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Fino al 26 marzo è possibile fare visita al genio di Maurits Cornelis Escher presso lo Spedale degli Innocenti a Firenze. È possibile entrare nello spazio museale al piano terra dello storico brefotrofio costruito nel primo Quattrocento su progetto di Filippo Brunelleschi e per primo incontrare il buio di un breve corridoio. Sono andata avanti a passi incerti seguendo la voce registrata che illustra l’opera dell’artista olandese, incisore e grafico scomparso nel 1972 ma ancora attualissimo nella sua visione multiprospettica della realtà.

Non so agli altri visitatori, a me l’assenza di luce ha tolto ogni filtro, ha fatto tabula rasa di ogni resistenza ricettiva. Mi sono messa davanti alle opere – circa 200 – e una dopo l’altra ho lasciato che occupassero il campo visivo. Proprio così: un mondo immaginifico, i mondi che Escher mette in contatto tra loro – tra arte e matematica, tra fisica e design – hanno occupato l’ampiezza del mio sguardo, come se aspettassi da tempo una visione così totale.

Prima i paesaggi italiani riprodotti nelle opere  delle prime sale, con le vedute dei luoghi dove Escher ha vissuto o dove è passato negli anni della sua permanenza nel bel Paese, tra il 1922 e il 1935. Immagini della Toscana, di Roma, della Campania, immagini geometrizzate e tuttavia piene di lirismo e di un languore implicito che mi è sembrato di percepire con immediatezza.

M.C. Escher, Metamorphosis, 1939-1940

Poi opere come Metamorphosis, che dipana per i suoi quattro metri di lunghezza la lusinga della trasformazione dalle parole alle forme geometriche, agli animali che escono dal loro alveare per divenire pesci e poi uccelli librati nell’aria. Uccelli che nello stilizzarsi si deformano in cubi e finalmente in case arroccate attorno a una chiesa, da cui esce una scacchiera e finalmente il reticolo dei suoi quadrati si dissolve nelle parole iniziali da cui era partita l’opera. Anzi, è la stessa parola Metamorphose ripetuta in orizzontale e in verticale che forma un reticolo analogo a quello della scacchiera. Ho dovuto camminare a lato della lunga xilografia e ho fruito delle immagini come se mi parlassero del tempo che scorre: del suo sviluppo lineare e insieme della sua circolarità, come dire che diventiamo continuamente altro ma dentro un intervallo di esperienze pronte a riprodursi ciclicamente.

Quando mi sono accostata a opere quali Mani che disegnano o Relatività, ho percepito la forza espressiva della tridimensionalità che interseca piani di profondità diversa e volumi intrecciati dagli effetti paradossali.

Nel primo quadro sporgono da un piano di fondo due mani che si fronteggiano, entrambe impugnano una matita, ma è una sola che è all’opera per riprodurre l’altra nel medesimo atto di scrivere.

M.C.Escher, Mani che disegnano, 1948

Nella seconda si vedono delle figure umane salire le scale in ogni direzione, seguendo il movimento di ognuna si arriva a vedere uno scorcio sul mondo di fuori diverso ogni volta, ora sviluppato in orizzontale, ora in verticale. Come dire, è sempre questione di punti di vista.

M.C. Escher, Relatività, 1953

Quando comincio a realizzare che la Weltanshauung del mio amato Pirandello non è bastata più all’esile signore qui riprodotto in gigantografia, alto e barbuto e che si chiama Escher, mi invade un beato senso di familiarità. Sono a casa. Mi muovo leggera per entrare nella camera degli specchi dove la mia immagine si duplica in ogni direzione. Mi paro davanti a un’opera costituita da un pannello translucido che forma bolle qua e là a forma di mezze sfere riflettenti. Lì ci sono tutte le immagini fondamentali che posso avere di me: frontale non deformata sulla superficie piana, a testa in su ma deformata e come rimpicciolita sulle semisfere concave, a testa in giù in quelle convesse. Sono le mie io, che dipendono dalla relatività e dalla mutevolezza delle realtà di cui sono fatta.

La forza di Escher è avere coinvolto le scienze, di averle rese complici di una epistemologia costruita sulla capacità deformante del soggetto nel suo guardare il mondo. Lipersguardo, se posso chiamarlo così, è lo strumento per vedere le sue opere. Servono abitudine speculativa e immaginazione, più che i cinque sensi.

Scatto poche foto, non riesco a selezionare tra le opere che mi parlano con forza. Mentre esco fotografo uno spicchio di cielo che si infila nel chiostro dello Spedale e rimbalza sulla sfera gigantesca sistemata in un angolo.

Sotto la grandine vado al mio appuntamento all’Osteria dei Centopoveri. Sono attesa da una decina di persone sconosciute che vedrò tra poco. Di loro so che vengono da paesi diversi, me ne ha parlato la persona che mi ha dato il passaggio in auto fino a Palazzo Vecchio e che oggi sarà festeggiata durante il pranzo. Seduti a un tavolo per dodici ci scambiamo nomi e cortesie di approccio, poi ognuno ordina i piatti che desidera.

Durerà un paio di ore l’abbondante pranzo fatto di voci e accenti e mentalità diverse. Tra le domande gentili che mi vengono rivolte, una mi fa davvero sorridere: “Ti è piaciuta Firenze?”. Dovrei dire che la conosco da tanti anni, che ci sono venuta una numero imprecisato di volte, molte portando le classi in viaggio di istruzione. Ma dico solo “Si, anche stavolta mi è piaciuta moltissimo, ho visto una mostra che mi ha davvero colpita.”

E il discorso delle signore svia sulla bontà dei piatti, su alcune ricette delle loro terre, l’Albania, il Marocco, Cuba. Due sole commensali sfoggiano la parlata toscana, la lingua del sì della nostra storia linguistica. E di parola in parola vedo le nostre figure piegarsi su piani ora concavi ora convessi, come se fossimo entrati tutti nelle opere di Escher. Un gioco serissimo, in cui ognuno forgia l’immagine dell’altro mettendoci la lente deformante delle aspettative che aveva, sommate alle impressioni provvisorie che riceve. Tutte piccole facce del poliedro che ognuno è propenso a mostrare di sé in un momento così, a tavola, in un giorno di pioggia.

Per leggere gli altri articoli e indizi letterari di Roberta Barbieri nella sua rubrica Vite di cartaclicca [Qui]

Cover: fotografia dell’autrice

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Roberta Barbieri

Dopo la laurea in Lettere e la specializzazione in Filologia Moderna all’Università di Bologna ha insegnato nel suo liceo, l’Ariosto di Ferrara, per oltre trent’anni. Con passione e per la passione verso la letteratura e la lettura. Le ha concepite come strumento per condividere l’Immaginario con gli studenti e con i colleghi, come modo di fare scuola. E ora? Ora prova anche a scrivere

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Dopo molti mesi di pensieri, ripensamenti, idee luminose e amletici dubbi, quello che vi trovate sotto gli occhi è il Nuovo Periscopio. Molto, forse troppo ardito, colorato, anticonvenzionale, diverso da tutti gli altri media in circolazione, in edicola o sul web.

Se già frequentate  queste pagine, se vi piace o almeno vi incuriosisce Periscopio, la sua nuova veste grafica e i nuovi contenuti vi faranno saltare di gioia. Non esiste in natura un quotidiano online con il coraggio e/o l’incoscienza di criticare e capovolgere l’impostazione classica di questo “il giornale” un’idea (geniale) nata 270 anni fa, ma che ha introdotto  dei codici precisi rimasti quasi inalterati. Nemmeno la rivoluzione digitale, la democrazia informava, la nascita della Rete, l’esplosione dei social media, hanno cambiato di molto le testate giornalistiche, il loro ordine, la loro noia.

Tanto che qualcuno si è chiesto se ancora servono, se hanno ancora un ruolo e un senso i quotidiani.  Arrivano sempre “dopo la notizia”, mettono tutti lo stesso titolo in prima pagina, seguono diligentemente il pensiero unico e il potente di turno, ricalcano in fotocopia le solite sezioni interne: politica interna, esteri, cronaca, economia, sport…. Anche le parole sembrano piene di polvere, perché il linguaggio giornalistico, invece di arricchirsi, si è impoverito.  Il vocabolario dei quotidiani registra e riproduce quello del sottobosco politico e della chiacchiera televisiva, oppure insegue inutilmente la grande nuvola confusa del web.

Periscopio propone un nuovo modo di essere giornale, di fare informazione. di accostare Alto e Basso, di rapportarsi al proprio pubblico. Rompe compartimenti stagni delle sezioni tradizionali di quotidiani. Accoglie e dà riconosce uguale dignità a tutti i generi e tutti linguaggi: così in primo piano ci può essere una notizia, un commento, ma anche una poesia o una vignetta.  Abbandona la rincorsa allo scoop, all’intervista esclusiva, alla firma illustre, proponendo quella che abbiamo chiamato “informazione verticale”: entrare cioè nelle  “cose che accadono fuori e dentro di noi”, denunciare Il Vecchio che resiste e raccontare Il Nuovo che germoglia, stare dalla parte dei diritti e denunciare la diseguaglianza che cresce in Italia e nel mondo. .

Con il quotidiano di ieri, così si diceva, oggi ci si incarta il pesce. Non Periscopio, la sua “informazione verticale” non invecchia mai e dal nostro archivio di quasi 50.000 articoli (disponibile gratuitamente) si pescano continuamente contenuti utili per integrare le ultime notizie uscite. Non troverete mai, come succede in quasi tutti i quotidiani on line,  le prime tre righe dell’articolo in chiaro… e una piccola tassa per poter leggere tutto il resto.

Sembra una frase retorica ma non lo è: “Periscopio è un giornale senza padrini e senza padroni”. Siamo orgogliosamente antifascisti, pacifisti, nonviolenti, femministi, ambientalisti. Crediamo nella Sinistra (anche se la Sinistra non crede più a se stessa), ma non apparteniamo a nessuna casa politica, non fiancheggiamo nessun partito e nessun leader. Anzi, diffidiamo dei leader e dei capipopolo, perfino degli eroi. Non ci piacciono i muri, quelli materiali come  quelli immateriali, frutto del pregiudizio e dell’egoismo. Ci piace “il popolo” (quello scritto in Costituzione) e vorremmo cancellare “la nazione”, premessa di ogni guerra e  di ogni violenza.

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