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Epilogo del caso Carife:
da grandi poteri derivano grandi irresponsabilità

Epilogo del caso Carife: da grandi poteri derivano grandi irresponsabilità

Con un pezzo comparso su questo giornale nel novembre 2021 (si può leggere qui) prendevo atto con sconcertata desolazione dell’accordo tra Banca d’Italia e colui che è stato direttore generale di Carife dal 2000 fino al 2009. Accordo con il quale la stessa Banca d’Italia, dopo aver proclamato a mezzo stampa che avrebbe chiesto un centinaio di milioni di danni a CdA, Sindaci, Revisori, Direttori, Presidenti e giù giù fino ai commessi, ha liberato l’ex DG (nel 2019) in cambio della miseria di 500.000 euro; con ciò depotenziando tutta la parte civilistica delle azioni di risarcimento nei confronti dei presunti responsabili “minori” del dissesto della banca. Oggi assistiamo all’epilogo. Nel versante dell’accusa penale ancora aperto – quello per bancarottai Pubblici Ministeri (quelli che hanno il ruolo e la funzione di pubblica accusa) hanno chiesto l’archiviazione delle accuse contro i nove indagati. Ripeto: chi istituzionalmente dovrebbe motivare l’accusa nei confronti degli indagati, ha detto che non ci sono ragioni per andare avanti. Si archivi.

 

Sembra un episodio di Topolino. Sei il custode di una ricca casa. Un giorno, un poliziotto ti accusa di avere dissipato le ricchezze di famiglia, e ti inserisce dritto in una banda Bassotti di presunti dissipatori come te. Dopo dieci anni il capo del poliziotto dice al giudice che non hai commesso nessuno dei reati contestati. Nel frattempo, la casa in questione è stata espoliata di tutti i suoi beni rimasti, e ce n’erano ancora tanti. Sparisce tutto: denari, risparmi, argenteria di famiglia e metà dei dipendenti. A fare sparire tutto però, apprendiamo oggi, non sono stati i custodi, la presunta banda Bassotti. Al massimo possono essere accusati di avere dato la chiave di casa alle persone sbagliate. Già. E chi sono le persone sbagliate?

Beh. Basta guardare i nudi fatti. All’atto del commissariamento di Banca d’Italia (maggio 2013), Carife aveva 350 milioni di patrimonio. Dopo due anni di commissariamento, di quel patrimonio rimangono le briciole. Il minimo è fare scroscianti applausi ai commissari per l’oculatissima gestione. Segnalo che costoro avrebbero per compito istituzionale quello di preservare il patrimonio dell’istituto che gestiscono.

A questo punto, a buoi già quasi tutti scappati dalla stalla, su proposta di Banca d’Italia (evidentemente risoltasi al male minore, dopo la formidabile gestione dei suoi emissari) un Fondo privato – non pubblico, privato – con dentro i soldi di tutte le banche (Fondo Interbancario Tutela Depositi) delibera di mettere 300 milioni in Carife, per ricapitalizzarla e salvare i risparmi dei clienti. Gli azionisti dicono “va bene” (luglio 2015). Eppure questi soldi tardano ad arrivare. Si comincia a capire che non arriveranno mai quando il governo Renzi diffonde la bufala che la Commissaria Europea alla concorrenza avrebbe scritto che questa specifica operazione è vietata, perchè sono fondi pubblici (come scrivevamo già qui e anche qui).

Abbiamo chiesto pubblicamente all’onorevole Luigi Marattin di esibire questo documento della commissaria europea.  Lui ne dovrebbe sapere qualcosa, visto che allora era il consigliere economico di Palazzo Chigi e grande propugnatore dell’operazione di scioglimento in acido di Carife, nostro concittadino di formazione, ex assessore, oggi deputato di Italia Viva e genio dell’economia. Non avremo mai nè la risposta nè il documento. Non avremo la risposta, perchè non siamo degni di lui. Non avremo il documento, perchè un documento che contenga questo divieto non esiste.

Questo infine sanciscono i magistrati inquirenti: da una parte abbiamo alti funzionari di banca dalla gestione disinvolta, un organo di vigilanza prima distratto poi draconiano, commissari di dubbio spessore e un governo ballista che, ciascuno per la propria quota di responsabilità, hanno contribuito a smantellare pezzo dopo pezzo la principale realtà economica del territorio. Di costoro, non paga nessuno. Dall’altra parte abbiamo tutti i cittadini e i lavoratori che hanno riposto soldi e fiducia nella banca del loro territorio. Costoro pagano tutti senza avere avuto alcuna colpa.

“Da grandi poteri derivano grandi responsabilità” è una frase divenuta celebre nelle serie Marvel dell’Uomo Ragno. Evidentemente Peter Parker non ha mai volteggiato per i tetti di Ferrara, altrimenti avrebbe dovuto aggiornare la massima.

Cover: l’Uomo Ragno (licenza Creative Commons, https://creativecommons.org/licenses/by-sa/2.0/)

LE PAROLE CI PARLANO
Mantova Festivaletteratura 2023. Da mercoledì 6 a domenica 10 settembre

Anche quest’anno, come facciamo da un decennio a questa parte, Periscopio seguirà con passione e interesse il Festivaletteratura.  Per il nostro giornale, saranno a Mantova  le inviate Roberta Barbieri e Maria Calabrese, per seguire dal vivo gli eventi più interessanti, realizzare interviste  e partecipare alle presentazioni per la stampa. 
Lunga vita, dunque, a Festivaletteratura, il padre-madre di tutti i festival.
La Redazione di Periscopio

Mantova Festivaletteratura 2023. Da mercoledì 6 a domenica 10 settembre

Trovare le parole è la sfida che attraversa la ventisettesima edizione di Festivaletteratura che si terrà a Mantova da mercoledì 6 a domenica 10 settembre, e che arriva in un momento storico in cui dare nome alle cose e a quanto ci succede intorno sembra sempre più arduo e ingannevole.

Mettere insieme le parole, provare a ricucirne il senso, misurarne la “tenuta” e farne dialogo è lo sforzo che da sempre impegna Festivaletteratura e si esprime nel chiamare autrici e autori da tutto il mondo, nell’aprire sempre nuovi spazi di ascolto e di scambio, nel tentare operazioni di aggancio più o meno ardite tra linguaggi e narrazioni diverse per leggere – attraverso la letteratura – una realtà che parla e ci sembra non dire.

Questa ricerca nell’edizione 2023 prende la forma di un possibile rovesciamento dei canoni sotto la spinta di generi, cittadinanze e appartenenze che si vanno ridefinendo; di un’inedita alleanza con le arti, per dare più forza ed evidenza alle parole e riportarle in piazza; di una partita da riaprire con la letteratura e la storia del nostro recente passato; di istanze sociali che premono per rientrare nel discorso collettivo; di modalità più intense e raccolte di confronto tra autori e lettori; di ragazze e ragazzi che per primi sentono l’urgenza di ritrovarsi nelle parole e al Festival arrivano desiderosi di interrogarle, ridiscuterne il significato, aprirle alla propria esperienza.

Spingersi in questa direzione porta Festivaletteratura anche a uscire dai suoi luoghi più “tradizionali” muovendosi dentro e fuori la città e insieme a lavorare sui tempi lunghi con centri di studio, musei e altre realtà per far sì che le parole restino e continuino a raccontare.

il racconto dei subcontinenti

Dall’India alle Americhe, dalle molte anime dell’Europa al Mediterraneo, il ricco panorama internazionale del Festival è un crocevia di presenze ormai emancipato da canoni letterari nazionali ed etichette della letteratura postcoloniale: prestiti, rimandi, citazioni e derivazioni rendono oggi ogni opera letteraria patrimonio comune. In una vasta proposta di narrativa che guarda a diversi contesti geografici, l’attenzione si rivolge soprattutto a scrittrici e scrittori del subcontinente indiano, capaci di raccontarne le molteplici e spesso tragiche contraddizioni, come lo srilankese Shehan Karunatilaka, vincitore del Man Booker Prize 2022, l’astro nascente del noir indiano Deepti Kapoor o Pankaj Mishra, tra i più brillanti saggisti e giornalisti indiani dei nostri giorni.

In un momento in cui è fondamentale ritrovare nella letteratura una risposta alla brutalità cieca della guerra, delle barriere e dei regimi autoritari, torna a Mantova il Premio Nobel per la letteratura Olga Tokarczuk; largo spazio viene dato alle memorie della diaspora balcanica e albanese, che trova voce nel dialogo tra la scrittrice croata Ivana Bodrožić e Lella Costa o nell’incontro tra Gazmend Kapllani ed Elvira Mujčić. Le molte, diverse Americhe vivono nelle parole di Ken Kalfus e David Sedaris, in quelle dell’attivista cilena Cynthia Rimsky, e nelle peregrinazioni tra Sud America ed Europa raccontate dal romanziere Miguel Bonnefoy. Al ruolo della scrittura come intrinseca dissidenza intellettuale guarda invece l’intervento al Festival del narratore di origini turche Hakan Günday, mentre l’irlandese Audrey Magee discute insieme a Marcello Fois delle gabbie vernacolari di cui son spesso prigionieri gli abitanti di un’isola. Sul racconto della catastrofe, imminente o prossima ventura, si sofferma la saggista e narratrice statunitense Elvia Wilk. Autrice tra le più amate dal grande pubblico, arriva quest’anno al Festival Valérie Perrin.

(auto)narrazioni

Tra romanzi, autobiografie e memoir, la letteratura più recente sembra sempre più segnata dall’affermazione dell’autofiction, ovvero di quelle forme di narrazione in cui l’autore si pone come protagonista, instaurando una particolare interrelazione tra verità e finzione, deformazione del ricordo e proiezione del sé. A parlarne al Festival sono Paolo Giordano e Walter SitiEmanuele Trevi e Francesco PiccoloMarco Drago in dialogo con Marta Cai, nonché numerosi degli ospiti stranieri presenti in una serie di incontri che, tra ricordi familiari, amori e ossessioni adolescenziali, osservazione del quotidiano, disillusioni dell’età adulta e straordinarie colonne sonore, racconta l’insopprimibile tentativo di riappropriarsi della propria vita attraverso la parola, ma soprattutto tenta di guardare al presente e al recente passato con maggiore autenticità e nitidezza.

Di romanzi che prendono a prestito atmosfere, frammenti, situazioni, singoli episodi delle biografie personali o familiari per dare sostanza e colore all’impasto narrativo offrono diversa testimonianza le presenze in dialogo di Francesca Capossele e Silvia Di Natale, di Olga Campofreda e Mavie Da Ponte, e –sconfinando nei territori del fumetto – di Piersandro Pallavicini e Sualzo, di Vincenzo Latronico e Manuele Fior.

Calvino in gioco

Nel centenario della nascita di Italo Calvino non potevano mancare appuntamenti dedicati a uno dei più grandi scrittori del Novecento. Da Se una notte d’inverno un viaggiatore – il romanzo di Calvino che più di ogni altro gioca con i meccanismi della creazione narrativa e l‘esperienza della lettura – nasce Ludmilla, l’escape room ideata e sviluppata dallo studio di game designer We Are Muësli e aperta al pubblico già dal weekend antecedente a quello d’inizio ufficiale del Festival. Un’attigua “sala di atterraggio” – realizzata in collaborazione con il Laboratorio Calvino, la Fondazione Alberto e Arnoldo Mondadori e altri archivi e istituzioni culturali – dopo l’esperienza di gioco consente di (ri)avvicinarsi all’autore grazie a una selezione di libri, documenti, recensioni, interviste video. Non mancano incontri con scrittori e studiosi come Greta Gribaudo, Marco Belpoliti, Silvio Perrella, Francesca Rubini e Domenico Scarpa per proporre alcune chiavi di lettura per ripercorrere i romanzi, i racconti e gli scritti critici di Calvino.

l’odissea romantica

Amati, citati, travisati, mitizzati: sono i letterati tedeschi che segnarono il passaggio dallo Sturm und Drang al Romanticismo, attraversando con audacia e giovanile ardore la transizione dal secolo dei Lumi all’età Napoleonica, e incidendo in maniera decisiva sull’estetica europea. Con gli eventi di l’odissea romantica, il Festival racconta l’identità intellettuale di nomi ormai scolpiti nella storia della letteratura e della filosofia – Goethe, Schiller, Hölderlin, Fichte, Schelling, Novalis, Schlegel – partendo dalla pubblicazione del carteggio integrale tra Johann Wolfgang Goethe e Friedrich Schiller curato dai germanisti Maurizio Pirro e Luca Zenobi, ospiti di un incontro; per proseguire lungo un itinerario che riporta alla luce la straordinaria vitalità di una poetica dalle molte anime attraverso la performance sonora per voce, laptop e dischi curata dalla cantante e musicista NicoNote tra le quinte del Teatro Bibiena, e il suggestivo itinerario serale nei giardini di Palazzo d’Arco con lo scrittore Alberto Rollo e l’attore Giovanni Franzoni.

percorsi poetici

È una poesia che sfida, contesta i pregiudizi, grida contro la violenza, si interroga sulla letteratura, gareggia con l’arte visiva, si mette in gioco quella che attraversa questa edizione di Festivaletteratura. Ospite di punta è la poetessa di origine somala Warsan Shire, tra le voci più originali dei black british poets, che racconta di esilio e terre perdute, mentre gli altri incontri previsti in programma si interrogano sul rapporto tra creazione e studio, sulla produzione poetica italiana degli ultimi cinquant’anni, su quelle zone dell’immaginario poetico che confinano con la favola, il folklore, il soprannaturale. E se con il progetto Ekphrasis si fanno gareggiare la forza descrittiva della parola e quella dell’immagine pittorica, poeti di pagina e di palco si affrontano in Page vs Stage in una sfida all’ultimo verso. Non mancano appuntamenti dedicati ai più piccoli, tra cui i workshop di Junior Poetry Mag, prima rivista di poesia per ragazzi.

in dialogo con la letteratura

I classici, opere o autori che si illuminano ogni qual volta un lettore li riscopre come parte di sé, caratterizzano il Festival sin dalla sua genesi: anche in questa edizione, accanto all’ampio focus dedicato a Calvino, al romanticismo tedesco e alle scrittrici italiane del Novecento, sono numerosi gli incontri che leggono e rileggono storie di scrittura tra pièce memorabili e trame ingiustamente cadute nell’oblio, con una particolare attenzione alla letteratura tra Otto e Novecento.

Il teatro è uno dei luoghi privilegiati di questa esplorazione, dallo spettacolo di Roberto Abbiati dedicato a Franz Kafka al monologo Erodias che rivela il talento drammaturgico di Giovanni Testori, fino alla grand soirée con Luca Scarlini e i lettori della Compagnia della lettura incentrata sul Dizionario infernale di Jacques Albin Simon Collin de Plancy.

Con l’apporto degli allievi della Scuola per attori del Teatro Stabile di Torino, prosegue la riscoperta di Atti unici del ‘900 italiano, dedicati quest’anno a Ettore Petrolini, Natalia GinzburgGiorgio Manganelli, Carlo Emilio Gadda, Ida Omboni e Paolo Poli.

Il dialogo sui libri, la critica letteraria e la prassi della scrittura è il leitmotiv di tre cicli di appuntamenti che dopo il successo delle passate edizioni tornano al Festival: la serie delle collane, organizzate in collaborazione con la Rete Bibliotecaria Mantovana, in cui autori ospiti vengono invitati a individuare parentele sorprendenti tra cinque o più titoli delle Biblioteche Baratta e Teresiana; la parte dei critici, serrata ricognizione di Vincenzo Latronico sullo stato di salute della critica letteraria; e gli incontri sul fuoco sacro della scrittura a cura di Christian Mascheroni ed Elsa Riccadonna.

Di vite tra i libri parleranno autori come Domenico Starnone, Teresa Cremisi e Francesco Permunian, mentre le vite e le opere di tre protagonisti indiscussi della letteratura mondiale – Fëdor Dostoevskij, Thomas Mann e Anna Achmatova – saranno oggetto degli interventi di Julia KristevaColm TóibínPaolo Nori. Alla collezione di libri viennesi per bambini dell’architetto e designer Otto Prutscher è dedicato l’incontro con James Bradburne.

Francesco Piccolo e il regista Mario Martone ci guidano alla (ri)scoperta della fitta rete di vicende pubbliche e private da cui nacquero 8 1/2 di Federico Fellini e Il Gattopardo di Luchino Visconti, mentre Giacomo Poretti conversa sulle sue interminabili avventure tra i libri insieme a Bruno Gambarotta.

strade gialle

Negli appuntamenti sul giallo dell’edizione 2023, il Festival dedica una particolare attenzione al rapporto quasi congenito tra questo genere e i media. In questo contesto, tra i tanti incontri, non potevano mancare due giganti del racconto mediatico delle pagine più buie e controverse della cronaca nera del nostro Paese: Carlo Lucarelli, voce e volto per oltre un decennio, del programma di culto Blu Notte, e il giornalista Stefano Nazzi, che con il popolarissimo podcast Indagini ha raccontato delitti entrati a pieno titolo nell’immaginario collettivo. Sul fronte internazionale spiccano gli incontri con la giovane autrice indiana Deepti Kapoor e con un giallista di razza come l’inglese Anthony Horowitz; mentre un amichevole duetto a tinte noir è quello offerto da Giancarlo De Cataldo e Alessandro Robecchi. Sul popolarissimo filone del giallo a fumetti si confrontano invece Luca Crovi e il disegnatore Daniele Bigliardo, mentre Donato Carrisi propone un’inedita lezione sulla paura.

nei corpi/sui corpi

È la letteratura, spesso, il mezzo che dà forma al vissuto del corpo: un corpo desiderante e desiderato, a volte sentito estraneo, spesso oltraggiato, mercificato, fatto oggetto di discriminazione; un corpo comunque fragile, che ci avvicina all’esperienza della fine.

Quest’anno il Festival si addentra nei territori di confine tra la vita e la morte, chiamando in causa – insieme alla narrativa – la filosofia, la religione, la scienza e la psicologia. Tre incontri legati al progetto del Festival Staccando l’ombra da terra – inaugurato lo scorso febbraio con un corso di lettura e scrittura e un ciclo di film dedicati al fine vita – vedono protagonisti lo psichiatra Paolo Milone, la poetessa Elia Malagò, la pastora della Chiesa Valdese di Mantova Ilenya Goss e la monaca buddhista Anna Maria Iten Shinnyo Marradi, la scrittrice Cristina Rivera Garza, che, come Antje Rávik Strubel, affronta il tema dalla prospettiva della violenza di genere. Al dolore, alla vecchiaia, alle fragilità dei corpi danno voce le presenze di Daniele Mencarelli, Michela Murgia, Lidia Ravera e Antonella Viola, così come l’incontro pensato in memoria di Ada D’Adamo.

Filippo Timi reinterpreta sul palco il mito novecentesco di Marilyn Monroe, emblema di un fascino irresistibile, vulnerabile, tragicamente umiliato; corpi percepiti come fuori dalla norma – per colore e misura – sono quelli raccontati da Anna Maria Gehnyei e Giulia Muscatelli; mentre la britannica Polly Barton propone una riflessione a più voci intorno al porno.

il posto delle donne

Aspettando il giorno in cui parlare di letteratura e arti “al femminile” sarà insensato quanto definire certi romanzi capisaldi della letteratura “al maschile”, il Festival torna su una parte importante della nostra recente storia letteraria rimasta ai margini del canone ufficiale proprio perché opera di donne. In continuità con l’edizione del 2022 che aveva reso omaggio alla figura di Maria Bellonci, quest’anno il Festival con Olga Campofreda e Francesca Massarenti entra nelle stanze di alcune eccezionali autrici del Novecento italiano da poco oggetto di nuove attenzioni editoriali: Alba de Céspedes (1911-1997), Dolores Prato (1892-1983), la romanziera napoletana Fabrizia Ramondino (1936-2008) e la geniale e cosmopolita Fausta Cialente (1898-1994).

Se un’attenzione particolare viene dedicata quest’anno al pensiero e all’opera di Carla Lonzi, con l’economista Azzurra Rinaldi, la sociologa Francesca Coin, la sociolinguista Vera Gheno, la scrittrice Melania G. Mazzucco, la filosofa Annarosa Buttarelli e la grecista Giulia Sissa si conversa di canoni segnati dal predominio maschile, dei limiti di pensiero entro cui la condizione femminile è rimasta troppo a lungo ingabbiata e privata di dignità, e dell’influenza della disparità di genere sul benessere economico.

spazio sociale

Attraverso un percorso di appuntamenti tra economia, diritti e trasformazioni sociali, il Festival attiva quest’anno un ideale laboratorio di riflessione su alcune urgenze sociali evidenti e spesso inascoltate. Molti i temi trattati: dal fenomeno delle grandi dimissioni raccontato dalla sociologa Francesca Coin al significato di inclusione e di discriminazione di genere in ambito economico con Fabrizio Acanfora e l’economista Azzurra Rinaldi, dal complesso tema dell’inflazione raccontato da Stefano Feltri fino al necessario discorso sulle carceri affrontato dal sociologo Luigi Manconi insieme a Zerocalcare. E ancora turistificazione, dematerializzazione dell’economia, crisi demografica, politiche abitative, futuro delle aree interne insieme a Sarah Gainsforth e la incessante fuga dei cervelli con Maria Castellito e la blogger Michela Grasso alias @Spaghettipolitics. Il filo rosso della pace tiene uniti il dialogo tra Tonio Dell’Olio e Guido Rampoldi, la testimonianza e i laboratori della Scuola di Pace di Montesole, l’azione di Michelangelo Pistoletto al Tempio di San Sebastiano; mentre una più larga riflessione sul significato di “credere” nel nostro tempo mette a confronto lo stesso Pistoletto con Matteo Zuppi.

giornalismo narrativo

Decimo compleanno per Meglio di un romanzo, il progetto di Festivaletteratura che dal 2014 – sotto la guida di Christian Elia – invita autori tra i 18 e i 30 anni a sostenere progetti inediti di reportage narrativi di fronte a scrittori, giornalisti e addetti ai lavori in presenza del pubblico del Festival. Tra gli incontri pensati quest’anno per festeggiare Meglio di un romanzo, oltre alle tradizionali sessioni di pitching e alla presentazione dell’ultimo reportage vincitore, vanno ricordati la conversazione con due maestri internazionali del reportage narrativo come Cynthia Rimsky e Witold Szablowski, e un podcast speciale con molti protagonisti delle passate edizioni.

In programma anche numerosi appuntamenti che, attraverso la lente del giornalismo, mettono a fuoco le vicende cruciali che segnano il nostro tempo: oltre ai già ricordati incontri sui temi delle migrazioni, della giustizia climatica, della gentrificazione fuori controllo dei tessuti urbani e di abbandono delle aree interne, va segnalato quello sulle macromafie, con Floriana Bulfon e Antonio Talia; mentre a più ampie geografie guardano i reportage di Witold Szablowski e Patrik Svensson.

passato (e trapassato) prossimo

Festivaletteratura non smette di confrontarsi con la storia, alla continua ricerca di ragioni e chiavi di lettura per quello che accade oggi o è appena accaduto. Tra storie personali, cronache e documenti pubblici si discute di Anni Ottanta, guardando alla nascita di esperimenti espressivi ancora modernissimi come la rivista di culto Frigidaire con Vincenzo Sparagna, al dilagare della tossicodipendenza con Giulia Scomazzon e Vanessa Roghi, e alla tragica parabola discendente del terrorismo con Carole Beebe Tarantelli Alessandro Portelli; ma si parla anche dei primi vent’anni di questo XXI secolo, dalle Torri Gemelle ai meme, con Alessandro Barbero, Mattia Salvia e Ivan Carozzi, o si retrocede sulla linea del tempo per tornare al disastro del Vajont con Mauro Corona, alle conseguenze delle leggi razziali italiane nell’incontro intorno all’archivio EGELI, ai fasti dell’antico Ghetto di Mantova con Paolo Bernardini e Stefano Scansani. Un peso particolare, per il legame con il territorio mantovano, assume l’omaggio del Festival nel centenario della nascita a Gianni Bosio, straordinaria figura di scrittore, militante politico, animatore culturale, studioso della cultura popolare e della tradizione orale.

migrazioni naturali

“La migrazione ha creato il mondo”, scrive Ruth Padel, è una sorta di filo rosso che lega il viaggio originario delle cellule, le migrazioni animali e le diaspore umane. Questo parallelismo è anche la chiave dell’incontro della poetessa inglese con lo scienziato Telmo Pievani, uno degli appuntamenti previsti al Festival sul tema delle migrazioni. Sulla complessità della condizione di migrante e della necessità di cambiare prospettiva nella valutazione del fenomeno, intervengono la scienziata inglese Gaia Vince, che affronta il tema delle migrazioni climatiche, così come Fabrizio Gatti e Maurizio Pagliassotti, testimoni dei muri letterali o metaforici innalzati dall’Europa e dalle singole comunità.

intelligenze

Gli ultimi mesi hanno visto l’esplosione del dibattito intorno alle intelligenze artificiali: tecnologie come ChatGPT e altre IA generative sono state messe a disposizione del grande pubblico, che ne ha scoperto con meraviglia le fantascientifiche potenzialità ma ne ha intuito anche, con certa preoccupazione, inquietanti prospettive. Tra gli eventi dedicati alla necessaria riflessione sul tema delle intelligenze umane, post-umane e non umane, vanno segnalati quelli con il neuroscienziato Gerd Gigerenzer, con l’esperto di IA Nello Cristianini e con lo scrittore e artista James Bridle. Sulla necessità di coltivare un atteggiamento consapevole nei confronti della tecnologia si soffermano Chiara Valerio, Carlo Milani e il CIRCE (Centro Internazionale di Ricerca per le Convivialità Elettriche), attraverso laboratori e lezioni rivolti a adulti e ragazzi. Nell’intersezione tra tecnologia e geopolitica si incontrano Alessandro Aresu e Simone Pieranni per parlare della guerra dei microprocessori tra Cina e Stati Uniti. All’intelligenza del mondo e delle sue leggi fondamentali sono dedicati gli interventi di Paolo Zellini (sul teorema di Pitagora) e di Guido Tonelli (sulla materia).

consapevolezza verde

Anche quest’anno con consapevolezza verde il Festival si occupa di emergenza climatica e di quella transizione energetica non più rimandabile se si vuole contenere il riscaldamento globale. Questa sezione del programma comprende una serie di lavagne – le lezioni a cielo aperto di Piazza Mantegna – dedicate alle sfide tecnologiche della decarbonizzazione in cui Gianluca Ruggieri, Gianni Silvestrini, Nicola Armaroli, Gianfranco Pacchioni e Ferdinando Cotugno insegnano al pubblico a orientarsi tra fondamenti scientifici, potenzialità e limiti delle possibili soluzioni. Spazio anche al nucleare con un dibattito Oxford Style con quattro relatori, due pro e due contro, ma anche a temi più ampi come biodiversità, acqua, paesaggio, mobilità sostenibile, giustizia climatica altrettanto fondamentali per la sfida ambientale contemporanea, di cui discutono tra gli altri i fotografi Jean-Marc Caimi e Valentina Piccinni, lo scrittore Daniele Rielli, il nivologo Michele Freppaz, il giornalista Federico Ferrazza, l’esperto di storia del paesaggio Mauro Agnoletti e Giorgio Vacchiano. Tra gli ospiti anche la giovane divulgatrice e attivista Sofia Pasotto che conduce Altra marea, una serie di interviste ad autori e autrici sul tema della giustizia climatica.

pensieri in esercizio

Dopo due edizioni trascorse a raccogliere idee per la scuola del futuro, grazie al progetto del Comune di Mantova Generare il futuro, il Festival entra nella Scuola Pomponazzo e la trasforma in uno spazio per incontri altamente interattivi in cui il pensiero diventa protagonista. Con pensieri in esercizio all’abituale dimensione delle piazze e dei teatri il Festival sostituisce quella più raccolta della classe, in cui adulti e ragazzi si misurano con l’uso della tecnologia, le idee di comunità, l’educazione attraverso le piante nei workshop con Beate Weyland, Irene FabbriMichela MartonLorenzo Chicchi e il collettivo CIRCE e la Scuola di Pace di Montesole, o partecipano a lezioni “orizzontali” costruite come riflessioni dialoganti su temi come violenza di genere, confini e responsabilità sociale della scienza e tenute, tra gli altri, da Vera GhenoElvira Mujčić, Gianfranco Pacchioni e Telmo Pievani. Accanto agli incontri, il Museo delle Cose Possibili, a cura di Monica Guerra, Lola Ottolini, Lula Ferrari e l’Associazione May, cerca di creare con i contributi del pubblico del Festival una collezione di idee potenziali, risorse da condividere, memorie da mettere a frutto per il futuro che ci attende.

adolescenti al festival

Alla ricerca di parole, storie, rappresentazioni che li aiutino a entrare in relazione, convivere, combattere con la realtà che li circonda, ragazze e ragazzi trovano in questa edizione diverse occasioni di confronto.

Intorno a tre questioni per loro particolarmente sensibili – scuole, generi e cittadinanze – lettrici e lettori under 20 intendono ingaggiare al Festival tre words match con Alfredo Palomba e Domenico Starnone (scuole), Randa Ghazy e Manuela Manera (generi), Gazmend Kapllani e Annamaria Gehnyei (cittadinanze) a partire da romanzi, poesie, graphic novel, film, canzoni che si richiamano a quei temi.

Accanto agli incontri con Kevin Brooks e Annet Schaap, stelle della letteratura internazionale under 20, una piccola sezione intergenerazionale si sofferma su graphic novel e dintorni, presentando come protagonisti Leo OrtolaniTeresa RadiceStefano Turconi e Marco Magnone.

Passports – il percorso su identità migranti e nuovi italiani nato dal progetto europeo Read On – quest’anno assume la forma di un laboratorio condotto da Grace Fainelli e Manuela Manera dedicato alle parole di frontiera e di una serie di incontri dedicati al conflitto culturale tra adolescenti e adulti, al modo di raccontare le migrazioni tra mediazione letteraria e cruda testimonianza, alla capacità del fumetto di dare voce a chi è straniero nel nostro Paese.

A Piazza Alberti riapre Area 6, centrale operativa delle iniziative rivolte agli adolescenti e collegate al progetto i 6 gradi della lettura – sostenuto da Fondazione Cariplo – che coinvolge il Festival con la Rete Bibliotecaria Mantovana, il Comune di Mantova e Cooperativa Charta. Qui i giovani lettori possono trovare una biblioteca temporanea con i libri delle bibliografie di words match e quelli segnalati attraverso Read More – l’attività di libera lettura promossa nelle scuole secondarie da Festivaletteratura, arrivata alla sua sesta edizione – nonché alcune occasioni per conoscere coraggiose e inusuali esperienze di lettura con e tra i ragazzi svolte in tutta Italia.

Tornano al Festival anche gli appuntamenti di blurandevù, le interviste ad autrici e autori realizzate dai giovani volontari, assistiti quest’anno da Espérance Hakuzwimana.

bambini in movimento

Bambine e bambini invadono anche quest’anno la Casa del Mantegna. La dimora del grande artista del Rinascimento si prepara ad accogliere autori e artisti provenienti da tutto il mondo e lettrici e lettori under 12 allestendo nel giardino una tenda per gli incontri, una libreria e un’area ristoro e al primo piano uno spazio per laboratori, performance e animazioni. Il piano terreno ospita invece – dopo tre anni di assenza – la grande giostra di Girotondo, il percorso dalla struttura circolare che quest’anno i dipartimenti didattici di Collezione Peggy GuggenheimFondazione Sandretto Re RebaudengoMart – Museo di arte moderna e contemporanea di Trento e RoveretoMuseo tattile statale OmeroPalazzo delle Esposizioni e Triennale Milano trasformano in un museo senza museo dove giocare, pensare, parlare, inventare, attivare i sensi con e intorno all’Arte.

Il programma per i bambini quest’anno è tutto incentrato sull’ampliamento dei propri orizzonti, comprendendo percorsi tra arte e scienza alla scoperta delle stelle, attraverso le stanze di Palazzo d’Arco e Palazzo Ducale e l’Osservatorio Astronomico di Gorgo di San Benedetto Po, incontri dedicati ad avventure in terre esotiche e misteriose con Laura OgnaMarco Paci Anselmo Roveda o tra le mappe della Biblioteca Teresiana, e ancora storie di paura con Manlio Castagna e percorsi alla scoperta della Natura in città con Gianumberto Accinelli.

Molti gli appuntamenti con autori e autrici internazionali, da quelli con Anthony Horowitz e Aina Bestard al focus dedicato alla letteratura olandese – realizzato nell’ambito di FuturoPresente, programma speciale per la promozione delle arti tra le nuove generazione dell’Ambasciata e Consolato Generale dei Paesi Bassi in Italia e di quattro grandi istituzioni culturali olandesi (Performing Arts Fund NL, Dutch Foundation for Literature, Cultural Participation Fund, SeeNL) –, che vede coinvolti Enne KoensEdward van de Vendel e il performer Ton Meijer, protagonista al Teatro Bibiena di uno spettacolo dedicato alla musica operistica.

Tra le tante attività della Casa del Mantegna anche la seconda edizione del Reading Slam, una competizione di consigli di lettura con quattro scrittori in gioco, tra cui Igiaba Scego Carlo Lucarelli, e un libro vincitore, decretato dal voto del pubblico presente sugli spalti. E ancora una nutrita serie di conversazioni tra scrittori e ragazzi, in cui sono coinvolti tra gli altri Fabrizio AcanforaNadia Terranova e Silvia Vecchini; workshop che toccano quest’anno i temi della pace, della cucina naturale, della fotografia e del fumetto.

tra arte e letteratura

Nel corso degli anni il Festival ha continuamente esplorato i territori delle arti figurative, della fotografia, del design, e anche quest’anno sono molti gli appuntamenti portano l’Arte non solo come tema ma come voce in campo: Michelangelo Pistoletto torna in città dopo vent’anni per cucire un grande stendardo per la pace nel Tempio di San Sebastiano, mentre Roberto Conte innalza in Piazza Sordello un grande tiglio su cui raccogliere parole capaci di ricordare la fragilità della natura e insieme la nostra.

Parola poetica e arte figurativa si sfidano nel progetto Ekphrasis, in cui nove poeti si confrontano con gli affreschi di Giulio Romano a Palazzo Te e i murales del quartiere cittadino di Lunetta, mentre – come già ricordato – Girotondo coinvolge le sezioni didattiche di alcuni dei più importanti musei italiani, e alla Scuola Pomponazzo il Museo delle Cose Possibili espone idee per il futuro.

Un focus speciale viene dedicato in questa edizione alla critica d’arte e femminista Carla Lonzi – che comprende, tra le altre iniziative, una conferenza spettacolo di Lunetta Savino e Viola Lo Moro e un incontro sull’attualità del suo pensiero con Laura Iamurri, Luca Scarlini, Carla Subrizi ed Elvira Vannini –, mentre altri incontri sono dedicati a figure di artisti eclettici e inclassificabili come Jean Cocteau e Toti Scialoja e ad architetti come Marc Sadler, ospite al Festival, e Angelo Mangiarotti. Architettura e letteratura saranno nuovamente in dialogo nei due appuntamenti di città-mondo, che ci portano quest’anno a Parigi con Umberto Napolitano e a Tunisi con Karim Chaabane.

colonne sonore

Per tre sere in Piazza Alberti la rassegna Volume, ideata in collaborazione con la webradio Radio Raheem, porta tre DJ – Giulia CavaliereNinette e Vittorio Gervasi aka Jazz Hunters – alla console per mettere le musiche che risuonano tra le pagine di certi romanzi, dalla Rimini di Pier Vittorio Tondelli, alla Giamaica rarefatta di Marlon James, alle fumose jazz caves di San Francisco di Jack Kerouac.

Tornano anche le lavagne musicali in Piazza Mantegna con Marco Drago, Giulia Cavaliere e Dario Falcini, fatte per aprire mente e orecchio, in un viaggio nella musica popolare degli ultimi decenni da Frank Zappa al rap italiano. Il Teatro Bibiena torna a essere spazio di dialogo tra musica e letteratura ospitando, tra gli altri eventi, un bonus track d’eccezione con la cantautrice italo-palestinese Laila Al-Habash e lo scrittore Jonathan Bazzi, protagonisti di un incontro tra parole e musica, e un dialogo dello storico Alessandro Vanoli con i dodici pezzi eseguiti dal Trio Icarus Ensemble di Le stagioni di Čajkovskij, per raccontare la storia del clima e delle stagioni.

La musica sarà presente in altri luoghi e contesti del Festival, come nell’incontro di Inedita energia, che vedrà la partecipazione quest’anno di diversi personaggi legati al mondo musicale, con l’immancabile Neri Marcorè a dirigere il traffico; nel dialogo sui temi dell’accoglienza e della fragilità che unisce Marco Annoni e il cantautore Niccolò Agliardi; la lettura concerto che Giancarlo De Cataldo, insieme al quintetto Alkord, dedica a Giuseppe Mazzini sul sagrato dell’Ossario di Solferino.

pagine dello sport (e della cucina)

Lo sport, grande fucina di narrazioni dei nostri tempi, torna sul palco del Festival grazie a Federico Buffa, che incontra uno dei quattro uomini più veloci d’Italia, il campione olimpico Filippo Tortu; mentre Tiziana Scalabrin intervisterà Sara Gama, capitana della nazionale italiana di calcio. Una serie di appuntamenti realizzati con la redazione del magazine online Ultimo Uomo torna su appassionanti vicende sportive del passato: la tempestosa rivalità tra due leggende dell’apnea come Enzo Maiorca e Jacques Mayol, quella tra Bjorn Borg e John McEnroe sui campi da tennis, e la straordinaria carriera della campionessa di ginnastica artistica Nadia Comaneci. Non mancano storie inusuali come quella che unisce uno sfortunatissimo astronomo del Settecento ad alcuni impareggiabili perdenti del ciclismo raccontata da Leonardo Piccione, e una lavagna con Emanuele Atturo dedicata al modo in cui certe tecnologie stanno cambiando il futuro del calcio.

Passando dai campi da gioco alle cucine, Luca Cesari si destreggia tra pizza e maccheroni, Giuseppe Barbera traccia una storia culturale, botanica ed economica degli agrumi, mentre Corrado Assenza ragiona insieme a Marco Malvaldi su cucina, territori e comunità planetaria.

Anche per questa edizione il programma cartaceo di Festivaletteratura, strumento indispensabile per navigare e vivere la manifestazione, torna come piccolo catalogo completo delle schede di tutti gli appuntamenti con una copertina disegnata da Nicola Giorgio, che sarà presentato nella seconda metà di luglio.

A cura del Mantova Festivaletteratura

Scarica il programma del Festivaletteratura 

APPUNTI PER UN FUTURO URBANO.
In margine al dibattito su una possibile Ferrara Nuova

APPUNTI PER UN FUTURO URBANO
In margine al dibattito su una possibile Ferrara Nuova

Tutto è ‘relativo’ quando si parla di complessità

Da quando me ne occupo, il mio modo di leggere i problemi delle città è cambiato notevolmente. Più lo sguardo si ampliava al mondo più si relativizzavano le categorie che usavo per descrivere e interpretare ciò che vedevo. Sono giunto quindi alla conclusione che oggi la parola “città” non è sufficiente per descrivere il mondo urbano che si incontra girando per il pianeta.

Certamente questa mia consapevolezza è stata alimentata dalla conoscenza del geografo francese Marcel Roncayolo, che ho avuto la fortuna di frequentare. Roncayolo era un normalien, quindi in lui metodo e spirito critico trovavano una sintesi virtuosa: affascinante da ascoltare e difficile da praticare. La puntigliosità nell’esercizio della classificazione dei fenomeni e delle cose, che emergeva sempre dalle sue riflessioni, mi ha portato a diffidare delle semplificazioni della complessità.

Una delle categorie sulle quali abbiamo discusso a lungo è stata quella dello “spazio pubblico”. Un concetto valise, come lui lo definiva, associandolo ad altri, nel senso che trascina con sé una quantità di significati e declinazioni non sempre coerenti tra loro, anzi spesso in conflitto. Diviene pertanto necessario precisarne l’uso in relazione a contesto, tempo, economia, cultura e visione. Analoga cosa potremmo dire del dibattito sul futuro delle città e sul come porci nei confronti della crisi climatica in corso.

Lo sviluppo della rivoluzione industriale si è basato sul contrasto e l’intreccio tra ricchezza e povertà, capitalismo e filantropismo, capitale e lavoro, diritti e disuguaglianze. Lo dice bene il filosofo inglese Bernard Mandeville nella sua riflessione metaforica sui vizi privati e le pubbliche virtù della società inglese del Settecento, intitolata La favola delle api.

Nel testo si descrive la sporcizia di Londra, associata al cattivo odore e al degrado che si riscontra nelle strade della città, ma tale condizione, afferma il filosofo, rappresenta comunque un indicatore di benessere, un segno di quella ricchezza prodotta dai commerci internazionali e dall’avvio di quel processo che prenderà il nome di rivoluzione industriale.

Tutta la letteratura dell’epoca vittoriana e in parte post-vittoriana ci racconterà questo mondo: da Dickens a London, da Balzac a Zola, a Musil. È quindi nelle relazioni, che si determineranno tra “ricchezza” e “povertà”, che si giocherà il futuro delle città, ma anche del pianeta.

Secondo l’ipotesi di James Lovelock, ripresa da Bruno Latour, Gaia non sparirà semmai muterà, secondo un processo che potrebbe non vedere più la presenza dell’essere umano. Il concetto stesso di “Antropocene” è probabilmente superato perché, tirando in ballo l’umanità intera, si basa su di una presupposta neutralità concettuale che lo rende depoliticizzato.

La festa è finita

Non tiene conto delle differenze sociali, storiche, di genere, etniche, mentre l’umanità non è una comunità indifferenziata, dove tutti hanno le medesime responsabilità. Tra il 1884 e il 2020 l’Africa ha emesso 48 miliardi di tonnellate di CO2, a fronte di una emissione globale di 1700 miliardi di tonnellate.

L’impronta di carbonio dell’Africa rappresenta pertanto il 3% mentre Stati Uniti, Europa e Cina sono ancora oggi i maggiori responsabili delle emissioni a livello mondiale. L’Italia emette più carbonio del Brasile (1,7% con 58 milioni di abitanti contro 1,2% con 216 milioni di abitanti).

La tecnologia salverà il mondo?

A volte si ha l’impressione che la comunicazione mediatica più che informare sui fatti, anche con approfondimenti e argomentazioni critiche, tenda a determinarli: creare il problema (o l’aspettativa) e poi offrire le soluzioni tecniche (sempre riconducibili a portatori di interessi in grado di condizionare la politica, che generano quel fenomeno oggi noto come greenwashing).

La tecnica, secondo Emanuele Severino, è una forma di razionalità: la più alta raggiunta dall’uomo. Appartiene alla struttura essenziale del capitalismo che ha subordinato ad essa le altre manifestazioni della civiltà occidentale, ma spesso attraverso la tecnologia si dà una risposta ai problemi del mondo senza chiedersi il perché delle cause (politiche, economiche e sociali) che li hanno generati.

Si segnalano i ‘bisogni’ senza parlare di ‘diritti’, ci si impegna nel contrasto alla ‘povertà’ tacendo sul problema delle ‘disuguaglianze’. Vengono propagandate soluzioni che non trovano riscontro nella complessità sociale della città, del pianeta e dei processi che li riguardano.

Ragioniamo su quanti alberi piantare in città e di che tipo, per contrastare l’inquinamento dell’aria che misuriamo con dispostivi sempre più sofisticati, ma non ci chiediamo quale è la causa dell’aumento dell’inquinamento. Non mettiamo in discussione il fatto che forse il problema è il modello di sviluppo e l’organizzazione delle nostre città, completamente dipendenti dalle automobili private e che quindi il problema deriva dall’uso dei combustibili fossili (riguardante, ovviamente, non solo le auto).

Saint Louis du Sénégal e l’erosione dell’oceano Atlantico

Gli effetti del cambiamento climatico stanno diventano drammatici, ce lo dice l’IPCC e le soluzioni, come ci rammenta Anthony Giddens, devono essere improntate alla massima complessità di processo e di progetto, tenendo insieme tutti gli aspetti politici, etici, tecnici, gestionali, locali e globali che questo comporta. In realtà stiamo vivendo una stagione dove, secondo Edgar Morin, se da un lato viene enfatizzata la potenza umana (nel dominio tecnologico), dall’altra si fa sempre più strada l’impotenza dell’uomo nel controllarne gli effetti.

Spesso sui media (anche alcuni nostri importanti giornali nazionali) ci vengono presentate, come soluzioni avveniristiche, progetti che propongono città eco-tecnologiche, sorte in contesti estremi come i deserti, gli oceani, addirittura su Marte e ultimamente sulla Luna (dove pare porteranno delle opere d’arte). Utopie realizzabili, grazie alla tecnica e all’estro delle archistar (e al capitale di Development Corporation e di società di Real Estate) ma, a ben guardare, sono forse delle distopie.

Il principio insediativo di questo mondo urbano “resiliente”, che riesce a sopravvivere alla mutazione climatica, è la ‘bolla’, ovvero un microambiente che simula una situazione urbana, anche estesa (una città?) in grado di creare delle forme di vita sostenibili, energeticamente performanti, circolari e socializzanti, ma a condizione che si resti nella ‘bolla’.

In un mondo di oltre 8 miliardi di persone, di cui oltre la metà vive in aree urbanizzate ed in insediamenti informali e poveri, chi potrà permettersi di accedere a queste bolle dove la città è dei 15 minuti, la mobilità è automatizzata ed elettrica, l’agricoltura è idroponica, l’energia è solare?

La distopia di questi progetti (alcuni si stanno concretamente realizzando, se ne potrebbe parlare) sta nel loro essere progetti esclusivi, e quindi fautori di disuguaglianze, lo dimostra il fatto che tutti questi progetti iper/eco-sostenibili sono realizzati da paesi autoritari, che non rispettano i diritti umani, in grado di sfruttare le enormi risorse che gli vengono dal petrolio e la cui costruzione si fonda da un lato sul savoir faire tecnologico e finanziario occidentale e dall’altro sullo sfruttamento degli immigrati dei paesi poveri. Anche in questo sta la distopia.

Perché pur sapendo non hanno agito?

La storica della scienza dell’Università di Harvard, Naomi Oreskes, in un suo saggio romanzato, Il crollo della civiltà occidentale, scritto insieme al collega Erik Conway, racconta dal 2393 le cause del grande crollo della civiltà occidentale avvenuto 300 anni prima, quindi nel 2093. Lo fa attraverso lo sguardo inventato di un giovane storico della Seconda Repubblica Popolare Cinese.

Il fatto più sorprendente che viene segnalato è che le vittime di questo crollo sapevano cosa stava accadendo e perché stava accadendo e dunque la domanda che il ricercatore si pone è: perché la società politica ed economica non fece niente? Perché la scienza non riuscì a comunicare con efficacia quanto stava accadendo? Perché molti continuarono a negare l’evidenza di ciò che stava capitando?

Si tratta di un racconto posto nel futuro ma chiaramente rivolto ad un presente che ci viene ben precisato ormai da numerosi rapporti scientifici. In una recente intervista sul quotidiano francese Le Monde, la bio-geografa sud-africana Debra Roberts e il climatologo tedesco Hans-Otto Pörtner dichiarano che noi non siamo preparati agli impatti estremi e nemmeno alle sorprese che ci riserva la mutazione climatica.

In generale gli ecosistemi sono già fortemente toccati e molte zone del mondo in particolare nella fascia equatoriale e mediterranea stanno raggiungendo i limiti della adattazione climatica, con fenomeni di estremizzazione meteorica sempre più forti (siccità e grandi piogge), che ci condurrà verso processi di migrazione climatica che riguarderanno umani e animali.

Il rischio che solo una parte del pianeta rimanga abitabile sarà reale e questo ridurrà gli spazi di vita. Molti sono coscienti degli impatti di questa trasformazione, però le misure di adattamento, associate alle politiche degli stati e degli organismi internazionali sono frammentate.

Del resto dai dati e dalle misurazioni di numerose autorità ed enti di ricerca internazionali appare evidente come la “transizione ecologica” sia più enunciata che praticata. Il recente COP 27 svoltosi a Charm El-Cheikh ha confermato che più che su misure reali, piani sostenibili in via di attuazione, politiche condivise il dibattito è stato ancora contraddistinto da desideri, proposte e appelli. Lo stesso potremmo dire per il recente summit per l’Amazzonia a Belem.

In un suo recente articolo l’editorialista del New York Times e premio Nobel per l’economia, Paul Krugman sostiene che il problema del contrasto al cambiamento climatico, e di conseguenza del negazionismo, si sta spostando su di un piano difficile da controllare che è quello culturale e identitario.

La sua riflessione verte sulle differenze delle politiche ambientali di democratici e conservatori negli USA, ma emergono alcuni punti di riflessione che contraddistinguono i dibattiti anche in altri paesi e su cui bisognerà fare attenzione in una prospettiva elettorale.

Lavorare per la transizione ecologica, attuando scelte sostanziali, e non retoricamente generiche, può essere impopolare, ma sono imprescindibili per un campo progressista, mentre quello conservatore può tranquillamente farne a meno, trincerandosi dietro il fatto che si vuole attaccare lo stile di vita identitario del paese (americano, italiano, francese, ecc.).

Riprendendo una canzone di Giorgio Gaber si potrebbe ironizzare che la cucina a gas, il barbecue che usa carbone o legno, la macchina parcheggiata in doppio o tripla fila, sono di destra, mentre i fornelli a induzione, la pedonalizzazione della piazza parcheggio nel centro storico, il trasporto pubblico, la comunità energetica sono di sinistra. L’interesse particolare è di destra, quello generale è di sinistra. Sono queste semplificazioni che rendono preoccupante la dimensione culturale/identitaria del dibattito sui cambiamenti climatici, perché antepone l’interesse individuale (o di clan, o di tribù) a quello collettivo.

Decarbonizzare le città

Lo scarto tra obiettivi e pratiche concrete è forte, anche in realtà urbane e metropolitane molto più attive delle nostre città. Le città e i territori urbanizzati sono oggi responsabili dell’80% delle emissioni di gas a effetto serra.

La “città decarbonizzata” è dunque un obiettivo lungimirante, doveroso, che non richiede slogan ma politiche e pratiche intrecciate, multi-scalari e multi-attoriali, attraverso il ricorso ad una “cittadinanza attiva” consapevole e informata.

Una città che oggi si appresta a votare può su questo tema costruire una visione di futuro?  Certamente, ma si tratta di fare scelte precise sulle fonti energetiche (prevalentemente elettricità da fonti rinnovabili e idrogeno verde), di conseguenza diviene necessario ripensare i modelli della mobilità urbana e territoriale, privilegiando il più possibile il trasporto pubblico, ciclopedonale e su rotaia dentro le città e tra città caratterizzate da fenomeni di pendolarismo quotidiano.

Va rinnovato il patrimonio edilizio sia residenziale che terziario, ripensando l’organizzazione delle nostre città, anche attraverso interventi di “decostruzione”. La naturalizzazione delle città va orientata verso la complessità ecosistemica e non può ridursi solo nella messa a dimora di qualche albero in più mentre vanno gestiti i fenomeni meteorici sempre più estremi, ponendosi il problema del controllo e riuso e dell’acqua piovana anche attraverso il ridisegno degli spazi pubblici.

Milton Keynes. Parco urbano e agricolo

Se la biodiversità e la cultura sono dei valori non negoziabili, i luoghi vanno usati in base alle loro caratteristiche, senza inibire la possibilità di organizzare eventi ludici di varia natura, ma trovando i luoghi giusti. Il turismo va gestito nella sua complessità, associando tempo libero e cultura, diluendolo nel tempo e potenziando le opportunità che possono derivare a una città dall’essere sede universitaria.

Non si può eludere infine il tema energetico abitativo e quindi una politica seria orientata verso la costituzione di comunità energetiche. Potremmo pertanto affermare che, per realizzarsi, la “città decarbonizzata” richiede un totale cambio di politiche e pratiche (di paradigma potremmo dire) in termini urbanistici, sociali, tecnologici, economici.

Si tratta di capire se siamo pronti a questo cambio di abitudini nei nostri comportamenti (perché anche di questo si tratta) e nell’uso delle nostre città. E soprattutto è necessario capire in che misura questo cambio inciderà sulle spalle dei cittadini di differente condizione economica.

In ogni caso bisognerà impegnarsi affinché il “decarbonizzare” non diventi una di quelle categorie valise, di cui parlavo prima. Dovremo scegliere con attenzione e cognizione di causa i significati da mettere nella valigia che ci porteremo dietro in questo complicato viaggio.

Per leggere gli articoli di Romeo Farinella su Periscopio clicca sul nome dell’autore

Riprendiamoci la città

Riprendiamoci la città

di Guido Viale
Pubblicato da Comune-info

È sbagliato prospettare la transizione ecologica come mera sostituzione di fonti di energia rinnovabile a quelle fossili perché le cose possano continuare a svolgersi come prima. Ci sono molti altri fattori che incidono sul riscaldamento globale e che incideranno sull’organizzazione delle nostre vite.

Innanzitutto, l’agricoltura industriale che insterilisce e uccide il suolo, impedendogli di assorbire carbonio ed emette gas che contribuiscono al riscaldamento della Terra molte volte più della CO2.

La maggior parte dei suoli coltivati e delle derrate prodotte è destinata all’alimentazione animale, cioè alla produzione di carne e latticini, che per questo sono fra le cause maggiori dei cambiamenti climatici. Anche il riscaldamento dei mari e degli oceani riduce la loro capacità di assorbire carbonio.

Sono processi che continueranno ad aumentare il riscaldamento globale  per decenni anche se l’emissione di CO2 cessasse domani; il che, ovviamente non può succedere: non solo perché, anche volendo, la costruzione degli impianti per la generazione di energia rinnovabile richiede tempo, ma soprattutto perché la necessità di lasciare gli idrocarburi sotto terra non è ancora entrata nella testa della maggior parte della gente e soprattutto in quella di coloro che con i fossili fanno profitti o pensano che abbandonarli minerebbe il loro potere.

Poi, lo scioglimento del permafrost emette metano e la scomparsa dei ghiacciai e delle calotte polari aumenta l’assorbimento del calore prodotto dai raggi solari. Sono processi che si alimentano da soli, spingendo il riscaldamento globale verso l’irreversibilità.

Questi processi obbligheranno comunque tutti a cambiare abitudini: a cercare di vivere con meno perché la terra assolata, desertificata e attraversata da uragani e alluvioni produrrà meno; e anche l’industria, il commercio e il turismo, sconvolti da disastri ambientali sempre più frequenti, non saranno più quelli che conosciamo.

Le nostre vite saranno comunque sempre più difficili e ai nostri figli e nipoti andrà anche peggio. L’alternativa che abbiamo di fronte è lasciare che la “natura”, sconvolta, faccia il suo corso, peggiorando progressivamente la vita di tutti, a partire da quella di chi ha meno, fino alla completa estinzione del genere umano; oppure ridurre ovunque in modo programmato il consumo di madre Terra e le diseguaglianze che permettono a pochi di continuare ad arricchirsi e a vivere nel lusso a spese dei più, della loro miseria e, sempre più spesso, della loro morte.

Bisogna adoperarsi non solo per bloccare al più presto il ricorso ai fossili (mitigazione), ma anche prepararsi alle condizioni più difficili in cui ci si verrà a trovare (adattamento). Ma a imboccare una strada del genere non saranno certo le imprese o i Governi.

L’ecologia “calata dall’alto” è sempre menzogna. Ma nemmeno si può pensare a un cambio di rotta lasciando che ognuno si arrangi “come può”.

Bisogna creare l’ambito in cui possa svolgersi una vera transizione o, meglio, una conversione ecologica consapevole, volontaria e desiderabile: certo, affidata all’urgenza di evitare il peggio; ma anche, e soprattutto, a una svolta culturale irrinunciabile.

Non c’è più niente da sostituire: la cultura, intesa come capacità di confrontarsi con i problemi della propria epoca, è morta da tempo, sloggiata dal sequestro dell’informazione da parte dei big della rete (la Grande Cecità ha ormai investito tutti i settori); ma soprattutto azzerata dalla perdita del confronto fisico, dell’incontro faccia a faccia, dello sguardo rivolto non solo alle altre persone, ma anche a tutta la vita che ci circonda.

Per questo l’ambito di questa transizione non può che nascere dalla ricostituzione di una comunità, di molte comunità, fondate su relazioni il più possibile dirette tra le persone e tra persone e cose: “naturali” e artificiali, belle o brutte, utili o dannose; dobbiamo imparare a curarci anche delle cose brutte e dannose per trasformarle, o cancellarle con cose belle e utili.

Per portare avanti la transizione le comunità dovranno riunirsi – specie là dove prevalgono le interdipendenze, ma perseguendo ciascuna il massimo di autonomia possibile – in quegli aggregati di abitanti che sono le città, dove ormai si ritrova più della metà della popolazione mondiale.

Il termine città indica un territorio, il suo assetto urbanistico, i suoi rapporti con la vegetazione e gli animali dentro e fuori dell’abitato, il suo clima e i suoi collegamenti (la ville); ma soprattutto le pratiche e la cultura condivise da una parte significativa dei suoi abitanti, la cité (Richard Sennett): due risvolti di una stessa realtà indissolubilmente intrecciati e reciprocamente condizionati.

Nel processo di transizione questa cultura non può avere una configurazione rigida e identitaria; deve essere aperta e flessibile: un cammino in fieri che coinvolge tutti coloro che vedono nella ricostituzione di una o tante comunità, cioè di relazioni il più possibile dirette tra le persone e con il proprio ambiente, il passaggio obbligato per la conversione ecologica.

Vista in questa luce, la città non è una realtà né statica né armonica, ma conflittuale: vedrà contrapposti, con alterne vicende, coloro che intendono partecipare alla transizione a coloro che ancora in qualche modo traggono vantaggi dalla situazione esistente; questi, forti delle risorse che controllano; i primi, sostenuti dalla forza delle loro coalizioni, ma anche dall’evidenza dell’aggravarsi della crisi climatica e delle sue conseguenze.

Si tratterà di un processo, mai interamente definito e concluso, di progressiva riappropriazione di spazi, strutture, servizi, beni comuni, poteri decisionali: “Riprendiamoci la città”.

Cinquant’anni fa, in un orizzonte ancora non dominato dall’imminenza di una catastrofe ecologica, questa parola d’ordine trasformata in programma era stata lanciata – in un’arena sociale, territoriale, generazionale e di genere differenziata, ma sotto la spinta di una classe operaia allora in lotta quasi permanente – come sbocco necessario di un conflitto che voleva superare l’impianto meramente operaista delle principali lotte in corso.

Ma in quegli stessi anni, e del tutto indipendentemente, però in una prospettiva analoga, il sociologo francese Henri Lefebvre pubblicava un libro sul Diritto alla città, palesemente influenzato dalle teorizzazioni situazioniste sulla “deriva urbana” (la presa di coscienza dell’influenza che gli assetti urbani esercitano sulla psicologia e la cultura di una popolazione).

Quei temi, poi ripresi nel 2006 dal geografo inglese David Harvey, sono oggi al centro di un ripensamento radicale del ruolo giocato nei processi trasformativi dal territorio, dall’iniziativa dal basso, dalla partecipazione al conflitto in forme non istituzionalizzate di democrazia di base.

Una prospettiva che non rende la democrazia partecipativa incompatibile con quella rappresentativa, sempre più impotente; ma che destina la prima ad esautorare progressivamente le funzioni della seconda; in modo non dissimile da come i governi costituzionali sono stati a lungo, e ancor oggi, compatibili con la permanenza della nobiltà, dei suoi lussi e dei suoi sprechi, pur avendone da tempo espropriato sostanzialmente i poteri.

In copertina: Calendimaggio nella piazza di Assisi

L’impianto per la produzione di biometano nel Comune di Ferrara:
parliamo delle ricadute sulla salute

“Poesia nei Cortili” di Oleggio. Torna i primi 3 sabati di settembre la rassegna di incontri e letture sul Lago Maggiore

Torna  a settembre, la rassegna di incontri con poetesse e poeti contemporanei. Tre appuntamenti in tre case storiche di Oleggio, dove saranno ospitati due poeti e un moderatore, i lettori e il pubblico. Una sorta di appuntamento al buio con la poesia, un incontro magico e inaspettato, un incontro intimo, in cui la poesia entra in punta di piedi nelle anime lasciando segni indelebili del suo passaggio.

Sabato 2 settembre ore 19
incontro con Francesca Del Moro da Bologna e Romano Calandra di Oleggio. Dialoga con gli autori Monica Zanon (Moka), presidente dell’Associazione Licenza Poetica e redattrice. Letture a cura di Elena Locatelli e Beppe Deiana

Sabato 9 settembre ore 19
incontro con Rossana Frattaruolo da Ivrea e Alfredo Rienzi da Torino. Dialoga con gli autori Claudio Ardigò, critico letterario di Cremona. Letture a cura di Elena Locatelli

Sabato 16 settembre ore 19
incontro Maggie (Maria Mancino) da Imola e Ilaria Biondi da Parma. Dialoga con le autrici Monica Zanon (Moka). Letture a cura dell’Associazione L’Altra Eva di Oleggio.

È obbligatoria la prenotazione presso la Libreria Piccola Officina del Libro oppure via telefono/whatsapp al numero 346/9741228, poiché solo prenotando si potrà scoprire il cortile che ospiterà l’incontro.
Evento organizzato in collaborazione con la Piccola Officina de Libro di Oleggio, Il Babi Editore di Borgomanero e l’Associazione Licenza Poetica di Lesa.

In Copertina: un’immagine della edizione 2022 di “Poesia nei Cortili”

 

Parole a capo /
Mariateresa Bari: “Le stelle sono pesci” e altre poesie

Chiedo scusa al caso se lo chiamo necessità. Chiedo scusa alla necessità se tuttavia mi sbaglio. Non si arrabbi la felicità se la prendo per mia.
(WISŁAWA SZYMBORSKA)

Al centro

Martellare un tu al centro
nel sasso lanciato
drenare lo squilibrio del fallimento
nel naufragio dei giorni
Compensare il tetro
con la luce del tuo nome
Rimbalza ora
sui pugni chiusi di pupilla
il verbo all’infinito
Tu coniughi mura e respingi

Multiversi

Almanaccando almanaccando
la vita si mette in cammino
e dilata navate
sul precario dei nostri orizzonti
Prima che si sciolga
in urlo d’azzurro
omelia di luce l’aurora
deflagra istanti
Prima che si compia
la bugia della fine

Le stelle sono pesci

Chiusa la custodia
odora di pece la pace
Ti abita
l’abbraccio della tavola
ti veste ti spoglia
nudo e muto
ti riconosce
Quando l’abisso si declina
le stelle sono pesci
ad ostentare un mare di silenzio

Fiancheggiare l’oltre

Nella furia di finestre d’alba
ruvido il trapasso di una stella
Il corpo adagiato
su creste arruffate
arruffate d’ombra e dolore
ingoia un sussulto
Nel fiancheggiare l’oltre
l’anima invortica

Il taglio di parole

Per rattoppare le storture
del disagio
rapace segreto
m’infilo nella cruna e pungo l’ignoto
Chiedo dimora a melodie arrossate
dalla vergogna della colpa
sul grido ancestrale
di armonie ribelli al piano
In sosta dal forte
pungo e cucio il taglio di parole

Mariateresa Bari è nata a Monza nel 71. Diplomata in violoncello presso il conservatorio N. Piccinini di Bari, ha al suo attivo un’intensa attività concertistica sia in formazioni da camera che orchestrali. Innumerevoli le sue collaborazioni ( in qualità di violoncellista) a recital poetici. È del 96 “Verso… Luzi”, per due voci e violoncello, portato in tournée in prestigiosi teatri italiani, con debutto a Firenze alla presenza del grande poeta fiorentino.
Mariateresa insegna nella scuola secondaria di primo grado, e vive a Palo del Colle (Ba), con la sua famiglia. Impegnata nel sociale, è presidente della fondazione Vittorio Bari, che ha come mission riproporre coraggiosamente l’arte come strumento educativo e la bellezza come modello di vita, ed essere faro per la promozione di eventi culturali.
Coltiva da sempre la passione per la scrittura poetica. Nel 2020 si è classificata seconda alla prima edizione del premio “Culture del mediterraneo” con la poesia “Archeologia di uno sguardo”.
Nel 2021 si è classificata al primo posto al concorso indetto dal comune di Palo del Colle sul tema “Il ruolo della donna nella società ” e al terzo posto al concorso nazionale “Alessandro Fariello” sul tema “sulle ali della libertà”. Seconda al concorso letterario nazionale “La cura della natura” associazione Maria Ruggeri città 2022, premio speciale del presidente dell’Accademia delle culture e dei pensieri del Mediterraneo nel 2022, menzione d’onore al premio Internazionale di poesia e narrativa città di Bitetto e terza al premio di poesia di Anzi, “Innanzitutto, poesia nel borgo”. Nel 2020 ha pubblicato con Nep Edizioni la sua prima silloge: “Intraverso, spiragli nell’essere”, che gode già di importanti recensioni. Alcune poesie sono presenti in antologie poetiche (“L’isola di Gary“, “L’isola di Gary, paesaggi di guerra e di pace”, “Fili d’erba”) ed anche nell’enciclopedia di poesia contemporanea edita dalla Fondazione Luzi. È Attiva nei Readings per la diffusione della parola poetica. Alcuni suoi versi sono stati pubblicati e commentati su diverse riviste letterarie e letti in dirette streaming e tradotti in spagnolo.

LO SCAFFALE POETICO
Com’è ormai consuetudine, inseriamo nella rubrica alcune segnalazioni editoriali interne al mondo della poesia. Buona ricerca poetica.

  • Valentina Meloni,  La tessitrice, Yod Edizioni, 2022
  • Giorgio Bolla – Valentina Meloni, Corrispondenze da un mondo increato, La vita felice, 2018
  • Vernalda Di Tanna, Fraintendere le stelle, Samuele Editore, 2021

La rubrica di poesia Parole a capo curata da Pier Luigi Guerrini esce regolarmente ogni giovedì mattina su Periscopio.
Per leggere i numeri precedenti clicca [Qui]

Salario minimo.
Firma la petizione a sostegno della proposta di legge

Pensa a tua figlia. Pensa a tuo figlio. Pensa alla loro vita. Pensa al loro lavoro. Pensa al loro futuro. Pensa al tuo.

Pensa che nella Costituzione italiana c’è scritto che la retribuzione deve essere equa e proporzionata. Pensa che in Italia ci sono tante persone che lavorano senza avere un contratto e una paga degna di questo nome. Pensa che ci sono anche tanti contratti firmati da gente che pattuisce retribuzioni inique e non proporzionate. Pensa che questa gente spesso non rappresenta nessuno ma fissa le condizioni per tutti, perchè ci sono imprenditori che accettano di firmare questi contratti. Per risparmiare sulla pelle e sul lavoro di tua figlia, di tuo figlio, o di te stesso.  Firma per la loro dignità, e per la tua.

leggi e firma qui

NOTA
17 agosto 2023: raccolte in pochi giorni oltre 200.000 adesioni

Contro il senso comune: ascoltare senza giudicare.
I genitori accolgano il disagio dei figli

Questa è la seconda parte del mio intervento su genitori, figli e scuola con cui mi inserisco nella discussione aperta su Periscopio da Mauro Presini e Nicola Cavallini, il primo con l’articolo  Che cosa APPrenderanno?, il secondo con l’articolo Il virtuale è reale: non è vero che i ragazzi non comunicano più . Sono veramente contenta di questa occasione che mi consente di esporre ciò che ho acquisito nell’approfondimento del tema introdotto da Mauro Presini, quello della preoccupazione per il ruolo della tecnologia nella vita delle e degli adolescenti. Posso perfino contare su una prima consapevolezza che Nicola Cavallini fa pensare sia già presente nella riflessione generale per sperare che il mio discorso, forse difficile da ricevere, possa non cadere nel vuoto. Nella prima parte,  qui,  ho scritto in “difesa” degli adolescenti; ora vorrei illustrare un punto di vista diverso sui genitori.

Contro il senso comune: ascoltare senza giudicare

“Affermare che questa cosa [il mondo virtuale] è negativa perché non la si capisce, può portare a vietare o stigmatizzare lo strumento in sé, che è esattamente il rovescio della medaglia di lasciarlo usare senza alcun limite e senza alcuna coordinata”, dice Nicola Cavallini. Sono d’accordo. Da qualche parte, forse fra i commenti all’articolo di Mauro Presini, una maestra scriveva di una mamma che non riusciva a togliere il cellulare di notte al bambino che altrimenti piangeva. Tali giudizi sui genitori ricorrono continuamente. Intanto è da notare che il padre non è citato nel discorso della maestra, poi questo tiro incrociato cade proprio sulla croce rossa: genitori ritenuti incapaci, spesso più le mamme, ma anche i padri, additati come colpevoli, che io vedo più come vittime o come figure fragili.

A me pare di notare che fra i genitori di ragazzi o ragazze con disagio, magari con psicopatologie, i padri, spesso, assumano un atteggiamento di negazione, di rimozione o stigmatizzazione e che a volte abdichino al loro ruolo o addirittura scompaiano fisicamente. Le madri devono quindi accollarsi completamente il peso di una relazione con i figli non solo difficile di per sé, ma anche in questo modo viziata. Non è sempre così: ci sono anche padri meravigliosi e madri meno efficaci, ma è chiaro che gli stereotipi e i condizionamenti sociali provocano tali effetti. Nella scena illustrata da Mauro Presini io immagino mamme succubi dei figli, e assenza della figura paterna. È forse lo stile prevalente oggi.

Eppure conosco genitori che, spinti dalla necessità impellente di affrontare la sofferenza dei figli, si mettono in discussione giungendo, con dubbi e lacerazioni, ad acquisire elevate competenze relazionali e di cura. Diventano dei veri esperti del malessere dei loro figli, solo che quasi sempre quello che apprendono è controintuitivo, e il senso comune non lo riconosce come corretto. 

Quello seguente è un esempio di ciò che intendo. Sul sito di Hikikomori Italia si trovano le cosiddette  “buone prassi” , elaborate dallo psicologo esperto del tema e fondatore del sito, Marco Crepaldi, e confermate dagli altri esperti. Tali buone prassi comprendono il mantenimento di una buona relazione con l’hikikomori e l’assoluta rinuncia a intervenire sui comportamenti sintomatici: l’utilizzo ininterrotto della rete, l’inversione degli orari tra sonno e veglia, il rifiuto di andare a scuola e tanto altro. Questo perché i sintomi sono conseguenza, non causa, di un malessere ed occorre curare il male per eliminare i sintomi. Per spiegarmi meglio uso la metafora che ho sentito da una psicoterapeuta che parlava di anoressia: il sintomo è una stampella. Serve a chi sta male per compensare un vuoto. Se si toglie la stampella, la persona sofferente crolla.

Probabilmente non vi sarà difficile immaginare che i genitori che applicano le “buone prassi” siano spesso giudicati e stigmatizzati, da insegnanti, familiari, amici che osservano dall’esterno. Questi genitori vengono considerati spesso deboli e acquiescenti e le figlie viziate. “Io lo butterei giù dal letto!”, “Bisogna portarla a scuola di peso!”, “Bisogna staccargli internet”.

Eppure la prima cura è proprio non esercitare nessuna pressione: non fare, dicono le psicologhe. Potete immaginare quanto ciò risulti difficile: supponiamo che vostro figlio abbia mal di pancia la mattina e non voglia andare a scuola. Voi non dovreste fare niente, non dovreste costringerlo a fare le analisi mediche, non dovreste sgridarlo perché sta su internet tutta la notte, non dovreste dirgli di andare da uno psicologo. Dovreste farvi vedere tranquilli e confortanti dicendo che è importante la sua serenità, che a tutto c’è rimedio. Immaginate il rapporto di questi genitori con i nonni, o gli zii, o magari fra padre e madre e poi con gli insegnanti: “Se non viene a scuola, come facciamo ad aiutarla?”. Perfino i servizi sociali a volte denunciano i genitori per evasione dell’obbligo scolastico. Anche certi psicologi spingono a forzare.

Quando i genitori presentano alle insegnanti queste situazioni, spesso sono denigrati, non creduti, definiti “avvocati dei figli”. Nemmeno gli psicologi a volte vengono ritenuti degni di fede, perché tanti insegnanti ancora non riescono a svincolarsi dall’idea di scuola che trasmette contenuti nel modo e nella quantità apprese da loro. La scuola non ha ancora chiarito a se stessa il suo mandato, per cui chi non è capace di raggiungere certi risultati, in un certo modo, non è adatto alla scuola, cioè non è. D’altronde mi pare che la concezione attuale sia quella di una scuola produttivistica, che forma per il lavoro, non per la cittadinanza e la ricerca della propria identità.

Con tutto questo non voglio certo dire che i genitori non sbaglino. Me compresa. Matteo Lancini sostiene che il problema sono gli adulti: una società che emargina i giovani, che non dà spazio, che li giudica incapaci e manchevoli, una società competitiva, che pretende il successo e il conformismo; genitori che non sopportano di vedere i figli in difficoltà o nella sofferenza, perché questo rivelerebbe il proprio fallimento.  Genitori che non vedono, che non accettano. Scuola che spesso, anche se vede, non si ritiene competente a gestire le situazioni.

Dal mio punto di vista, alla scuola, ai genitori, manca l’abc della comunicazione, che consentirebbe di essere capaci di ascoltare, dialogare, non colpevolizzare,  riconoscere le emozioni e i bisogni in sé e negli altri. Nel mio blog ho iniziato a introdurre riflessioni e suggerimenti pratici, (vedi qui), perché penso che questa sia la chiave per cambiare le cose, per cambiare la scena di quei bambini, di quelle adolescenti. I genitori vengono criticati a ragione, ma io penso che l’obiettivo non sia di trovare il colpevole: giudicare cristallizza una realtà, non la cambia. Io penso che occorra accettare, creare consapevolezza, dare potere.

Se almeno gli, le insegnanti apprendessero a comunicare, quella maestra, oltre a un semplice commento, riuscirebbe a empatizzare con la difficoltà della mamma e a sostenerla. Quella madre riuscirebbe ad accettare il pianto del figlio e il figlio, compreso nel suo dolore invece che rifiutato, ce la farebbe a rinunciare al telefono per dormire.

Vite di carta /
Storia della patriota Paola Del Din.

Vite di carta. Storia della patriota Paola Del Din.

Il 26 luglio 1944 Paola Del Din, che ha assunto il nome di copertura Renata per diventare agente del SOA (Special Operations Executive), parte da Udine per arrivare al sud, oltre le linee nemiche, e compiere la sua prima missione da patriota recapitando importanti documenti utili alla Liberazione nella parte d’Italia già raggiunta dagli Alleati.

nome in codice Renata Alessandro CarliniÈ il 26 luglio di questo 2023 e per coincidenza ho cominciato la lettura dell’ultimo libro scritto da Alessandro Carlini, Nome in codice: Renata. Storia di Paola Del Din, combattente della Resistenza e agente segreto, edito da UTET e uscito in marzo.

A pagina 45 trovo la data col giorno e il mese di oggi e mi soffermo a pensare: caspita, esattamente 79 anni fa, quando mia madre e mio padre erano ragazzi, poco più che ventenni. Ho scelto una lettura storica per questo scorcio bollente dell’estate, sottraendomi ai libri da leggere sotto l’ombrellone (quando mai li ho letti, tra l’altro?).

Altri libri dedicati alla seconda Guerra mi attendono per il resto di agosto, sono scritture più intime dedicate a persone che hanno lasciato memoria di quegli anni. Di uno di loro ho addirittura la copia del manoscritto e vivo con una certa emozione la fiducia che mi ha accordato la pronipote nell’affidarmi le parole che le restano del bisnonno.

Cercherò di entrarci in punta di piedi, con lo stesso delicato rispetto con cui Alessandro Carlini si è intrattenuto in lunghi incontri nella casa di Paola, a Udine, dal 2020 al 2022. Due anni di conversazioni intense, in cui Paola ha raccontato la sua vita all’ ‘allievo’ venuto per lei, per tesaurizzarne la memoria sugli anni che più lo interessano come giornalista e come autore di due pregevoli gialli storici ambientati a Ferrara nel periodo della Resistenza e nell’immediato dopoguerra.

Paola, che Carlini conosce nel 2020, grazie al presidente dell’ANPI di Poggio Rusco, mostra di avere una grande energia nonostante sia quasi centenaria, essendo nata nell’agosto del 1923 a Pieve di Cadore. Ha ricordi precisi e circostanziati. Custodisce con altrettanta limpidezza i dettagli sulle situazioni oggettive in cui si è imbattuta e sul loro significato storico, i dolori personali e familiari.

Custodisce le emozioni non dimenticabili con la compostezza a cui è stata educata in famiglia: su tutte la tragedia del fratello Renato, entrato nella Resistenza prima di lei e ucciso dalla milizia durante l’assalto partigiano alla caserma repubblichina di Tolmezzo, esattamente un anno prima della Liberazione.

Il libro comincia così: “Quale nome in codice ha scelto?” In principio c’è sempre il nome. Paola Del Din lo sa bene… In ogni nome c’è una storia. L’etimologia è questo, in fondo: trovare la storia dentro le parole“. Nell’atto di diventare un’agente del servizio segreto britannico Paola sceglie senza esitazione di chiamarsi Renata, per ridare vita al fratello che non c’è più e al significato di rinascita contenuto nel suo nome.

Per agire in difesa dei valori della democrazia come autentica patriota, è così che si definisce. Secondo Carlini la parola prevale in lei per lo spirito risorgimentale a cui rimanda e per la presenza duratura nel tempo storico che manca invece alla parola partigiano.

Partigiano si riferisce a una breve stagione della storia e contiene una accezione di significato più specifica, circoscritta a una sola parte politica. Pur avendo combattuto vicino a partigiani dei più distanti orientamenti politici, durante e dopo la guerra Renata si è tenuta distante dagli orticelli separati della politica: il suo rifiuto verso “le lotte intestine e spesso fratricide come quelle combattute in Friuli” all’interno delle brigate partigiane è il segno di una visione più ampia della democrazia che va riconquistata, dove le differenze vengono incluse anziché rimarcate.

C’è una cornice narrativa nel libro che a tratti si stacca dal quadro di Renata e della sua storia: in questa cornice il narratore-autore abbandona i panni dell’intervistatore, smette di essere l’ ‘allievo’ a cui la professoressa Del Din tiene una esemplare lezione di Storia ed Educazione Civica, per assumere due altri ruoli, uno più prezioso dell’altro.

gli sciacalli alessandro carliniIl primo è quello di giornalista, che gli ha permesso di ottenere in netto anticipo sulla data del 2024 il personnel file HS 9/414/5 con i documenti dell’agente segreto Renata conservati negli archivi di Stato britannici a Londra. Nel dicembre 2020, mentre “Regno Unito e Unione Europea concludono il loro divorzio, più o meno consensuale e pur sempre traumatico”, arriva la tanto attesa documentazione da Londra.

Carlini però non è in grado di consegnarla e condividerla subito con Paola: viene ricoverato in ospedale in attesa di un trapianto di cuore e rene che potrà restituirgli la sua speciale rinascita. La distanza forzata dura parecchi mesi ma rinsalda anziché spegnerla la solidarietà che è nata tra i due: l’ ‘allievo’ diviene compagno di viaggio.

Entrambi ora conoscono il logorio esistenziale di una lunga attesa, la difficoltà di tenersi pronti a un evento esiziale. Per Paola la seconda missione dell’aprile 1945, venuta dopo i lunghi mesi dell’addestramento in Puglia e in Toscana: trasferire documenti e materiali nel Friuli ancora da liberare paracadutandosi da un C47 nelle vicinanze di Udine. Per Alessandro affrontare il delicato trapianto, che sarà fattibile solo nella primavera del 2021.

il nome del male alessandro carliniQuando si rivedono nella casa di lei c’è il profondo interessamento di Paola per la salute dell’ospite ritrovato. Subito però si immergono nel recupero della memoria sugli anni della guerra e nella lettura dei documenti mandati da Londra. Renata vi compare come un ottimo agente al servizio della Liberazione. Va detto che nel 1961 anche in Italia, nella piazza d’armi di Padova, le sarà conferita la medaglia d’oro al valor militare.

Ma siamo ormai nel 2022, Paola è divenuta anche molto altro negli anni che sono seguiti alla guerra: moglie, madre, insegnante in Italia e ricercatrice negli USA.

Dopo quasi due anni di conversazioni, dopo avere condiviso e poi raccontato un tratto di strada tanto intenso, Carlini chiude il suo prezioso libro rivelando un dettaglio che dettaglio non è: in alcune mail scritte nei mesi dell’attesa a Paola è sfuggito di dargli del tu.

Nota bibliografica:

  • Alessandro Carlini, Nome in codice: Renata, UTET, 2023
  • Alessandro Carlini, Gli sciacalli, Newton Compton Editori, 2021
  • Alessandro Carlini, Il nome del male, Newton Compton Editori, 2022

Per leggere gli altri articoli di Vite di carta la rubrica quindicinale di Roberta Barbieri clicca sul nome della rubrica o il nome dell’autrice

Nell’era dell’Ebollizione Globale

Nell’era dell’Ebollizione Globale


di Tommaso Perrone
Da LifeGate del 9 agosto 2023

Il mese di luglio che ci siamo lasciati alle spalle è cominciato con un giorno, poi due, poi tre. Infine quattro record di temperatura massima su base giornaliera a livello globale, dal 3 al 6 luglio. È poi proseguito con una settimana, poi due, poi tre. Infine, tutto il mese che si è appena concluso è stato da record: luglio 2023 è stato il mese più caldo mai registrato sul nostro pianeta, la Terra, da quando sono cominciate le rilevazioni ufficiali.

Dopo aver anticipato, già dopo “sole” tre settimane, che quello di luglio 2023 sarebbe potuto essere un mese senza precedenti nella storia dell’umanità, l’8 agosto i ricercatori di Copernicus – il programma dell’Unione europea che fa capo all’Agenzia spaziale europea – hanno confermato le loro previsioni. Il mese di luglio 2023 è stato più caldo di 0,7 gradi Celsius (°C) rispetto alla media dei mesi di luglio del periodo 1991-2020 e di 0,3 gradi rispetto al mese di luglio 2019, che finora deteneva il record. Non solo, i ricercatori stimano che il mese scorso abbiamo varcato “temporaneamente” la fatidica soglia di aumento della temperatura media pari a 1,5 gradi centigradi rispetto all’epoca pre-industriale, cioè agli anni compresi tra il 1850 e il 1900. La soglia che scienziati e politica si sono dati nel 2015 con l’Accordo di Parigi (“ben al di sotto dei 2 gradi”) come tetto massimo per evitare che la crisi climatica si trasformi in una catastrofe.

Entrando nei dettagli, il record di temperatura media globale su base giornaliera è stato infranto nel mese di luglio. Il nuovo record oggi appartiene al 6 luglio 2023, con 17,08 gradi. Il record precedente era stato segnato il 13 agosto 2016 quando erano stati raggiunti i 16,8°C.

Ma la cosa straordinaria e che va sottolineata con forza è che ogni dannato giorno, dal 3 al 31 luglio, è stato battuto il record del 2016. Sui mezzi d’informazione si è cercato di coprire la cronaca, di dare i fatti più “rumorosi”, ci siamo tutti concentrati sul “poker di record” fatti registrare tra il 3 e il 6 luglio. Ma anche tutti – ripeto, tutti – i giorni successivi, fino al 31 luglio compreso, hanno superato il record del 2016. Questo significa che i 29 giorni più caldi della storia dell’umanità ora sono tutti firmati “luglio 2023”. E il record del 2016 dovrebbe essere scivolato in 30esima posizione.

Una condizione che ha spinto il segretario generale delle Nazioni Unite António Guterres a uscire allo scoperto e annunciare alla comunità globale che l’epoca del riscaldamento globale è finita: “È iniziata quella dell’ebollizione globale”.

E le cause di tutto questo sono chiare, ormai ovvie. Per Carlo Buontempo, direttore del dipartimento Climate change service (C3s) di Copernicus, le temperature da record “sono parte di un trend di aumento delle temperature globali a dir poco drammatico. Le emissioni causate dalle attività umane sono il vero motore di questi aumenti”. E le emissioni di gas serra a cui fa riferimento Buontempo, è importante ricordarlo sempre e in modo limpido, sono a loro volta causate dai combustibili fossili, cioè carbone, petrolio e gas.

Sul tema ci è tornato anche lo stesso Guterres che ha bollato come inaccettabili i profitti extra fatti in questo periodo storico dalle compagnie che producono combustibili fossili, come è inaccettabile la passività dei governi: “I leader devono fare i leader, basta con l’esitazione e le scuse. È ancora possibile limitare l’aumento della temperatura media globale a 1,5 gradi centigradi, ma soltanto con un’azione immediata e repentina”.

Il nostro continente, l’Europa, è stato protagonista di un’ondata di calore che ha visto polverizzati i record di temperatura massima in varie località, dall’Italia (dove Palermo ha fatto registrare i 47 gradi, mentre in Sardegna – a Jerzu – sono stati toccati i 48 gradi) alla Grecia che ha raggiunto picchi intorno ai 46 gradi. Stranamente, però, è rimasto integro il record continentale di 48,8 gradi registrato a Siracusa due anni fa, l’11 agosto 2021. Unica eccezione: l’Europa settentrionale. Solo nei paesi scandinavi, infatti, la temperatura è stata uguale o poco sotto la media del periodo.

Come dicevamo, però, il record per il mese di luglio è globale. E infatti le ondate di calore non hanno risparmiato il resto dell’emisfero boreale, cioè settentrionale. Nel continente africano, in particolare nelle regioni settentrionali e centrali, dall’Algeria alla Tunisia (dove sono stati raggiunti i 49 gradi), dall’Etiopia all’Eritrea le massime hanno raggiunto picchi inesplorati.

L’America del Nord è rimasta soffocata da temperature anomale per giorni, dal Canada agli Stati Uniti occidentali e meridionali. Nella città di Phoenix, in Arizona, solo l’ultimo giorno del mese la temperatura è scesa sotto i 43 gradi Celsius. Mentre nei territori canadesi del Nordovest, molto vicini al Circolo polare artico, sono stati superati i 37 gradi. Anche in Groenlandia le cose non sono andate meglio, come testimoniato da una recente spedizione italiana.

Infine, l’Asia. Qui le ondate di calore hanno reso la Cina (e i paesi limitrofi come Thailandia e Vietnam) quasi invivibile, con il record di temperatura massima toccato il 16 luglio nella località di Sanbao: 52,2 gradi centigradi. Siamo nella prefettura di Turpan, provincia dello Xinjiang – la Death Valley cinese. Una condizione analoga a quella vissuta in India, dove i lavori all’aperto sono diventati rischiosi per l’incolumità delle persone, come raccontato dal nostro corrispondente da Calcutta, Gurvinder Singh. Mentre il Giappone ha dovuto scartabellare negli archivi per risalire fino al 1898 e ritrovare temperature analoghe a quelle del mese di luglio 2023.

Ma per rendere il mese di luglio davvero eccezionale, non si può non verificare cosa è successo nell’emisfero australe dove ora è in corso l’inverno. La temperatura è stata più alta della media in molti paesi, come le aree settentrionali di Cile e Argentina, ma anche Uruguay e Brasile meridionale. E l’Antartide ha fatto registrare estremi che si possono definire “anomali”.

E poi ci sono i mari e gli oceani. Ovvero la maggior parte della superficie terrestre, anche se molto spesso ce ne dimentichiamo solo perché viviamo sulla terraferma. In questi giorni, infatti, il Mediterraneo è stato descritto come un mare in ebollizione, con temperature da vasca da bagno più che da mare aperto. Temperature mai viste prima: la mediana giornaliera ha raggiunto i 28,71 gradi centigradi. Un dato che ha spinto il meteorologo scozzese Scott Duncan, diventato popolare sui social per le sue coperture precise e costanti, a scrivere in un tweet (si chiamano ancora così?) che “il Mediterraneo è ora fuori da ogni misurazione fatta fin qui. Non abbiamo mai misurato questo livello di calore nel bacino mediterraneo in qualsiasi periodo dell’anno. Ed è solo luglio. Di solito il picco viene raggiunto in agosto”.

In generale, però, da aprile a oggi le temperature delle acque superficiali sono state decisamente alte in tutto il pianeta, complice anche l’inizio del Niño, il fenomeno naturale per cui la superficie dell’oceano Pacifico si riscalda in modo considerevole su tutta la fascia equatoriale. Da metà maggio in avanti le temperature delle acque superficiali hanno raggiunto livelli anomali per qualsiasi periodo dell’anno e vicine ai 21 gradi centigradi.

“Mi piace pensare che la gente sia guidata dai fatti e dalle evidenze”. Vorrei chiudere questo numero straordinario di nuovo con le parole di Carlo Buontempo, l’italiano al vertice del C3s di Copernicus. Un uomo che sta contribuendo a rendere il nostro futuro migliore grazie alle osservazioni, alle ricerche e alle scoperte. Nell’intervista rilasciata al giornalista Ferdinando Cotugno per il quotidiano Domani ha dichiarato che il suo compito “è solo fornire le evidenze. Poi sta alla politica decidere”. E se la politica considerasse la transizione impopolare, allora è giusto che sappia – e che tutti noi sappiamo – che ci troveremo presto “a vivere in un clima molto diverso da quello in cui la nostra civiltà si è evoluta”.

E conclude lanciando un messaggio ai negazionisti che oggi si stanno divertendo a “inquinare” il dibattito pubblico, dalla tv ai social: “Contestare il legame tra emissioni e riscaldamento globale è come il terrapiattismo. Tagliare le emissioni non è solo una questione di responsabilità morale rispetto ai nostri figli, è una questione pragmatica. Conosciamo i fatti, abbiamo la possibilità di gestire il rischio”.

Immagine di copertina  National Geographic

Una montante marea di NO al Ponte sullo Stretto:
Messina inondata dai manifestanti

Una montante marea di NO al Ponte sullo Stretto: Messina inondata dai manifestanti

Il sabato appena trascorso ha visto la città di Messina inondata da una marea di manifestanti non solo costituita da cittadini peloritani: moltissime sono state le presenze dall’altra sponda dello stretto; così come pure diverse sono state le presenze registratesi dalle altre realtà territoriali regionali, intervenute con nutrite delegazioni; o soggettività venute a protestare anche da altri territori della penisola con significative rappresentanze.

Le cronache parlano di un successo straordinario, di un corteo enormemente cresciuto – qualitativamente e quantitativamente – rispetto alla partecipazione del presidio di Torre Faro, indetto lo scorso giugno per contestare la passerella politica del  ministro delle infrastrutture, Salvini, invitato dalla CISL ad un vero e proprio spot-dibattito pro-ponte.

Ma questo dell’altro ieri, bisogna ribadirlo, è stato un vero grande successo che, così come ha commentato  Corrado Speziale, in un suo articolo su scomunicando, «ha trasformato l’altrettanto importante corteo di Torre Faro, dello scorso 17 giugno, in un’ “anteprima” che ha dato il via ad una serie di manifestazioni in divenire, che assumeranno sempre più forza e consistenza nel tempo. Perché se il ministro Salvini e i suoi interlocutori interessati – scrive ancora Speziale – intendono rispettare quello che definiscono un cronoprogramma che porterà tra meno di un anno alla fatidica posa della prima pietra, in riva allo Stretto la protesta non tenderà affatto ad attenuarsi. Anzi, crescerà sempre di più».

La giornata è iniziata a Piazza Cairoli punto di concentramento del corteo, da cui i manifestanti – stimati nell’ordine di circa 5000 – hanno preso il via sfilando lungo le vie della città, per lanciare una massiccia campagna di resistenza e per dire – in modo chiaro e deciso – un grosso NO alla folle impresa di costruire il mega ponte sullo stretto.

Nella fase finale dell’iniziativa,  a Piazza Unione Europea (dove il lungo serpentone si è sciolto) campeggiava lo slogan No al ponte – No alle grandi opere, proiettato dagli organizzatori sulla facciata municipale. Nel frattempo, diversi interventi si sono alternati poco prima della chiusura, la quale è stata  affidata ad un concerto tenute da gruppi musicali dei territori di Scilla e Cariddi.

Vogliamo inoltre registrare un’importante rivendicazione, segnalata opportunamente anche da  Speziale, portata all’attenzione dal gruppo “Disabili pirata”  che – nel corso del corteo – si è fatto apprezzare per aver lanciato lo slogan originale Contro ponte e betoniere, abbattere tutte le barriere. Il predetto gruppo, «in virtù della sensibilizzazione per l’abbattimento delle barriere nell’ambito della difesa dei diritti delle persone con disabilità, ha promosso il prossimo Disability Pride che per la Sicilia, a conclusione del circuito nazionale di sette tappe, si terrà a Palermo il prossimo 22 ottobre».

Infine prendiamo nota di quanto ha dichiarato Luigi Sturniolo, da sempre attivista in prima fila delle battaglie NoPonte, sull’efficacia della manifestazione del 12 agosto: « la sua ricchezza, la sua pluralità, la gioia che ha trasmesso, ha scosso gli agit prop locali del ponte. Non sono tanti, ma sono influenti». Ed in modo ancora più incalzante continua: «Alcuni di loro ci guadagnano già col ponte e fanno parte di quel blocco sociale che trae vantaggio dal riavvio dell’iter progettuale.  Sì, proprio così – sottolinea l’ambientalista -, non dalla costruzione del ponte, ma dall’attivazione del cronoprogramma. Noi gli stiamo rovinando i piani e loro reagiscono scompostamente».

Concludendo, ci dice Sturniolo: «Provano a “definirci”, a “classificarci”, ma lo fanno male, non sanno che quando i movimenti irrompono nella società cambiano tutti gli equilibri pre-esistenti. Non possono capirlo perché misurano il proprio tempo di vita con la partita doppia delle entrate e delle uscite. Con buona pace di coloro che disinteressatamente hanno una preferenza per il ponte, questi che si avvantaggiano attraverso il riavvio dell’iter non hanno alcun interesse a una polemica razionale. Promettono galera e cariche della polizia, ma verranno travolti dalla gioia della comunità che difende il proprio territorio. Ci dispiace tanto, ma non abbiamo tempo da perdere con loro».

Insomma, dalla Sicilia sembrano risvegliarsi nuove speranze resistenziali che richiamano alla mente le grandi lotte del passato e che, scorrendo lungo la dorsale appenninica, si collegano al conflitto delle comunità alpine della Val di Susa. Non a caso nel tripudio di bandiere fra le altre sventolavano quelle dei NoTav

In copertina: immagine di Giordano Pennisi – Scattomancino. Messina, 12 agosto 2023

Diario in pubblico /
Notizie dal mondo che raggiungono il Lido degli Estensi

Notizie dal mondo che raggiungono il Lido degli Estensi

Nella quiete del Lido spesso Laido ma non più di tanto giungono le notizie del mondo e dei luoghi più importanti della vita intellettuale nazionale di cui Viareggio è stata ed è uno dei centri fondamentali. Qui operano le carissime amiche Anna e Laura che con cene quotidiane radunano amici, allievi, colleghi per tenere alto il nome della cittadina e le sue importanti istituzioni.

Naturalmente le telefonate quotidiane molto mi fanno rimpiangere i tempi in cui anch’io vivevo a Viareggio, avevo casa, partecipavo di quel clima e di quelle avventure intellettuali compreso il Carnevale che ho sempre molto amato.
Con fare disinvolto Anna mi tiene al corrente degli inviti e di chi partecipa alle sue grigliate che alimentano riccamente il mercato del pesce viareggino.

A questo punto scoppia l’invidia e con fare subdolamente ironico le dono un nome che rimarrà nella nostra storia privata e pubblica: la Grigliadora. Alla mattina cominciamo la telefonata a base dei piatti mangiati quando io scelgo la cena nel ristorante del bagno che ottimamente ci fornisce. E lei rovesciandomi nomi di chili di pesce comprati per la grigliata sente, credo con un po’ di invidia, che il mio piatto preferito, i ravioli di cernia, sta spopolando presso parenti e amici tanto da diventare la star della cena per il compleanno di Vittoria.

Mi risponde nominandomi ristoranti tipici che fanno parte dell’ambiente lucchese-viareggino come quello che ancora primeggia nell’amatissima Massarosa e in quella Versilia teatro decenni fa della mia vita mondana culturale tra la Bussola, la Capannina, il caffè Roma del Forte dei Marmi.

Ma è inutile ripercorrere il passato se non se ne distanzia il valore e le possibilità. Frattanto i pronipoti amatissimi, Sapientino e le Sbarabegole. il trittico intellettuale della famiglia si sono dati ad una attività commerciale di famiglia. Intrecciano portachiavi e braccialetti di filo di plastica che venderanno in spiaggia e presso i parenti.
Hanno pure un referente bancario il divano bank gestito dagli zii soprattutto da zia Doda che ha fatto del divano il suo luogo di soggiorno marino.

Alla mattina c’è il complesso affido di Benny che ormai sa che da noi troverà solo coccole, molte fette di mela il suo cibo preferito e Irina che vive in simbiosi con lui. Non abbaia più quando ce lo portano ma con aria di sufficienza attende la sua inesauribile porzione d’affetto che gli viene rovesciato addosso senza limiti. Mi guarda ironico come a voler dire <<visto come sono intraprendente?>>.

Nella via principale, tirata a lucido, i vogliosi commercianti con le super offerte dettate dagli sconti esibiscono facce annoiate e deluse. Sembra che il mercato non tiri, ma credo sia condizione nazionale ed europea.
Lenti passano i giorni ma nello stesso tempo incredibilmente veloci mentre io sogghigno pensando a quei presuntuosissimi intellettuali che hanno scritto e detto che la vecchiaia è l’età della saggezza. Ma quale saggezza. Probabilmente è l’età della disperazione perché per tutti lasciare la vita è il sacrificio supremo.

Beati coloro che credono. Almeno spes ultima dea non ha lasciato il vaso di Pandora.

Cover: La spiaggia di Forte dei Marmi a fine stagione

Per leggere gli altri articoli di Diario in pubblico la rubrica di Gianni Venturi clicca sul nome della rubrica o il nome dell’autore.

Parole e figure /
Alla ricerca della felicità

La felicità sta nelle piccole cose. Anche in una tazza di tè

Una favola moderna quella che oggi presentiamo ai nostri lettori, un viaggio alla ricerca della scoperta della cosa più importante nella vita, sotto il segno dell’amicizia.

È il lungo e divertente viaggio quello dell’albo di Eulàlia Canal e Toni Galmés, La felicità è una tazza di tè, appena uscito in libreria per Terre di Mezzo editore.

Orso ha perso gli occhiali e li cerca ovunque. Senza non vede davvero nulla, i color sono sbiaditi e tutto gli pare in bianco e nero. Non può far nulla, nemmeno andare a pescare. Ed ha pure in programma una cenetta con Orsa, come mai farà senza i suoi preziosi occhiali, regalo del nonno?

Tasso ha perso il sonno. È quindi alla ricerca del riposo perduto. Che baccano e quante nuvole! Orso e Scoiattolo lo hanno davvero svegliato nel bel mezzo di un bellissimo sogno. E piove a dirotto pure, ora, con fulmini che squarciano il cielo grigio. Tanto vale accettare l’invito di Tasso ed entrare nella sua tana. Al coperto e al riparo si starà senza dubbio molto meglio. Quando poi viene offerto loro un delizioso e profumato tè alla fragola, con tanto di teneri biscottini al cioccolato, l’invito è ancora più bello.

Bisogna ammettere, però, che Scoiattolo batte tutti: si è messo in testa di trovare… la felicità. “Ah, e com’è la felicità?” gli chiede Orso. “Non lo so ancora”, risponde Scoiattolo, “ma ne parlano tutti…”. Tutti alla sua ricerca, allora.

Lupo è, invece, in cerca di amici. Nelle favole è sempre il cattivo e desta sempre molti timori. Gli stessi che hanno Orso, Tasso e Scoiattolo nel farlo entrare quando bussa alla porta della tana di Tasso, bagnato e infreddolito. Non si fidano. Forse i lupi non sono poi tutti uguali, qualcuno si salva. In fondo, non tutti gli scoiattoli sono imbroglioni, non tutti i tassi degli ingrati e non tutti gli orsi collerici…Nessuno scappa, Lupo cerca solo amici, lo ammette, e qui ne trova tre. Con una coperta e una tazza di tè, e tanta gratitudine.

La felicità, per Orso, è forse riavere i propri occhiali che si è mangiato per errore, con l’aiuto dello sciroppo del dottor Volpe? O fare una passeggiata romantica con Orsa, mano nella mano? Per Tasso è forse ritrovare il sonno? Per Lupo avere nuovi amici? E per Scoiattolo? Partire, girando il mondo, dopo aver incontrato mucche, pecore, pipistrelli, aironi, cavalli, castori e mandrilli, giraffe, aquile e serpenti per poi tornare? Chissà, forse sta semplicemente nelle piccole cose, di ogni giorno regalato.

Eulàlia Canal (testo) e Toni Galmés (illustrazioni), La felicità è una tazza di tè, Terre di Mezzo editore, 2023, 56 p.

 

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Eulàlia Canal è una psicologa e autrice catalana di libri per bambini e ragazzi, lavora come psicologa.

Ha vinto il Premio Barcanova de literatura infantil y juvenil. In Italia è uscito I fantasmi non bussano alla porta (Valentina edizioni).

 

Toni Galmés è un illustratore catalano. Insegna Storia del Teatro all’Università di Barcellona. Ha illustrato, tra l’altro, la serie per primi lettori, La casita bajo tierra (Penguin Random House Spagna).

 

Libri per bambini, per crescere e per restare bambini, anche da adulti.
Rubrica a cura di Simonetta Sandri in collaborazione con la libreria Testaperaria di Ferrara

Dialogo-Invettiva tra un profeta matto e sé stesso

Dialogo-Invettiva tra un profeta matto e sé stesso

Non vi riconosco più. Non vi conosco più, e sono anche stanco di frequentarvi, di sentirvi parlare del nulla mentre il mondo, l’ambiente intorno a noi sta letteralmente collassando.
Volete qualche data? Eccovela. Nel 2050 parte della pianura padana sarà forse sott’acqua, ma voi continuate, continuate pure a parlare di dove andrà Lukaku.
Migliaia di persone ogni giorno muoiono di fame e di malattia in Africa, il continente che ha visto l’origine della nostra specie, si sta desertificando sempre più.

E Voi? Voi avete paura, paura che vengano qui, a prendervi il vostro benessere, le vostre cene al ristorante, il vostro aperitivo, le Nike da trecento euro, l’Iphone, le Audi e le Mercedes, le BMW. Più il disordine nel mondo aumenta e più invocate ordine interno, disciplina, intolleranza e mezzi repressivi attorno a voi, nella speranza di salvarvi. Ogni uomo dovrebbe occuparsi degli altri, salvare o aiutare il prossimo, non pensare solo a sé stesso, o ai soli familiari, invece voi lo fate, li fate morire in mare come bestie annegate in un sacco. Ma non capite, non capite che non sarà redento niente di ciò che non è stato assunto? Non vi riguarda vero? Nessun impegno verso il prossimo, nessuna assunzione di responsabilità: “Tanto non ci posso far niente, è inutile, sono troppi, ma poi io che c’entro? Che vadano a lavorare”. Intanto li state condannando a morte, consumando a più non posso, sottraendo risorse e materie prime ai loro paesi, per riempire gli scaffali dei centri commerciali. Negate loro la vita, la dignità, la salvezza, qui ed ora. Eppure continuerete, continuerete a far finta di niente, a costruire tante piccole felicità, vuote e personali, venate di malinconia negata, intrise di rabbia, continuerete a non pensare, a credere che non vi riguardi.

Volete altre date? Tra poco più di vent’anni è molto probabile che, in Italia, non ci saranno più soldi per pagare le pensioni di anzianità, già adesso il rapporto lavoratori/pensionati è 1:1. Sarà una sorta di punto zero dell’economia, anche i più anziani dovranno tornare a lavorare, come in Africa, come in certi paesi asiatici. Dite che non succederà? Può darsi, sempre ammesso che li abbiamo davvero vent’anni, forse è tutto quello che ci resta, perché si sta sciogliendo l’intera Groenlandia, assieme a buona parte del Pack al Polo Nord, e nessuno sa dire di quanto si alzerà il livello dei mari nei prossimi anni.

I grandi laghi ed i fiumi principali, in diverse parti del mondo, si stanno prosciugando a causa del prelievo eccessivo di acqua, come il Giordano, che gli israeliani hanno usato per irrigare le loro colture, o il lago Ciad, che fornisce acqua dolce a 20 milioni di persone. È solo questione di tempo. Dite che non c’è problema? Tanto dissaleremo l’acqua del mare. Peccato che per ogni metro cubo di acqua dolce, un dissalatore ne produce tre di acqua ipersalata, ma per un po’ basterà, poi ci penseranno gli altri, le generazioni a venire, non è un problema vostro.

Lo sappiamo tutti, lo vediamo attorno a noi, eppure fate finta di niente. Stiamo correndo verso l’autodistruzione, ma tanto cosa vi importa, avete i vostri vini pregiati, i vostri ristoranti esclusivi, male che vada, se avete meno soldi, il vostro spritz… Aperol o Campari? Scegliete. Un po’ di salatini, due patatine? No, meglio una bella apericena, e giù pasta fredda, crema fritta, affettati, pizza, olive all’ascolana…

Vi do un comandamento nuovo: che vi amiate gli uni gli altri. Come io ho amato voi.
Valeva solo per gli apostoli, non è vero? Basta divertirsi e non pensare più a nulla, se non a sé stessi, avere soldi in tasca da spendere, a tutti i livelli, tanti o pochi che siano. Nutrire solo il corpo, non l’anima, ma l’anima è immortale, che lo vogliate o no, non si nutre di cibo, e la mancanza di pensiero, l’assenza d’amore per il prossimo lentamente la atrofizzano, per sempre. Ad un certo punto, non la sentirete più dentro di voi, diverrete aridi, sola prassi, tecnica, azione e reazione.

Ma tanto che vi importa? Basta consumare. Infatti stiamo consumando l’intero pianeta, come locuste in un campo di grano. Non ci fermiamo mai: avanti, avanti, sempre avanti, tanto il progresso ci salverà! Ho visto a cosa serve il progresso. A riempire di chiacchiere inutili, di opinioni infondate e dannose, di sfide pericolose i Social; ad annichilire intere generazioni, sublimate dagli smartphone che annullano la realtà fisica in funzione di quella virtuale, riducendo al minimo le relazioni, attraverso mondi inesistenti. Del resto, la realtà fisica è oramai troppo degradata per essere affrontata senza averne paura. E voi l’avete, tanta. Siete così terrorizzati da negare tutto ciò che sta arrivando: cambiamenti climatici sempre più invasivi, mancanza di risorse e materie prime, d’acqua, di cibo. Il futuro è un baratro insondabile, di fronte al quale la mente vacilla. Ma non importa vero? Godiamoci il presente…

Eppure attorno a voi, tanti lavorano tutto il giorno, lottano fino allo sfinimento con bollette, dentista, caro libri scolastici, malattie invalidanti (proprie, dei figli, dei parenti), aumento dei prezzi, del cibo e del carburante. E voi, in tutto questo? Voi pensate ad arricchire. Introdurre una patrimoniale? “Ma scherziamo? Perché devo dividere i miei soldi con gli altri? La mia villa, il motoscafo d’altobordo, me li sono guadagnati io, e poi lo Stato si prende già abbastanza in tasse…”.

Ormai non ho più parole per voi, mi dispiace. Fatico anche ad amarvi, voi, piccoli e grandi ricchi del pianeta, ma anche voi, persone comuni, che ne imitate in minore lo stile ed i modi di vita, che comprate Gratta e vinci o giocate al Superenalotto nella speranza di arricchire improvvisamente e fregarsene di tutti. Non sopporto più la vostra indifferenza, la vostra insensibilità. Voi, venduti ad un falso dio, il Denaro.

(da “Il giornale di Rodafà. Rivista online di liturgia del quotidiano“, del 13 agosto 2023)

tutti vorrebbero avere il naso di barbie o no

Succede a Barbieland

Barbie è un film uscito negli Stati Uniti nel 2023 e attualmente presente nei circuiti italiani, diretto da Greta Celeste Gerwig. Regista, sceneggiatrice e attrice statunitense, la Gerwing è diventata famosa dopo aver lavorato in diversi film mumblecore. Ha collaborato con Noah Baumbach in ‘Lo stravagante mondo di Greenberg’ (2010), ‘Frances Ha’ (2012) e ‘Mistress America’ (2015). Ha anche recitato in film come ‘To Rome with Love’ (2012), ‘Jackie’ (2016) e ‘Le donne della mia vita’ (2016). La pellicola Barbie è il primo adattamento cinematografico live-action della celebre serie di fashiondoll della Mattel ‘Barbie’.

Il film ha inizio nel fantastico mondo di Barbieland, una società dominata dalle femmine, dove la classica Barbie e tutte le altre amiche conducono una vita appagante, ricoprendo professioni prestigiose come dottoresse, avvocate e politiche, mentre i loro corrispettivi maschili, i Ken, si dedicano ad attività ludiche, soprattutto in spiaggia.

Un bel giorno nella mente della protagonista emergono pensieri ‘umani’, come quello sulla morte. Da quel momento in poi niente è più come prima. Da bambola perfetta, Barbie inizia a sviluppare imperfezioni che finiscono per farla sentire un’emarginata. Decide così di rivolgersi alla saggia Weird Barbie, anche lei emarginata dalla società per i suoi difetti fisici, che le consiglia di andare alla scoperta del mondo reale, dove troverà la soluzione a tutti i suoi problemi. Decisa a riappropriarsi della sua precedente perfezione, Barbie parte per il mondo umano, dove viene raggiunta inaspettatamente da Beach Ken, che si nasconde nella sua decappottabile.

Durante il loro viaggio, Barbie e Ken affronteranno varie sfide e vivranno esperienze significative. Nel frattempo, Ken viene a conoscenza del sistema patriarcale e si sente rispettato e accettato per la prima volta. Tornato a Barbieland, convince gli altri Ken a prendere il sopravvento e le Barbie vengono sottomesse a ruoli minori come governanti, casalinghe e fidanzate. A loro volta, le Barbie si liberano dai Ken, manipolandoli sentimentalmente e facendo in modo che combattano tra loro.
Dopo vari accadimenti, le Barbie si rendono conto dell’errore del loro precedente sistema sociale e decidono di cambiare Barbieland, iniziando un percorso verso la parità di trattamento per i Ken e tutte le bambole emarginate. Alla fine, la Barbie protagonista, ormai insicura sulla sua identità, decide di diventare umana e tornare nel mondo reale.

Il film ha avuto un grande successo:

– È il film, diretto da una donna, che ha incassato di più nel primo giorno di programmazione, 155 milioni di dollari.

– È il primo film live-action, diretto da una donna, a raggiungere il miliardo di incassi nel mondo.

– È il film che ha registrato il miglior incasso per una pellicola della Warner Bros.

Inoltre, il film ha destato alcune critiche da parte di esponenti politici del Partito Repubblicano e dell’area conservatrice americana che vedono, nella separazione tra la ‘visione’ del mondo delle Barbie e quella dei Ken, l’esaltazione di un femminismo oltranzista. Altra critica è stata quella di aver inserito alcuni attori appartenenti alla comunità LGBTQ+ nel cast. Entrambe le critiche mi sembrano fuori luogo.

La visione di questo film fornisce lo spunto per alcune considerazioni:

1- Il mondo di Barbie che apre il film è stato definito, in maniera inappropriata, un matriarcato ma il matriarcato non è solo un patriarcato al contrario, come superficialmente è stato definito da produttori e critica. ‘Matriarcato’ deriva dal latino mater (madre) e dal greco -άρχης (arché). A questo termine si tende ad attribuire il significato di ‘dominio delle madri’ o ‘governo delle madri’, per indicare un sistema sociale speculare al patriarcato ma con ruoli di potere ribaltati. In realtà, non è così. Il significato più antico del termine ‘arché’ non è dominio ma ‘inizio’ (e quindi traducibile con una frase del tipo ‘All’inizio le madri’).
I sistemi matriarcali non sono un patriarcato rovesciato, ma organizzazioni sociali con caratteristiche uniche. Secondo Goettner-Abendroth (si veda: https://www.hagia.de/it/chi-siamo/), la struttura del matriarcato si articola su quattro livelli: a livello economico, è una società di mutualità economica basata sulla circolazione dei doni, dove le donne distribuiscono i beni; a livello sociale, è una società orizzontale, di discendenza matrilineare, in un contesto di uguaglianza di genere; a livello politico, è una società egualitaria di consenso, in cui la casa del clan è il nodo di connessione del processo decisionale; a livello religioso e culturale, è una società di culture sacre del divino femminile, con una profonda attitudine spirituale che permea ogni aspetto della vita.
È proprio la centralità del ruolo economico e spirituale delle donne che, nelle società matriarcali, dà loro grande potere locale e influenza sull’attività degli uomini. L’autorità femminile mette in atto dei modelli diversi rispetto alla leadership maschile ma non necessariamente ribaltati o in antitesi come la contrapposizione matriarcato/patriarcato propone. Tra l’altro, tali modelli non sono quasi mai supportati da struttura di rinforzo come polizia o istituzioni di controllo.
Chiarito ciò, matriarcato e patriarcato non sono il rovescio della stessa medaglia ma strutture organizzative molto diverse che si basano su premesse etiche e valori non opponibili.

2- Un secondo tema affrontato nel film è quello della disabilità.
A Barbieland una Barbie con difetti è emarginata. È così nel film ma era così anche con le Barbie-bambole. Mi ricordo quando ero piccola e mi è stata regalata la mia prima Barbie. Altissima, magrissima e biondissima. Il motivo per cui mi piaceva molto era proprio quello. Incarnava il modello di donna appetibile in quegli anni. L’antitesi della disabilità e l’incarnazione dello stereotipo imperante.
Non mi sarebbe di certo piaciuta se fosse stata miope, grassa e con l’acne.
È stato così per me, come per molte altre adolescenti. È utile ricordare che la società occidentale, fin dalle più remote origini, si è fondata su alcuni canoni estetici incentrati su un corpo proporzionato e armonico. Proprio per questo motivo, ha respinto nelle categorie della ‘diversità’ quelle persone che – a causa di menomazioni fisiche, psichiche e sensoriali – si discostavano dai canoni estetici dominanti.
Oggi la sfida per le persone con diversa abilità risiede soprattutto nella possibilità di guadagnarsi lo spazio per il riconoscimento della propria individualità, per pensare e progettare guardando al futuro e nel rispetto del riconoscimento della normalità. La normalità è un diritto che riguarda la possibilità di partecipare ai vari contesti di vita, potendo assumere diversi ruoli: nella scuola, come studente che apprende; nel mondo del lavoro, come individuo che contribuisce alla produzione, nel contesto culturale ricreativo, come fruitore, nello sport, come atleta. Le persone con disabilità, come tutti, vogliono essere riconosciuti nelle loro competenze, capacità ed interessi; vogliono essere riconosciuti nella loro individualità, e proprio come chiunque altro affermano il diritto di poter parlare da protagonisti. Anche su questo fa riflettere questo film che parla di barbie.

3- Un terzo tema affrontato da questo film è quello del mondo umano che è il mondo ‘vero’,  dove non è tutto bello, ma dove si può vivere ritrovando sé stessi.
Questo è forse il più utopico dei contenuti proposti dal film. Davvero il mondo umano è quello dove si può ritrovare sé stessi? Chi dice questo a tutte le donne vittime di violenza maschile? A tutte quelle che hanno perso il lavoro o che sono state lasciate per donne più giovani e belle?
Ma vale anche se si parla di uomini. Chi lo dice a tutte le vittime di incidenti sul lavoro, a tutte gli uomini lasciati, a tutti gli uomini vittime di malattie professionali?

Eppure, nonostante la leggerezza del film, questo ancoraggio al mondo reale come unico luogo all’interno del quale si può formare una solida personalità in grado di resistere al tempo che passa, mi sembra degno di attenzione e anche geniale nella sua ricorrenza cinematografica.

Proprio nella caducità del mondo reale pieno di accidenti dai quali non necessariamente si riesce a rialzarsi, si intravvede la strada per ritrovare sé stessi. Tale strada è quella di acquisire sufficiente lucidità per fare i conti con il deterioramento fisico che inevitabilmente ci aspetta e con il suo epilogo, la morte. Attraverso questo percorso interiore ed esteriore insieme, accidentato, non a senso unico, a volte doloroso e a volte anche violento, esiste l’unica via possibile per ritrovare un senso al nostro esserci. Quel senso vero e profondo che non ha bisogno di capelli biondi e di fisici perfetti ma che si nutre di ossigeno per vivere, di cibo per crescere, del cervello per inventare, della preghiera per sperare.
Un mondo reale che permette di superare le limitazioni che ciascuno ha, rendendoci conto che facciamo parte di un ‘tutto’ molto più grande di noi e che questo ‘tutto’ ha in sé il germe dell’eternità. In questo senso il film barbie è carino e sereno, da consigliare per una sera estiva in cui si sospende il tempo frenetico delle nostre giornate in città, e poi, mentre si guarda il film, si può mangiare il gelato, uccidere una zanzara, smettere per un po’ di guardare l’orologio e pensare che è tempo di vacanza. Non perché la vacanza rappresenti la stupidità, al contrario, perché sia un tempo rigenerante e, al contempo, molto reale. Regaliamoci un po’ di leggerezza in più. La trovo una delle strade possibili per convivere con gli accidenti della vita, senza troppo rancore. Ritornando al film, è da notare che quando la protagonista comincia a pensare alla morte inizia la sua storia, quella vera.

Il Parco del Delta del Po conferma la vendita dell’Ortazzo a società immobiliare. Se hanno a cuore l’ambiente, si dimettano.

Non ci sarà bisogno di accedere agli atti: il Parco del Delta ha già ammesso, ma solo dopo il nostro articolo, che le centinaia di ettari della proprietà cosiddetta “Immobiliare” a Lido di Classe, sono stati acquistati non da un ente pubblico, ma da un’altra società immobiliare. Un’area tra le più importanti per biodiversità dell’Alto Adriatico, sottratta alla furia cementificatrice degli anni ’70 con una battaglia memorabile dal WWF, con la collaborazione anche di Italia Nostra e di tanti naturalisti che lottavano con coraggio sul campo per la tutela delle nostre zone più preziose, giunte a noi solo grazie a loro e che oggi assistono attoniti a quanto successo.

Il Parco del Delta del Po, unico tra i vari Enti coinvolti, ha ritenuto di dover replicare al nostro articolo, e lo fa nel modo peggiore: alludendo addirittura ad una “calunnia”. Si legge infatti “Prima di dichiarare pubblicamente che l’Ente Parco non si è interessato all’acquisto dell’Ortazzo e dell’Ortazzino, siti naturalistici in area ravennate presso la foce del Torrente Bevano, bisognerebbe informarsi se questa dichiarazione corrisponde al vero, altrimenti diviene una bonaria calunnia, espressa per gettare discredito sul Parco stesso”. Ebbene, nell’articolo Italia Nostra invece aveva scritto semplicemente, citando il parco del Delta una sola volta: “… pare che nel totale silenzio degli enti pubblici (Regione, Provincia, Comune, Stato, Parco del Delta del Po), l’immensa zona (circa 500 ettari) cosiddetta “dell’Immobiliare” a Lido di Classe, compresa tra la Riserva e la Pineta di Classe, sia stata aggiudicata all’asta giudiziaria per una bazzecola (sembra, 500 mila euro) non già da un ente pubblico, ma… da un’altra immobiliare!”

Nessuno ha parlato dell’interesse o meno all’acquisto da parte del Parco – cosa che infatti non potevamo sapere -, ma dell’imbarazzante silenzio con cui è stata avvolta la vicenda, che viene rivelata solo ora dopo il nostro articolo, e a cose fatte. Verso la fine, la nota si conclude con: “Tuttavia, preme ricordare ed evidenziare, a chi avesse dubbi e timori, come i vincoli del piano territoriale del Parco e di rete Natura 2000 rendano l’area di fatto intoccabile e assolutamente protetta da ogni punto di vista. L’impegno a non cambiare queste norme costituisce al momento, in assenza di fondi disponibili, ciò che l’Ente Parco può fare. E non è cosa da poco.” Non è cosa da poco rispettare leggi e Direttive europee dall’ente preposto alla conservazione dell’ambiente del Delta del Po, su un’area di quella rilevanza? Un’affermazione che lascia attoniti.

Bene, se i professionisti alla guida del Parco si sono trovati in queste condizioni, dove nessuno degli enti dotati di capacità di spesa ha voluto farsi carico di una cifra irrisoria ma ha lasciato che un patrimonio ambientale rilevantissimo e unico a pochi metri dal mare finisse nuovamente nella mano privata dei costruttori immobiliari, ed anzi, l’unica cosa che possono fare è di garantire ciò che d’ufficio e d’obbligo dovrebbe essere già pacificamente assicurato, abbiano un moto di dignità, si rechino da coloro che li hanno nominati, vadano dai Comuni e dalla Regione inadempienti e rassegnino le proprie dimissioni.

Italia Nostra sezione di Ravenna

Documentazione:

Il Resto del Carlino, 13 agosto 2023, La vendita di Ortazzo e Ortazzino I proprietari puntano a edificare

Estense.com, 9 agosto, 2023, Ortazzo e Ortazzino, la precisazione dell’Ente Parco

In copertina: uno scatto dell’Orto e Ortazzino (foto www.lidodiclasse.com)

Lo Cunto de le Cunti /
Chi ha dormito nel mio letto?

Un progetto a cura di Fabio Mangolini e Francesco Monini
Hanno collaborato Fabrizio Bonora e Marcello Brondi

Prosegue su Periscopio  – e vi terrà compagnia ogni giorno per almeno un mese – la  ‘Lo Cunto de li Cunti’: Il riferimento è naturalmente al grande Giambattista Basile (pseudonimo anagrammatico: Gian Alesio Abbattutis, Giugliano in Campania, 1566 – 1632), il primo a utilizzare la fiaba come forma di espressione popolare.
Siamo partiti da una idea semplice, essenziale, quasi elementare: presentare al pubblico (quello di Ferraraitalia e quello più vasto di You Tube) brevi ‘letture ad alta voce’ . Adottando però una formula inedita. A differenza delle tantissime (e lodevoli) esperienze del genere, e che si sono decuplicate durante questo tempo di clausura virale, qui troverete solo Racconti di Qualità interpretati da Lettori di  Qualità (almeno, questa è stata la nostra ferma intenzione).  Abbiamo scelto racconti brevi (non più di 10 minuti di lettura, a volte molto meno), racconti  classici e contemporanei, editi o inediti. E abbiamo affidato la lettura a voce alta a professionisti o semiprofessionisti. Vedrete anche che ogni video rispetta un format particolare, anche l’abbigliamento degli attori-lettori, il bianco o il nero, alludono a qualcosa: al pubblico svelare questo piccolo segreto.
Agli Autori, agli editori e agli interpreti abbiamo chiesto e ottenuto una liberatoria. Crediamo infatti che il lavoro culturale
(la scrittura come lo stare in scena) debba essere adeguatamente compensato: oggi in Italia questo non succede, ed è uno scandalo per un Paese che dovrebbe essere un faro dell’Arte, della Cultura, della Bellezza. Quando questo quotidiano avrà un minimo di portafoglio a disposizione, dare il giusto compenso a chi produce e veicola cultura sarà la prima cosa che faremo: ci prendiamo questo impegno già da oggi.
Intanto: buona visione, buon ascolto, buona lettura.
(I Curatori)

Francesco Minimo, Chi ha dormito nel mio letto, letto da Marcello Brondi

CHI HA DORMITO NEL MIO LETTO?

Chi ha bevuto dal mio bicchiere? Chi ha mangiato nella mia scodella, chi si è seduto sulla mia poltrona, chi ha usato il mio spazzolino, chi ha fumato la mia pipa. E soprattutto (quella cosa lo faceva veramente imbestialire) chi ha dormito nel mio letto.
Tutte le notti era la stessa storia.

Piano, ragioniamo, mi chiamo Filippo Torelli e questa è la mia casa, di mia esclusiva proprietà, me l’ha lasciata mio zio. Sono figlio unico, niente moglie e niente figli. Cioè a dire che nessuno, dico nessuno, può vantare un qualche diritto sulla mia bellissima casa. Ora, date un’occhiata ai catenacci, alle chiavi (ma chiavi sul serio, non delle yale da due soldi), controllate le sbarre di ferro, le inferriate doppie, i cancelletti di maglia d’acciaio davanti alle portefinestre; insomma, credetemi, in casa mia non entra nemmeno un topino, figuratevi un ladro, un intruso, un vagabondo. Eppure non si riesce a stare in pace. Tutte le notti è la stessa storia.

Ma non era un problema solo del fu ingegner Filippo Torelli. Gli altri la pensavano esattamente come lui. Anche gli altri, una trentina o qualcuno in più, gridavano, minacciavano, sbattevano i piedi. Ognuno protestava il suo sacrosanto diritto sul proprio bicchiere (e tutti il medesimo bicchiere), e sulla scodella, la poltrona, lo spazzolino da denti, il vecchio letto di noce. Al numero civico 43 di via Fondobanchetto tutte le notti c’erano discussioni. E non era la solita animata, rissosa, tipica assemblea di condominio, vi giuro, era mille volte peggio.
Fino a mezzanotte filava tutto liscio. Era una zona tranquilla della città, la più antica, il cosiddetto “castrum byzantinum”. Ma ecco, a mezzanotte in punto, l’ora canonica dei fantasmi, iniziava la baraonda. Che durava per ore. Le voci si spegnevano, di colpo, solo con il primo raggio dell’aurora.

Se pensate che tutti i fantasmi, tutte le anime dei trapassati, siano presenze diafane, timide e discrete, malinconiche e amanti del silenzio, siete fuori strada. Questo non era comunque il caso dei proprietari della casa di via Fondobanchetto 43. La casa, dall’anno di costruzione ad oggi, era stata ripetutamente oggetto di atti di successione, e donazioni, compravendite, addirittura di un paio d’aste giudiziarie a seguito del fallimento del proprietario.
Non si scappa, de jure tutti i fantasmi inquilini erano titolari del medesimo titolo di proprietà. Il punto era fargli capire che tale titolo, esclusivo fin che si vuole, poteva e doveva essere esercitato in comunione con tutti gli altri aventi diritto. Macché, abituati in vita a disporre di quel bene – dico la casa e tutto ciò in essa contenuto – in modo totale, senza restrizioni di sorta, non gli entrava in testa che il loro nuovo status imponeva un diverso comportamento.

Io, vivo e vegeto se dio vuole, visitando per conto di una stimata agenzia immobiliare la casa infestata (così era rinomata per quel fastidioso baccano notturno e per questo preciso motivo non trovava punto un acquirente), mi sono apposta trattenuto oltre il tramonto, per tutta la notte, fino all’alba.
Per spiegare la situazione. Per farli ragionare.
Sono un buon parlatore, un ottimo agente, ma non c’è stato verso. Allo scoccare della mezzanotte, non un minuto più tardi, una donna dalla voce stridula si è messa a gridare come un’ossessa: Chi ha mangiato nel mio piatto? Alla sua, si è sovrapposta la voce per me irriconoscibile dell’ingegner Torelli (da vivo ci frequentavamo, era persona mite e dai modi cortesi) sbraitando: Chi ha bevuto dal mio bicchiere? E una terza, totalmente fuori di sé: E chi ha dormito nel mio letto?

Niente. Non mi hanno fatto nemmeno parlare.

Francesco Minimo, Chi ha dormito nel mio letto, tratto da: Noi fantasmi. Racconti quasi fantastici, inedito, 2018

Guarda le altre videoletture del Cunto de li Cunti [Qui] 

Cover: elaborazione grafica di Carlo Tassi

Carcere assassino

In carcere si muore e non è solo una metafora per dire la non-vita di quel non-luogo: si muore concretamente, suicidati dal carcere. Susan, quarantatre anni, deceduta nella notte di ieri, dopo un mese di digiuno durante il quale chiedeva invano di poter rivedere il piccolo figlio. Azzurra, 28 anni, affetta da problemi psichiatrici, trovata impiccata in cella, ieri pomeriggio.

di Nicoletta Dosio
da pressenza del 12.08.2023

Entrambe erano recluse al Lorusso Cutugno di Torino, una da poco più di un mese, l’altra da alcuni giorni. Con loro il numero dei suicidi nelle carceri italiane nei primi otto mesi del 2023 sale a quarantatre, sedici tra giugno e agosto.

Occupavano due celle di quello che viene pomposamente definito “Reparto di articolazione tutela salute mentale” . In realtà si tratta di due squallide celle, le prime della sezione Nuove Giunte, che differiscono dalle altre solo perché più disadorne, illuminate giorno e notte, sotto l’occhio insonne della telecamera.

Di tutela della salute mentale non c’è neanche l’ombra… caso mai è vero il contrario: non solo non esiste personale specializzato, ma, rispetto al resto della sezione, aumenta l’isolamento, l’impossibilità di socializzare, il controllo poliziesco, il vuoto pesante di un tempo che non passa mai e l’angoscia che sale con la precarietà del futuro.

Il carcere non solo non cura la malattia mentale, ma la crea e la alimenta.

La notizia di queste morti rimbalza sui giornali e mette in moto il rimpallo delle responsabilità, insieme alle dichiarazioni di impotenza. I sindacati delle guardie carcerarie chiedono più agenti, la direzione si giustifica col sovraffollamento e la precarietà delle strutture.

Quanto ai garanti dei diritti dei detenuti, la garante comunale si lagna che “Nessuno ci aveva informati”. E il garante regionale è ancor più sintetico…

In realtà, nella maggior parte dei casi , a garantire il rispetto minimo dei diritti e ad ottenere qualche miglioramento della condizione carceraria sono,  come sempre, le lotte dei detenuti, mentre i garanti, più che una presenza concreta, sono un ufficio del palazzo comunale e regionale…

Oggi, insieme al ministro della Giustizia Nordio, giunto in visita alle Vallette, c’erano tutti. Il succo dei colloqui è stato esposto in conferenza stampa. Promesse generiche di risolvere il problema del sovraffollamento carcerario, con progetti fumosi, nel cui orizzonte non entrano indulti né amnistie, caso mai la separazione tra detenuti più e meno pericolosi con l’utilizzo di strutture quali le caserme dismesse: dunque non l’alternativa al carcere, ma il carcere diffuso…

Se c’era qualche timore di inchieste, il ministro ha contribuito a fugare le preoccupazioni dei responsabili. “La mia non è un’ispezione, ma una manifestazione di vicinanza del ministro e del suo staff in questo momento di dolore, ma anche di vicinanza alla direzione e alla polizia penitenziaria…”.

Loro, le vere vittime, i dannati della terra e le ragioni per cui qui “si vive o si muore per un sì o per un no” sono rinchiusi più in là, nei gironi interni della prigione.

Mentre negli uffici della direzione si scattano le fotografie di rito, ai blocchi di detenzione si alza la protesta: fischi, grida, battitura delle sbarre e dei blindi… L’umanità reclusa urla rabbia e dolore, l’invivibilità delle celle sovraffollate, la sete d’aria libera, il sopruso quotidiano di un mondo senza giustizia, il bisogno di dignità e l’angoscia del dopo, di un fuori che si preannuncia come ostile e inospitale.

Sono loro la voce di Susan, Azzurra, Graziana, Antonio, Denys…

Il carcere uccide anche la speranza.

Eppure la soluzione opposta al carcere esiste ed è la giustizia sociale, quella che renderebbe il mondo più bello, più vivibile per tutti.

Questo non è il sogno. E’ la meta.

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Adulti, adolescenti, scuola e post

Adulto è colui che è cresciuto, si è fatto una cultura, o, per lo meno, una visione del mondo,  e attraverso questa procede ad interpretare la propria vita e quella degli altri.

Ogni disturbo ai propri costrutti mentali è una rottura di equilibrio e poiché i corpi viventi tendono all’omeostasi, tutte le volte gli sforzi sono volti a ristabilire gli equilibri messi in pericolo.

Di solito è una buona dose di passato, immagazzinato come scorta delle proprie certezze, che aiuta in questa operazione di recupero dell’omeostasi tra il sé e il fuori di sé. Il nuovo non si può accumulare, figuriamoci poi il futuro che non c’è. Per cui tutto ciò che non appartiene a quanto è già stato consolidato (si potrebbe chiamare tradizione) viene vissuto con diffidenza.

Un giovane che cresce, e dunque non si può prevedere come si manifesterà, è uno dei tanti disturbi di fronte ai quali si possono trovare gli adulti, con il rischio di vedere messo in pericolo il proprio equilibrio con sé stessi e il mondo circostante.

La natura ha fornito i mammiferi, tra questi i primati come l’uomo, d’un sistema di difesa che consiste nell’addestramento dei nuovi nati, giusto perché l’equilibrio raggiunto in millenni di evoluzione non venga di volta in volta minacciato.

Gli uomini hanno definito questo processo “educazione” e con il tempo si sono costruiti luoghi e prassi a questo specificamente dedicati.

E poiché è esclusivo degli umani adulti avere ciascuno la sua versione del mondo, ne deriva  che anche le idee sull’educazione sono molteplici, alcune assurte a sistemi filosofici, altre a visioni trascendentali della vita con la pretesa di conformare ai loro télos le nuove generazioni in modo da garantire stabilità e continuità alle comunità sociali.

È successo che le comunità sociali cambiassero più rapidamente di quanto se ne potessero avvedere gli adulti, sempre più dipendenti dal passato per poter superare il susseguirsi di nuove crisi, di rotture di equilibrio e di conseguenti sforzi per tornare all’omeostasi.

Cambiamenti e tempi di recupero andavano sempre più assumendo velocità discordanti: le trasformazioni avanzavano e le crisi degli adulti crescevano, non riuscendo più a ricostruire coerenti visioni del mondo, costretti ad assistere al venire meno degli dei e delle ideologie.

Ecco che l’educazione non poteva più funzionare, perché non c’era più una visione del mondo a cui conformare le nuove generazioni, non c’erano più certezze su cui fondare le proprie condotte di adulti e la relazione con le nuove generazioni da educare.

Era successo che i rapidi sviluppi della scienza, delle tecnologie, le ricerche e i saperi avevano preso il sopravvento, rendendo sempre più obsoleta l’educazione e sempre più urgente e necessaria l’istruzione. La necessità cioè di attrezzare se stessi e i giovani ad affrontare le dinamiche di un’esistenza in continuo divenire, portatrice di sempre nuovi problemi e di sfide inaspettate.

Eravamo stati moderni, incantati dalla nostra modernità a cui avevamo affidato il nostro equilibrio perfetto, e non ci siamo accorti, o non abbiamo voluto accorgerci, che al posto della modernità ora c’era la postmodernità e noi c’eravamo dentro.

Intanto il sapere cambiava di statuto, come ha scritto François Lyotard: “l’antico principio secondo il quale l’acquisizione del sapere è inscindibile dalla formazione (Bildung) dello spirito, e anche della personalità, cade e cadrà sempre più di senso”.

Cade l’educazione come principio, cadono le sue istituzioni: la famiglia e la scuola. È la morte dell’educazione, è la morte dei principi su cui poggia il nostro sistema scolastico, è la morte di chi ancora ritiene che il rapporto tra adulto e giovani debba fondarsi sull’educazione dei secondi e che, a questo scopo, siano necessarie comunità educanti.

Per Lyotard ciò che la postmodernità ha messo in crisi è il carattere principalmente narrativo del sapere, tanto da delegittimare i luoghi del suo racconto, della sua trasmissione. È un gran bene che le nuove generazioni siano naturalmente digitali, perché non è più la trasmissione che li collega ai saperi, ma la connessione in rete per avere accesso alle memorie e alle banche dati.

In Scienza con coscienza Edgar Morin scrive: “ Il vero progresso si verifica allorché la conoscenza prende coscienza dell’ignoranza che essa arreca: si tratta quindi di un’ignoranza cosciente di se stessi, e non della superba ignoranza dell’idealismo determinista che crede che un’equazione suprema gli permetta di illuminare l’universo o di dissipare il mistero”.

Abbiamo bisogno di laboratori di istruzione, di botteghe di istruzione, di luoghi dove ci si attrezza ad apprende, a conoscere, innanzitutto se stessi. Non di cattedre e di classi anagrafiche educanti.

Laboratori, perché conoscere significa negoziare, lavorare, discutere, battersi con l’incognito, che si ricostruisce senza sosta, giacché ogni soluzione di un problema produce una nuova questione.

Allenarsi alla conoscenza, usarne gli strumenti, possederli anziché esserne sottomessi, sono le strade per attrezzare i giovani a gestire se stessi, esercitati fin da piccoli a misurarsi con le loro dinamiche, contraddizioni e aspirazioni, a costruire se stessi lontani da ogni tentativo di educarli per conformarli ad essere ciò che non sono e non saranno.

È necessario che gli adulti ritrovino se stessi e che gli adolescenti siano forniti dall’istruzione degli strumenti che portano al sapere e a disporre del potere del proprio cervello, per essere liberi di decidere e di scegliersi la propria ‘adultità’.

La nostra scuola soffre ancora di un orrendo retaggio che all’istruzione ha portato a privilegiare l’educazione, alla scienza la dottrina. Il Ministero dell’istruzione e del merito, per non smentire il passato, resta lì a piantonare questo retrogusto di sapore antico, riabilitando il valore formativo del merito e dell’umiliazione.

Il tema è semplice da definire, estremamente complesso da svolgere. Il sistema di istruzione pubblica del XX secolo non funziona più nel secolo XXI, nel secolo della postmodernità. La sua organizzazione e i suoi archetipi non reggono alle sfide che abbiamo di fronte.

L’ha scritto a chiare lettere l’UNESCO nel suo ultimo rapporto, occorre rinegoziare il contratto formativo, occorre un nuovo contratto sociale per l’istruzione che veda unire gli sforzi di tutti per fornire alle nuove generazioni le conoscenze e le innovazioni necessarie a plasmare un futuro sostenibile per tutti ancorato alla giustizia sociale, economica e ambientale.

Ci sono allora tre domande essenziali da porsi circa l’istruzione: Cosa dovremmo continuare a fare? Cosa dovremmo abbandonare? Cosa deve essere inventato di nuovo in modo creativo?

Ma, al momento,  non mi sembra che ci sia qualcuno interessato a porsele, né a destra né a sinistra.

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Per certi versi /
Le nuvole di Sisley

Le nuvole di Sisley

Le nuvole
Di Sisley
Sono le rose
Bianche
Dei prati
Celesti
Il volto
Più strambo
Degli attimi
Disciolti
In colori sospesi
Le nuvole di Sisley
Portano
Gli occhi
All’estremo
Limite
Della luce
Senza la gravità
Ogni domenica Periscopio ospita Per certi versi, angolo di poesia che presenta le liriche di Roberto Dall’Olio.
Per leggere tutte le altre poesie dell’autore, clicca [Qui]
In copertina: Alfred-Ssley, The-Meadow-at-Veneux-Nadon

Anna delle foreste: sculture nel bosco

C’è un’artista nella campagna inglese del North Yorkshire che intreccia rami. Amore per la natura e fantasia, in un luogo degno di una fiaba.

Il salice inglese prende vita e forma, intessuto e intrecciato come un ricamo, illumina le foglie verdi delle foreste con incredibili sculture all’aperto che ricordano il mondo delle fiabe.

Sono le creazioni della scultrice britannica Anna & The Willow che traspone i suoi schizzi abilmente disegnati a mano su telai di acciaio fatti su misura ai quali poi intreccia rami di salice. Con sorprendente leggerezza e abilità. Bellezza pura.

Le forme sembrano nascere nella foresta, immesse in essa paiono nate e cresciute proprio lì, con radici che dalla terra marrone svettano verso il cielo azzurro. Libere.

L’arte antica dell’intreccio del vimini è una delle più diffuse nella storia della civilizzazione umana. Il processo coinvolge la tessitura flessibile, vari materiali naturali sono uniti insieme per generare un’ampia varietà di forme.

Anna ha dato un tocco personale contemporaneo a questa tecnica senza tempo, creando incredibili sculture ispirate alla natura realizzate con asticelle di salice inglese.

Nata a Ripon, nella campagna del North Yorkshire, la scultrice ha studiato zoologia all’Università di Manchester ma non ha mai rinunciato alla sua fantasia e alla sua arte. Più di dieci anni fa, dopo un corso di un fine settimana di scultura, ha iniziato a plasmare i rami di salice. Lavorare con un materiale naturale le ha aperto un mondo nuovo, portandola a continuare ad apprendere le diverse tecniche di vimini, unendo a quelle tradizionali il proprio spirito creativo e la propria immaginazione.

Una bellissima scultura figurativa intitolata la Cacciatrice del Castello di Skipton Woods, raffigura una donna che tira una freccia da un arco. Collocato in ambiente boschivo dove poter camminare, il pezzo sembra cresciuto dal manto della foresta e prendere vita per sparare la sua freccia in ogni momento.

Ma Anna ha scolpito anche altre opere di animali a grandezza naturale, tra cui un cervo e un cavallo, che appaiono entrambi come se stessero esaminando il paesaggio che li circonda, quasi congelato nel tempo. Natura nella natura. Immagini che parlano da sole.

Le opere di Anna si possono vedere su Instagram o nella sua pagina Facebook. E se siete in vena di ispirazione e potete spostarvi si possono seguire anche interessanti workshop nel suo studio nel North Yorkshire.

Immagini di Anna & the Willow, tratte dal suo sito web e dalla sua pagina Instagram

Accordo tra Libia e Tunisia: metà per uno i 300 migranti abbandonati a morire nel deserto.

Tratto da ANBAMED

I ministri dell’interno di Libia e Tunisia si sono accordati a risolvere la questione dei migranti deportati dalla polizia tunisina al valico di confine di Ben Gardane.

I circa 300 migranti abbandonati in mezzo al deserto, senza cibo e senza acqua, saranno divisi in due gruppi e ciascun paese si assumerà la responsabilità di assisterli. Secondo la stampa tunisina 76 uomini, 42 donne e 8 bambini saranno presi a carico della Tunisia; circa 150 migranti entreranno in Libia e saranno reclusi nei centri di detenzione per migranti senza permesso di soggiorno.

Questa vergognosa vicenda è nata a Sfax, dopo l’uccisione di un tunisino per mano di tre camerunesi durante una rissa. La polizia tunisina ha deportato circa 2000 migranti sub sahariani al confine di Libia e Algeria, senza nessun tipo di assistenza. Alcuni di loro hanno tentato attraversare il confine per entrare in Libia clandestinamente, ma almeno 21 di loro hanno incontrato la morte per sete e per le temperature altissime che avevano raggiunto i 50°C.

(Leggi il racconto dell’editoriale del quotidiano il domani del 30 luglio 2023 Ndr)

Dopo le critiche di ONG umanitarie tunisine e organizzazioni dell’ONU, il governo tunisino ha ricollocato una parte dei migranti deportati in centri di accoglienza, ma un gruppo è rimasto escluso nella terra di nessuno tra i due posti di controllo del valico. Questo risultato di una soluzione condivisa tra i due governi è stato ottenuto grazie anche alla copertura mediatica, con servizi e interviste in video, da parte della stampa araba e mondiale.

Un’onta che rimarrà negli annali delle atrocità di questi due governi.

ANBAMED

Notizie dal Sud Est del Mediterraneo

In copertina: migranti deportati nel deserto (foto Nigrizia)

Filippo Pelati, il ragazzo che danza con l’acqua

Per chi è profano del nuoto sincronizzato e vuole comprendere l’autentica dimensione dell’ impresa sportiva di Filippo Pelati, 16 anni, da Copparo, consiglio di evitare i siti generalisti e dare un’occhiata qui:

worldaquatics.com– sarà per il dettaglio delle varie competizioni, per la quantità di giovani atleti del mondo con cui ha gareggiato, sarà grazie all’inglese che, per una volta, rende bene l’idea di quello che Filippo fa: artistic swimming –  ha restituito, almeno a me, la reale grandezza del suo livello. Ai Mondiali di Oviedo, Filippo Pelati ha conquistato la medaglia d’oro nell’individuale maschile di nuoto sincronizzato.

Sfido il patetico che si infila sempre tra le pieghe del patriottismo di paese, con il quale ci appropriamo dei trofei altrui invocando la comunità di nascita. Lo sfido perchè non posso lasciarmi sfuggire l’occasione di fargli qualche domanda. Alla fine, diamine, non capita tutti i giorni di avere un campione del mondo di sedici anni che viene da Copparo.

P:Ti ricordi quando hai iniziato con il sincro e quando ti sei reso conto che era la
cosa che volevi veramente fare?
FP: Ho iniziato a praticare il nuoto artistico all’età di otto anni, per puro piacere e divertimento. Ho sempre praticato danza e nuoto e il nuoto sincronizzato era l’unione perfetta delle due cose. Mi sono reso conto che era la cosa che volevo fare veramente due anni fa, quando ho cambiato società sportiva e dal Centro Nuoto Copparo mi sono trasferito al CN Uisp Bologna. Poi l’anno scorso, grazie alle convocazioni in Nazionale Junior e Giovanile, ho trovato un punto di partenza e un motivo per impegnarmi a raggiungere obiettivi sempre maggiori.

P:E’ la prima volta che mi capita di leggere di una discriminazione “al contrario”, nel senso che il nuoto sincronizzato al maschile non è considerato quanto quello femminile. Questo pregiudizio è più marcato in Italia che in altri paesi, secondo la tua percezione?
FP: Il nuoto sincronizzato è sempre stato uno sport prettamente femminile. Nella percezione comune è accomunato alla danza, ma anche nel pregiudizio. Fortunatamente i tempi sono cambiati, anche se ancora non totalmente, e gli uomini hanno cominciato a essere valutati anche solo come artisti individuali, oppure con l’introduzione del doppio misto.  In realtà il panorama maschile in Italia è più ampio rispetto ad altri Paesi, però il pregiudizio è sempre dietro l’angolo.  Specialmente sui social questa cosa si manifesta con commenti omofobi, o messaggi da parte di haters. Io sono giovane e ho notato che è proprio alla mia età che molti ragazzi si abbandonano ai commenti più feroci. Però è sempre a questa età che si comincia a costruire un proprio modo di pensare. Per fortuna ci sono anche molti che capiscono che, se uno sport è fatto con tutto l’impegno e l’amore, il genere non conta.

P: Il sincro maschile attualmente non è disciplina olimpica. Conti che alle Olimpiadi
del 2024 le cose possano cambiare?
FP: Alle olimpiadi del 2024 il sincronizzato diventerà parzialmente maschile. Ciò avverrà con l’inserimento dell’uomo all’interno della competizione a squadre. Spero che nel 2028 a Los Angeles sia inserito il doppio misto come disciplina olimpica insieme al doppio femminile. Del resto le competizioni come il mondiale vedono gareggiare sia maschi che femmine, per cui non vedo per quale motivo un maschio non può prendere parte ai Giochi Olimpici. 

P: Per alcuni nuotatori, anche molto forti, l’acqua non è un elemento così “naturale”. Se tu dovessi raccontare ad un alieno che cade sulla Terra in cosa consiste quello che fai, cosa gli diresti? Che balli? Che nuoti? Che ti piaceva ballare ma il tuo elemento “naturale” è l’acqua?
FP: Se un alieno cadesse sulla Terra probabilmente gli direi che io sono acqua. Quando pratico il mio sport divento una cosa unica con l’elemento con cui entro in contatto, dai capelli alla punta dei piedi. L’acqua e l’energia del movimento scorrono inesorabili nel mio corpo insieme alla musica, al ritmo e all’adrenalina. Tutto questo insieme diventa una danza, che non è solo fisicità, ma celebrazione delle emozioni provate. Nel momento dell’esibizione queste cose si fondono insieme. La mia allenatrice mi ripete spesso la frase “qui ed ora”: è in quel momento che divento una cosa sola con l’acqua.

Cover: Filippo Pelati durante una gara.

Presto di mattina /
Donna di sol vestita

Presto di mattina. Donna di sol vestita

Donna di sol vestita

«Un segno grandioso apparve nel cielo: una donna vestita di sole, con la luna sotto i suoi piedi e, sul capo, una corona di dodici stelle. Era incinta, e gridava per le doglie e il travaglio del parto» (Ap 12, 1).

In Giovanni, l’identità della donna misteriosa è oggetto di molteplici interpretazioni, rese ancor più varie dal riferimento numerico alle dodici stelle che le fanno da corona. Chi le interpreta come le dodici tribù d’Israele, vede nella donna l’antico popolo di Dio in cammino nel deserto. Altri, come il nuovo popolo di Dio, ovvero l’assemblea cristiana raccolta attorno ai dodici apostoli con Maria.

Del resto, “donna” è chiamata Maria nel vangelo di Giovanni, sia alle nozze di Cana, sia dal Figlio sotto la croce. Troviamo così corrispondenza, una vera evoluzione tra la madre di Gesù nel quarto Vangelo e quella nominata nel capitolo 12 dell’Apocalisse. La “madre di Gesù” detta “donna” enigmaticamente già in Gv 2,4 fa pensare pure alla Chiesa, della quale Maria, Gesù e i discepoli insieme (cfr. Gv 2,12), rappresentano la primizia.

Colui che fa sorgere il suo sole sui buoni e sui cattivi la riveste del suo amore, come di un abito di sole. È la raffigurazione dell’alleanza piena e feconda; la luna sotto i suoi piedi è segno che la donna non è in balia del tempo, ma ne è uscita fuori, in un tempo altro, un tempo qualificato, dinamico e tuttavia compiuto: l’eternità.

Alle parole dell’Apostolo Giovanni si addicono quelle poetiche del precursore dell’umanesimo e della letteratura italiana. Il riferimento è a Francesco Petrarca (1304-1374), l’autore de Il Canzoniere, che Pietro Bembo agli inizi del ’500 indicò come modello di eccellenza stilistica.

Il Petrarca, ricordando il primo incontro con l’amata nella chiesa di S. Chiara ad Avignone, così lo descrive:

Erano i capei d’oro a l’aura sparsi
che ’n mille dolci nodi gli avolgea,
e ’l vago lume oltra misura ardea
di quei begli occhi, ch’or ne son sì scarsi…
Uno spirto celeste, un vivo sole
fu quel ch’i’ vidi…
(Canzoniere di Francesco Petrarca, a cura di G. Contini, Einaudi, Torino 1965, n. 90, 118).

E, scorrendo da cima a fondo il Canzoniere, scopriamo che esso termina con un canto alla “Vergin bella, che di sol vestita”.

Vergin bella, che di sol vestita,
coronata di stelle, al sommo Sole
piacesti sí, che ’n te Sua luce ascose,
amor mi spinge a dir di te parole:
ma non so ’ncominciar senza tu’ aita,
et di Colui ch’amando in te si pose.
Invoco lei che ben sempre rispose,
chi la chiamò con fede.
(ivi, n. 366, 443),

L’istinto del cuore: «Per Te spera la nostra carne oscura»

Ma veniamo più vicini a noi.

chiudere gli occhi e guardare elena bonoPer Elena Bono, (1921-2014) scrittrice e traduttrice, poetessa e drammaturga, la poesia ha stile francescano, è “sorella dell’uomo”, e fu, scoprendo il legame tra l’amore e la sofferenza, che cominciò ad essere cristiana, anzi terziaria francescana. Solo nel 2007 poi, E-book 2014, viene pubblicata l’Opera omnia, Poesie (Le mani editore) e per il centenario della nascita ne viene editata una raccolta: Chiudere gli occhi e guardare. Cento poesie per cento anni, (Ed. Ares, Milano 2021).

Il padre di Elena grecista e latinista l’aveva avviata allo studio dei classici e della mitologia, ma si dedicò anche allo studio le filosofie orientali. Determinante per la sua scrittura fu poi il dramma della guerra, l’esperienza della resistenza partigiana e l’apertura della fede come nostalgia di Dio.

E nessuno comprende
che non è il morire
la virtù degli eroi
ma restare tra noi
quanto vien loro comandato.
Vivere umanamente tra gli umani, soffrirne tutte le pene
più una:
nostalgia
nostalgia di Dio
(I dioscuri del Quirinale).

In una lirica alla Madonna del Belvedere, dipinto in S. Maria dei Servi a Siena, Elena Bono vi vede ritratta la condizione di marginalità delle donne, ma sperimenta che anche l’esclusione e il silenzio possono divenire uno spazio di ascolto, oltre i linguaggi monopolizzati e istituzionalizzati dagli uomini: «Luna luna non piangere perché sei sola. Il cuore più solitario di tutti/ a tutti appartiene» (in Conforto).

Madonna di Belverde,
giardino di ombre
fresche nell’aria…
o solitudine verdesognante
o silenzio che ascolti
il silenzio di Dio”
(OpOmn 2007: 161).

Drammatico è il profilo di un’altra Maria, quella di Magdala, unita sotto la croce alla madre nel medesimo destino, quello di un dolore che ascolta, entrambe: donne in ascolto dell’istinto del loro cuore.

Maria Maddalena
I soldati ridevano:
“Ehi la bella dagli occhi rossi”.
Ma lei non la riuscirono a strappare
da quella croce,
che vi stava con le unghie confitta,
singhiozzando senza voce.
E poi si mise ad asciugargli i piedi
coi suoi capelli
Li asciugava dal sangue
e non osava
alzare gli occhi per guardarlo in viso
(OpOmn, 2007: 233).

Al n. 18 della Costituzione conciliare Gaudium et spes leggiamo: «In faccia alla morte l’enigma della condizione umana raggiunge il culmine. L’uomo non è tormentato solo dalla sofferenza e dalla decadenza progressiva del corpo, ma anche, ed anzi, più ancora, dal timore di una distruzione definitiva. Ma l’istinto del cuore lo fa giudicare rettamente, quando aborrisce e respinge l’idea di una totale rovina e di un annientamento definitivo della sua persona. Il germe dell’eternità che porta in sé, irriducibile com’è alla sola materia, insorge contro la morte».

Nell’imminenza della festività dell’Assunzione, scorrendo le pagine di queste poesie, non mi sarei mai aspettato di trovarne all’improvviso una che potesse esprimere in due righe, al modo di un haiku, il segno grande apparso nel cielo della donna vestita di sole e coronata di stelle che diviene soglia per la speranza umana.

Per l’assunzione di Maria
Perché il tuo corpo è tra le stelle
spera, Maria, la nostra carne oscura.
(Alzati Orfeo, Garzanti, Milano 1958, I32).

Dormitio virginis il nome antico dell’Assunta innalzata

Dormitio dice insieme koimesis sonno, pausatio riposo, transitus passaggio, dies natalis nascita al cielo.

Donna di speranza, che camminò nella fede, nel segno di una provvidenza di amore Maria «avanzò nella peregrinazione della fede e serbò fedelmente la sua unione col Figlio sino alla croce» (Lumen Gentium 18).

Per questo Maria è donna degli inizi e di ogni fine, custode di ogni fede in cammino, colei che indica la via e mostra la meta; nell’erranza sa cosa sia la sosta e il raccoglimento. È la stella mattutina, che trascina fuori tutta la notte, facendola riposare nella luce dell’aurora.

Ora è entrata nella sua morte come prima ancora era entrata nella la morte del Figlio: Maria morta due volte, come ogni madre a cui strappano via il figlio. Così ella muore nel desiderio del sepolcro che nella fede riconosce come la casa nuova del Risorto, la loro casa aperta sull’infinito, ove lei in lui riposa.

Dormono stanchi gli occhi nel volto brunito; ora Maria dorme e ascolta come un tempo il figlio bambino nella casa di Nazaret semmai la chiamasse ancora dall’altra stanza; attende la sua parola che le dice: “Il cuore pronto muovi alla fonte vivente che giunta è per te l’alba, Maria viso grazioso che rifrange dolce in un ultimo Fiat l’eco eterno del tuo Magnificat”.

Uomini, non chiudete quella porta di pietra
o lasciatemi entrare.
Donne, voi lo sapete
che quella è la mia casa
di cui sempre parlavo,
è la mia casa nuova
per me e mio figlio.
Ben la conosco poi che
quante volte
io la vidi nel sogno.
O dolce casa
io bacio le tue porte
che mi facciano entrare
con mio figlio.
Sempre dalle altre case
il mio figlio partiva
per un lungo cammino,
qui viene per restare
con la sua stanca madre
e stanco cuore.

La morte di Maria
S’addormentano gli occhi
stanchi
e il lieve
volto appassito.
Ed ora è come
quelle lontane notti
che sorridente
dubitosa
ella dormiva ed ascoltava
se dalla stanza accanto
la chiamasse il bambino.

L’aspettante cuore muovi
Che appena è l’alba
Muovi alla tua fontana
O fanciulla Maria
Viso d’oliva.
(Chiudere gli occhi e guardare).

Si alzò e andò in fretta

Quale invito a compiere le salite del cuore, l’Assunzione comincia sempre dalla terra; essa ha la forma di una dedizione alla terra, all’umano. Racconta Luca che, dopo il consenso all’annuncio dell’angelo, Maria «si alzò e andò in fretta verso la regione montuosa, in una città di Giuda. Entrata nella casa di Zaccaria, salutò Elisabetta. Appena Elisabetta ebbe udito il saluto di Maria, il bambino sussultò nel suo grembo. Elisabetta fu colmata di Spirito Santo ed esclamò a gran voce: «Benedetta tu fra le donne e benedetto il frutto del tuo grembo!» A questo saluto Maria rispose con il canto del Magnificat.

Si alzò e andò in fretta”. È questo il movimento nuovo e sempre antico della fede: il levarsi e il protendersi verso l’altro nella forma di una diaconia di amore, dove l’andare in fretta non rimanda ad uno stato di ansietà ma, al contrario, di sollecitudine. La parola è composta da sollus = tutto, intero e dalla particella citus = pronto, in movimento fuori e dentro, intento interamente, con piena attenzione, con commozione anche, mossa dall’amore. Questo movimento del credere, della fede come amore e come speranza che principia con l’alzarsi in fretta, viene espresso nel testo di Luca con uno dei verbi usati per esprimere la risurrezione del Cristo.

Si alzò” traduce il greco anastãsa, dal verbo ’anistemi, rialzarsi, essere rialzato e raffigura la fede, come quella piccola risurrezione nel quotidiano, ad ogni ora, di giorno e di notte: la Pasqua dell’estate così è chiamata anche l’Assunzione di Maria, la sua Pasqua, che declina ed attua la fede nel Risorto come quell’abbassamento che innalza, quello svuotamento che riempie, quel perdersi che è un ritrovarsi, quel servire che libera, quel distacco che unisce: la fede voce che abita il suo silenzio.

Canto quel tutto che s’acquista
Tutto perdendo
Io nuda voce
In te nudo silenzio.
(ivi)

Per leggere gli altri articoli di Presto di mattina, la rubrica quindicinale di Andrea Zerbini, clicca sul nome della rubrica o il nome dell’autore.

Storie in pellicola / Venezia 80: il manifesto di Lorenzo Mattotti, la sesta volta

L’illustratore e autore Lorenzo Mattotti firma, per il sesto anno, l’immagine del manifesto ufficiale della Mostra Internazionale d’Arte Cinematografica della Biennale di Venezia giunta all’80° edizione (30 agosto – 9 settembre 2023)

“On the road”, sulle tracce di Jack Kerouac, di Easy Rider o di Thelma e Louise, libertà, avventura, voglia di evadere, ritorno alle radici, irrequietezza, scoperta di nuovi territori.

L’immagine scelta per il manifesto ufficiale della 80° Mostra Internazionale d’Arte Cinematografica della Biennale di Venezia, che si apre a fine mese, è di Lorenzo Mattotti e “si ispira alla tradizione del cinema on the road”, spiega. “Ho giocato con la grafica”, sottolinea l’autore, “per rappresentare mondi nuovi da esplorare attraverso il Cinema”. Guardare verso nuovi orizzonti, cercare nuove strade e nuovi linguaggi, proiettarsi al futuro memori del passato, esplorare mondi nuovi, proprio come solamente il cinema sa fare. Guardando lontano.

In questo manifesto luminoso e allegro ognuno potrà ritrovare il suo film, quello magari che ha risvegliato sensi, paure e sogni, seguire la propria strada, immaginare i propri sentieri e il proprio destino. Vedere avanti.

Piace ricordare che il parigino d’adozione Lorenzo Mattotti, autore di graphic novel come FuochiStigmate e Ghirlanda, nonché regista del film d’animazione La famosa invasione degli orsi in Sicilia (presentato a Cannes 2019, nella sezione Un Certain Regard, e ispirato alla favola di Dino Buzzati), è ormai un habitué dei manifesti veneziani. Oltre che firma delle sigle animate dell’evento.

Lo scorso anno, per la 79° edizione, ha presentato un’immagine che raffigura una leonessa che si libra in alto e porge il 90°anniversario dalla prima edizione della Mostra. Linee classiche, così come classica la scelta del fondo oro, ma anche un po’ provocatoria. “Qui il leone, simbolo di potere e forza, si è trasformato in una leonessa, che ha in sé eleganza e creatività. Dopo 90 anni, il leone di Venezia, simbolo della Mostra, è diventato una leonessa che vola attraverso la storia con energia e leggerezza, simbolo di speranza, lontano dall’aggressività e dalla ferocia”, sottolinea l’artista.

Anche la 78° edizione, del 2021, parla Mattotti, con un manifesto che raffigura “due personaggi che si filmano reciprocamente in una sorta di danza, di duello giocoso”, spiega, “in un rapporto mediato dalla cinepresa. È una danza sotto i riflettori di un set, un movimento di energie comuni, un rituale di sguardi. Sguardi a confronto potrebbe intitolarsi l’immagine, in un periodo in cui lo sguardo acquista forza come una nuova relazione tra le persone. I due personaggi simboleggiano due visioni diverse che si incontrano e si confrontano, si guardano e si studiano, ma non si oppongono: grazie al Cinema e al suo ruolo centrale, creativo, propositivo”.

Nel 2020, in occasione della 77° edizione della Mostra, è il momento di colorati acrobati colti nel mezzo di un salto, un manifesto quasi simbolico, quasi a voler rappresentare la precarietà post-covid, come se fossimo colorati equilibristi sospesi su un filo sottile che potrebbe, da un momento all’altro, spezzarsi. Una sfida contro la paura del vuoto, alla fine, vinta, pur a prezzo di enormi sacrifici.

Il manifesto di Venezia 76, nel 2019, raffigura una coppia abbracciata, su una gondola, un chiaro omaggio alla città di Venezia che Mattotti ama molto.

Su quello di Venezia 75 (2018), invece, il primo della serie, campeggia una figura femminile che guarda, misteriosa, attraverso un obiettivo che assume le sembianze della Terra. “Penso che un manifesto debba avere qualcosa di intrigante, che attira l’occhio, che attira il pensiero, ma senza svelare troppo. Che ci sia un enigma, una sorta di mistero da risolvere. Dopo varie prove è venuta fuori quest’idea di una ragazza”, ha spiegato l’artista, “di questo personaggio femminile dal viso molto grafico, non realistico che guarda con un’espressione abbastanza seria attraverso un obiettivo. E al posto di questo obiettivo c’è la Terra, il pianeta Terra, per simboleggiare lo sguardo su di noi. Poi c’è il quadrato bianco, e mi sembra che questo abbinamento sia un incontro felice, perché ci si domanda: cos’è il quadrato bianco? Credo che sia naturale pensare allo schermo del cinema, lo schermo bianco. Lo sguardo sul pianeta, lo sguardo sulla realtà, deve passare per questo mezzo, deve essere filtrato attraverso lo schermo”.

Fantasia in libertà, senza fine, senza confini. Opere d’arte meravigliose.

Lorenzo Mattotti vive e lavora a Parigi. Studia Architettura e Venezia ed esordisce alla fine degli anni ‘70 come autore di fumetti. Nel 1984 realizza Fuochi, che vincerà importanti premi internazionali. Per il cinema, ha collaborato nel 2004 a Eros di Wong Kar-wai, Steven Soderbergh e Michelangelo Antonioni, curando i segmenti di presentazione di ogni episodio. È stato consulente creativo per Pinocchio di Enzo D’Alò. Con Incidenti, Signor Spartaco, Doctor Nefasto, L’uomo alla finestra e molti altri libri fino a Stigmate, il suo lavoro si è evoluto secondo una costante di grande coerenza. Oggi i suoi libri sono tradotti in tutto il mondo e pubblica su quotidiani e riviste nazionali e internazionali. Ha illustrato vari libri per l’infanzia, tra cui Pinocchio ed Eugenio che ha vinto nel 1993 il Grand Prix di Bratislava. Numerose le sue esposizioni personali, tra le quali l’antologica al Palazzo delle Esposizioni di Roma, al Frans Hals Museum di Haarlem, ai Musei di Porta Romana.

Realizza manifesti, copertine, campagne pubblicitarie; suo il manifesto del Festival di Cannes 2000 e quelli per l’Estate Romana.

Per sapere di più

 

Credits: ©labiennale.org

 

Collasso climatico: la transizione digitale non è una transizione ecologica

Collasso climatico: la transizione digitale non è una transizione ecologica

Viviamo un’epoca di continue “emergenze” descritte con parole apocalittiche che hanno l’effetto di impaurire e paralizzare il pensiero e l’azione personale della gente, deprimendola: la sindemia da Covid-19, la guerra in Ucraina con annunciato pericolo nucleare, il fenomeno delle migrazioni e il collasso climatico.

Per il profondo malessere che sto provando di fronte all’incredibile escalation degenerativa del dibattito sulla crisi climatica ed ecologica, traccerò dunque una riflessione poiché è giusto chiamare le cose con il proprio nome, in un periodo storico dove la confusione regna sovrana.

Nell’attuale dibattito sul clima ci sono due posizioni che stanno generando l’ennesima polarizzazione del dibattito: quella del negazionismo climatico, che si presenta come volgare e che offende l’intelligenza di molti; e quella dell’emergenza climatica, che sempre più si sta consolidando come mediatica ricca di inesattezze, di narrazioni tossiche e di notizie fuorvianti, che se da un lato focalizzano il tema sull’ambiente, dall’altro mandano evidentemente messaggi eterodiretti affinché qualcuno, sulla crisi climatica, possa marciarci.

La questione del cambiamento climatico oggi viene cavalcata come “emergenza” dai media. Il capitalismo da sempre chiama “emergenza” ciò che gli serve per giustificare politiche repressive. Anche in questo caso, spacciare la crisi ecologica come un fattore emergenziale serve per indurre alla paura, alla paranoia, ma soprattutto per fare subdolamente della “rassicurazione sociale”: è un’emergenza, prima o poi finisce… Quando in realtà non è vero. Un fattore strutturale rimane e poi può sfociare nei suoi punti di non ritorno, nelle sue contraddizioni. Perché oggi viene veicolata questa narrazione?

Il collasso climatico è alle porte e lo si vede da molti fattori (degradazione del territorio, inaridimento dei terreni fertili, monocolture intensive, allevamenti intensivi e sviluppo tecnologico con la sue abnorme impronta ecologica). Forse qualcuno non si ricorda, ma in questi ultimi vent’anni, sistematicamente nei Paesi occidentali, coloro che si occupavano e che sensibilizzavano sul tema dell’inquinamento, dell’importanza di cambiare modello di sviluppo, venivano definiti “pauperisti”, “contro il progresso”, e ridicolizzati come dei nostalgici del primitivismo.

 

Ricordo benissimo quando le parole “ambientalista” ed “ecologista” sembravano insulti all’udito della gente. É solo dal 2015, con la Cop21 di Parigi, che qualcosa è iniziato a muoversi a livello di sensibilità collettiva fino ad arrivare al movimento dei Fridays for Future. Eppure la narrativa sull’ambiente è molto cambiata negli ultimi cinque anni, e ha preso sempre più un’impronta neoliberale, spacciando per “ambientalista” ciò che “ambientalista” non è.

Oggi vi è una reale operazione di greenwashing di massa, dove i grandi capitalisti stanno proponendo una narrazione tossica per la quale, con la scusa di salvare l’ambiente (che hanno deturpato e stuprato fino ad oggi), ci stanno dicendo che è con lo sviluppo tecnologico che si salva l’ambiente. Questo permette ai grandi capitalisti di rigenerare i loro brand, di aprire nuovi mercati e di rigenerare anche la loro immagine esemplarizzata di fronte al mondo.Ecco dunque che queste narrazioni tossiche servono a consolidare il “green capitalism”, come ha spiegato molto bene il presidente socialista della Bolivia Luis Arce; la “green economy” fatta con gli schiavi adulti e minorenni in Congo e con il modello estrattivista e distruttore dell’ambiente; il “net-zero washing”, ovvero quello che la biologa Silvia Ribeiro ha chiamato “colonialismo climatico”. Il capitalismo finanziario ha inventato, insieme ai colossi dell’energia fossile, il mercato mondiale per lo scambio dei permessi di inquinamento.

La British Petrolium (Bp), che in cambio di un generoso contributo per rendere sempre più ecologiche le produzioni agricole nello Stato messicano di Veracruz (40 dollari per ognuno dei 133 contadini della comunità di Coatlila e per quelli di altre 58 comunità) ha ottenuto 1,5 milioni di crediti di carbonio su 200.000 ettari, che può vendere, a un valore (nell’ipotesi peggiore) quattro volte superiore a quello pagato alle comunità. É il capolavoro del greenwashing, con cui i grandi inquinatori ritardano, mistificano ed evadono l’azione a favore della tutela del clima facendo però, contemporaneamente, grandi affari.

Come scrive Ribeiro: “Invece di ridurre le emissioni di gas che causano il caos climatico, pagano alcune comunità o ejidatarios [comunità agricole nate con la rivoluzione zapatista del 1910 alle quali lo Stato assegnava delle terre in usufrutto, ndt] perché continuino a curare i loro boschi, oppure pagano altri soggetti perché piantino monoculture di soia, palma da olio e altre colture. Colture che presumibilmente assorbono anidride carbonica e che “compenserebbero” il fatto che le aziende continuino a inquinare.”

Inoltre, oggi il green capitalism e la green economy vogliono far coincidere le espressioni “transizione ecologica” con “transizione digitale”, due cose che gli ecologisti di vecchia data sanno bene essere completamente distinte. Il fine è quello di aprire al soluzionismo tecnocratico sul clima e all’implementazione della tecnologia, fino a riproporre l’energia nucleare come una fonte “sostenibile” . Ma sappiamo che lo sviluppo indefinito, il mito del “progesso”, la mentalità riduzionista-dualista-estrattiva, il mantra della “crescita economica” e la distopica tecnofilia dei miliardari californiani (Gates, Bezos, Musk etc… ) compresa la colonizzazione dello spazio (definita da Musk come la più grande impresa commerciale dalla scoperta dell’America) sono la radice della crisi ecologica.

Alcuni dati:
  • Sono necessarie 13 tonnellate d’acqua per produrre 1 smartphone
  • Sono necessarie 15 tonnellate d’acqua per la produzione di 1kg di carne di manzo
  • Silicon Valley ha un’impronta ecologica 6, ovvero se il mondo fosse come la Silicon Valley sarebbero necessari 6 Pianeti
  • Il 40% delle emissioni climalteranti è prodotto dall’agro-industria
  • La colonizzazione dello spazio si concretizzerà come modo per estrarre minerali, gas e litio dai pianeti colonizzati.
Silicon Valley e Big Food sono facce della stessa medaglia e la tecnofilia, come le soluzioni tecnocratiche alla crisi climatica proposte dai capitalisti, sono la continuazione della crisi ecologica. Il cambiare tutto per non cambiare nulla, se non per peggiorare le cose. Vandana Shiva questa cosa la denuncia molto bene: contro gli OGM, contro l’ingegnerizzazione della Natura (editing genetico, ingegneria genetica, geoingegneria), contro la chimicizzazione della vita, la promozione di cibi ultratrattati coltivati in laboratorio (clean meat e plantbased meat).

Come militanti ed attivisti abbiamo il dovere politico e linguistico di dire che la TRANSIZIONE ECOLOGICA non ha nulla a che spartire con la TRANSIZIONE DIGITALE dell’Agenda ONU 2030 (vedasi riflessioni dell’ecogiornalista Nicoletta Dentico a riguardo). La transizione ecologica, come sostiene l’ecofilosofa Gloria Germani, avverrà quando cambieremo stile di vita, metteremo in discussione il modello di sviluppo, di produzione, la stessa società industriale e le basi conoscitive su cui si fonda tutta la scienza cartesiana-newtoniana occidentale e il suo antropocentrismo. Oggi più che mai è un dovere semiotico e politico partire da questa distinzione, per creare nuovi immaginari politici e liberarci dalla colonizzazione dell’immaginario operata sia dalla società industriale sia dai mass media.

Ferrara è “patrimonio dell’umanità”:
non vuol dire “proprietà della Giunta”

Sul tema “Ferrara patrimonio Unesco” Periscopio ospita un intervento di Ilaria Baraldi, consigliera comunale del Partito Democratico.

Siamo alle solite.
Un cospicuo numero di cittadine e cittadini sottoscrivono una petizione promossa da +Europa per chiedere una verifica sulla capacità dell’amministrazione nel tutelare e promuovere il patrimonio dell’umanità che è Ferrara, la nostra città, di tutte e di tutti; con insperata e opportuna celerità il ministero competente garantisce un esame della questione ed ecco il sindaco Fabbri intervenire col consueto garbo attaccando la funzionaria preposta e offendendo le persone che, avendo a cuore Ferrara, si permettono di criticare la gestione attuale.
Per Fabbri le accurate osservazioni del Ministero sarebbero solo frutto di un “errore estivo”, mentre 1.378 cittadine e cittadini diventano improvvisamente “qualche disperato oppositore politico”.
Dileggiare le persone che la pensano diversamente dal sig. Sindaco, che pure lui rappresenta, è ormai una costante del suo mandato.

Non sappiamo che esito avrà l’indagine del Ministero della Cultura ma la notizia è buona di per sé. Anzitutto perché ricorda a chi amministra che c’è un controllo superiore che si attiva per verificare che permangano le condizioni poste da Unesco per avere il privilegio di essere considerati patrimonio dell’umanità. Speriamo che non intervenga la longa manus del solito Sgarbi a bloccare, per il tramite del gaffeur Ministro Sangiuliano, l’iniziativa.
Ma la notizia è buona soprattutto perché rammenta a Fabbri e alla sua maggioranza che il patrimonio loro affidato non può essere usato a loro piacimento, senza tenere conto delle sue caratteristiche e della sua preziosità.
Patrimonio che transitoriamente questa amministrazione, come quelle passate e future, si trova a gestire, con l’onere di proteggerlo e tramandarlo intatto alle generazioni future, valorizzarlo e non sfruttarlo, farlo conoscere anziché coprirlo di sponsor.
Per fare tutto questo occorre che chi governa sia consapevole della responsabilità di “essere” patrimonio Unesco, e lavorare allo scopo di rendere altrettanto consapevoli residenti e turisti di ciò che significa vivere e visitare una città patrimonio dell’umanità, nella sua interezza e complessità.
È un lavoro che richiede uno sforzo enorme e non basta appendere la bandiera Unesco o usarne il logo sui documenti ufficiali.
Comporta un lavoro culturale – a partire dalle scuole – che è altro rispetto a occultare monumenti e piazze con continue iniziative ed eventi.
Se c’è chi si sente offeso (nel senso di ferito) dall’occupazione transitoria della nostra piazza da wc chimici o bidoni dell’immondizia e in modo permanente da auto e furgoni, significa che quel senso di sfregio della bellezza – come valore culturale – in una parte dei ferraresi c’è, così come c’era nei veneziani che hanno lottato contro il passaggio delle navi da crociera in laguna a ridosso della fragile e bellissima San Marco.

Che ci siano cittadine e cittadini che pensano altro, o semplicemente non si pongono il problema, è naturale e legittimo.
Credo invece sia grave che una amministrazione non sappia dosare le proprie proposte e azioni in funzione delle specifiche caratteristiche del bene (materiale e immateriale) che ha l’onere di governare.
Non puoi valorizzare se prima non proteggi e per proteggere occorre sapere che cosa ti è stato affidato.