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A quando una cattedra dei poveri
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Poesia in cattedra
Vedere nella morte il sonno, nel tramonto
un triste oro, tale è la poesia
che è immortale e povera. La poesia
ritorna come l’aurora e il tramonto.
A volte nelle sere una faccia
ci guarda dal fondo di uno specchio;
l’arte deve essere come quello specchio
che ci rivela la nostra propria faccia.
(Arte poetica, in Jorge Luis Borges, Poesie 1923-1976, Milano 1980, 149).
Poesia in cattedra. È stato questo il desiderio di papa Francesco che, ringraziando p. Antonio Spadaro per la pubblicazione dei sui scritti sull’importanza della poesia, con un autografo scriveva: «Caro fratello, viva la poesia! Sono contento che tu abbia raccolto i testi che in questi anni ho scritto sull’importanza della poesia. Mi piacerebbe tanto che la poesia salisse in cattedra nelle nostre Università! Dobbiamo recuperare il gusto per la letteratura nella nostra vita, ma anche nella formazione, altrimenti siamo come un frutto secco. La poesia ci aiuta tutti a essere umani, e oggi ne abbiamo tanto bisogno» (Viva la poesia, Milano, Edizioni Ares, 2025).
Quella tra Jorge Luis Borges e papa Bergoglio è stata un’amicizia nata da un incontro del 1965, quando il futuro papa invitò lo scrittore a tenere alcune lezioni nel collegio in cui insegnava letteratura e scrittura creativa. Bergoglio poi curò anche un volume in cui erano inclusi talune sue opere ancora inedite assieme ai racconti degli alunni.
Non sorprende allora che nel 2024, Francesco indirizza due Lettere, una sulla formazione dei sacerdoti e una ai poeti, nelle quali esprime la sua visione della poesia e della letteratura. «Grazie per il vostro servizio», dice Francesco ai poeti, facendo comprendere come quello della poesia sia un vero e proprio “servizio” alla nostra umanità. Il poeta è porta dell’immaginazione, l’aiuta a superare gli angusti confini dell’io, e ad aprirsi alla realtà complessa e sfaccettata con la «genialità di un linguaggio nuovo, di storie e immagini potenti».
La poesia ci aiuta a «immaginare in modo nuovo la nostra vita, la nostra storia e il nostro futuro». E questo vale anche per la nostra esperienza di Dio. L’esperienza che facciamo di lui è «sempre “debordante”: tu non puoi prenderla, la senti e va oltre; è sempre debordante, l’esperienza di Dio, come una vasca dove cade l’acqua di continuo e, dopo un po’, si riempie e l’acqua straripa, deborda.» (https://www.osservatoreromano.va/it/news/2025-03/quo-052/servizio-all-umanita.html)
Debordante pure il mistero di Dio nei poveri, che è stato al centro del suo magistero petrino. Essi «oggi e sempre sono i destinatari privilegiati del Vangelo… Occorre affermare senza giri di parole che esiste un vincolo inseparabile tra la nostra fede e i poveri. Non lasciamoli mai soli… Dalla nostra fede in Cristo fattosi povero, e sempre vicino ai poveri e agli esclusi, deriva la preoccupazione per lo sviluppo integrale dei più abbandonati della società, la loro inclusione sociale…
Per la Chiesa l’opzione per i poveri è una categoria teologica prima che culturale, sociologica, politica o filosofica. Dio concede loro “la sua prima misericordia”. Questa preferenza divina ha delle conseguenze nella vita di fede di tutti i cristiani, chiamati ad avere “gli stessi sentimenti di Gesù” (Fil 2,5). Ispirata da essa, la Chiesa ha fatto un’opzione per i poveri intesa come una “forma speciale di primazia nell’esercizio della carità cristiana, della quale dà testimonianza tutta la tradizione della Chiesa” (Evangelii Gaudium nn. 48; 186 198)».
Papa Francesco ha voluto così con il suo magistero avviare processi che aprissero le coscienze e l’agire pastorale delle comunità tenute a porsi in ascolto del magistero dei poveri: i poveri ci fanno cristiani.
A quando una cattedra dei poveri?
Jorge Luis Borges si mise in ascolto dei poveri quando nel 1930 scrisse la biografia del poeta criollo Evaristo Carriego (1883-1912) figura popolare dei sobborghi di Buenos Aires, di cui faceva parte il quartiere Palermo all’inizio del secolo: «Credo che egli sia stato il primo spettatore dei nostri quartieri poveri e che, per la storia della nostra poesia, sia questo l’importante. Il primo, cioè lo scopritore, l’inventore» (Evaristo Carriego, in Tutte le Opere, I Meridiani, Mondadori, 2005, 241).
Una cattedra, quella dei poveri, che chiama all’ascolto perché secondo Borges essere poveri comporta «un più immediato possesso della realtà».
Egli scrive: «Ma a ben guardare, è facile notare che i quartieri più poveri sono di solito i più spenti e che vi fiorisce una spaurita dignità. Carriego credeva di avere un debito verso il suo rione povero: debito che lo spirito codardo del tempo traduceva in rancore, ma che lui avvertiva come una forza.
Essere poveri implica un più immediato possesso della realtà, uno scontrarsi con il primo gusto aspro delle cose: modo di conoscere che sembra mancare ai ricchi, come se ogni cosa giungesse loro filtrata. Tanto indebitato verso il suo ambiente si credeva Evaristo Carriego, che in due momenti distinti della sua opera si scusa di scrivere dei versi ad una donna, come se la considerazione della povertà amara dei suoi vicini fosse l’unico impiego lecito del suo destino… Carriego, uomo che della sua vita fece una continua conversazione e un interminabile camminare» (J. L. Borges, Evaristo Carriego, in Tutte le Opere, Mondadori, 2005, 197-203-204).
Alla scuola dei poveri, un atto di coraggio
La cattedra dei poveri è il titolo di un libro scritto da Umberto Vivarelli (1919-1994) frutto di un’esperienza, vissuta nel contatto quotidiano con la povera gente. Lo legava una amicizia profonda a don Primo Mazzolari del quale fu erede spirituale oltre che collaboratore della rivista Adesso, fondata da don Primo nel 1949: «Adesso, non domani… rimandare a domani è neghittosità e vigliaccheria. Adesso è un atto di coraggio».
Il Regno di Dio è fatto di tre cose “immense e piccole” ad un tempo: “il Vangelo, la Chiesa e i Poveri”. Queste tre realtà che costituiscono il mistero del Regno presente nella storia, furono ricordate da p. Umberto Vivarelli in un’omelia su don Primo nel 1959 e riportate sul quindicinale Adesso XI, 9 (1959), 6.
Umberto Vivarelli seguì per vent’anni don Primo e negli anni’50 fu parroco anche nelle nostre terre, in una povera e abbandonata parrocchia della diocesi di Comacchio, a Corte Cascina. A Milano poi negli anni ’70 partecipò con entusiasmo all’associazione Mani Tese e condivise negli ultimi trent’anni con p. Turoldo un lungo periodo di vita comunitaria a Sotto il Monte.
Egli scrisse che se don Primo avesse potuto fare ai suoi parrocchiani l’ultima confidenza del suo cuore sacerdotale e della sua paternità, probabilmente avrebbe ricordato queste tre cose: il Vangelo, la sua gloria; la chiesa, il suo dramma; i poveri, la sua grandezza.
«Ho vissuto a lungo in mezzo alla povera gente: operai, contadini, braccianti, emarginati. È stata una vera grazia. Tanto mi hanno insegnato, assai più di qualsiasi scuola. Se qualcosa ho potuto dare loro non fu che una «sapienza», non certo cultura, che andavo insieme scoprendo e leggendo, dentro la loro vita, la vita del Povero»» (La cattedra dei poveri, CENS srl – Coop. Edizioni Nuova Stampa, Milano 1984, 49).
La cattedra dei poveri
Questa cattedra è itinerante; un luogo non luogo perché è ovunque attorno a noi, quando la si considera all’interno di una dinamica più ampia di relazioni, interrogazioni, e comunicazioni in cui l’altro viene prima di noi, ma è per noi come un messaggero; uno straniero portatore di un senso nascosto, che, se accolto, è capace di riorientare il nostro sguardo sul mondo, sul valore dell’umano e di trasformare la nostra vita aprendola a ciò che le manda. Gli rivela la sua claudicanza.
«Il Popolo di Dio, soprattutto il popolo dei poveri che sono la carne ultima e crocifissa di Cristo nella storia, che posto occupa, che ruolo svolge, quale parola esprime nelle nostre chiese e nelle nostre assemblee? Può concretamente farsi conoscere, può “dirsi” per quanto è, sente, vive, soffre, pensa, spera, vuole? I poveri dovrebbero avere piena cittadinanza almeno al pari di altri – scribi, dottori, presbiteri – se ancora non siamo riusciti a dare loro il primo posto poiché, per diritto evangelico, la gerarchia mondana è capovolta e “gli ultimi sono i primi”.
Non dovremmo meravigliarci e tanto meno scandalizzarci se i poveri, dopo secoli di mutismo imposto e avvilente, non rispettano le regole del gioco quando sono ammessi alla parola. La loro fatica a parlare in fondo è ancora più rispettabile della nostra fatica a farli parlare.
Anzi il compito più urgente e difficile per coloro che da troppo tempo “siedono sulla cattedra” è quello di saper ascoltare i poveri. Dico di più: andare a scuola della loro sofferenza ed esperienza, della loro lotta e delle loro sconfitte, quel carico di umanità e sapienza che è appunto la cultura che ci manca, e sulla quale si potrà costruire la nuova cultura» (La cattedra dei poveri, CENS srl – Coop. Edizioni Nuova Stampa, Milano 1984, 68-69).
Nei poveri, il segreto della speranza
Don Vivarelli ricorderà pure che il manifesto dei poveri sono le beatitudini del Regno. «Benedetti coloro che rifiutano l’idolo del denaro e dello star bene per saper combattere la schiavitù della miseria: essi preparano un futuro di vita e non di morte.
Benedetti coloro che non affidano la pace alla forza militare, né l’onestà al potere della legge, né la giustizia alla rivolta della violenza: preparano una terra non divisa da confini né frantumata da razze e ideologie ma radunata nell’unica fraternità umana…
Benedetti da tutte le generazioni future questi pazzi che non si stancheranno di voler vivere questa follia: saranno gli unici sapienti che rovesceranno i troni dei potenti e glorificheranno gli umiliati e gli offesi… La speranza non è aspettare ma anticipare. I poveri sono coloro che hanno vinto e continuamente vincono la idolatria delle cose; della libertà, del potere. Dentro, come dice Bernanos, essi portano “il segreto della speranza”. Il futuro è veramente Dio che viene attraverso la nostra povertà» (ivi, 78-79; 74).
Al centro della vita pastorale della chiesa i poveri
L’occasione per ridestare questa coscienza potrebbe essere il Convegno che si terrà nella nostra Chiesa diocesana di Ferrara-Comacchio a conclusione del Giubileo della speranza, in corrispondenza della X Giornata mondiale dei poveri, domenica 16 novembre 2025 e che avrà per tema: Sei tu, mio Signore, la mia speranza (Sal 71,5).
Sorprendenti sono stati per me alcuni passaggi del messaggio di papa Leone XIV, che mi sembrano un passo in avanti circa la riflessione sull’importanza dei poveri nella vita pastorale di una chiesa e delle comunità cristiane.
Nel messaggio si sottolinea che i segni di speranza sempre più diventano oggi «le case-famiglia, le comunità per minori, i centri di ascolto e di accoglienza, le mense per i poveri, i dormitori, le scuole». Si ricorda poi che i poveri «non sono un diversivo per la Chiesa, bensì i fratelli e le sorelle più amati, perché ognuno di loro, con la sua esistenza e anche con le parole e la sapienza di cui è portatore, provoca a toccare con mano la verità del Vangelo.
La Giornata mondiale dei poveri intende ricordare alle nostre comunità che i poveri sono al centro dell’intera opera pastorale. Non solo del suo aspetto caritativo, ma ugualmente di ciò che la Chiesa celebra e annuncia. Dio ha assunto la loro povertà per renderci ricchi attraverso le loro voci, le loro storie, i loro volti. Tutte le forme di povertà, nessuna esclusa, sono una chiamata a vivere con concretezza il Vangelo e a offrire segni efficaci di speranza… I poveri non sono oggetti della nostra pastorale, ma soggetti creativi che provocano a trovare sempre nuove forme per vivere oggi il Vangelo».
In tale prospettiva i consigli pastorali delle nostre comunità non dovranno forse interrogarsi se i poveri sono al centro delle loro riflessioni, interessi motivandone poi le scelte dell’agire?
Non si dovrà poi riportare questo interrogativo al convegno di novembre per fare discernimento comunitario con la città onde verificare risorse e fragilità, attenzioni e indifferenze circa la presenza dei poveri tra noi?
Quanto mai significativo in tal senso è stato pure il fatto che papa Leone XIV, nell’incontro con i sacerdoti di Roma, (12 giugno 2025) abbia indicato come figure rappresentative della carità pastorale e dello spirito profetico del ministero sacerdotale figure di preti come don Lorenzo Milani, don Primo Mazzolari, e don Luigi di Liegro, il fondatore della Caritas italiana nel 1971 e uno degli ispiratori del convegno sui Mali di Roma del 1974.
Il Convegno “Carità e Giustizia nella diocesi di Roma”
Nell’ottobre dell’anno scorso si è ricordato nella diocesi di Roma il 50° anniversario del Convegno Carità e Giustizia nella diocesi di Roma, (1974-2024).
In quegli anni (1971-1975) p. Silvio Turazzi, missionario ferrarese nella RdCongo, viveva, dopo l’incidente che lo aveva costretto in carrozzina, tra i baraccati di Roma all’Acquedotto Felice e a Nuova Ostia. Egli ci ha lasciato un resoconto della situazione e delle lotte per la casa di quel periodo: un ciclostilato di 147 pagine che ora è pubblicato nel Quaderno 55 del Cedoc Sfr.
Erano pure giunte dall’India tra i baraccati le suore di Madre Teresa di Calcutta e altri sacerdoti tra cui don Roberto Sardelli (1935-2019). Il Convegno del 1974 fu preceduto da una Lettera ai cristiani di Roma, scritto da don Roberto con le famiglie nello stile comunitario di don Milani e come don Lorenzo egli fondò la sua Scuola 725, il numero della baracca dell’Acquedotto Felice. Seguirono altre lettere, al Sindaco che fece molto scalpore e una Lettera al vescovo di Roma.
Di nuovo in ascolto, per renderci presenti
Papa Francesco presente alla chiusura del Convegno per il 50° in San Giovanni in Laterano (25 ottobre 2024) disse: «Allora la Chiesa [di Roma] si mise in ascolto delle tante sofferenze che la segnavano, invitando tutti a riflettere sulle responsabilità dei cristiani di fronte ai mali della chiesa, della città, entrando in dialogo con essa e scuotendo la coscienza civile, politica e cristiana di tanti…
Siamo ancora una volta davanti a una triste realtà: anche oggi e ancora oggi sono tante le disuguaglianze e le povertà che colpiscono molti abitanti della città. Non può essere solo dato statistico: sono persone, sono volti di nostri fratelli sorelle, sono storie che ci interpellano: cosa possiamo fare noi?…
Ci vuole una rete sociale solidale nella città, per ricucire gli strappi. La chiesa è chiamata ad assumere uno stile che mette al centro coloro che sono segnati dalle diverse povertà: poveri di cibo, poveri di speranza, affamati di giustizia, assetati del futuro, bisognosi di legami veri. Rendiamoci presenti verso i poveri e diventiamo segno della tenerezza di Dio».
Il magistero dei poveri ci ridà al vivo Cristo
Don Roberto Sardelli durante la sua formazione incontrò don Lorenzo Milani e in un soggiorno in Francia approfondì la conoscenza dei preti operai. Nel 1968 fu assegnato alla parrocchia di S. Policarpo accanto alla borgata dell’Acquedotto Felice. Qui scoprì il magistero della chiesa dei poveri.
Così scriveva di questa esperienza: «Questa è la chiesa del silenzio esistente a Roma e alla quale non diamo credito di magistero. Non interpellata, non ascoltata. Ma capace di ridarci il senso della potenza del Signore che si afferma attraverso la debolezza della creatura (1 Cor. 1,20-31)…
Ma quando mi spogliai di ogni privilegio e mi feci povero tra i poveri, ricevetti da questi il più grande servizio che potessi aspettarmi: ascoltai e mi fecero conoscere il giudizio che essi davano su me e sulla chiesa. Mi misero nudo e fui costretto a confidare in Dio là ove credevo di poter fare da me. Questo è il più alto atto del loro magistero. Guai se lo evitassimo per paura» (Lettera ai cristiani di Roma).
Profeta è il povero, è l’uomo che grida amando
A conclusione del documento ciclostilato di p. Silvio Turazzi sta un testo poetico ricapitolativo della sua esperienza vissuta insieme alla gente che abitava nella periferia di Roma: «Ha un valore particolare. È un momento del cammino di un popolo che vuole vivere: è la voce dei poveri che indica una via da seguire».
Una consegna, un impegno anche per noi oggi.
Il popolo continua il suo cammino.
Ascoltare la sua voce, le sue aspirazioni
è sapienza.
Nel cittadino, il figlio di Dio,
è la radice della democrazia.
La fiducia nasce dalla vita stessa.
Il mondo, l’umanità è un cantiere;
l’attrito, il contrasto c’è;
superarlo è possibile: nella fedeltà alla vita.
L’istituzione è un modo di organizzarsi
ha bisogno continuamente
di essere aggiornata
secondo la dinamica dell’uomo.
Fiducia nell’uomo;
Volere la sua pienezza,
volerlo signore della città;
perché il suo cuore
è legato alla vita;
di questo abbiamo bisogno.
Il popolo parla
attraverso la vita:
nel gemito,
nella piazza,
nella lotta.
Il popolo vuole vivere.
Il profeta,
è popolo che ama,
che stimola
a camminare
verso la luce;
è una parola della Vita.
Profeta è il povero
è l’uomo che grida amando;
è la voce della terra;
sono i movimenti
che creano lo Spazio
alla Vita.
Vi sono figli di Dio,
che, nell’ascolto della Vita,
colgono la parola,
la Volontà del Padre.
Non lo conoscono,
lo ‘sentono’
nel sangue.
Essi lottano oggi,
nella Speranza
che prepara il Domani.
La città è spazio della Vita.
Amare la città, il quartiere,
è un modo
di accogliere e di entrare
nella famiglia di Dio.
Una parte
Del popolo di Dio,
i cristiani,
portano nella miseria e nel limite
un Segno
della Sua presenza,
Cover: immagine tratta da https://pixabay.com/it/images/search/free%20image/
Per leggere gli altri articoli di Presto di mattina, la rubrica quindicinale di Andrea Zerbini, clicca sul nome della rubrica o il nome dell’autore.
Pur non essendo credente, condivido questo modo di vedere la realtà, anche se personalmente non comprendo il concetto di “poveri” in sé. Penso che possiamo essere tutti poveri anche se ricchi economicamente e allora mi serve il.concetto di sofferenza. Tutti, tutte, possiamo vivere la sofferenza e tutti se siamo capaci di accoglierla, la.nostra e quella degli altri, contribuiamo a una società più coesa e di pace. Condivido poi profondamente il discorso sulla poesia, che allargo all’arte. È la.poesia che ci fa accogliere la sofferenza e ci fa entrare in comunione con il bello della vita oltre al malessere contingente.