare molte merci fabbricate all’estero, perché sono meno costose o perché ormai non esistono alternative. In particolare, assistiamo ad un’ autentica invasione di merci fabbricate in Cina, di cui puoi verificare la potenza semplicemente guardando l’etichetta di fabbricazione su qualunque oggetto acquistato che hai in casa, nel pc, all’orecchio o addosso. E, attenzione: in poco più di trent’anni le “cineserìe” – termine divenuto dispregiativo che definiva una cosa poco costosa ma dozzinale, farlocca, che si rompeva subito – vengono soppiantate da una valanga di oggetti che funzionano, alla portata di tutte le tasche. Noi abbiamo continuato da colonialisti a pensarli e trattarli come quelli delle borsette e delle tute col brand contraffatto, poveri muli da soma senza diritti che lavorano sempre, di notte, a natale, sempre. In realtà nel giro di pochi anni sono stati loro a colonizzare noi con le loro merci. Come consumatori occidentali, noi siamo già da tempo una colonia cinese.

Big Beautiful Bill, un patto col Diavolo

La disperazione economica di milioni di americani prevalentemente bianchi ha condotto al potere Trump – oltre ovviamente ad un mare di denaro a sostegno della sua, va detto poderosa, propaganda. E’ la seconda volta, tra l’altro non consecutiva, che ciò accade. Il primo risultato interno di questa rielezione è il Big Beautiful Bill, una legge di bilancio (della quale si possono leggere le caratteristiche principali qui) definita dalla deputata dem Ocasio-Cortez “a Deal with the Devil”, che demolisce il (già non universale) sistema di assistenza sanitaria pubblica, rende strutturale il taglio di tasse ai più ricchi, finanzia la costruzione di muri contro il Messico, stringe i cordoni della nuova immigrazione e punta all’espulsione di parte di quella già avvenuta. Un omaggio di pancia al suprematismo bianco che redistribuisce il denaro all’incontrario, dai poveri ai ricchi, da Robin Hood allo sceriffo di Nottingham. Non so davvero dire se Trump stia esagerando nel bastonare i “poveri” , dai quali anche è stato eletto. Non so dire se stia esagerando nel colpire le università, nel reprimere con la polizia incappucciata il dissenso, nell’ arricchire a ulteriore dismisura la già smisurata avidità dei padroni di fondi e bigtech, complimentati alla Casa Bianca in diretta dopo aver realizzato milioni di dollari di utile probabilmente a seguito di un insider tip. Non so dire se questa legge di bilancio, che secondo il Congressional budget office aumenterà il già enorme debito pubblico statunitense, lo affosserà per sempre provocando una fuga di capitali dagli Stati Uniti. Non so dire se i dazi sull’enorme quantità di merci importate e consumate dagli americani impenneranno i prezzi fino a far saltare in aria i bilanci familiari della classe media. Non so dire se le nazioni europee si muoveranno in ordine sparso cercando di negoziare dazi ridotti solo per sè, come purtroppo temo, e come sconsiglia Joseph Stiglitz, premio Nobel dell’Economia, che raccomanda all’Europa di rispondere unita allo schiaffo americano con una tassa selettiva sulle bigtech. Soprattutto, non so dire se questo programma e scenario disegnato da Philip Dick e da George Orwell farà rivoltare gli americani contro il tycoon, lo farà impicciare, destituire, semplicemente sostituire. Non so dirlo, perché già la possibilità di rielezione di Trump dopo il tentativo di colpo di stato a Capitol Hill mi sembrava distopica, esagerata, impossibile, e invece è avvenuta. Trump è un giocatore d’azzardo al quale spesso va bene, per cui fare pronostici sul suo destino è esso stesso pure un azzardo. Quel che è certo è che siamo in prossimità di una scadenza fondamentale:  9.200 (novemiladuecento) miliardi di dollari in titoli del Tesoro statunitensi, pari a un terzo di tutto il debito e quasi il trenta per cento del Pil statunitense, scadranno nel 2025(si veda qui).

Dal capitalismo al tecnofeudalesimo

Gli effetti del diabolico patto di bilancio potrebbero innescare una rivolta sociale: ma organizzarla in modo da farla diventare organica è una cosa troppo lontana dalla realtà distopica che ha portato Trump al potere, per avere qualche possibilità di attecchire. Invece, se la grande finanza privata e statale fuggisse in massa dagli Stati Uniti, Trump finirebbe nella polvere? Forse è l’unico fatto che potrebbe determinare la sua fine anticipata. Il suo potere potrebbe vacillare davvero solo se gli Stati Uniti venissero abbandonati dagli investitori mondiali che finanziano il suo smisurato debito: in primis la Cina e i grandi fondi. Verrebbe detronizzato (giacché ha già trasformato la presidenza in una specie di reame) non dalla rivoluzione dei sanculotti, ma dalla  “rivoluzione” dei feudatari: anzi, dei ricchi vassalli dei grandi feudatari contemporanei (che sono Amazon, Google, Microsoft e le altre grandi piattaforme), per seguire la definizione di Yanis Varoufakis secondo cui il tecnofeudalesimo del cloud è la evoluzione del capitalismo (leggi qui). Una affermazione di Varoufakis è particolarmente suggestiva in questo senso: “I cloudalist di oggi – proprietari del cloud capital – non si preoccupano nemmeno di produrre qualcosa e di vendere le loro cose. Questo perché hanno sostituito i mercati, non li hanno soltanto monopolizzati.” Quindi, dal profitto alla rendita. Il profitto come strumento della rendita, esponenziale, degli oligopolisti delle piattaforme digitali, che guadagnano perché sono loro stessi diventati il mercato.

Certo, i feudatari hanno prevalentemente nazionalità statunitense, ma la nazionalità per il capitale e per il cloud – feudalesimo non importa: si va dove conviene. L’impero americano è al crepuscolo. Sarà un declino terribile e recalcitrante, ma è già in uno stadio avanzato. Tramonta perché in termini finanziari ha spinto per globalizzare tutto ponendosi solo dal punto di vista della conquista di nuovi mercati, con un duplice risultato: primo, di fare affacciare al balcone del potere economico dei giganti statuali e privati che avrebbero finito, prima o poi, per sottrargli il monopolio della forza; secondo, di accelerare un processo di deindustrializzazione degli Stati Uniti che appare illusorio invertire con la politica dei dazi. L’impero ovviamente vorrebbe conservare il suo potere continuando a finanziare le guerre che gli consentano di controllare i giacimenti della ricchezza: ma per farlo sta usando una violenza vecchia, novecentesca, oltre che bruta. Questa violenza alienerà al vecchio impero anche le simpatie di chi tradizionalmente fa affari con lui: non per ragioni morali, ma perché di fronte alla perdita di potere economico gli amici di sempre si diradano usando il pretesto morale.

Invece, chi usa la violenza in senso neoimperiale, contemporaneo, post novecentesco, si è già sistemato: la Cina possiede, estrae e lavora più del 90 per cento delle terre rare, i metalli fondamentali nella produzione di touchscreen, lampade, hard disk, fibre ottiche e laser, apparecchiature mediche, batterie di auto elettriche, magneti permanenti, sensori elettrici, convertitori catalitici indispensabili per la produzione di tecnologie verdi come turbine eoliche e pannelli fotovoltaici.  Trump vuole invadere, visto che non è capace di comprarla, la ex gelida Groenlandia (territorio danese) che ha giacimenti di terre rare, gas e petrolio a portata di ex impero: ma la Cina è già arrivata anche lì (leggi qui) e ne sta di fatto già controllando da anni le risorse, approfittando del riscaldamento globale che ha reso più agevoli le rotte marine, trasformandole in un nuovo canale di Panama.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

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Nicola Cavallini

E’ avvocato, anche se lo stipendio fisso lo ha portato in banca, dove ha cercato almeno di non fare del male alle persone. Fa il sindacalista per colpa di Giorgio Ghezzi, Luciano Lama, Bruno Trentin ed Enrico Berlinguer. Scrive romanzi sui rapporti umani per vedere se dal letame nascono i fiori.

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