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Parole a capo /
Gabriela Fantato: Nel chiarore e altre poesie

La poesia è l’arte della concentrazione, della riduzione. Per il lettore – la cosa più interessante è andare ‘a ritroso lungo il raggio di luce’, cioè ripercorrere le vie per cui si è giunti a questa concentrazione, stabilire in quale attimo, nel frazionamento a noi tutti comune, per il poeta comincia a balenare la luce di un denominatore linguistico.”
(Iosif Brodskij)

Farsi del male

                           a Valeria

Le ferite sono profonde,
quei solchi neri ti attraversano
_ il braccio,
Una scrittura che solo tu
sai tradurre nel silenzio.

Nascondi i tagli
sotto la manica lunga
a chi non vuol sapere.
Scavi, cerchi il tuo nome
nella carne
sino all’ osso sbiancato,
a lui chiedi, come la voce
di una madre perduta
inventi ancora quel tuo gioco
a nascondino.

Piccola, sei piccola
nei tuoi sedici anni contati
al calendario,
attorcigliata al bianco
aspetti che qualcuno venga,
passi di lì,
tra le vene e i nervi fragili,
venga dietro l’angolo
proprio dove stai tu.

Vengo a cercarti senza nome,
e intanto il tuo corpo
lontano, abbandonato
in questa primavera.

(inedita)

 

Nel chiarore

Non so la nudità di un volto
immerso nel chiarore,
non la luce che abbaglia
– alla nascita.

Sul ramo sventola l’allegria
di una foglia piegata
poco prima del volo,
un incolmabile richiamo
a ciò che resta immobile.

Guardo questa distesa
nella fragilità luminescente
preziosi sono i resti di ciò che era
intero, afferrato – nel nulla.

La terra, la terra tutta
è calpestata, divorata
da passi – dove vanno gli umani?
Dov’è la traiettoria
della cometa mentre incontra
la predicazione di un santo?

Improvvisa una musica,
nel tentare l’uragano
di una parola
e domani un temporale
sarà acqua del battesimo.

Nel cavo della mano
gesti possibili, ancora
– non inventati.

(inedita)

***

Poesie da TERRA MAGRA ( Il Convivio editore, 2023)

Ritorni

Dalla spiaggia ritorno sempre
con un sasso, un ramo liscio
o una conchiglia.
Ho pezzi minuscoli
di isole che non ricordo.
Scaglie, ossa persino e
frantumi di colonne.

Stanno nella ciotola, vicini
come bambini nel cortile.

Non so se ricordano il nome che li fece
– interi, la pianta che li univa
e il dolore, prima dell’arsura.

Le voci, certo le voci
le hanno addosso,
una sintassi di calcare e vento.
Le guardo riposare,
non chiedo, non posso sciupare
– il patto.

 

Infanzia della specie

Laggiù nel bianco,
tra il basalto e strati d’arenaria
si affaccia – l’infanzia,
e coltiva ancora il grano
dentro i sogni.

La vita cresce selvatica
dentro ogni perimetro,
le ossa raccolte,
una preghiera semplice,
imparata da piccoli…

Siamo cellule
nell’eco della specie,
un’origine senza un nome,
senza nome.


Custodire

               ai miei figli

I passi non sono più una fuga,
sono echi dentro la testa,
gesti nel bianco delle lenzuola.

Il timore è nato oggi al mondo,
la gioia disegna
il suo nome sul muro,
la mano la tiene, senza
afferrarla mai.

Impariamo la corsa
il primo giorno che siete nati
e siete già qui…
Impariamo il silenzio
e il pianto.

 

Figli

I figli vanno dove nessuno sa,
vengono da un incontro di cellule,
dal caso o da un destino.

Il compito resta ancora
                   sfuggire le trappole,
                  dissodare il terreno
con la determinazione di chi
semina fagioli, ogni anno a marzo.
E non sa se ci sarà la mano
a raccoglierli.

Gabriela Fantato poetessa, critica e saggista, tradotta in inglese, francese, arabo e spagnolo. Suoi testi sono presenti nell’antologia: Nuovi poeti italiani 6 (Einaudi, 2012) e il poemetto A distanze minime in «Almanacco dello Specchio» (Mondadori, 2010).Tra le sue pubblicazioni ricordiamo le più recenti: Codice terrestre (La Vita Felice, 2008); L’estinzione del lupo (Empiria, 2012); La seconda voce (Transeuropa, 2018); Terra magra (Il Convivio, 2023).
Ha curato con L.Cannillo La Biblioteca delle voci (Edizioni Joker, 2006). Interviste a 25 poeti italiani. Ha diretto la rivista «La Mosca di Milano». Attualmente è nella redazione della rivista «Metaphorica» (Edizioni Efesto); Ha scritto testi per la musica, andati in scena nei maggiori teatri italiani, con le musiche di Carlo Galante.

La rubrica di poesia Parole a capo curata da Pier Luigi Guerrini esce regolarmente ogni giovedì mattina su Periscopio.
Per leggere i numeri precedenti clicca sul nome della rubrica.

“ITHAKA” il docufilm di Ben Lawrence sulla vicenda di Julian Assange fondatore di WikiLeaks:
Ferrara, 20 settembre, ore 20,30 al Cinema Apollo

Anche Ferrara per Assange

Un gruppo di cittadini ferraresi con il sostegno della comunità Emmaus ha organizzato per mercoledì 20 settembre 2023 alle 20,30 – Cinema Apollo sala 1 (via del Carbone 35 – Ferrara) la proiezione di “ITHAKA”, il film-documentario di Ben Lawrence sulla vicenda del giornalista australiano Julian Assange fondatore di WikiLeaks. Sei invitato a partecipare!

Il film, in lingua inglese sottotitolato in italiano, è stato realizzato e prodotto dalla famiglia di Assange. Un film toccante che racconta la storia e i fatti che hanno coinvolto in modo drammatico il giornalista e editore fondatore di WikiLeaks.

E’ una vicenda che è importante conoscere perchè riguarda sia la vita di una persona e della sua famiglia, sia il nostro diritto ad essere informati dei fatti che accadono nel mondo, da ogni punto di vista e senza omissioni o censure. Julian Assange ha scelto in modo coraggioso di diffondere notizie fondamentali per la comprensione e la valutazione di eventi politici, economici e sociali nel mondo, consentendo ai cittadini di costruirsi una propria opinione. Notizie pubblicate grazie alla rete Wikileaks dalla stampa di tutto il mondo. Per questo tipo di azione è ora rinchiuso da oltre 4 anni – dopo 7 anni trascorsi da rifugiato nell’Ambasciata dell’Ecuador – nel carcere inglese di massima sicurezza Belmarsh (Regno Unito), in attesa di estradizione negli Stati Uniti per una condanna, mai formalmente emessa, di 175 anni di carcere.
E’ questa una punizione “esemplare” che vuole di fatto limitare la libertà di stampa, un messaggio chiaro ai giornalisti: non è permesso rivelare i fatti quando sono scomodi, per il mondo occidentale, USA e Regno Unito in questo caso specifico.
La sua liberazione dovrebbe essere l’obiettivo di ogni cittadino che viene a conoscenza della sua vicenda. Il film è appunto la storia di Julian raccontata da un padre che lotta per la libertà del proprio figlio.
L’iniziativa è realizzata da un gruppo di cittadini ferraresi con il sostegno della comunità Emmaus.
La partecipazione è a offerta libera. È vivamente consigliata la prenotazione inviando una mail a ferraraperassange@proton.me(fino ad esaurimento posti). L’offerta, oltre a coprire i costi dell’organizzazione, permetterà di sostenere altre iniziative di informazione, di volontariato e impegno civile nella nostra città.
Sarà inoltre possibile, nel corso della serata, ricevere informazioni per aderire alla campagna internazionale in difesa di Julian Assange e di un giornalismo libero.
Ferrara per Assange
Per informazioni e per adesioni all’iniziativa (associazioni, singoli, istituzioni):
scrivere a ferraraperassange@proton.me
oppure contattare Simona Massaro al nr. 349-3576390 (Whatsapp)

URGENTE!
Il Marocco è a terra: puoi dare il tuo aiuto in modo diretto e sicuro

🚨🚨🚨 urgente 🚨🚨🚨

Il Marocco è a terra, le famiglie stanno lottando per salvare i propri cari intrappolati sotto le macerie, utilizzando qualsiasi attrezzatura. Danni significativi alle infrastrutture, strade bloccate e la forte presenza di detriti impediscono alle ambulanze di raggiungere i feriti.
E noi abbiamo il dovere morale di rispondere a tale richiesta.

In questi giorni mi sto organizzando con l’aiuto di altri volontari nel portare aiuti di qualsiasi genere di prima necessità il più velocemente possibile alla popolazione della mia terra, che in queste ore sta vivendo una grandissima tragedia. La soglia di mortalità ha superato le 3.000 persone e altrettante sono i feriti.

Se desideri sostenerci per poter fornire aiuto concreto già da subito, potete utilizzare le seguenti coordinate bancarie con la seguente causale: “Erogazione liberale Terremoto Marocco”. Puoi farlo in due modi: 

A ) Il modo più diretto è fare un bonifico al conto corrente italiano dell’attivista Nadia Karouiti che coordina la raccolta in Italia dei beni di prima necessità in costante contatto con l’Associazione Wafaa Without Borders che opera nei villaggi dell’Atlante più isolati.
IBAN: IT73Z0538713003000003576241

Nadia Karouiti
Email : nadinsara18@gmail.com

B ) Oppure puoi versare il tuo contributo utilizzando il conto corrente marocchino della Associazione Wafaa Without Borders
IBAN: ABMMAMC350810000000000861530602

Associazione Wafaa Without Borders
Contatto telefonico in Marocco:
Najia Arjdale
+212601013114

NOTA BENE
Come sempre. quando si tratta di raccolta di beni di necessità e/o di sottoscrizioni in denaro, la redazione di Periscopio verifica attentamente l’attendibilità e la serietà del richiedente, privilegiando i canali non istituzionali, diretti e gestiti da associazioni, gruppi o singoli conosciuti e comunque affidabili.

In copertina: la distruzione provocata dal terremoto della notte tra l’8 e il 9 settembre a Moulay Brahim, in Marocco (foto Vatican News)-

Adolescenti e violenza: cosa ne pensano, come reagiscono, come si difendono: un’indagine Ipsos ActionAid

Adolescenti e violenza: ccosa ne pensano, come reagiscono, come si difendono: un’indagine Ipsos ActionAid.

Com’era facile aspettarsi, l’unica risposta che questo governo poteva dare dopo i fatti di violenza contro le donne di Palermo e Caivano non poteva che essere repressiva. [Vedi anche articolo di Leonardo Fiorentini su Periscopio]

Renato Guttuso, Marsigliese contadina

Senza ascoltare, come scrive la rivista Animazione Sociale“chi ogni giorno ha la mente, il cuore, i piedi e le braccia nelle strade e nelle periferie d’Italia” e che in maniera pressoché unanime sottolinea come “punire quieta l’emotività, ma lascia irrisolti i problemi[Qui l’articolo completo] E senza sforzarsi più di tanto di capire cosa pensano gli adolescenti di quanto è accaduto.

Per questo, assume particolare rilievo l’indagine “I giovani e la violenza tra pari” [Vedi qui] che Ipsos ha condotto per ActionAid, cercando di scattare una fotografia di cosa pensano gli adolescenti sulla violenza, come reagiscono, come si difendono e quale è il ruolo degli stereotipi e dei pregiudizi di genere sulla loro vita. Una fotografia che ci mostra che: 4 su 5 pensano che una donna possa sottrarsi a un rapporto sessuale se davvero non lo vuole; 1 su 5 pensa che l’abbigliamento o un comportamento provocante delle ragazze possa scatenare una violenza sessuale; 1 su 3 crede che molte persone si identifichino come non binarie/fluide/trans per una moda del momento.

Le cause della violenza

Al primo posto della ricerca Ipsos, realizzata con il supporto dell’Istituto Buddista Italiano Soka Gakkai, come causa di violenza vengono indicate le caratteristiche fisiche (50%), poi l’orientamento sessuale (40%) e l’appartenenza di genere (36%).
Per quanto riguarda i danni invece, il primo indicato dal 27% degli intervistati, senza distinzione di genere, è il malessere psicologico, al secondo posto isolamento e depressione (21%) e al terzo posto disagio e vergogna (18%).

Perché non la si denuncia?

Emerge poi la difficoltà a denunciare. La vergogna di raccontarlo agli adulti è la prima motivazione. Seguono la paura di dirlo, l’inutilità della denuncia, nonché la paura di ulteriori minacce da parte dell’aggressore. Solo un/una giovane su tre (34%) è certo/a di conoscere persone e/o servizi all’interno della propria scuola a cui potrebbero riferire atti di violenza che accadono a sé stessi o ad altri/e. Un altro 36% non saprebbe a chi rivolgersi a cui va sommato un ulteriore 30% di insicuri/e. La fascia d’età 17-19 che appare la più colpita da atti violenti, dato che può derivare da una maggior consapevolezza di quanto viene vissuto.

Ma cos’è per gli adolescenti la violenza?

Per l’80% dei giovani,
quattro su cinque, è violenza toccare le parti intime di qualcuno senza il loro consenso, mentre uno su cinque non riconosce questa violenza. Al secondo posto è considerata violenza picchiare qualcuno, comportamento che registra il 79% dei consensi, in assoluto quello più citato dai maschi. Al terzo posto, con il 78%, fare foto/video in situazioni intime e diffonderle ad altre persone, soprattutto per le ragazze con 84% delle citazioni.

E chi la subisce di più?

Sono le ragazze, più dei ragazzi, a vivere con maggior frequenza atti di violenza tra pari, in qualsiasi forma essa si manifesti
: molto più spesso dei coetanei assistono a gossip, prese in giro, insulti, scherzi, esclusione di persone dai gruppi, a situazioni in cui le parti intime di una persona vengono toccate senza il suo consenso, alla diffusione non consensuale di foto e video di situazioni intime.
Inoltre, le ragazze rischiano più spesso di ricevere molestie verbali mentre camminano per strada, di essere toccate nelle parti intime, di essere vittime di scherzi o commenti a sfondo sessuale e della diffusione di foto/video che le ritraggono in situazioni intime.
I ragazzi invece rischiano principalmente di essere picchiati e le persone transgender/fluide/non binarie di venire insultate.

Le iniziative da attivare tra le mura scolastiche per la prevenzione della violenza tra pari?

Prima fra tutte applicare punizioni severe a chi commette violenza (42%), al secondo posto garantire l’efficace funzionamento del supporto/sportello psicologico (37% che sale al 44% tra le ragazze che vedono in questo l’iniziativa più urgente da sostenere). Un altro 37% vorrebbe veder introdurre programmi stabili di educazione affettiva e sessuale per studenti e studentesse, condotti da personale specializzato; il 36% chiede di garantire la presenza a scuola di docenti, tutor o figure esperte riguardo al benessere di studenti e studentesse; il 35% vorrebbe vedere aumentare la sicurezza tra le mura scolastiche (soprattutto i ragazzi con il 38% delle citazioni); il 34% chiede campagne di sensibilizzazione che coinvolgano non solo i/le giovani ma anche le loro famiglie; il 32% sottolinea la necessità di una migliore e più specifica formazione di docenti e personale scolastico; il 31% ritiene sia importante fornire a studenti e studentesse strumenti e garanzie perchè possano esprimersi liberamente (es. carriere alias, bagni neutri, attività di supporto tra pari ecc.) e per chiudere, un/una giovane su cinque (20%) chiede di creare uno spazio gestito direttamente da studenti e studentesse, a conferma della necessità di una presenza adulta su queste tematiche.

La severità della pena

Anche al di fuori delle mura scolastiche l’iniziativa più efficace citata dai/dalle giovani richiama alla severità della pena: il 40% sostiene l’importanza della condanna effettiva di chi è colpevole; al secondo posto (38%) la realizzazione di campagne di sensibilizzazione che aiutino a riconoscere i segnali che possono precedere atti di violenza; al terzo posto (36% che sale al 40% tra le ragazze) insegnare ai/alle giovani le pari opportunità e i pari diritti tra tutte e tutti, a prescindere da qualsiasi caratteristica individuale; al quarto, con il 35% delle citazioni, fornire un numero telefonico gratuito per denunciare o avere consigli e informazioni. Seguono una serie di iniziative legate a leggi più severe (34% che sale al 40% tra le ragazze), l’azione tempestiva della polizia (33%), un’applicazione appropriata delle leggi esistenti (28%) e dotarsi di maggiori regole e sanzionare chi promuove l’odio e le discriminazioni sui social network (28%). Chiudono la classifica, la realizzazione di una campagna di informazione sui media (22%), organizzare corsi o laboratori nei luoghi frequentati da giovani (18%) e sviluppare un linguaggio inclusivo che non rafforzi il genere maschile (16% che sale al 20% tra le ragazze).

Si tratta di dati che dimostrano che i giovani sono concordi su chi commette atti di violenza in Italia: i ragazzi maschi, soprattutto se in gruppo, e gli uomini adulti. Eppure, restano incertezze su quali siano i comportamenti violenti e quali no e  permane una mancanza di chiarezza su cosa e dove sia la violenza. Dati che confermano la necessità di occuparsi di violenza oltre che di bullismo e cyberbullismo, che colpiscono soprattutto gli under 14.

Come sottolinea Maria Sole Piccioli, Responsabile Education di ActionAid“La violenza tra adolescenti ha le radici nella società patriarcale che ancora oggi influenza il processo di crescita delle nuove generazioni e non permette di sovvertire dalle fondamenta la cultura dello stupro”. Occorre perciò intervenire con un’educazione all’affettività e sessualità che non si concentri solo sugli aspetti biologici, ma anche su quelli psicologici, sociali ed emotivi, come raccomandato dall’Unesco e dall’OMS.

Mediterranea. La minaccia del Governo italiano: “Sbarcate le attrezzature di soccorso o vi arrestiamo” e le falsità della Guardia Costiera sul caso Mare Jonio

Porto di Trapani. La minaccia del Governo italiano contro la nave Mare Jonio di Mediterranea Saving Humans: “Sbarcate le attrezzature di soccorso o vi arrestiamo”. 

Mediterranea: “nuova escalation nella insensata guerra contro il soccorso civile in mare.”

La volontà del Governo italiano di ostacolare e bloccare le navi del soccorso civile ha fatto registrare nelle ultime ore un ulteriore negativo salto di qualità: è stato infatti ordinato dalle Autorità alla Società armatrice della nostra MARE JONIO di “rimuovere dalla nave prima della partenza le attrezzature e gli equipaggiamenti imbarcati a bordo per lo svolgimento del servizio di salvataggio.” Pena la violazione dell’art. 650 del Codice Penale che prevede l’arresto fino a tre mesi e sanzioni pecuniarie.

L’ordine e l’intimidazione sono arrivati all’esito della visita ispettiva condotta dalle Autorità Marittime italiane a bordo della MARE JONIO, l’unica appunto della flotta civile di soccorso battente la bandiera del nostro Paese.

Dopo un’ispezione lunga, approfondita e severa, iniziata infatti il 22 agosto e conclusa il 6 settembre scorso, sono stati rinnovati tutti i documenti che consentono alla MARE JONIO di navigare, ma è stata ancora una volta negata la sua certificazione come nave “da salvataggio / rescue”.

I pretesti “burocratici” addotti sono noti: nonostante la nave sia riconosciuta come ben equipaggiata per l’attività di ricerca e soccorso (SAR) e sia stata per questo certificata del Registro Navale Italiano (RINA), essa non risponderebbe ai criteri di due Circolari emanate dalle Autorità nel dicembre 2021 e febbraio 2022, che richiedono particolari caratteristiche tecniche dello scafo corrispondenti al codice internazionale SPS emanato nel maggio 2008. Pretesa in sé assurda, e aggravata dal fatto che il Governo italiano vorrebbe far diventare questo lo standard per tutte le bandiere europee, in modo da ostacolare l’intera flotta civile.

In questi anni pensavamo di averle viste tutte nella insensata guerra dei governi italiani contro il soccorso civile in mare: i codici di condotta e i porti chiusi, i controlli strumentali e le detenzioni tecniche, le inchieste per favoreggiamento e le multe milionarie, da ultimi gli sbarchi selettivi, i porti lontani e gli ingiustificati fermi amministrativi.

Ma con l’assurdo ordine impartito alla MARE JONIO di sbarcare i dispositivi di soccorso si fa un ulteriore passo nella direzione della disumanità: che senso ha imporre a una nave, che si prepara a navigare nel tratto di mare più pericoloso e mortifero del pianeta – dove oltre 2.300 persone hanno perso la vita dall’inizio dell’anno – di privarsi di salvagente, battelli gonfiabili, farmaci ed equipaggiamenti medicali e quant’altro è necessario per salvare vite umane in pericolo?

Questo ordine è per noi semplicemente oltraggioso e inaccettabile, così come la minaccia di conseguenze penali per i nostri armatori. Insieme a tante e tanti altri lo rifiutiamo e da subito contesteremo questo provvedimento in ogni sede.

CONSIGLIO DIRETTIVO MEDITERRANEA
Trapani, 11 settembre 2023 

La replica di Mediterranea: le tre falsità della Guardia Costiera sul caso Mare Jonio.

Con disappunto e dispiacere ci troviamo costrettə a replicare al comunicato diffuso ieri dall’Ufficio Stampa del Comando Generale delle Capitanerie di porto – Guardia Costiera sul caso che riguarda la nostra nave MARE JONIO.

Con disappunto perché il comunicato contiene almeno tre falsità:

1) La Società armatrice che gestisce la nave al servizio di Mediterranea non ha mai rinunciato a richiedere la certificazione della MARE JONIO per il servizio di salvataggio. Riteniamo invece che le Circolari citate non siano applicabili a una nave come la MARE JONIO e rappresentino il frutto di una volontà politica, e non tecnica, di ostacolare le attività di soccorso civile in mare. Ci batteremo in ogni sede affinché questo perverso meccanismo sia smontato e l’attività di soccorso esercitata dalla MARE JONIO e dalle altre navi della Flotta Civile sia riconosciuta e certificata. Intanto abbiamo richiesto alla Capitaneria di Trapani di rilasciare, “innanzitutto e comunque”, le certificazioni indispensabili per navigare.

2) “Le attrezzature e gli equipaggiamenti per il servizio di salvataggio/ rescue” non sono affatto “pericolose” né “intralciano” la navigazione della nave in servizio di carico/Cargo. Gli stessi ispettori della Capitaneria saliti a bordo non hanno mai contestato questo. Quindi la presenza di questi materiali a bordo, che incrementano la sicurezza della MARE JONIO e la capacità di soccorso di vite in pericolo, è perfettamente compatibile con le certificazioni già rilasciate.

3) La Capitaneria – con comunicazione PEC ufficiale protocollata n. 39176 in data 08.09.2023 – non ha mai parlato di “alcune attrezzature” ma ci ha diffidato a rimuovere prima della partenza tutte “le attrezzature e gli equipaggiamenti imbarcati a bordo della MARE JONIO per lo svolgimento del servizio di salvataggio”, cioè tutti i materiali presenti e inventariati nel Piano Rescue già approvato dal RINA (Registro Navale Italiano), includendo in queste reti giapponesi per il recupero dellə naufraghə dal mare, coperte termiche per la protezione dall’ipotermia, kit con asciugamani e vestiti di ricambio, bagni chimici, docce e lavandini, forniture aggiuntive di acqua potabile e cibo per lə naufraghə, trecento giubbotti salvagente aggiuntivi, zattere autogonfiabili, centifloat e rescue raft di salvataggio, farmaci e dispositivi medicali contenuti nel container del punto di primo soccorso.

Se hanno nel frattempo cambiato idea, sarebbe il caso che ce lo comunicassero ufficialmente, invece di scrivere – letteralmente – che la diffida per lo sbarco delle attrezzature ed equipaggiamenti di salvataggio “ha valore di ordine legalmente dato ai sensi e per gli effetti dell’art. 650 del Codice Penale” che prevede appunto l’arresto fino a tre mesi di carcere per lə contravventorə.

Ma replichiamo anche con dispiacere, oltre che con disappunto, perché – nonostante il potere politico continui a utilizzare cinicamente pezzi di questo Corpo nella sua insensata guerra contro la solidarietà – la nostra stima e gratitudine nei confronti delle donne e degli uomini della Guardia Costiera italiana, che solo negli ultimi mesi hanno soccorso e sbarcato in Italia almeno 70mila persone, restano immutate. E con loro ci sentiamo parte di una “comunità del soccorso” che annovera nelle sue fila civili e militari, attivistə non governativi e marinaiə delle marine mercantili. Servirebbero anzi ben più mezzi e risorse per questo Corpo e ben più mezzi e risorse per il salvataggio di vite in mare dovrebbero essere a bordo di qualsiasi nave si trovi a solcare le acque del Mediterraneo.

CONSIGLIO DIRETTIVO MEDITERRANEA
Trapani, 12 settembre 2023 

Sergio Mattarella: “Lavorare non è morire”

Il Presidente della Repubblica Sergio Mattarella, ha inviato al Ministro del Lavoro e delle Politiche Sociali, Marina Elvira Calderone, il seguente messaggio:

Roma, 12/09/2023 

” In occasione dell’avvio del corso di formazione in materia di salute e sicurezza sul lavoro desidero porgere un caloroso saluto a tutti i partecipanti.
Le morti sul lavoro feriscono il nostro animo. Feriscono le persone nel valore massimo dell’esistenza, il diritto alla vita. Feriscono le loro famiglie. Feriscono la società nella sua interezza.
Lavorare non è morire.
Il nostro Paese colloca il diritto al lavoro e il diritto alla salute tra i principi fondanti della Repubblica. Non è tollerabile perdere una lavoratrice o un lavoratore a causa della disapplicazione delle norme che ne dovrebbero garantire la sicurezza sul lavoro.
I morti di queste settimane ci dicono che quello che stiamo facendo non è abbastanza.
La cultura della sicurezza deve permeare le Istituzioni, le parti sociali, i luoghi di lavoro.
A voi, ispettori tecnici, spetta un ruolo attivo in questo processo di garanzia e di prevenzione.
Faccio appello alle vostre intelligenze e al vostro impegno per contrastare una deriva che causa troppe vittime. Anche da voi e dalla vostra attività dipende la vita di madri, padri, figli, lavoratrici e lavoratori che, finito il proprio turno, hanno il diritto di poter tornare alle loro famiglie.
Mentre rivolgo ai nuovi ispettori tecnici il mio incoraggiamento, ringrazio gli ispettori già in servizio – che ogni giorno si spendono per intercettare le irregolarità in materia di sicurezza e garantire l’applicazione delle regole – e formulo a tutti i migliori auguri di buon lavoro.”

Documentazione

Morti sul Lavoro in Italia – Dati a Luglio 2023 

[…] Sono 559 le vittime sul lavoro in Italia: quelle in occasione di lavoro sono aumentate del +4,4% rispetto a luglio 2022 (430 contro 412) mentre quelle in itinere hanno visto un calo del -17,8% rispetto a luglio 2022 (129 contro 157).
La regione con il maggior numero di vittime in occasione di lavoro è la Lombardia (74). Seguono: Veneto (40), Lazio (36), Campania e Piemonte (33), Emilia Romagna (31), Puglia (29), Sicilia (26), Toscana (21), Abruzzo (16), Marche (14), Umbria e Calabria (13), Friuli Venezia Giulia (12), Trentino Alto Adige e Liguria (11), Sardegna (10), Basilicata (5) e Valle d’Aosta e Molise (1). […]
Qui dati e statistiche complete 

Numeri /
Come dovrebbero funzionare le Banche e come non funzionano

Banche: come dovrebbero funzionare e come non funzionano

Secondo uno studio de Il Sole 24 ore le sei maggiori banche in Italia (Intesa San Paolo, UniCredit, Mediobanca, banco BPM, BPER, MPS) hanno ottenuto nel primo semestre 2023 profitti superiori del 60% allo stesso periodo 2022 (11,5 miliardi anziché 4), che pure era stato un semestre ottimo e dovrebbero essere circa 36 miliardi i profitti nel complesso.

Le banche hanno aumentato i tassi dei prestiti e mutui, che sono passati per le famiglie dal 2% al 4-5-6-7% e per le imprese (specie quelle piccole e artigiani) anche al 10-11% (ma ci sono anche casi superiori). La scusa è che la BCE (Banca Centrale Europea) ha alzato i tassi – da 0 che erano 14 mesi fa – al 4,25% per combattere l’inflazione. A parte il fatto che questa restrizione monetaria avrà effetti tra 12-18 mesi, quando cioè i prezzi saranno già scesi (in Italia sono al 5,9% oggi), è un buon motivo per le banche per chiedere più soldi a coloro cui li prestano.
Ma non dicono, le banche, che continuano a pagare i depositi ai loro clienti (2.600 miliardi) ad un costo medio che è di circa 0,73%, che scende per i depositi non vincolati a 0,32%, quando 14 mesi fa era  0,02% (fonte ABI).

Non è quindi esattamente rispondente al vero che prendono soldi dalla BCE al 4,25% e basta: usano (anche) i depositi dei loro clienti (che pagano con tassi ancora prossimi a zero) e fanno pagare invece molto cari i prestiti, specie alle imprese piccole.

E’ così che si fanno “le budella d’oro” (extra-profitti) mentre però contribuiscono a distruggere il lavoro reale delle imprese (specie se piccole) e degli artigiani che ovviamente riducono le assunzioni e investono sempre meno (-37% in un anno, visti anche gli alti tassi di interesse), quando non falliscono, gravate da rate che non riescono più a pagare.

In altri paesi, come la Germania, il 40% delle banche è ancora pubblico o statale. Da noi sono tutte private – con una parziale eccezione, che peraltro terminerà con la prossima dismissione della quota pubblica, costituita da Monte dei Paschi.

Il Governo Meloni, più furbo del precedente, propone una tassa sugli extra-profitti delle banche (poi vedremo se alla proposta seguirà la realtà e quante realmente saranno; ricordate Draghi con il naufragio di fatto della misura di prelievo sugli extra-profitti delle imprese energetiche?), ma basterebbe imporre alle banche di alzare i tassi che pagano ai loro clienti o fare in modo che la differenza tra tassi pagati ai depositanti e a chi li chiede in prestito non ecceda il 5%, che è appunto il costo del servizio bancario (stipendi dei lavoratori bancari, spese fisse, etc.). Ma questo violerebbe le sacre regole del “libero mercato”, siamo o no una democrazia neo-liberale?

Poi, siccome dal 1999 tutte le banche possono fare speculazioni finanziarie, vanno in giro tra le piccole imprese in difficoltà a proporre di chiudere tutto e di investire sui mercati finanziari il patrimonio della vendita con la prospettiva di lucrare di più e faticare meno, cioè passare da imprenditore (che fa funzionare un’azienda con tutti i problemi che ci sono) a redditiero da finanza speculativa (magari green).

Così va l’economia occidentale nel XXI secolo: con una finanza speculativa che distrugge gradualmente l’economia reale, finché non crollerà anche quella finanziaria (i soldi non si fanno a lungo se non c’è dietro del lavoro vero e, in ogni caso, lucrare con la speculazione finanziaria è un furto fatto a chi –altrove- lavora, spesso i paesi poveri): così ci troveremo tutti con le “pezze nel culo”, anche se siamo una democrazia neo-liberale.

Parole e figure /
Niente di niente

Un potente albo illustrato di Kite edizioni in ristampa a settembre: “Niente di niente”, incontro di due solitudini

“A Kite Edizioni amiamo molto questi titolo”, ci dice la responsabile dell’ufficio stampa, nonché autrice e editor, Giulia Belloni Peressutti, “al punto che ne abbiamo deciso una ristampa dal 7 settembre” (la prima edizione è del 2014, quasi dieci anni fa). Abbiamo parlato di Giulia quando abbiamo scritto del libro “Mind the gap”, di cui è co-autrice. Oggi abbiamo seguito il suo prezioso consiglio nel presentarvi “Niente di Niente”, dell’illustratrice argentina Yael Frankel. L’ennesima sorpresa di questa interessante, innovativa e originale casa editrice padovana, fondata nel 2016 da un progetto di Caterina Arcaro, e oggi diretta da Valentina Mai.

Niente di niente è quello che può succedere a una pietra che non viene guardata né in estate né in inverno. Bambini, passanti, nessuno nel quartiere la nota. Tutti a passeggiare assorti in altri pensieri, affaccendati in altre faccende. Amici? Nessuno, tantomeno madre, padre, giochi o divertimenti.

 

A questa pietra non succede niente, non sente niente, né caldo né freddo, non mangia, non beve, non chiede, non prende, non dà, non parla, non suona, non discute, non chiacchiera, non pensa, non vede le farfalle. Non va a scuola né al cinema o a teatro, non ci sono parchi, boschi, giardini o laghi. Semplicemente sta. Apatia. Invisibilità. Inutilità. Indifferenza. Non fa proprio niente, d’altronde non ne varrebbe nemmeno la pena. A chi potrebbe mai interessare il suo destino?

Ma da qualche parte del mondo c’è anche un bambino.

Neanche a lui succede niente, mai, né in estate né in inverno, niente di niente. Sta nel suo lettino, al caldo, con la lampada sul comodino accesa, ma non ha amici, né giochi o divertimenti. Legge ogni tanto qualche giornalino di pesca o di fumetti, da solo. Ma non fa niente, non ha niente. Non gli accade mai nulla. Fino al giorno in cui quel bambino inciampa su una pietra. E qui…

Una storia d’incontro di solitudini, un racconto d’amicizia che si imprime come un timbro e ci racconta di come la vita, senza i nostri incontri sia niente, ma proprio niente di niente.

Yael Frankel vive a Buenos Aires in Argentina, dove lavora come grafica e illustratrice. Nel 2013 è stata selezionata per il catalogo “México Iberoamerican Illustration”. Nel 2014 è stata selezionata per la “Sharjah Children’s reading festival exhibition”, per il “Ukranie Cow Design Festival” e il “Portugal Illustration Festival”. Nel 2016 è invece entrata nella selezione del Bologna Children’s Book Fair. È arrivata finalista nell’edizione 2016 del “Silent book contest”, Italia. Ha vinto il “Premio de Ilustración Fundación SM Argentina”, nel 2015 e il BRAW Bologna Ragazzi Award nel 2023.

Yael Frankel, Niente di niente, Kite edizioni, Padova, 2023

Libri per bambini, per crescere e per restare bambini, anche da adulti.
Rubrica a cura di Simonetta Sandri in collaborazione con la libreria Testaperaria di Ferrara

I giovani sono cattivi?
Per il “Decreto Caivano” l’unica ricetta è la punizione

I giovani sono cattivi? Per il “Decreto Caivano”  l’unica ricetta è la punizione.

Che non bastasse l’operazione ad alto impatto (solo mediatico) delle forze dell’ordine di qualche giorno fa a sedare la famelica narrativa interventista del Governo Meloni lo si era capito subito. Così è arrivato il Decreto Caivano [ecco in sintesi le misure approvate, Ndr], un provvedimento puramente propagandistico che non incide in alcun modo su cause di degrado e disagio, se non con un intervento spot a Caivano, comunque sbilanciato sul lato repressivo. Implementa ulteriormente invece il sistema repressivo, colpendo al cuore la giustizia minorile italiana, assecondando la bulimia penale ormai patologia del nostro paese.

Come per il decreto Rave i giovani sono il nemico, le droghe lo strumento, la repressione il fine ultimo.
L’anno scorso il nemico da colpire era già davvero facile da identificare: giovani che ascoltano musica rumorosa e che usano droghe occupando la proprietà altrui senza alcuna autorizzazione. Figuriamo oggi, che sono pure coloro che commettono gli stupri e si riuniscono in baby gang.

Indifendibili, e pure minoranza. Se negli anni 60, 70, 80 e forse pure 90, i giovani rappresentavano una moltitudine capace di far paura alla società, soprattutto quando chiedevano di cambiarla, oggi invece rappresentano una porzione divenuta residuale della popolazione italiana. Sempre facilmente identificabili come nemico – “non ci sono più i giovani di una volta” è il lamento che li accompagna sin da Caino e Abele – sono oggi così marginali da non essere nemmeno un pericolo elettorale.

Così nel decreto Caivano non c’è nessun investimento sulla cultura, sull’educazione sessuale, sulle politiche giovanili: basta un osservatorio sui giovani, badate bene considerati solo perché devianti, e l’estensione dei DASPO ai quattordicenni e più carcere per lo spaccio di lieve entità.
Nessun investimento reale sul sociale e sulla salute, sul lavoro, sulla prevenzione dei NEET (gli inattivi): solo interventi spot, ma arresto in flagranza dei minori per droghe che però poi potranno avere l’alternativa dei lavori socialmente utili. Nessun investimento strutturale sul sistema scolastico e sulle cause della dispersione scolastica: briciole per le scuole del Sud, compensate dal carcere per i genitori.

Il populismo penale permette questo: dare l’apparenza di fare qualcosa, rispondendo ad una legittima domanda di sicurezza, senza dover mettere mano al bilancio e alle politiche pubbliche.
È pura apparenza che per contraltare ha immensi costi sociali, culturali ed economici. Sia in termini di apparato repressivo e di detenzione che di salute e di ricadute sociali e culturali. Oltre che la grande colpa di continuare a criminalizzare i giovani e di cercare di smantellare un sistema, quello della giustizia minorile, che pare funzionare meglio di quello della giustizia ordinaria. Del resto, la giustizia minorile ha il grande difetto – per la destra italiana – di privilegiare l’educazione alla punizione e di considerare come extrema ratio il carcere, che interessa oggi poche centinaia di minori in Italia.
Secondo l’annuale rapporto di Antigone sono solo 380 i giovani detenuti nelle carceri minorili al 15 marzo 2023 (tra questi solo 12 sono ragazze): rappresentano il 2,7% dei ragazzi in carico alla giustizia minorile.

Nel Decreto-legge è previsto anche l’innalzamento delle pene per i fatti di lieve entità: un provvedimento ingiustificato e gratuito che non avrà alcun effetto sulla presenza di spacciatori sulle strade. Questi già vengono arrestati in flagranza e finiscono giudicati, la gran parte in direttissima, con un rapporto complessivo di condannati per processo di 7 a 10. Per gli altri reati il rapporto è 1 ogni 10. Saranno come sempre sostituiti da altri, molti di questi disponibili a correre il rischio anche perché confinati nell’illegalità dalla Bossi-Fini. Avrà invece un pesante effetto sulle nostre carceri (già per un terzo piene di “spacciatori”) per via dell’insensato allungamento delle pene. E soprattutto sulle persone che vi entrano.

Mentre viviamo una vera e propria crisi rispetto ai suicidi nelle nostre prigioni, è inconcepibile far entrare più persone, sempre più giovani, nel circuito detentivo. Il Governo Meloni fa proprio questo, assecondando una tendenza che ha visto già l’anno scorso aumentare del 15% i minorenni accusati di spaccio.

La distinzione fra spaccio “ordinario” e fatto lieve è molto variabile, e ancor più flebile il limite fra lieve entità e possesso per uso personale. Secondo uno studio della Cassazione, pubblicato sul Libro Bianco quest’anno, si può essere condannati per spaccio “ordinario” sin da 0,6 grammi di cocaina, mentre il range per la lieve entità risulta essere tra 0,2 e 150 grammi. Per cannabis il limite inferiore per la punibilità è 0,55 grammi, solo 0,05 grammi sopra la soglia definita dal Testo Unico per il consumo personale.
Certamente dipende dalle circostanze e dal Giudice, ma molto – se non tutto – dalla condizione socioeconomica dell’imputato. Non serve prova dello scambio, è sufficiente la detenzione. Per supporre lo spaccio bastano pochi elementi – contanti, bilancia, a volte la sola pellicola trasparente – presenti in tutte le case. Un’inversione di fatto dell’onere della prova che è difficile affrontare senza un’adeguata difesa.

Mentre le politiche più avanzate, e le stesse agenzie dell’ONU, sollecitano un processo di decriminalizzazione del sistema di controllo sulle droghe, invitando gli Stati a sostituire il carcere con percorsi alternativi risocializzanti, il Governo Meloni fa il contrario.
Il Sottosegretario Mantovano, che il 26 giugno scorso diceva di essere interessato alla persona e non alla sostanza, ha gettato la maschera e nascosto la carota. Poco conta la messa alla prova estesa ai minori, l’unica ricetta è la punizione.

Leonardo Fiorentini
Segretario di Forum Droghe

In copertina: una scena iconica di Arancia Meccanica di Stanley Kubrick (1971)

Documentazione:

Le misure approvate con il Decreto Caivano

Daspo urbano ai minori

A QUALE CITTÀ PENSIAMO?
Dormire per terra non è un problema di carità, ma di sfruttamento

A QUALE CITTÀ PENSIAMO?
Dormire per terra non è un problema di carità, ma di sfruttamento. 

Quando Ilaria Baraldi, intervenendo su questo giornale [Vedi qui], pone il problema delle persone che dormono per terra, individua un tema cruciale, di cui spesso ci dimentichiamo quando parliamo di politiche urbane, di rigenerazione e spazio pubblico.
Mi riferisco alle disuguaglianze e alla miseria che contraddistinguono molte delle nostre città; una condizione che diventa evidente ai nostri occhi quando incontriamo qualcuno che dorme per strada.

In molte città del mondo si tratta di una condizione normale e accettata come tale. Non mi riferisco solo alle città del global south, ma anche a molte grandi città europee dove può capitare, come a Parigi, di passare nel periodo natalizio davanti alle vetrine sfavillanti e animate dei Grandi Magazzini e vedere dall’altra un dormitorio disteso lungo tutto il marciapiede. All’apertura dei magazzini questo mondo notturno sparisce come d’incanto.

Quando noi architetti disegniamo nuovi spazi pubblici, per far vedere come sarà o come potrebbe essere la nostra città, questi sono sempre pieni di gente gioiosa, giovani coppie con bambini che passeggiano nel parco, mentre i ragazzini giocano con lo skateboard, le ragazze fanno ginnastica ritmica e gli anziani conversano tra loro seduti su comode panchine. Il conflitto, la marginalità, la miseria è bandita da queste rappresentazioni, che devono rassicurarci, raccontandoci spesso delle bugie. Wislawa Szymborska in una sua bella poesia afferma di amare le mappe perché sono bugiarde, nascondono i conflitti e ci parlano di un mondo che non è di questo mondo. Giorgio Manganelli con il suo consueto cinismo, raccontandoci un suo viaggio in India, ci descrive invece questo mondo, mostrando la miseria che si ritrova nelle strade delle città e ci indica la strada per non restarne sopraffatti, emotivamente e fisicamente: essere indifferenti. Usare quindi la stessa arma degli abitanti locali: scansare l’ostacolo senza guardare.

A ben vedere lo sviluppo generato dalla rivoluzione industriale si è fondato sull’intreccio miseria/opulenza o povertà/ricchezza. La miseria londinese o parigina, raccontata da tanti scrittori tra metà Ottocento e inizi del Novecento, è il substrato che ha alimentato il benessere delle metropoli occidentali. Bernard Mandeville nella sua riflessione intitolata La favola delle api, individua nello sporco, nel cattivo odore, nel degrado della Londra settecentesca l’indicatore di quel benessere e di quella ricchezza prodotta dai commerci internazionali che daranno vita alla rivoluzione industriale. Le opposizioni ordine/disordine, pulizia/sporcizia, igiene/malattia, risorsa/sfruttamento hanno in fondo generato tale modello di sviluppo che è causa della crisi ambientale che stiamo vivendo. Nel 1889 Charles Booth pubblica un’indagine durata quattordici anni, intitolata Labour and Life of the People in London. Un problema devastante, quello della miseria urbana, che richiede delle soluzioni abitative alternative ai marciapiedi e agli anfratti di Soho, di Whitechapel e dell’intero East London.

Nel 1832 l’avvocato Edmund Chadwick introduce con le Poor Laws (leggi per il controllo della povertà e della miseria) dei modelli residenziali denominati workhouse, desunti dal panopticon, il carcere pensato e progettato da Jeremy Bentham che presuppone una sorveglianza asimmetrica (come sostiene il filosofo francese Michel Foucault: il controllore può vedere ma il controllato no). Le workhouse (evoluzione dell’Albergo dei Poveri) introdotte dalle Poor laws e criticate da Charles Dickens nel racconto di Oliver Twist, erano di fatto ospizi per lavoratori indigenti dove vigevano condizioni molto dure che sconfinavano nella reclusione e nella segregazione. Le famiglie venivano separate: i genitori dai figli e i mariti dalle mogli mentre il cibo era volutamente economico e al limite della decenza (la stessa logica delle Maison des esclaves africane). Una risposta politica alla miseria. L’ipocrisia borghese in quei decenni, e ancora oggi, ha sviluppato una forte cultura filantropica, finalizzata al portare sollievo ai poveri, ma non a combattere le disuguaglianze. Per contrastare queste si richiede una scelta di campo politica che potrebbe consentire al diseguale di diventare come me, mentre la dimensione caritatevole porta sollievo a qualcuno che è comunque destinato a rimanere povero.

I meccanismi segregativi (e non educativi) e le disparità tra povertà e ricchezza, alla base del nostro modello di sviluppo e della nostra idea di progresso, ancora permangono in molte dinamiche e processi della nostra società (basti pensare al recente Decreto Caivano) ma diventano evidenti ed eclatanti nei rapporti tra Occidente e Global South.
Oggi nel pianeta si stanno creando numerose situazioni urbane esplosive, delle vere e proprie città residenziali, composte da centinaia di derelitti, che vivono nei marciapiedi, sotto i ponti o nelle piazze delle città del Sud America ma anche in Europa e in Italia
. Il problema dei moradores de rua, come vengono definiti in Brasile coloro che dormono nelle strade, va oltre la favela o lo slum, che comunque, pur nella sua informalità, è uno spazio strutturato ed è una soluzione a un problema. Oggi il tema delle disuguaglianze si deve confrontare anche con i temi posti dalla crisi climatica. Non so se l’innovazione tecnologica renderà smart ogni nostra azione quotidiana, in ogni caso non si sta configurando come un diritto per tutti e una grande parte dell’umanità non ne avrà accesso. Senza aiuti umanitari seri, e non utilizzati come leva per alimentare governi o poteri locali compromessi con gli interessi occidentali, senza una redistribuzione della ricchezza, senza politiche sociali non sarà possibile ricomporre le fratture sociali e razziali che infiammano la gran parte del mondo. Amartya Sen già vent’anni fa, nelle sue riflessioni sul rapporto tra sviluppo e libertà, evidenziava come il mondo sia da un lato caratterizzato da una opulenza senza precedenti mentre le privazioni, la miseria, l’oppressione diventano sempre più grandi. Il neoliberismo ha radicalizzato una organizzazione sociale che ha reso evidenti le disuguaglianze, ha reso fortemente gerarchico il sistema economico mondiale che non mette i vari paesi in condizione di lottare (o di affrontare problemi come quelli posti dalla crisi ambientale) ad armi pari.

Thomas Piketty ha più volte evidenziato come, secondo la Banca Mondiale, nel pianeta circa un centinaio di paesi possono essere ritenuti ad “alto reddito” e la contribuzione del 0,03% del prodotto interno lordo consentirebbe di ottenere le risorse necessarie per far fronte alle crisi umanitarie mondiali attraverso l’istituzione di agenzie indipendenti in grado di operare reinventando forme di multilateralismo globale. Del resto da tempo i paesi in via di sviluppo chiedono di poter utilizzare i propri bilanci pubblici per interventi e politiche strutturali finalizzate allo sviluppo e alla equità economica e sociale senza dover essere, sempre più frequentemente, costretti ad intervenire con azioni di soccorso, prevenzione, emergenza in situazioni generate da cambiamenti climatici di cui sono responsabili per il 3% (almeno l’Africa).

Il colonialismo economico, “urbanistico” e segregativo non è mai morto, lo vediamo anche oggi nelle città del sud del mondo, interessate da ricchi progetti di urbanizzazione che impongono ipocrite smart e green city all’europea nei deserti africani o nelle foreste tropicali. A São Paulo la costruzione del quartiere di Higienópolis inizia alla fine dell’Ottocento, su di una altura attraversata dai venti e circondata dai quartieri poveri dove la febre amarela e altre epidemie imperversavano. Nei medesimi anni, la legge del 1888 abolisce la schiavitù ma sancisce la nascita dei quartieri informali perché gli schiavi (neri) vengono liberati ma non assistiti. La ricca borghesia parigina e londinese abitava a ovest perché li arrivavano i venti che spostavano lo smog (la nebbia) a est, dove abitavano gli indigenti. Oggi Dubai viene presentata come la città più felice del mondo grazie alla qualità dei suoi spazi costruiti nel deserto, ma il 90% della popolazione è costituita da immigrati dall’India, Pakistan, Bangladesh o Filippine che hanno costruito questa fantasmagorica città ma che non hanno diritti e ai quali vengono prelevati i passaporti, e obbligati a vivere in grandi camerate senza aria condizionata. Una nuova forma di schiavitù. Le informazioni che ritroviamo nel World Inequality Database ci parlano di una situazione globale dove le discriminazioni razziali, retaggio delle antiche dominazioni coloniali, sono associate all’impatto dell’iper-capitalismo finanziario contemporaneo.

Inoltre, le nostre città sono piene di edifici vuoi e non usati per convenienze economiche. L’ ex Hotel Columbia, situato in Avenida São João, nº 588 a São Paulo è diventato un simbolo di chi lotta per il diritto alla casa. Da vent’anni l’edificio ospita novantuno famiglie a basso reddito. Prima dell’occupazione, l’immobile era vuoto e abbandonato da circa trent’anni, senza essere utilizzato dai proprietari. La lotta degli abitanti è quella di rivendicare il diritto alla casa nel centro di una città dove tanti edifici sono vuoti o abbandonati. Lo sfratto, pendente da anni, rischia di lasciare tutti in strada, compresi bambini, adolescenti, anziani e persone con problemi di salute, in una città piena di moradores de rua. Siamo andati a trovarli per conoscere la loro situazione e sostenere la loro lotta. Questa ocupação è gestita dal MTSC (Movimento Lavoratori Senza Casa) coordinato da Carmen Silva e richiede politiche pubbliche per la casa per chi, pur lavorando, è povero. Carmen da quasi tre decenni lavora in difesa delle persone senza dimora ed è professoressa del Nucleo Donne e Territori del Laboratorio Arq. Futuro de Cidades.

Si stima che i processi di migrazione diventeranno sempre più intensi, non solo verso l’Occidente ma anche internamente al continente africano. Le migrazioni sono in crescita e hanno caratteristiche molto diverse dai processi che abbiamo conosciuto in Europa tra Ottocento e Novecento. L’emigrazione storica aveva un’origine e una destinazione. Oggi nelle migrazioni di massa, qualunque sia il motivo per cui si lascia la propria terra, alla coppia origine-destinazione va aggiunto il transito che può durare anni. Un periodo nel quale si vive nell’incertezza, nella precarietà e nel pericolo, essendo i migranti ostaggi di situazioni che non si controllano, come dimostrano i confini dell’Unione Europea.

Come garantire condizioni abitative civili, seppur transitorie, a una popolazione in movimento? In quali insediamenti alloggiare queste persone in transito? Il concetto di Transitory Urbanism è stato introdotto in esperienze in corso in varie parti del mondo: Vienna, Parigi, in Olanda o nel progetto brasiliano di empowerment femminile Arquitetura na Periferia.  Tale concetto, al di là delle inevitabili retoriche, associa pratiche di design initiative a politiche di community developement. Si parte da una dimensione operativa locale attivando la partecipazione degli abitanti ed agendo in prima battuta sulle risorse locali, sui canali di approvvigionamento brevi, sulla razionalizzazione dell’utilizzo degli spazi e delle risorse a partire da ciò che esiste. Si tratta di un processo di riattivazione dei cicli di vita locali, che dovrebbe essere improntato alla sobrietà e alla eliminazione dello spreco di suolo, di risorse, di beni materiali.

Il pensare una urbanistica della transitorietà, necessaria anche per far fronte a situazioni improvvise quali, ad esempio, quelle climatiche, non può essere relegato alle politiche dell’ emergenza ma deve divenire prevenzione, capacità di gestione di processi che, essendo da tempo in movimento, si possono anticipare, ed anche una città come Ferrara, che non vive le contraddizioni e i conflitti delle città che ho citato, ma che non è al di fuori da queste dinamiche, deve porsi questi obiettivi.
Il dibattito va dunque aperto o riattualizzato, in particolare in questo momento di grande progettualità per il futuro della città. I vari attori economici, sociali, associativi vanno coinvolti ma, attenzione, non si tratta di una questione settoriale o puramente umanitaria: è una questione politica.

PUSH-UP
Sollevare l’animo femminile con ironia e carattere. Un invito…

Gli albori del progetto
Siamo a fine 2019 e tra le mille idee che popolano la mia testa, ne è emersa una che mi ha colpita e che mi  ha convinta ad agire. Ho vissuto, in questi due anni e mezzo, un’esperienza davvero unica, cercando di elettrizzare altre artiste per dar vita ad un sogno.
Chi siamo ?
Dunque siamo in sei (Anna Maura Alvoni, Lidia Calzolari, Ilaria Davanzo, Elisa De Florio, Silvia Favaro, Federica Veronesi). 
Sei donne, che nella vita non sono solo artiste, (condizione che unisce tante e tanti d’altronde), bensì:  educatrici per la disabilità, impiegate, libere professioniste, studentesse universitarie e operatrici olistiche. Geograficamente sparpagliate per il nord Italia: Ferrara e provincia,  Padova, Bologna e Lecco. 
Cosa abbiamo condiviso dal punto di vista artistico ?
Fotografia, scultura, mandala, arti visive, poesia, pittura e installazioni in ferro e materiali di recupero, realizzazione di un video
Dal punto di vista umano?
Il tempo lungo ci ha concesso l’opportunità di verificare se ci credevamo veramente.
Ci siamo “aspettate”: il valore aggiunto del nostro risultato. Solidarietà e perseveranza non ci hanno fatto arrendere.
Il risultato non consiste in un assemblaggio a posteriori di opere create singolarmente, bensì nell’intreccio di ogni pensiero e sensibilità, come in una corsa in cui  il testimone  passa di mano in mano per arrivare insieme al traguardo. L’arte come una delle forme più avvincenti di solidarietà.
Il push up dunque di cosa parla? Quale è il senso ?
Il reggiseno ci ha  vestite e svestite al contempo. Che sia un indumento di seduzione o di costrizione; che lo si indossi o lo si utilizzi per ribellarsi al sistema o tentare di modificarlo dall’interno, l’importante per noi è viverlo come specchio del nostro IO più vero. Nutrirsi di autostima equivale ad imparare a sorridere e ridere di sé stesse e se lo si fa insieme ancor meglio.
Mi piace pensare che il sostegno  che, per antonomasia è collegato ad una delle funzioni del reggiseno, possa diventare un’azione collettiva di solidarietà fra donne e non solo. Una specie di abbraccio virtuale fatto di ironia, ascolto, accettazione di sé, solidarietà, creatività.
Cos’è per me indossare il reggiseno o non indossarlo?
Il mio rapporto con il seno, con i miei capezzoli, con il seno delle altre ???
Io ho risposto con molta ironia e giocando con le parole.
Questo e molto altro all’interno del lavoro delle altre artiste.
Dice Lidia Calzolari nel suo Libretto di presentazione:
«Al di fuori degli schemi, dei cliché e delle convinzioni, noi donne abbiamo un disperato, e molte volte inconsapevole, bisogno di trovare i canali giusti per ritrovarci a “casa” in una dimensione solidale e attiva di condivisione di intenti, di capacità, di desideri inespressi e di vie per esprimere le enormi potenzialità creative.
È a partire da questa consapevolezza che io mi sono innamorata di un’idea e come il più estatico dei sentimenti mi sono nutrita di sogni, fino a far nascere un progetto. Era l’anno duro della clausura forzata, il momento in cui tutto riluceva in modo diverso ed era il momento in cui ci si spogliava letteralmente di abitudini e vestiari.
Il reggiseno fa parte degli indumenti usurpati del loro potere. Sentire l’urgenza di due azioni ben distinte è stato il primo passo; toglierlo e parlarne. Raccontarlo come fosse un oggetto qualsiasi di casa, pur ricordando il ricettacolo di significati che esso esprime.
Il secondo step, ovvero cercare altre donne, artiste, ha rapito l’attenzione della promotrice che, non sazia del mero coinvolgimento in un progetto artistico a scomparti stagni, ha voluto a tutti i costi connettere gli animi di tutte. Questo ha comportato attese, abbandoni, momenti difficili ma il motto: “Tutte insieme ha un senso” ha avuto la meglio.
Il reggiseno come leitmotiv ha sorretto in primis le 6 artiste per esplodere poi, in un canto, un inno un risorgimento, uno spunto per una risata, un gioco, uno scatto. Ognuna a suo modo, con la propria sensibilità e dose di follia e semplicità, ha srotolato, sganciato, squarciato, tolto il reggiseno da ogni connotazione data, pronte alla sfida.
Ovvero… Sapranno sorprendere, coinvolgere, ispirare e SOLLEVARE gli animi delle donne? Comunicare amore per sé stesse al di là di ogni taglia indossata? Ammaliare e confondere? Cominciare a leggere la realtà a suon di tette? Con l’arte tutto il vissuto si veste a festa e, come diceva Alda Merini: “Non sono bella, Sono erotica”, le artiste vi invitano a mettervi in gioco».
Luoghi dell’evento itinerante
  • Ferrara presso il Fienile in via Pelosa 27/a  il 23 settembre dalle ore 18.30
  • Milano il 19 novembre presso il Villaggio  Barona – Sala Aletti, in collaborazione con la Casa delle artiste  e la poetessa Agnese Coppola
    (eventi in via di programmazione in altre città nel 2024)
Vi aspettiamo.
Scarpe comode che siamo in campagna
con o senza reggiseno
…il resto ce lo inventiamo insieme

Guarda il portfolio di PUSH-UP

Germogli /
Quella Nomenklatura che ci fa perdere tutte le elezioni

«Ci sono due modi di fare il politico: vivendo “per” la politica oppure vivendo  “della” politica.»
(Max Weber)
«I partiti di oggi sono soprattutto macchine di potere e di clientela.»
(Enrico Berlinguer)

“Nomenklatura”, nella ex Unione Sovietica erano gli alti papaveri del Politburo e i grandi burocrati. una razza inamovibile e fautrice dell’immobilismo formale e sostanziale. Ma si sa, il vocabolo ha avuto successo anche in Germania (“Nomenklatur”), e naturalmente in Italia: “Nomenclatura”, senza la kappa.

L’Italia, dal secondo Dopoguerra fino al Crollo del Muro e al terremoto di Mani Pulite (poco meno di mezzo secolo) ha conosciuto due grandi tradizioni politiche, due grandi partiti, e due nomenclature. Entrambi, Democrazia Cristiana e Partito Comunista, hanno allevato e istruito la propria solida nomenclatura. Che ha anche altri nomi: apparato, classe dirigente: non sono i super leader ma l’esercito dei fedeli funzionari e dei politici di professione. Ne servivano parecchi per “presidiare” tutto il territorio, a cominciare dalle città e dalle regioni dove il partito poteva contare su una maggioranza bulgara. La DC in Veneto, il PCI in Emilia-Romagna.

Negli anni Novanta è cambiato il mondo, i vecchi partiti sono esplosi in mille pezzi,  ma (incredibilmente?) la nomenclatura è riuscita a salvare il posto, lo stipendio, il potere. Non si sono salvati tutti, qualcuno si è dovuto ritirare a vita privata, ma i più abili, i più scaltri, i più spericolati si sono riciclati nei nuovi partiti, si sono fusi con le nuove figure emergenti, presto diventate anch’esse nomenclatura.
I casi di intelligente galleggiamento nel mare agitato della Prima e Seconda Repubblica si sprecano, forse il più noto è un uomo che nella vita è stato tutto, da segretario dei giovani democristiani a Ministro ripetutamente della Cultura, senza lasciar traccia, eccetto la rivoluzionaria invenzione del Dantedì (25 marzo, prendete nota).

Tutto il discorso vale in generale per l’Italia di ieri e di oggi, ma anche per l’Emilia-Romagna, dove il Governatore (titolo altisonante quanto idiota), dopo aver perso le primarie, nega in pubblico ma trama in privato per cambiare la legge e assicurarsi un terzo mandato: farebbero un totale di 15 anni con il medesimo uomo, la sua passione per il cemento e i suoi inguardabili rayban a goccia.

E vale anche per  Ferrara, perché un Assessore regionale di prima fascia e una Capogruppo PD nella Assemblea regionale sarebbero decisi a ripetere il capolavoro di quattro anni fa. Nel 2019 fu la loro lungimiranza a imporre (alche al PD cittadino) un candidato sindaco di partito, che prese una sonora batosta dal leghista Alan Fabbri per poi far perdere le sue tracce. Oggi (c’è un limite a tutto) un candidato sindaco prelevato dalle fila del partito è fuori discussione: “Sarà un civico”, l’han detto tutti.  Ma da dove verrà fuori il nome del civico? Dalla stessa bottega di cui sopra: prima dovrà piegare alcune resistenze interne al PD ferrarese (proprio come quattro anni fa), poi  far digerire il loro nome a tutti gli altri partiti del Centrosinistra.

Cucinare un piatto del genere richiede tempo e molta prudenza, ma il nome sta già circolando e un po’ alla volta il candidato civico battezzato dalla nomenclatura conquisterà il Tavolo delle Opposizioni. Intanto il segretario provinciale dei 5 Stelle ha già pronunciato il primo chicchirichì, un bel passo avanti.  Ma bisogna lavorare ancora, sempre al buio, stando coperti, Alla fine dovrà apparire come la scelta più semplice, più naturale, più condivisa. Poi ci sarà solo da convincere gli elettori ferraresi. Roba da niente.

Ma alla fine, scenderà o no in campo il prode Anselmo?
La nomenclatura insiste (ne va della sua stessa sopravvivenza), ma per il poco che lo conosco, penso e spero che un uomo intelligente come Fabio Anselmo non si presterà a  un’operazione pilotata dall’alto. Anche se gli dessero un bel paracadute, affrontare una campagna elettorale come “falso civico”, con addosso il timbro dell’apparato e in tasca il programma scritto da altri è la premessa di una probabile sconfitta.

In copertina: immagine tratta dal sito della Fondazione Luigi Einaudi

Vite di carta /
Festivaletteratura 2023: dai nostri inviati a Mantova

Vite di carta. Festivaletteratura 2023. Dai nostri inviati a Mantova

Giovedì mattina per tempo Antonella, che come me da tanti anni viene a prestare servizio al Festivaletteratura, è andata a ricevere a Malpensa Miguel Bonnefoy. Nel viaggio in auto per Mantova ha parlato in francese con lui, lo ha aggiornato su come sta andando l’edizione n.27.

Antonella dice che nello spazio di un trasferimento come questo si può capire molto della sostanza umana di un autore, specie se, come è accaduto oggi, lo si trova in vena di conversare e non è troppo stanco. Da anni va ad accogliere quelli che vengono in aereo, anche da molto lontano.

Poche ore dopo sediamo a pranzo in tre: la mia amica Maria, compagna storica delle avventure mantovane, e io siamo arrivate da poco da Ferrara, pronte a mescolare nei nostri discorsi il piacere di ritrovare le conoscenze preziose che ci siamo fatte negli anni con i programmi ghiotti per le due giornate in cui saremo qui.

Ne parlo ora che sono già rientrata a casa, come ogni volta entusiasta, mentre scorro il programma dei due ultimi giorni, che una antonomasia inveterata chiama “il sabato” e “la domenica” del Festival, e assaporo gli incontri che mi sono persa ieri e che oggi, domenica, davanti al pubblico più numeroso, sono come il botto finale di questa edizione.

Alle 18.30 in Piazza Castello il giornalista Wlodek Goldkorn intervista, dopo dieci anni dalla sua partecipazione al Festival, la scrittrice polacca Olga Tokarczuk, insignita del Nobel per la letteratura nel 2018. Cosa è cambiato nella sua scrittura in questi dieci anni, e quale persistenza hanno mantenuto nei suoi libri le questioni sui confini nel mondo, sia fisici che ideologici, o ancora la questione ambientale e femminile: questo mi perdo.

La nostra inviata Roberta Barbieri con Sofia, Elia e Angela gli “Ariosti” volontari al Festivaletteratura 2023

Se oggi fossi lì potrei dare un altro saluto ai ragazzi “Ariosti” del gruppo Galeotto fu il libro, che prestano servizio in questa postazione e che già venerdì ho trovato provati ma felici della loro esperienza.

Solitamente i grandi nomi si alternano in Piazza Castello e a Palazzo San Sebastiano, in realtà si incontrano in ogni luogo della città reclutato per il Festival: è possibile selezionare eventi proprio sulla base degli autori che vi intervengono, oppure del tema, o della materia che più interessa.

Ovunque sono messe al centro le parole che definiscono il mondo, per “ricucirne il senso, misurarne la tenuta e farne dialogo”, come si legge nell’incipit del programma cartaceo che ormai ho segnato e riempito di chiose e segnalibri. Dalle parole del mutamento climatico a quelle della economia e dei diritti, in senso lato direi della cittadinanza dentro la conoscenza.

Se oggi fossi lì non rinuncerei a La letteratura come motore del mondo, l’evento n.146 all’Aula Magna dell’Università. Oppure andrei a sentire uno dei contributi dedicati a Michela Murgia, che nel programma si trovano distribuiti in più giornate col suo nome tra gli autori come se fosse (ed è) presente. Talvolta conta restare nella stessa zona della città per riuscire a incastrare un evento in più nel proprio programma della giornata.

 

Lavagne. Lezioni di musica e molto altro. Festivaletteratura 2023 Piazza Mantegna – Mantova

Ho usato tutte queste bussole soggettive, nel tempo. Tanto da Mantova è garantito che si torna con idee nuove e nuovi volti incontrati, si torna con idee rafforzate e meglio declinate dentro la mappa del sapere personale. Si portano a casa anche dissonanze, che però si tramutano in libri da leggere per capire meglio, in supplementi di informazioni a cui accedere per riposizionare idee nuove e vecchie.

Stavolta ho battuto la pista della narrativa della migrazione, ma con connotazioni narrative nuove. Ho conosciuto l’autore statunitense Ken Kalfus e gli ho potuto domandare da quale dei suoi sette romanzi cominciare a leggerlo; è stato durante l’intervista riservata alla stampa, c’era il tempo per porgli una domanda un po’ inusuale, che lui ha definito interessante.

E si è messo a parlare distesamente degli suoi libri più recenti, finendo per segnalarmi Uno stato particolare di disordine, “il più americano” dei romanzi che ha scritto, in cui ha raccontato come sono gli USA oggi attraverso la vicenda personale di una coppia nel giorno dell’attentato alle Torri Gemelle dell’11 settembre 2001.

Di Kalfus mi è piaciuta la prospettiva originale da cui afferma di guardare il proprio paese: e se il mondo facesse a meno degli USA? E se raccontare la migrazione che interessa il paese partisse da coloro che se ne vanno verso le altre parti del mondo? Che lasciano un’America piena di contraddizioni e, come sostiene nel suo ultimo Le due del mattino a Little America, si trova esposta ai pericoli di una nuova guerra civile.

Non mi sono sfuggite le parole “parodia” e “leggerezza” con cui Kalfus ha espresso la sua ammirazione per Calvino; il Calvino a cui presso il Liceo Virgilio è dedicata un’attività di lettura giocosa, Ludmilla, dal nome della inafferrabile protagonista di Se una notte d’inverno un viaggiatore.

 

Ritorni. l’evento dedicato a due scrittori di area balcanica Kapplan e Mujčić

Che intensità nell’incontro di giovedì sera (evento n.64) di Simonetta Bitasi con la scrittrice italo-bosniaca Elvira Mujčić e lo scrittore albanese Gazmend Kapllani: dai loro romanzi esce lo spaesamento di chi è tornato nel proprio paese dopo essere stato fuori a vivere l‘altrove.  Dai Balcani si fugge, come insegna tanta letteratura sulla migrazione e sulla nostalgia, tuttavia chi come Kapllani è tornato ci avverte che “non ritrova mai quello che ricordava”.

Maria ha acquistato entrambi i libri, La terra sbagliata di Kapllani e La buona condotta di Mujčić, come me colpita dalla lucidità dello sguardo e dalla forza che deve avere la loro narrazione, alla ricerca della convivenza possibile tra albanesi e serbi su cui si interroga quest’ultimo romanzo, in un paese come il Kosovo.

Ho conosciuto una scrittrice del nostro Novecento, Dolores Prato, che l’evento n. 79  ha fatto uscire dall’ombra per restituirle il plauso che le spetta grazie soprattutto alla scrittura straordinaria di Giù la piazza non c’è nessuno, il romanzo autobiografico sulla sua solitaria e aspra infanzia vissuta nell’entroterra marchigiano, che è stato pubblicato nel 1980 quando lei aveva quasi novant’anni e dopo una lunga vicenda editoriale, in cui ha avuto parte anche Natalia Ginzburg.

 

Luigi Manconi dialoga con Zerocalcare sulle carceri italiane

Sono andata a sentir parlare del mondo del lavoro soprattutto giovanile, del mare di Lecce nella valorizzazione programmata dalla amministrazione comunale, delle carceri in Italia. Mi preme dire quanto mi ha colpito la lingua pregnante e scabra di Luigi Manconi nella interlocuzione verace con Zerocalcare, le sue parole di una nettezza feroce sulla infantilizzazione a cui sono sottoposti i detenuti, sulla distanza siderale delle nostre carceri  da parole quali dignità, rieducazione, umanità.

Molto mi è successo nel “giovedì” e nel “venerdì” di immersione mantovana. Molto sta succedendo oggi. Mi sembra già di sentire i rumori della festa dei volontari, quella della domenica sera che si tiene alla mensa del Festival e che si conclude anche ballando sui tavoli, mentre dagli altoparlanti esce un rassicurante “Arrivederci alla edizione del prossimo anno!”

Nota bibliografica:

  • Gazmend Kapllani, La terra sbagliata, Del Vecchio Editore, 2022 (traduzione di Ermal Reena e Rossella Monaco)
  • Elvira Mujcic, La buona condotta, Crocetti Editore, 2023
  • Ken Kalfus, Uno stato particolare di disordine, Fandango, 2006 (traduzione di Monica Capuani)
  • Ken Kalfus, Le due del mattino a Little America, Fandango, 2022 (traduzione di Monica Capuani)
  • Dolores Prato, Giù la piazza non c’è nessuno, Quodlibet, 1980 (a cura di Giorgio Zampa)

 

In copertina: la Libreria del Festivaletteratura 2023. Tutti gli scatti sono state dell’autrice.

Per leggere gli altri articoli di Vite di carta la rubrica quindicinale di Roberta Barbieri clicca sul nome della rubrica o il nome dell’autrice

Per certi versi /
Piccola utopia

Piccola utopia

E poi
mi basta
Quella luce verde
Analcolica
Di ferie
In agosto
Le migliaia
Di farfalle bianche
Sull’erba gatta
Il cane che ride
Tra i campi
Illuminati
Per sperare
Di vivere
E lasciare
Un mondo
Per i bambini
Gli anziani
Gli affamati
Le donne libere
Di lasciare
Un mondo
Un mondo
Dove non si uccida
Per un Dio
Un mondo
Ogni domenica Periscopio ospita Per certi versi, angolo di poesia che presenta le liriche di Roberto Dall’Olio.
Per leggere tutte le altre poesie dell’autore, clicca [Qui]

La differenza tra disagio e degrado:
quando una città diventa comunità

Proviamo a iniziare da qui: fare attenzione a come vengono spesi i soldi pubblici, rivedere la distribuzione delle risorse e chiedersi se davvero chi ci amministra sta facendo tutto quello che può per evitare che ci siano persone che dormono per terra.

Una città è solo uno spazio fisico con strade e parcheggi e supermercati. Una città diventa comunità quando le persone che la abitano sentono di appartenere a quel luogo e vivono la responsabilità gli uni verso gli altri di tenerla insieme e farla funzionare.
Bisogna che recuperiamo la capacità di distinguere tra disagio e degrado.
Tra ciò che va rimosso, evitato, pulito, e ciò che va compreso, affrontato e ricomposto.
Bisogna che torniamo a distinguere tra chi commette atti illeciti e chi è sfortunato e ha bisogno di aiuto, non di punizione.
Una persona che dorme per terra avvolta in una coperta ha bisogno di essere vista e supportata, non di essere scavalcata o rimossa come fosse un sacco del pattume.
Rappresenta una questione sociale, non di sicurezza.
Quella persona dorme per terra e non dovrebbe, non perché offenda i nostri occhi ma perché offende il senso di civiltà che ci unisce nel patto di comunità.
Per quanto “fastidio” possa destare la vista di una persona che dorme per terra non sarà mai paragonabile alla disperazione che ha indotto quella persona a scegliere la strada come casa.
La presenza di una persona che dorme all’addiaccio rappresenta una responsabilità per tuttə noi, se questa è una comunità e se noi siamo cittadinə ed è dovere di chi amministra occuparsene, non per spostare altrove il problema, non per approfittare del malcontento dei residenti ma facendosene carico per prendersi cura di chi è in difficoltà, temporanea o permanente.
Il problema non è chi dorme a terra. Il problema è non avere soluzioni per evitare che questo accada.
Non succede solo a Ferrara e non succede solo dove governa la Lega, che ci siano persone senza fissa dimora.
Quello che cambia è la sensibilità con la quale si affronta la questione e quali soluzioni vengono adottate.
Coi “calci in culo”, i daspo urbani e la rimozione delle panchine non si risolve nulla. Servono investimenti nei servizi sociali proporzionati alla crisi che stiamo vivendo.
Qualche decina di migliaia di euro li si potrebbe risparmiare dalla comunicazione pubblica, o dai costi dei cartelloni per i concerti, qualche sponsorizzazione potrebbe essere investita in progetti sociali anziché solo in eventi ludici.
Proviamo a iniziare da qui: fare attenzione a come vengono spesi i soldi pubblici, rivedere la distribuzione delle risorse e chiedersi se davvero chi ci amministra sta facendo tutto quello che può per evitare che ci siano persone che dormono per terra.

Lo straordinario concerto di Fatoumata Diawara

La fantastica Fatoumata Diawara

Fatou è magica.

Fatou è eclettica.

Fatou è magnetica.

Fatou è carismatica.

Fatou è Fatoumata Diawarala cantautrice del Mali, che giovedì 7 settembre ha aperto la seconda parte di “Ferrara sotto le stelle”, una rassegna musicale fra le più longeve in Italia dove, negli anni, si sono esibiti fior fiore di artisti.

Fatoumata ha incantato da subito il pubblico presente con la sua presenza scenica, il suo stile, la sua bellezza, il suo canto e la sua musica che mescola sapientemente i suoni delle radici africane con quelli del mondo, soprattutto blues, jazz, reggae, funky, rock, beat.

Insieme al gruppo che l’ha accompagnata ha creato un’atmosfera allo stesso tempo gioiosa ed intima, energetica e spirituale

Durante la serata ha presentato quasi tutti i brani dal suo ultimo bellissimo album “London Ko”: Tolon, Somaw, Mogokan, Sètè, Dambe, Yada, Netara, Nsera, Massa Den e la strepitosa Blues.

Oltre a questi ha eseguito Mousso Seguen, dall’album Fatou, una originalissima versione di Feeling Good di Nina Simone e Anisou.

Nel titolo del suo ultimo disco, oltre al nome della città inglese c’è un richiamo al nome della capitale del Mali: Bamako, quasi a voler sottolineare la sua scelta di creare una sorta di ponte che parte dalla musica tradizionale e arriva ad incontrare le sonorità delle avanguardie europee.

I brani di Fatoumata Diawara sono cantati soprattutto nella lingua “bambara” parlata dall’80% della popolazione del Mali e parlano di temi universali come il rispetto, l’emancipazione, la pace ma anche di problemi riguardanti l’Africa, come ad esempio: l’infibulazione, i bambini soldato, la schiavitù, i matrimoni combinati che costringono le bambine a sposare maschi adulti contro la propria volontà, i bambini dati in affidamento ad altre famiglie.

Spesso ha introdotto le sue canzoni parlando al pubblico ed insistendo sull’impegno per cambiare il presente in modo che il futuro sia migliore.

Ha sottolineato la sua fiducia nelle nuove generazioni perché le considera pronte per il cambiamento.

Diverse volte ha gridato che l’Africa è la culla del mondo quindi tutti noi siamo figli di quel continente perché è lì che si è sviluppata la civiltà umana.

Il pubblico ha ascoltato, ha ballato, ha cantato, ha applaudito; è come se avesse partecipato ad una specie di rito collettivo in cui Fatoumata, come una sciamana, ha trasportato magicamente ciascuno di noi in un’atmosfera immateriale che è stata davvero bellissima, corroborante e potente.

Un concerto che definirei addirittura terapeutico.

L’esibizione di Fatoumara Diawara è stata preceduta da un set della cantante Emma Nolde che, accompagnandosi con la chitarra elettrica, ha stupito i presenti con una voce davvero unica ed interpretazioni molto intense dal punto di vista espressivo che hanno dato uno spessore particolare ai suoi testi originali.

Emma Nolde

Cover e foto nel testo di Mauro Presini

Presto di mattina /
Sul mondo, pane spezzato e vino versato

Presto di mattina. Sul mondo, pane spezzato e vino versato

Mongolia

In questi giorni, pensando al viaggio di papa Francesco in Mongolia, mi veniva spesso in mente il deserto dei Gobi e l’altopiano degli Ordos nella Mongoglia occidentale. Luoghi che ho conosciuto per il tramite delle lettere di viaggio di padre Pierre Teilhard de Chardin, esploratore, paleontologo e geologo in Cina dal 1923 al 1946, dove le sue ricerche contribuirono alla scoperta, nel sito di Chou Kou Tien, del sinantropo, l’uomo di Pechino della specie Homo erectus vissuto circa 400.000 anni fa.

Una lunga frequentazione dei suoi testi, continuamente intrecciati da visioni ardenti e da un sentire mistico e poetico, ha accompagnato e arricchito il mio itinerario umano, spirituale e pastorale, portandomi a comprendere e a vivere sempre più la liturgia cristiana come una liturgia cosmica, tanto da celebrare l’eucaristia, la messa come la celebrava lui “sul mondo”, in quelle sterminate e solitarie steppe dell’Asia: senza pane e senza vino.

Ma non mi sarei mai aspettato che domenica scorsa, terminata la messa a Santa Francesca, mi arrivasse un messaggio di WhatsApp che diceva brevemente: “Sarai contento per la messa sul mondo di padre Teilhard ricordata dal papa in Mongolia! Un abbraccio L.”. Come caduto dalle nuvole ho risposto senza sapere e senza pensarci, improvvisando la prima parola che mi venne: “Contentissimo”.

Non ho né pane, né vino, né altare

Poi con calma nel sito www.vatican.va ho cercato il ringraziamento di papa Francesco fatto dopo l’omelia alle “Steppe Arena” (Ulaanbaatar), domenica 3 settembre 2023:

«La Messa è azione di grazie, “Eucaristia”. Celebrarla in questa terra mi ha fatto ricordare la preghiera del padre gesuita Pierre Teilhard de Chardin, elevata a Dio esattamente 100 anni fa, nel deserto di Ordos, non molto lontano da qui. Dice così: “Mi prostro, o Signore, dinanzi alla tua Presenza nell’Universo diventato ardente e, sotto le sembianze di tutto ciò che incontrerò, e di tutto ciò che mi accadrà, e di tutto ciò che realizzerò in questo giorno, io Ti desidero, io Ti attendo”.

Padre Teilhard era impegnato in ricerche geologiche. Desiderava ardentemente celebrare la Santa Messa, ma non aveva con sé né pane né vino. Ecco, allora, che compose la sua “Messa sul mondo”, esprimendo così la sua offerta: “Ricevi, o Signore, questa Ostia totale che la Creazione, mossa dalla tua attrazione, presenta a Te nell’alba nuova”. E una preghiera simile era già nata in lui mentre si trovava al fronte durante la Prima guerra mondiale, dove operava come barelliere.

Questo sacerdote, spesso incompreso, aveva intuito che “l’Eucaristia è sempre celebrata, in un certo senso – in un certo senso –, sull’altare del mondo “ed è “il centro vitale dell’universo, il centro traboccante di amore e di vita inesauribile” (Enc. Laudato si’, 236), anche in un tempo come il nostro di tensioni e di guerre.

Preghiamo, dunque, oggi con le parole di padre Teilhard: “Verbo sfavillante, Potenza ardente, o Tu che plasmi il molteplice per infondergli la tua Vita, abbassa su di noi, Te ne supplico, le tue Mani potenti, le tue Mani premurose, le tue Mani onnipresenti”. Fratelli e sorelle della Mongolia, grazie per la vostra testimonianza, bayarlalaa! [grazie!]. Dio vi benedica. Siete nel mio cuore e nel mio cuore rimarrete. Ricordatemi, per favore, nelle vostre preghiere e nei vostri pensieri. Grazie».

Sono testi quelli di Teilhard sempre presenti in me, parole dormienti che tuttavia si risvegliano, fioriscono di tanto in tanto soprattutto nei momenti faticosi come i fiori di un Calicantus profumato nel cuore dell’inverno − piccoli soli, profeti di luce futura − oppure quando silenziosamente mi sorprende il chiarore dell’alba o sopravviene vestito del suo splendore infuocato il tramonto al declinare del giorno.

La messa sul mondo

Poiché ancora una volta, o Signore,
sono senza pane, senza vino, senza altare,
mi eleverò al di sopra dei simboli sino alla pura maestà del Reale;
e Ti offrirò, io, Tuo sacerdote, sull’altare della Terra totale,
il lavoro e la pena del Mondo.
Lì in fondo, il sole appena incomincia ad illuminare l’estremo lembo
del primo Oriente.
Ancora una volta, sotto l’onda delle sue fiamme,
la superficie vivente della Terra si desta, vibra e riprende il suo formidabile travaglio.
Sulla mia patena, porrò, o Signore, la messe attesa da questa nuova fatica
e, nel mio calice, verserò il succo di tutti i frutti che oggi saranno spremuti.
Il mio calice e la mia patena sono le profondità di un’anima ampiamente aperta
alle forze che, tra un istante, da tutte le parti della Terra,
si eleveranno e convergeranno nello Spirito.
Vengano pertanto a me
il ricordo e la mistica presenza di coloro che la luce ridesta per una nuova giornata.
(Inno dell’universo, Queriniana, Brescia 1992, 9).

Con questa preghiera Teilhard ha fatto rivivere il mistero della sua fede dentro il cuore impazzito, lacerato del mondo in guerra fin dentro le trincee, nella carneficina della battaglia di Verdun durata dieci mesi, dal 21 febbraio 1916 al 19 dicembre 1916.

Così egli celebrava la messa sul mondo anche senza il pane e il vino, ma mai senza tutto lo sforzo e il patire della creazione, nel confliggere dei popoli, delle genti. E soprattutto mai senza il sacrificio e la pienezza del Cristo, quello della sua umanità trafitta, offertasi nell’umanità di ogni uomo e ogni donna, in ogni vagito e in ogni grido, o rantolo di morente; in ogni fibra dell’universo, in ogni vivente che nasca o che gioisca, che soffra o che muoia.

La messa sulle cose

Giunto nel deserto degli Ordos nel 1923 egli scrive: «Un po’ troppo assorto nella scienza per dedicare molto tempo alla filosofia, ma quando discendo in me stesso, sono sempre più intimamente persuaso che in ogni cosa ha valore solo la scienza del Cristo, ossia la vera scienza mistica.

Una volta tornato alla geologia, mi lascio riprendere dal gioco. Ma ogni minima riflessione mi mostra limpidamente che questa attività (vitale per me quanto più fa corpo col “gesto intero” della mia vita) non ha in sé nessun interesse definitivo.

Continuo ad elaborare a poco a poco, e un po’ meglio, la mia “messa sulle cose” nella preghiera. In un certo senso mi pare che la vera sostanza da consacrare ogni giorno è l’accrescimento del mondo per quel giorno, – essendo il pane buon simbolo di ciò che la Creazione riesce a produrre, e il vino (sangue) di ciò ch’essa fa perdere in fatica e in sofferenza nel proprio sforzo» (Lettere di viaggio, [LV] Saokiaopan [Ordos sud-est], 26 agosto 1923, 26-27).

La sua “Messa sulle Cose” è allora da considerarsi come un nucleo testuale multiforme, in divenire e sempre in trasformazione, perché in permanente relazione temporale all’evento dell’altare, alimentato a quel focolaio ardente che per lui fu la celebrazione eucaristica quotidiana.

La sua messa, che egli “approfondisce e rielabora senza sosta”, è pure testo dai “molti nomi” conosciuti – Il Sacerdote (1918), La Messa sul Mondo (1923), Il Sacramento del Mondo (1934) – o anonimi, perché rifusi, amalgamati nell’intreccio con gli altri testi, come filo rosso ad essi trasversale e loro segreto ordito: «Se avrò il tempo, – scrive nel 1929 – ne scriverò, il prossimo autunno, l’ennesima stesura. Penso che adesso essa si avvicini alla perfezione massima che sono in grado di darle» (Lettere a Léontine Zanta, 23 agosto 1929, 135).

Teilhard ha aperto una nuova prospettiva per declinare il mistero eucaristico. Mediante la riscoperta delle estensioni fisiche e reali della presenza eucaristica, nello spazio e nel tempo della esperienza credente, ritrova “il posto fondamentale dell’Eucaristia nell’economia del mondo” (cfr.: Il mio Universo (1924), in Scienza e Cristo, 92-93).

Questa “messa” sentita come irradiazione della presenza eucaristica nel cosmo, attivatrice della sua cosmogenesi, è pure generativa nella storia di una itineranza per le vie del mondo: una cristogenesi. Non si sta chiusi in chiesa, ma si si esce come lui all’incontro con le genti. Una messa che continua così ad essere celebrata nella vita, intrecciando le storie delle persone, strada facendo con loro, spezzando il pane e offrendo il calice della benedizione, il gioire e il patire della propria vita.

Il deserto sorride, fiorisce, profuma

Suggestive sono pure le descrizioni dell’ambiente circostante:

«Attraverso interminabili alture rivestite di odorose artemisie, di liquirizie a foglie di acacia, di esedre che hanno steli di equiseti e frutti a forma di lampone, abbiamo raggiunto l’angolo sud–est dell’Ordos, mèta definitiva del viaggio. Ancora una volta la nostra tenda è piantata in mezzo al deserto in una cerchia di dirupi terrosi. Ma qui il deserto sorride, e i dirupi sono grigi, gialli e verdi anziché bianchi e rossi.

Siamo accampati in fondo al cañon tortuoso, ritagliato a 80 metri di profondità, in piena steppa, dallo Chara-usso-gol, le cui acque di limpido fango rumoreggiano accanto a noi sopra una barriera di pietre… Per tutto un mese prolungheremo il nostro soggiorno sulle rive dello Chara-usso-gol fiorite di ginestre color lilla e di una specie di lavanda a spighe di un azzurro profondo che i mongoli chiamano con termine scorretto ma grazioso l’artemisia degli “argali”.

Fra le dune, le fitte piantine di un piccolo aglio a fiori rosa stendono un tappeto marezzato simile a quello che, in questa stagione, rallegra, a quanto dicono, la tristezza del Gobi. Tutto ciò manda un buon profumo e splende gioiosamente nella calda luce. La steppa è una vera bellezza sotto il suo fugace travestimento negli ultimi giorni d’estate» (LV, Agosto 1923, 36-38).

La terra, carne ferita, umanità in cammino

Ed anche: «Noi altri geologi, venuti qui come nell’Ordos in cerca delle “Cattive Terre,” (detto di vastissime zone di terreni argilloso-sabbiosi che, in seguito alla forte erosione delle acque, prendono forme tormentate e instabili) non ci lasciamo sedurre dalla comoda pace dei campi mollemente ondulati. Ci immergiamo, invece, nelle crepe più profonde della montagna, quelle dove la terra rossa appare, come una carne ferita, sotto gli spessi strati grigi.

Là biancheggiano le ossa dei rinoceronti, delle giraffe, delle antilopi, che durante il Miocene (da 23 a 5 milioni di anni fa) erravano qui come oggi galoppano nelle praterie tropicali dell’Africa. Anche là, sotto le alte muraglie di loess, sono disseminate le vestigia dell’uomo i cui occhi han guardato la Cina prima che essa indossasse la sua veste di terra gialla.

Ma già nei campi anneriscono la spiga dolcemente curva del miglio e la pesante e rigida granata delle saggine. L’autunno e il freddo stanno per scendere sugli altipiani dell’Asia. Per i viandanti è il momento di tornare nelle più miti pianure della Cina orientale…

Pellegrino dell’avvenire, torno da un viaggio compiuto interamente nel passato. Ma, visto in un certo modo, può il passato trasformarsi in avvenire? Una coscienza più estesa di ciò che è e di ciò che fu, non è la base essenziale per ogni progresso spirituale? L’intera mia vita di paleontologo non è forse confortata dall’unica speranza di contribuire ad un cammino in avanti? …

Convinto che l’unica scienza consista nello scoprire, la crescita dell’universo, io mi inquietavo per aver visto soltanto, durante questo viaggio, le tracce di un mondo dissolto. Ma perché questa inquietudine? Il solco lasciato alle spalle dall’umanità in cammino non ci rivela forse il suo movimento allo stesso modo della schiuma che si solleva sul filo della prua dei popoli?» (LV, settembre, ottobre 1923, 39; 42-43).

In quel vuoto e in quel silenzio, in quelle terre rovistate, erose dal vento e scavate dall’acqua, terre ferite riempite di polvere e detriti, il “Dio ignoto” annunciato da Paolo all’Areopago di Atene dimora anche lì sotto le tende, le yurte dei nomadi della Mongolia.

Gli “obo muti” testimoni della sacralità in ogni cosa

Ma non è sempre stato così fin dai tempi di Abramo? Anche qui in laboriosa attesa, in questo deserto ancor prima, fin dall’inizio dei tempi. A questo fanno pensare pure le descrizioni di quei manufatti di culto, “obo muti” (ovoo/oboo in mongolo) li chiama Teilhard, mucchi di pietre sormontati da fascine e pertiche, «altari sempre deserti disseminati nella solitudine […] misteriosi, selvaggi, impressionanti», simboli che testimoniano della sacralità del luogo, accumulati dai viandanti come segno di devozione e preghiera, ma anche come punto di riferimento per orientarsi durante il viaggio.

«A intervalli qualche convento di lama e su ogni punta rocciosa notevoli mucchi di pietre chiamati obo (al tempo stesso altare e punto di riferimento stradale), dove, passando, il fedele mongolo aggiunge una pietra. A un chilometro dal campo uno di questi obo, completo e complicato, conta una decina di mucchi di pietre sormontati ciascuno da una fascina che il vento dell’ovest ha piegato, come la fiamma di una torcia.

Questi simboli muti, questi altari sempre deserti disseminati nella solitudine, son davvero misteriosi, selvaggi, impressionanti. […] È la settimana di Pentecoste, mi piace pensare che lo “Spirito di Cristo” ha riempito la terra … come la Chiesa ripete in questi giorni» (LV, 10.6.1924, 57; 30.6.1924, 59).

La messa sul mondo continua ad essere celebrata anche oggi, concretamente o anche solo mentalmente, nei luoghi più disparati: persino in quelle situazioni umanamente ai margini, o umilianti e disfacenti come gli abbandoni e le guerre.

Così anch’io continuo a celebrare la messa sul mondo anche fuori delle mura di una chiesa come padre Teilhard. Una Messa celebrata segretamente nei luoghi più dimenticati e desolati, andando per strada, per le piazze, negli ospedali, ma pure sempre segnati dall’umano passaggio e dalla religiosa ricerca di un Dio ignoto, che abita il cuore di ogni uomo e che si accompagna straniero a ogni viandante pellegrino dell’assoluto.

Il Cristo sempre più grande

Invocato «tra eterni venti polverosi, sui fiori bianchi, sotto un Cielo blu» (LV 15 aprile 1929, fonte Claude Cuenot, L’evoluzione di Teilhard de Chardin, Milano 1962), il Cristo con la sua incarnazione è così associato a tutte le potenze ed alle forze che fanno crescere o diminuire la terra, nascosto tra le pieghe dei suoi sviluppi e delle sue diminuzioni. È misteriosamente presente, “latens Deitas”, in ogni passività e attività che intreccia la vita.

«A destra, press’a poco alla stessa distanza, un rosario di cinque o sei nor anche più grandi. Alle mie spalle la linea di montagne verdi che attraverseremo domani. E, finalmente, tutt’intorno, una collina erbosa, coperta di vecchi olmi contorti disseminati come i meli di un prato per una decina di chilometri quadrati. E poi, neppure un’anima viva, niente rumori.

Tre grandi obo muti col loro cumulo di fascine e di pertiche, erano testimoni del carattere sacro del luogo. Qui io ho offerto al Cristo il mondo della Mongolia: nessuno, senza dubbio, l’aveva mai invocato in questa regione interamente estranea all’influenza dei missionari.

Meno maestosi, ma di una più penetrante poesia, sono i laghetti o nor, addormentati in una cerchia di colline, dove gru, cigni, oche, trampolieri e belle anitre con splendidi colori nidificano e nuotano con quasi la stessa disinvoltura degli uccelli dei giardini pubblici. Ancora ieri la nostra tenda era piantata sulle rive di uno di questi nor.

La sera è stata deliziosa (evento piuttosto raro in questo paese dal clima tempestoso, dove 48 ore non passano senza burrasche o senza temporali). Io guardavo tramontare il sole su immense groppe basse e lisce che chiudevano l’orizzonte. Nel cielo dorato, una grossa nuvola nera, isolata, lasciava bizzarramente cadere una pioggia violetta» (LV, 59-60).

Al cuore della Materia una preghiera

Signore della mia infanzia e Signore della mia fine,
– Dio compiuto in Sé, eppure, per noi, mai finito di nascere,
– Dio che presentandoTi alla nostra adorazione quale ‘evolutore ed evolutivo’,
sei ormai l’unico che possa soddisfarci,
– disperdi finalmente tutte le nuvole che Ti nascondono ancora,
– sia quelle dei pregiudizi ostili che quelle delle false credenze.
E, per Diafania ed Incendio ad un tempo, erompa la tua universale Presenza.
O Cristo sempre più grande!»
(Il Cuore della Materia [1950], 47).

Per leggere gli altri articoli di Presto di mattina, la rubrica quindicinale di Andrea Zerbini, clicca sul nome della rubrica o il nome dell’autore.

Chi sono le Sentinelle Ambientali?

Mugello: chi sono le Sentinelle Ambientali?

Essere cittadini consapevoli e responsabili non è cosa facile nel nostro Belpaese! E’ risaputo che quand’anche le leggi ambientali e la legge fondamentale dello Stato Italiano, la Costituzione della Repubblica, sono dalla  parte dell’ambiente e del cittadino, esercitare il proprio diritto/dovere non è così scontato; le Sentinelle Ambientali dell’Appennino mugellano ne sono testimoni.

Non tutti sanno che il decreto legislativo 152/2006, testo unico ambientale, ha come obiettivo primario la promozione dei livelli di qualità (Vedi qui)

La qualità della vita non è legata principalmente all’avere a disposizione grandi quantità di beni da consumare e forme di divertimento e intrattenimento sempre diversi e molto dispendiosi in tutti i sensi, anche dal punto di vista ambientale. A questo sistema di cose ci ha condotto e abituato l’interesse di pochi capitalisti (profitto), detta semplicemente, promuovendo forme di consumismo sfrenato. Per motivi d’interesse privato e finanziario e diversamente da qualsiasi interesse pubblico, la gran parte dei politici italiani da tempo è impegnata in un sempre più intenso “uso consumistico” del suolo e del territorio, non solo riempiendo le città e le periferie di cemento superfluo con supermercati, ipermercati, outlet  ecc.  del tutto inutili,  ma anche promuovendo e, purtroppo, spesso anche  realizzando opere imponenti, inutili e dannose per i cittadini come  inceneritori (termovalorizzatori), impianti termici alimentati a biomasse, impianti industriali eolici e impianti fotovoltaici a terra ecc.. con la scusa di produrre “energia pulita”, impegnando grandi quantità di denaro e di risorse che, di conseguenza,  smuovono interessi molto molto forti.

Ciò accade perché si pensa all’energia con lo stesso criterio con cui si pensa a un bene di consumo, senza alcuna programmazione intelligente che guardi al futuro: si prevede di consumarne sempre di più, senza un limite ragionevole, pertanto se ne vuole produrre sempre di più, senza minimamente andare a diminuire le forme di produzione più inquinanti, cioè quelle da fonti fossili, così nell’Unione Europea, così in Italia (qui)  Nonostante la propaganda dei vari governi succedutisi negli ultimi anni abbia sempre sostenuto il contrario.

Questa pseudo-transizione energetica va avanti anche a costo di sacrificare i paesaggi più belli, i fiumi e torrenti più ricchi di acqua e di vita, gli ecosistemi naturali  la cui  biodiversità rappresenta, quella sì, un bene comune di cui tutti devono poter  godere e beneficiare, in particolare le comunità locali cresciute accanto, ora e nel futuro.

Proprio di recente la tutela di questi ambienti e della biodiversità è diventata principio fondamentale della Costituzione italiana con la modifica dell’art. 9 a cura del Parlamento (qui). Ancora, il comma 3 di questo  articolo prevede che tutti gli enti  (della Repubblica) abbiano a cuore “la tutela dell’ambiente, della biodiversità e degli ecosistemi, anche nell’interesse delle future generazioni”: cioè  per la prima volta detta un criterio generale di azione dei pubblici poteri improntato alla protezione dell’ambiente anche nell’interesse dei pronipoti. L’art. 41 al secondo comma  definisce inoltre un limite al ruolo dei privati e in particolare all’iniziativa economica privata (leggi: produttiva industriale, agricola, commerciale, ecc.): “l’iniziativa economica privata non può svolgersi in contrasto con l’utilità sociale o in modo da recare danno, oltre che alla sicurezza, alla libertà e alla dignità umana, altresì alla salute  e all’ambiente”. (qui)

Ecco il perché delle Sentinelle Ambientali. C’è bisogno che i cittadini prendano in mano il loro destino e quello del territorio in cui vivono vigilando a loro volta che il paesaggio, il suolo, la biodiversità, insomma l’ambiente in cui vivono sia difeso e tutelato come la legge ambientale e la Costituzione prevedono.

E di questo diritto/dovere tutti i cittadini sono investiti secondo l’art. 3-ter del D. Lgs.152/2006 “principio dell’azione ambientale”  che recita:

La tutela dell’ambiente e degli ecosistemi naturali e del patrimonio culturale deve essere garantita da tutti gli enti pubblici e privati e dalle persone fisiche e giuridiche pubbliche o private, mediante una adeguata azione che sia informata ai principi della precauzione, dell’azione preventiva, della correzione, in via prioritaria alla fonte, dei danni causati all’ambiente, non che’ al principio “chi inquina paga” che, ai sensi dell’articolo 174, comma 2, del Trattato delle unioni europee, regolano la politica della comunità in materia ambientale.”

Mugello, il cantiere dei saggi geologici da cui hanno preso origine i rifiuti abbandonati dalla ditta Albanese Perforazioni che ha svolto le indagini geologiche sul crinale del Monte Giogo di Villore per conto di AGSM-AIM, proponente e realizzatrice responsabile dell’impianto Eolico Industriale. (Foto delle Sentinelle Ambientali)

Oltre a prevedere l’applicazione di due principi importantissimi e spesso negletti dalle imprese: il principio di precauzione e quello della prevenzione dei danni causati all’ambiente, questo articolo prevede che la garanzia della tutela dell’ambiente e degli ecosistemi naturali si attui anche da parte di singoli cittadini (persone fisiche private).
Da qui  discende il diritto/dovere delle cittadine e dei cittadini a farsi “sentinelle ambientali” preposte all’azione di segnalazione di abusi e/o inquinamenti presso le pubbliche autorità competenti che provvederanno eventualmente all’accertamento effettivo delle violazioni, ma che non possono essere sempre ed ovunque a vigilare su tutto il territorio di competenza, in tutti i cantieri aperti, in particolar modo in quelli situati in zone di montagna, più difficilmente accessibili, anche perché sono state ridotte in numero e in mezzi necessari e indispensabili all’espletamento delle loro attività. Per maggiore chiarezza ricordiamo che le eventuali segnalazioni fatte dalle cosiddette “Sentinelle Ambientali” non sono altro che un diritto/dovere che viene esercitato da cittadini informati che vogliono proteggere il loro territorio da abusi  e inquinamenti come la legge ambientale prevede, cioè con una finalità di pubblica utilità.

Chiarito questo ci chiediamo: perché in Mugello ci sono imprese che si ostinano a voler sapere i nomi delle persone fisiche che fanno tali segnalazioni? Quale sarebbe la loro finalità? Certamente non è una finalità di pubblica utilità! E allora quale sarà la loro finalità?

Lasciamo aperta la risposta alla fervida inventiva e immaginazione dei lettori!

Con rispetto per l’ambiente e con tanto affetto per il territorio

Crinali Liberi

In copertina: Mugello, Cantiere per impianto Eolico Industriale, il macchinario per i carotaggi con residui di argilla bentonite e olio minerali inquinanti sparsi tutto intorno. (Foto delle Sentinelle Ambientali)

Storie in pellicola /
“Il bambino, la talpa, la volpe e il cavallo”, omaggio all’amicizia

Un cortometraggio animato che è un tenero racconto di un’amicizia tra un bambino e i suoi compagni di viaggio animali

“Cosa vuoi fare da grande? Essere gentile”.

Ispirato al celebre libro dell’illustratore britannico Charlie Mackesy, “Il bambino, la talpa, la volpe e il cavallo”, in Italia edito da Salani, l’omonimo pluripremiato cortometraggio, vincitore del Premio Oscar 2023 nella sua categoria, è da qualche mese visibile sul piccolo schermo. Per la precisione dallo scorso giorno di Natale e su Apple TV+. Una favola senza tempo.

Coprodotto dalla BBC e diretto da Peter Baynton e lo stesso Charlie Mackesy, il corto (un comfort movie che, in realtà, dura 35 minuti) vede come suoi protagonisti gli stessi delle bellissime tavole originali: un bambino curioso, una vitale talpa golosa di torte (la sua ossessione), una volpe guardinga e un cavallo saggio e gentile.

Il bimbo smarrito cerca una casa, non ricorda come era fatta.

 

 

Ecco che allora, insieme, i quattro esplorano il mondo nel corso di un viaggio che li porterà ad attraversare luoghi impervi, tempeste e ostacoli che ne rafforzeranno l’amicizia.

Con, sullo sfondo, paesaggi degni di una fiaba incantata, disegni fatti a mano, dove il bianco candido della neve si colora a seconda del momento della giornata: si accende di rosa e di arancio all’alba e al tramonto e diventa blu scuro quando cala la notte.

Coraggio, amore, empatia, gentilezza, generosità compassione e coraggio che tutti avvolgono sono accompagnati dalla colonna sonora firmata dalla compositrice Isobel Waller-Bridge, eseguita dalla BBC Concert Orchestra e diretta da Geoff Alexander.

I doppiatori hanno voci profonde che sussurrano verità: Idris Elba/Alberto Angrisano (la Volpe), Gabriel Byrne/Luca Biagini (il Cavallo), Tom Hollander/Francesco Bulckaen (la Talpa) e Jude Coward Nicol/ Davide Tatoli (il bambino).

Pura poesia per immagini. Perché, anche se piccoli, possiamo fare la differenza.

Una profonda, commovente e potente riflessione su ciò che conta, realmente, nella vita, imparando, nel frattempo, ad amare ed essere amati. Per tutti, ovunque.

“Chiedere aiuto non è mai un segno di resa, anzi vuol dire proprio che non ci si vuole arrendere”

Il bambino, la talpa, la volpe e il cavallo (The Boy, the Mole, the Fox and the Horse), di Peter Baynton e Charlie Mackesy, 2022, 35 mn.

Quando arrivo a Mantova è subito Festivaletteratura

Quando arrivo a Mantova è subito Festivaletteratura.
Maria ed io attendiamo di fare il check in in albergo e chi è davanti a noi chiede la cartina della città per raggiungere la Tenda Sordello. Noi lo sappiamo e ci intrufoliamo nella conversazione. Poi, in Piazza Leon Battista Alberti c’è Costanza a darci la borsina di stoffa del Festival e il badge della stampa. Che delizia avere il salvacondotto per gli eventi a cui assistere. Si galoppa a sentire Alice Bigli che parla di educazione alla lettura, si rivolge ai ragazzi e dice meravigliosamente le cose che anche Maria ed io abbiamo imparato insegnando la lettura e la letteratura nel nostro amato Liceo. È la nostra frontiera, Alice Bigli, e quando spiega come ha dato inizio a “Un mare di libri” diventa una maestra.
Il Festival è Viola, che poco fa ci ha accompagnate in Piazza Broletto a vedere la postazione di Area 6, lo spazio gestito dagli under 20. Viola ci spiega che i dibattiti per la edizione 2023 ruotano attorno a tre parole chiave: cittadinanza, scuola, genere. Niente male questi ragazzi, e già pensano al prossimo anno. Il Festival ora è la trattoria da Giannino, dove assaggiare i cappellacci alla mantovana. Un vero viatico in attesa di galoppare nel pomeriggio e stasera verso gli eventi che ci aspettano.

Nota:
Roberta Barbieri e Maria Calabrese sono a Mantova, inviate di Periscopio al Festivaletteratura 2023. Tutta la redazione le invidia.

In copertina: Alice Bigli al dibattito al Festivaletteratura 2023 (foto di Roberta Barbieri)

Ferrara ha bisogno di un candidato sindaco, ma non così e non adesso!

Fra nove mesi esatti Ferrara andrà a votare per scegliere il suo governo e il suo sindaco.
Nove mesi (per l’esattezza 270 giorni) sono tanti ma sono anche pochi.
Appare già chiaro che alle elezioni di giugno si confronteranno e scontreranno, speriamo civilmente, due schieramenti contrapposti. Con quali idee e programmi? Se sappiamo bene la Ferrara che ha in testa la maggioranza attuale, non conosciamo ancora nulla della “idea di Ferrara” che l’opposizione proporrà agli elettori.

Il compito della maggioranza

La maggioranza attuale ha il compito più semplice. Chiederà ai ferraresi di ripetere nel prossimo quinquennio l’esperienza fatta. Di prolungare un governo all’insegna della smemoratezza, dove il disagio e le difficoltà dei giovani, degli anziani soli, delle famiglie povere non trovano posto nell’agenda politica.  Di proseguire la “scintillante” politica di consumo culturale: invadendo le piazze storiche, moltiplicando le luci, gli spettacoli, le feste dove si beve e si mangia, e promuovendo quel turismo mordi e fuggi che non lascia nulla alla città e alla sua economia (infatti non piace nemmeno ai commercianti, anche se lo dicono solo sottovoce).

Che altro ancora può offrire la Destra? Ora che il folle maxiprogetto cementizio, il famigerato Fe.ris., è stato prima travolto, quindi seppellito, da una rivolta popolare, difficilmente potrà risorgere sotto mutate spoglie, checché ne dica il Sindaco Fabbri.

Alla fine rimane sempre la sicurezza, il cavallo di battaglia di Naomo & company, perché è proprio con lo slogan “la città sicura” che la Destra era riuscita a prevalere su uno stanco e afasico Centrosinistra. Ebbene, di questa città sicura oggi non si vede traccia. Si sono moltiplicati i lucchetti e i cancelli, è arrivato pure l’esercito, ma il fallimento della politica repressiva di Lega e Fratelli d’Italia è sotto gli occhi di tutti. Oggi i cittadini di Ferrara sono meno sicuri di quattro anni fa:  basterebbero per confermarlo i recenti fatti di cronaca nera che hanno insanguinato Ferrara.

Il cammino dell’opposizione

Per l’opposizione – meglio dire, per le varie opposizioni e formazioni del cosiddetto Centrosinistra –  il cammino sarà molto più difficile. Un percorso che prevede 3 tappe ineludibili, tre gradini da scalare, uno dopo l’altro, pena un’altra sonora sconfitta. Quali siano questi tre scalini è presto detto.
Primo. Elaborare una nuova idea di città e di governo, un programma capace di interpretare i bisogni e i desideri dei cittadini, che non punti al ritorno al passato (sarebbe un vero suicidio) ma indichi una reale alternativa: nuovi obiettivi e nuove forme di democrazia.

Secondo. Trovare una sintesi tra le varie formazioni politiche che affollano il panorama locale , e varare un programma comune, o perlomeno un elenco chiaro di priorità e di obiettivi che si propone di raggiungere nei prossimi cinque anni.. Perchè senza unità – o tutti con un’unica lista o con più liste alleate – sarà impossibile vincere. Anche perché la Destra ha dimostrato (a livello nazionale come a livello locale) di saper stare insieme e di presentarsi unita davanti agli elettori.

Terzo gradino. Occorre individuare un candidato (uomo o donna) comune, che questa volta – tutti i partiti lo dicono e lo ripetono da mesi – non dovrà provenire dall’apparato di partito, ma essere “espressione della società civile ferrarese”.  Ma cosa significa esattamente? L’espressione è sicuramente condivisibile, ma è terribilmente vaga. Vuol dire, per caso, pescare dal mazzo un candidato qualsiasi basta che vada bene a tutti i partiti, o il candidato più simpatico, o il più famoso? O invece – e solo questo mi pare possa intendersi come “espressione della società civile” – un candidato o una candidata che esca autonomamente dalle fila del grande laboratorio di idee che anima da oltre un anno la società ferrarese, una persona che ha partecipato a questo lavoro di popolo, dando il suo contributo di competenza, di idee innovative, di passione civica?

Un errore imperdonabile ma rimediabile. Si spera

Dunque i tre gradini. Uno alla volta. E prima di tutto: l’ascolto, il confronto, le idee, il programma di governo per il prossimo quinquennio.
E non sto esprimendo una mia pia speranza, è quello che il Partito Democratico, i 5 Stelle, Sinistra italiana e tutte le altre isole o isolette dell’arcipelago del Centrosinistra ci ripetono dalla primavera scorsa in avanti.

“Faremo il tavolo delle Opposizioni”.  L’idea non era neanche male, ma dopo una riunione di assaggio prima dell’estate, il tavolone è sparito dai radar.
“Apriremo un grande confronto con i cittadini”. 
Ascolteremo le loro idee, li faremo partecipare alla elaborazione del programma. Ma dove, in che modo? Con qualche botta e risposta alla Festa dell’Unità? O quando il programma sarà già bell’è fatto e controfirmato dai 7 o 8  segretari di partito? 
La grande preoccupazione dei partiti di opposizione sembra tutt’altra. La solita di sempre: il totonomi – imbroccare il cavallo vincente da mettere in corsa contro Alan Fabbri.  Nell’aria è tutto un brusio di nomi, che dai corridoi della politica arriva sulle pagine della stampa locale.

Ma in questi ultimi giorni è successo qualcosa di peggio. Arriva a Ferrara Ilaria Cucchi, senatrice eletta dai Verdi e Sinistra Italiana, va al Festival dell’Unità e lancia la candidatura di suo marito Fabio Anselmo, il noto legale dei casi Cucchi e Aldrovandi, un nome notoriamente in cima al listino del Partito Democratico di Ferrara. Il giorno dopo, il coordinatore provinciale dei 5 Stelle Paride Guidetti rompe gli indugi e indica ufficialmente il candidato del suo partito: “Fabio Anselmo – che definisce come il candidato del PD –  è la persona giusta per guidare la coalizione di opposizione”.

E i famosi 3 gradini? Dove sono finite le tre fasi da tutti diligentemente enunciate?  Si torna al metodo antico: prima il candidato, poi i contenuti, le idee, i programmi (vedremo quali) che verranno affidati in dote al candidato. Un metodo talmente antico che in questo caso ha un sapore quasi medievale. Un candidato indicato… dalla consorte… che appartiene a un partito (Verdi e Sinistra Italiana) diverso dal partito (5 Stelle) che candida ufficialmente il personaggio candidato ufficiosamente da un altro partito (il PD).

Poco può valere, l’imbarazzato distinguo che arriva un giorno più tardi dal Partito Democratico. La frittata è fatta e il campo del Centrosinistra si trova ora a un bivio. Vuole davvero cambiare metodo, oppure assisteremo ad un’investitura dall’alto di un candidato deciso nei retrobottega e imposto al popolo dei votanti, agli stessi militanti dei partiti (quelli rimasti) e alla beneamata e inascoltata società civile? Il copione lo conosciamo. E’ lo schema di quattro anni fa, e sappiamo tutti com’è andata a finire.
Ferrara e il popolo della sinistra ha bisogno d’altro, ai partiti, grandi e piccoli, basterà uscire dal recinto e guardarsi attorno: troveranno intelligenze, competenze, idee, programmi elaborati dall’impegno e dalle lotte di tanti cittadini ferraresi.
Da più di un professionista della politica ho sentito una bella frase: “Questa volta i partiti devono fare un passo indietro”. Fatelo.

In copertina: Fabio Anselmo e Ilaria Cucchi – foto da “Terlizzi viva”.

Parole a Capo /
Michele Carniel: “Alleata luna” e altre poesie

Nonostante la versatilità di questo strumento, nonostante la sua preziosa capacità di esplorare e approfondire le percezioni – per cui a volte esso rivela più di quanto fosse nelle intenzioni originarie e così arriva, nei casi più felici, a fondersi con le percezioni – ogni poeta più o meno esperto sa quante cose restino fuori o si siano dolorosamente modificate passando attraverso questo strumento”
( Iosif Brodskij)

Il fiume e le sue rughe,
un diluvio di canto
fanno del presente una sazietà,
si completano i vuoti.
Sanno di te le fragranze
d’un autunno anticipato,
ché a pensarci rischio la vita,
lo straripare dei sensi.
Si prende gioco di me il salice,
la chioma che precipita assetata
pone la vista ad un bivio,
come se d’un tratto vivessi altrove.

(Tratta da “La strategia del respiro“, Terra d’ulivi edizioni, 2023)

 

Osservo la matematica fallire
seguendo il volo delle ghiandaie,
parlo meno del silenzio
e ogni legge mi dà tregua.
Dal trono che il catasto mi concede
reggo faticosamente la tua lontananza
in quel preciso laggiù, ti vedo
prendi il posto delle betulle.
Se la voce non mi boicottasse, urlerei
ti trascinerei come fa il maestrale,
foglia dopo foglia
a denudare l’orizzonte.

(Tratta da “La strategia del respiro“, Terra d’ulivi edizioni, 2023)

 

Collezionare istanti
aiutare le mani a ricongiungersi
dall’ultima volta che piansero rosari
le preghiere inutili degli spaventati
la solita storia del comprimere i lutti
come si fa con le arterie in esubero
non ascoltando i rumori
non ascoltando le stanze.
Riuscire
sbattendo la porta
ad aiutare la crescita dell’io che ero
del tu che sei
del figlio mai nato che barcolla nei sogni
e divide le scelte in piccoli giorni
somiglianti agli occhi neri dell’eutanasia.
Scrivere ‘perdono’ col sangue dell’intonaco
soffermandosi sull’accento che determina il passo
l’uso che si fa della pioggia avanzata.

(Tratta da “La strategia del respiro“, Terra d’ulivi edizioni, 2023)

 

ALLEATA LUNA

Assumerò sogni disoccupati,
voragini di presenze,
per averti al mio fianco,
sempre.
Nelle stanze dove l’eco muore di vecchiaia
racchiuderò prospettive sorridenti
e nello spazio dove l’asfissia è in agguato
cospargerò l’azzurro avanzato dai cieli di ieri.
Non m’arrenderò nemmeno al maldestro tentativo
che la sera rispolvera quando viene messa spalle al muro,
giocando la carta di un buio ingordo,
poiché la luna (ampiezza d’amore) è con me.

(Tratta da “Tra il Piave e la luna”, Sillabe di sale editore, 2019)

 

Aggrappati ad un’idea di pioggia,
alla pietà trasmessa con la bocca
sulla pelle. Hai capito cosa sono?
(Non respirare se non te la senti).

Io sono l’aria frantumata sul vetro
una cicatrice annodata su piuma
la molecola del nulla che sanguina
su una rivolta composta di schiene.

(Respira. Non respirare. Respira)
Emerso tra il sudore delle gambe
ti aspetto con gli occhi, ti indico
un modo sano di morire. Intatta.

(Inedita)


Michele Carniel
, nato il 15 gennaio 1978 a San Donà di Piave, dove attualmente vive. Lavora come progettista navale a Marghera (Ve). Ad ottobre 2019 ha pubblicato per Sillabe di Sale editore la sua prima silloge “Tra il Piave e la luna”.
Nel 2020, tre sue poesie sono state selezionate per l’antologia di poeti contemporanei “Kairos” (CTL editore). In luglio 2023 ha pubblicato “La strategia del respiro” per Terra d’ulivi edizioni.
Entro al fine del 2023 uscirà un’antologia intitolata “Heroides” (Readaction edizioni) che lo vedrà tra gli autori.

LO SCAFFALE POETICO
Alcune segnalazioni editoriali interne al mondo della poesia. Buona ricerca poetica.

  • Vito Antonio Conte, Perse tra le carte, Luca Pensa Editore, 2020
  • Marcello ButtazzoNelle pieghe del rossoQuaderni del Bardo Edizioni, 2023
  • Rita GrecoLa gioia delle incompiute, Giuliano Ladolfi Editore, 2021

La rubrica di poesia Parole a capo curata da Pier Luigi Guerrini esce regolarmente ogni giovedì mattina su Periscopio. 
Per leggere i numeri precedenti clicca [Qui]

LA DELIBERA REGIONALE SULLA VALUTAZIONE AMBIENTALE E TERRITORIALE NON VA BENE E VA RITIRATA

La Delibera Regionale  n.1407 del 7 agosto 2023 sulla Valutazione Ambientale e Territoriale segna un notevole arretramento sulle politiche e i controlli ambientali e deve essere ritirata.

da: Rete Emergenza Climatica e Ambientale Emilia-Romagna

Abbiamo visto la delibera di Giunta Regionale 1407 del 7 agosto 2023, dal titolo “Precisazioni in ordine ai compiti e ai contenuti della relazione istruttoria di ARPAE nell’ambito delle istruttorie di ValSAT di piani urbanistici”.
Se è vero che con essa non viene cancellata la VAS-ValSAT prevista dalla LR 24/2017, sicuramente però viene rivisto pesantemente il ruolo di ARPAE nel suo supporto alla attività istruttoria delle Province e della Città metropolitana di Bologna sui procedimenti dei piani urbanistici e territoriali e in particolare sui procedimenti di valutazione di sostenibilità ambientale e territoriale (ValSAT). Quello che viene infatti modificato è il fatto che il parere di ARPAE non è più “dovuto” e soprattutto diventa oneroso e, se richiesto, dovrà essere oggetto di una specifica convenzione. In più, le stesse Province e la Città metropolitana, non devono più tener conto della valutazione, positiva o negativa, del parere istruttorio di ARPAE.

Il rischio reale e concreto è che da domani non ci sarà mai più nessuno che farà valutazioni perché abbiamo le Province che, se va bene, hanno un funzionario che si occupa di queste cose, non hanno più persone competenti per la parte ambientale (che sono finite tutte in ARPAE con “l’abolizione” delle Province), ma non hanno neanche le risorse economiche e non ce la fanno di conseguenza a smaltire le pratiche e le istruttorie ambientali e urbanistiche.

Comunque sia, c’è una questione preliminare, e cioè che si interviene su una legge semplicemente con una delibera di Giunta, fatto che si presta ad un serio dubbio di legittimità costituzionale, ma ancor più apre un problema politico, nel momento in cui si è deciso di non passare attraverso l’Assemblea legislativa regionale.

Nel merito, poi, non siamo in presenza della cancellazione della VAS-ValSAT, ma certamente di un suo serio depotenziamnento.

Con questo colpo di mano, la Giunta regionale compie un notevole arretramento sulle politiche e i controlli ambientali.
Dopo la vicenda dell’alluvione e a fronte di orientamenti del governo nazionale che quotidianamente non perde l’occasione per additare i vincoli e le politiche ambientali come un impedimento per lo sviluppo del Paese, ci saremmo attesi che la Regione Emilia-Romagna rafforzasse le proprie scelte per la tutela ambientale (e per ridurre il consumo di suolo), non certo un loro allentamento. Già oggi ARPAE non svolge adeguatamente il suo ruolo e le stesse Province sono state svuotate di competenze, risorse e personale e certamente assecondare questa tendenza, coma fa la delibera agostana della Giunta regionale, è decisamente sbagliato e controproducente.

Occorre, invece, battere un’altra strada e invertire questa tendenza: per questo chiediamo che la Giunta regionale revochi la delibera, che si apra una larga discussione e si giunga all’approvazione della legge di iniziativa popolare che RECA ha avanzato da un anno per fermare il consumo di suolo, mettere in campo provvedimenti che rafforzino ruolo, competenze e risorse delle Province e della Città metropolitana, dare più autonomia e risorse ad ARPAE. In particolare, in tema di competenze, che una volta erano in capo alle Province – siccome le Province non sono mai state cancellate di fatto- meglio allora restituirle alle Province insieme alle risorse economiche e umane.

In ogni caso, come RECA continueremo la nostra iniziativa perché questi obiettivi si possano realizzare.

 

RETE EMERGENZA CLIMATICA E AMBIENTALE EMILIA- ROMAGNA

In copertina: Alluvione-a-Faenza (foto da meteo.it)

La vera emergenza in Emilia-Romagna:
una classe dirigente innamorata di asfalto e cemento

La vera emergenza in Emilia-Romagna: una classe dirigente innamorata di asfalto e cemento

Sta facendo cerchi nell’acqua – l’acqua sporchissima del post-alluvione – la notizia dell’ultimo blitz pro-cemento della giunta regionale emiliano-romagnola, quella capeggiata da Stefano Bonaccini.

Blitz fatto ad agosto, come da cliché, quando l’attenzione generale, tra canicola e vacanze, perde colpi. Infatti il caso è esploso un mese più tardi: prima una lettera di Italia Nostra poi un articolo di Paolo Pileri su Altreconomia hanno attirato l’attenzione su questa mossa esecranda.

Cos’hanno fatto?

Il 7 agosto scorso, con una delibera peraltro illegittima, la giunta ha emendato in senso peggiorativo una legge regionale già molto discutibile se non famigerata, la 24/2017 sull’urbanistica.

Legge che doveva essere «contro il consumo di suolo», ma che fin da subito si è rivelata un intrico di deroghe, espedienti e scappatoie per le lobby del mattone, del cemento e dell’asfalto, e per le amministrazioni locali che a quelle lobby consentono di spadroneggiare.

Fino a un mese fa, la legge prevedeva che un comune sottoponesse il proprio piano urbanistico alla valutazione di sostenibilità ambientale e territoriale (Valsat), passaggio che spettava a province e città metropolitane sulla base di una relazione istruttoria dell’Arpae, l’agenzia regionale per la prevenzione, l’ambiente e l’energia. Nel caso di “bocciatura” da parte dell’Arpae, il comune doveva assumersi in tutto e per tutto la responsabilità – anche politica – del proprio piano urbanistico, presentando una controrelazione scritta.

Nella maggior parte dei casi, poco più di una formalità. Per motivi che qui sarebbe lungo elencare, l’Arpae difetta di reale indipendenza. Da sempre costretta al contorsionismo tra molteplici esigenze istituzionali e di realpolitik economica (immaginiamo le reazioni se dopo le alluvioni del maggio scorso avesse dichiarato l’Adriatico non balneabile), ha dimostrato più volte di non poter fermare gli scempi ambientali. Tant’è che questi proseguono imperterriti.

Eppure, anche quel blando “ostacolo” posto sulla strada dei cementificatori era di troppo per la sensibilità del PD, o meglio, per l’economia che il PD rappresenta e acriticamente tutela. Un’economia sbagliata da cima a fondo, ecocida in ogni sua articolazione, che devasta il territorio, esponendolo ed esponendoci a sempre più disastri. Un’economia le cui presunte “eccellenze” saranno sempre più riconosciute come orrori.

La delibera 1407 esautora l’Arpae in più modi: la sua istruttoria sui piani urbanistici non è più un atto dovuto; nel caso poco probabile in cui venga comunque consultata, la sua relazione non può includere alcuna «valutazione circa la positività o negatività» del piano; in ogni caso, un comune potrà consultare l’Arpae soltanto «sulla base di specifiche convenzioni a titolo oneroso da stipularsi, caso per caso, sulla base di specifico accordo tra le parti». Cioè dovrà pagare.

In questo modo, la valutazione di piani e varianti urbanistiche resta in mano unicamente a province e città metropolitane. Soggetti che certamente hanno meno competenze sui temi ambientali di quante ne abbia l’Arpae, ma il vero problema non è nemmeno quello.

Con la legge n. 56/2014 del governo Renzi  – la cosiddetta «Legge Delrio» – le deleghe di governo sono passate dalle vecchie giunte provinciali ai consigli provinciali e metropolitani, che oggi sono organismi eletti a suffragio ristretto – e quasi sempre composti direttamente – da sindaci e consiglieri dei comuni. Cioè gli stessi che propongono i piani e le varianti urbanistiche. In pratica, si valuteranno da soli, senza l’intralcio di soggetti terzi.

Tutto questo, si diceva, è illegittimo: la giunta non può modificare una legge approvata dall’assemblea regionale. Solo l’assemblea stessa può farlo. Ma, a quanto pare la vicepresidente di regione Irene Priolo – che è anche assessora alla «transizione ecologica e difesa del suolo», chi ha presente il suo curriculum riconosce subito la neolingua – e gli assessori Paolo CalvanoVincenzo CollaAndrea CorsiniPaola Salomoni e Igor Taruffi non hanno avuto scrupoli.

Cosa li spinge a farlo?

Al di là dei precisi risvolti tecnici e amministrativi, a noi tutto questo interessa come  ennesimo sintomo. Ogni manifestazione sintomatica conferma l’eziologia del male, la diagnosi dell’ecodisastro in Emilia-Romagna che, non certo da soli, abbiamo cercato di formulare.

Per chi vive da queste parti, il cursus honorum dei succitati personaggi parla da sé. Ci è toccato nominarli altre volte. Sono tutti inveterati amanti di cemento e asfalto. Ogni colata d’asfalto è loro oggetto del desiderio, ogni loro discorso sullo “sviluppo” è un’eccitata apologia dell’impermeabilizzazione del suolo.

L’intelligenza del suoloSuolo di cui, come ricorda Pileri in un suo libro divenuto imprescindibileignorano praticamente tutto. Non sanno che il suolo è un ecosistema la cui sopravvivenza è indispensabile alla nostra. Non sanno che una sola cucchiaiata di terra contiene miliardi di forme di vita. Non sanno che il suolo è raro e la sua esistenza andrebbe preservata con ogni mezzo necessario. No, per loro c’è solo superficie da ricoprire, “vuoto” da riempire di edifici, spazio sul quale far passare una strada.

Basta vedere quante nuove autostrade, raccordi, “bretelle”, svincoli e sottovie vogliono realizzare nei nostri territori, dal Passante di Bologna – cioè il raddoppio fino a diciotto corsie di tangenziale e A14 nei tredici chilometri in cui procedono affiancate in piena città – alla Nuova Romea Commerciale, la cosiddetta «Orte-Mestre».

Quest’ultima, solamente tra Emilia-Romagna e Veneto, impatterebbe su oltre venticinquemila ettari di zone protette, tra siti di interesse comunitario (Sic), zone a protezione speciale (Zps), parchi regionali e altre zone di grande pregio paesaggistico e naturalistico.

Su questo progetto l’assessore Corsini – quello che dopo le alluvioni voleva bere un bicchiere di acqua dell’Adriatico – ha una sola riserva: il tratto che passa in Emilia-Romagna non deve essere a pedaggio. Son priorità.

Corsini è romagnolo, della provincia di Ravenna, una delle più cementificate d’Italia. Proprio dalle sue parti l’indifferenza della classe dirigente ha appena consentito un altro oltraggio, “la svendita a privati di cinquecento ettari di area protetta” [pubblicato su Periscopio il 15 agosto scorso, NdR] nel parco del Delta del Po, incluse le zone umide dell’Ortazzo e dell’Ortazzino. C’è un risvolto inquietante, che riferiamo con le parole di Linda Maggiori:

«La cosa più grave è che la Giunta de Pascale affermava nel 2017 di star lavorando per un’acquisizione dall’immobiliare, tanto che nel giugno 2021, erano stati stanziati fondi per l’acquisto dell’area.
Nel Documento Unico di Programmazione 2021/2023 (pagina 258) c’e’ infatti un riferimento all’ “Acquisto area naturalistica denominata: “Ortazzo/Ortazzino” a nord di Lido di Classe” con 514.400,00 EUR per il solo 2021. Il 2022 e 2023 non sono valorizzati […] Nel Documento Unico di Programmazione 2023/2025 però non ci sono accenni all’Ortazzo. Come mai questo improvviso cambio di rotta?
Come mai il Comune, nonostante i soldi fossero stati stanziati, decise di non comprare l’area protetta e successivamente non concesse neppure un misero prestito al Parco? Chi e perché ha impedito che Ortazzo e Ortazzino tornassero al Comune?»

A costoro, le alluvioni del maggio scorso non hanno insegnato né potevano insegnare nulla, perché gente così nulla è disposta a imparare. È abituata a pensarsi impunita, a non pagare mai un prezzo politico reale, a esercitare un continuo ricatto morale perché «altrimenti vince la destra». Intendono dire la destra dichiarata, mentre loro devono usare il termine «sinistra».

Ma non è solo calcolo, c’è anche del sentimento. Questa gente, ne siamo convinti, è sinceramente innamorata di cemento e asfalto. Di conseguenza, ha in autentico odio, o quantomeno in autentico spregio, gli alberi, il suolo libero, gli ecosistemi. Questo spregio lo esprime in parole e azioni, da noi documentate più volte. Nei limiti del possibile, certo. Anche se lo facessimo a tempo pieno, stargli dietro sarebbe comunque un’impresa sfiancante: non c’è praticamente giorno in cui non abbattano alberi, non aprano cantieri, non decidano nuove urbanizzazioni, non tutelino gli interessi di chi manomette il territorio.

Cosa dobbiamo fare di loro?

Di questa gente è indispensabile liberarsi.

Per liberarcene, dobbiamo rifiutare il ricatto morale.

Per rifiutare il ricatto morale, dobbiamo far crescere dal basso alternative a entrambe le destre, quella dichiarata e la «sinistra», e dunque al capitalismo, perché è quello il nome del male.

Suona difficile, e lo è, ma le altre opzioni si riducono tutte al piccolo cabotaggio in un esistente orripilante.

Per far crescere alternative, dobbiamo rifuggire le formule astratte, l’elettoralismo, i ragionamenti su come incollare pezzi di ceti politici residuali.

È necessario partire dalle lotte reali che hanno luogo sul territorio e che, con tutti i loro limiti, cercano di aggredire le contraddizioni primarie del nostro tempo, schivando diversivi, bagatelle identitarie e polemiche in bicchieri d’acqua.

Le storie di Costanza /
Settembre 2062 – Tata Spara

Le storie di Costanza. Settembre 2062 – Tata Spara

Zeus-t vola sopra di me e si ferma davanti ad una delle finestre del soggiorno. Schiaccia il pulsante e la tapparella si abbassa, in modo che il sole entri solo un po’. La parte più bassa della stanza brilla, grazie ai riflessi di luce che attraversano i vetri, mentre la parte più alta è in penombra. Con il nuovo posizionamento della tapparella, il soggiorno resta più fresco e l’ambiente è piacevole e accogliente. I divani gialli sono sempre lì fermi e angolari, il divanetto d’Adelina ha sempre la sua fodera di velluto rosa.

Ho novant’anni e questa è sempre stata la mia casa. Ho sempre abitato qui e, anche se per alcuni periodi ho lavorato in città, qui sono tornata quasi tutti i fine-settimana della mia vita. Zeus-t atterra su un tavolo di legno, abbassa le sue ali meccatroniche e si ferma. È in standby e così resterà fino a quando lo azionerò la prossima volta. Un robot-drone-t bellissimo, a forma di libellula, che ammoderna la stanza da solo.

È lui la prova che siamo nel 2062 e non nel 2030 o nel 2010. Il mio piede è appena guarito e non posso ancora camminare molto. Però la situazione è migliorata; certe volte non resta che sforzarsi di vedere il bicchiere mezzo pieno.

Ho passato un’estate tra gesso e stampelle, non il massimo per una a cui piace camminare. I miei nipoti, amici, vicini e parenti hanno però contributo ad alleviare questa mia reclusione forzata, venendomi a trovare e mandandomi messaggi di incoraggiamento. Li dovrei ringraziare tutti, ma non sono molto brava con queste formalità. Li ringrazierò un po’ alla volta, quando e come potrò.

Le mie cugine Ines e Bella sono venute a trovarmi da Cremantello, il paese dove sono sempre vissute e dove hanno gestito il Bar Ghepardi per molti anni. Mi sono sempre chiesta perché il Bar avesse il loro stesso cognome, forse avrebbero potuto cambiare il felino di riferimento e chiamarlo Bar Leoni. Bar Leoni mi suona bene, trasmette un’idea di forza e determinazione e poi i leoni ricordano alcuni dei nostri monumenti più importanti, ad esempio San Marco a Venezia.

Le ha portate a Pontalba Marta, la figlia di Bella. Abbiamo chiacchierato, riso e mangiato la pizza ricordando avvenimenti del nostro passato, poi se ne sono tornate a casa loro. I ricordi condivisi sono un vettore d’affetto e complicità.

Ricordare avvenimenti lontani che hanno caratterizzato la vita di tutte noi cugine, rende la possibilità di conversazione ed emozione pressoché inesauribile. Sarà perché sono vecchia, ma penso sempre che ciò che rende una persona speciale, è il tempo in cui c’era e ti ha dedicato attenzione, a scapito di tutto il tempo in cui altri avrebbero potuto esserci ma non ci sono stati, a volte generando stupore e anche un po’ di tristezza.

La presenza, l’affetto, la condivisione di gioia e sofferenza creano parentele vere, che non necessariamente hanno a che fare con quelle sanguinee. Così inanellando un pensiero dopo l’altro, seguendo vie tortuose che sono quelle dei miei ricordi, delle mie emozioni e delle immagini di persone che sono passate dalla mia vecchia casa, mi sorprendo a pensare al Circolo ricreativo Tito Speri.

Questo simpatico ‘circolo’ è costituito da un gruppo di persone che alla sera si siede fuori casa e chiacchiera. Mi piace proprio perché è così, semplicemente così.  È la gente che incontra gente, che ritrova sé stessa in una comunità spontanea, nata dalla prossimità abitativa, dalla narrazione di avvenimenti reali e quotidiani.

Un circolo dove puoi sempre fare qualche chiacchiera leggera. Non si paga nulla, non si è obbligati a fare nulla, chi passa e vuole fermarsi è ben accetto, chi si alza e se ne va è libero di farlo senza dare troppe spiegazioni. “Ci vediamo la prossima volta che passo”, ed è finita lì. Al Tito Speri si porta la propria sedia e ci si siede in cerchio, vicino a una panchina di cemento che fa da perno strutturale del consesso, lì si ascoltano storie di paese.

Al massimo qualcuno fa le frittelle e le porta per tutti, per chi c’è, per chi arriva, per chi passando ne prende una al volo e se ne va. Il circolo funziona solo d’estate perché la sua sede principale è semplicemente una panchina di una delle vie di Pontalba. Via Adriano Olivetti. È un luogo di socialità spontanea che nessuno finanzia, che nessuno controlla, che nessuno ha progettato. È nato dalla prossimità degli abitanti di via Olivetti, dalla loro convinzione che stare un po’ insieme è meglio che stare sempre da soli. È bello così.

A volte ci vado anch’io, mi siedo là e ascolto un po’ di parole. Commenti sulle macchine che passano, sul tempo, sulle persone che sono in vacanza, su quelle che andranno in pensione a breve. È divertente e, tutto sommato, giusto. Giusto perché è democratico e volontario, giusto perché è equo e libero. Contribuisce a rasserenare le giornate che volgono al termine. La leggerezza, quella buona che non fa male a nessuno, è una benedizione, allunga la vita. Le persone della zona hanno cominciato a chiamare quel ritrovo serale Tito Speri per scherzo e poi hanno finito per adottare quel titolo definitivamente.

Il nome di un patriota, uno dei martiri di Belfiore, non sembrerebbe un nome adatto ad un circolo di natura spontanea, però questo si chiama proprio così.  Molto spesso i nomi nascono quasi per caso e, altrettanto spesso, nessuno riesce più a ricostruirne la genesi.

In via Olivetti si narra che una sera un ragazzo abbia aperto per caso il libro di una bambina che stava facendo i compiti delle vacanze e la prima parola che ha letto sia stata proprio “Tito Speri”. “Tito Speri, Tito Speri”, tutta la sera si è continuato a ripetere il nome di quel povero martire come un ritornello per far sì che la bambina lo memorizzasse.

Il nome del circolo è nato così. Chi è Tito Speri, cosa ha fatto, in che periodo ha vissuto, chi erano i martiri di Belfiore … alla fine tutti i partecipanti al circolo lo sapevano. Quale miglior nome di quello di un personaggio che conoscono tutti? Così il circolo ha acciuffato un nome dai compiti delle vacanze di una bambina e se lo è tenuto. Chi c’è stasera al Tito Speri, chi va stasera al Tito Speri, quelli del Tito Speri stasera mangiano le frittelle, e così via.

Mi piace questo modo di scegliere i nomi anche la casualità ha il suo valore, porta creatività e curiosità insieme. Anche a Cosmo-111, il robot di Valeria, piace venire con me al Tito Speri. Si posiziona in mezzo al circolo cercando di attirare attenzione. Alza le sue corte gambe, fa roteare gli occhi-telecamera e, ogni tanto, fa anche qualche saltello cantando la sua canzone preferita: “Saputo, saputo, aku, aku. Saputo, saputo, akù, totù.”.
I partecipanti al circolo, che sono abituati a cogliere più le buone intenzioni che l’abilità in sè, applaudono sempre alle sue destrezze e lui si inchina compiaciuto davanti a tanto apprezzamento.

Qualche sera fa c’è stato un incidente. Un bambino che di solito è al centro dell’attenzione perché transita abilmente con suo monopattino davanti alle persone sedute catturandone l’attenzione e i commenti entusiasti, ha dato una sberla a Cosmo-111. Le bizzarrie del mezzano che hanno divertito tutti, gli hanno rubato il palcoscenico e lui si è molto arrabbiato.

Ad ognuno di noi piace essere al centro dell’attenzione, anche per poco, anche per un nonnulla. Proprio quel nonnulla può fare la differenza tra un giorno qualunque e un giorno che finisce nel sacco dei ricordi con una scintilla in più. Anche al Tito Speri è così, capitano dei minuscoli momenti di gloria individuale che nessuno vuole perdere o donare. Momenti così piccoli e così estemporanei che sono equamente divisi, quasi casuali. Starnutire forte, mangiare una mosca mentre si parla, rompere una ciabatta mentre si sta camminando, indossare una maglietta al contrario, macchiarsi con una pallina di gelato al cioccolato.

Altre volte anche al Tito Speri capitano delle “vere glorie”. Il canto di un ritornello di una canzone popolare, la recita di un pezzo di una preghiera in dialetto lombardo, la descrizione con dovizia di particolari di come si potano le viti, di come si trovano i funghi sotto i rovi. Questi sono i momenti di attenzione generale e conseguente soddisfazione individuale che al Tito Speri brillano e durano, sono appariscenti, quasi stellari.

Negli ambienti dove non si è apprezzati non si va, nei luoghi dove ci sono persone e contesti depressivi si fugge appena si può.  Qualche sera fa il bambino del Tito Speri ha perso una piccola stella perché quel ‘matto’ di Cosmo-111 si è messo a cantare in ‘mezzanese’ e tutti hanno guardato lui.

Ma Cosmo è intelligente, razionale e sa valutare bene i pro e i contro delle situazioni.  Quando ha capito che il bambino si era offeso, ha cercato di distrarlo e di rimettere le cose al loro posto. Ha così detto: “Io non sono bravo ad andare col monopattino, a far quello è bravissimo Jacopo, però sono bravo a scrivere poesie e ne ho scritta una anche per voi.”

Ha poi dato il foglio con la poesia a Jacopo, chiedendogli di leggerla. Il bambino ha preso il foglio ed è scoppiato a ridere, perché la poesia di Cosmo-111 era scritta con una sola vocale. “Sentite cosa ha scritto Cosmo!”  e tutto il circolo si è preparato ad ascoltare l’ennesimo esploit del robot.

Tata Spara
Tata Spara a sampra là
A cantanaa a davartara cha passa da là
Tata Spara a balla, là paaa travara an fratalla.
Tata Spara sta sampra là
A cantanaa a stapara cha passa da là
Tata Spara à ana balla parala, cama an aqaalana cha vala.
Tata Spara à sampra casà
A cantanaa a stapara cha passa da là
Tata Spara à an gaardano abatabala, cama an faara amabala.
Tata Spara sta nal maa caara
A la passa chaamara amara
Tata spara à an carcala da parsana cha patrabbara assara ra, ragana a rabat da sacanda ganarazaana
Prapraa a lara varraa ragalara an galatanaa.

“Bravo, Bravo Cosmo-111 !!!!” urla il circolo Tito Speri facendo un bel coro, poi scoppia l’applauso e il sipario cala fiammante su via Olivetti e sulla notte che verrà.

N.d.A.
I protagonisti dei racconti hanno nomi di pura fantasia che non corrispondono a quelli delle persone che li hanno in parte ispirati. Anche i nomi dei luoghi sono il frutto della fantasia dell’autrice.

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Una mattina al museo

Il Museo Guggenheim di Bilbao: la grande nave

Arriviamo attraversando un parco e costeggiando il fiume e, come spesso ci accade, seguiamo l’istinto più della cartina.

Ci appare così la forma argentata di una grande nave, anche le vele riflettono la luce: il museo Guggenheim di Bilbao, progettato da Frank Gehry ed inaugurato nel 1997, è davanti a noi. Siamo in anticipo rispetto alla nostra prenotazione, così ne approfittiamo per osservare la struttura esterna, le statue del grosso ragno “maman“, delle colonne di sfere e di Puppy, l’ enorme forma di cane ricoperto di piante fiorite.

Entriamo. Superati i controlli, alziamo gli occhi, siamo al centro di un ampio spazio, definito da scale, passaggi aerei, vetrate, balconate… Il pavimento di marmo giallo suggerisce allegria, armonia, invita a stare al gioco, a lasciarsi condurre.

Orientarsi non è semplice, le istallazioni permanenti e le tre mostre temporanee sono interconnesse. Il settore 104 contiene “The matter of time” (la materia del tempo) un’istallazione di Richard Serra che, con i suoi enormi pannelli curvilinei, in acciaio, invita i visitatori ad entrare e vivere una personale percezione del tempo: percorrendo stretti corridoi che terminano in spazi ovali, triangolari, a cuspide con lati curvi.

Ci si sente piccoli, deboli, al cospetto di queste ampie lastre metalliche, color ruggine, ruvide al tatto; dall’alto altri visitatori osservano l ‘andirivieni labirintico di chi è al piano terra. Il tempo e lo spazio sono i temi, il filo conduttore che lega idealmente il Guggenheim e le opere che contiene. Il flusso creativo degli artisti percorre il tempo, consacra la loro arte all’infinito, intuizione creativa che diviene materia, collocata in uno spazio, quello espositivo intercettando per qualche istante l’emozione degli spettatori, che divengono essi stessi parte dell’evento creativo.

Attraverso scale e passerelle giungiamo nell’anfiteatro dove è appesa la grande struttura (8 metri x 14) ” Rising sea” (mare che sale) realizzata su progetto di El Anatsui , artista ganese, con migliaia di tappi metallici di bottiglie di alcolivi da un collettivo di artigiani della sua terra.

Sembra un’enorme onda oceanica, ma al contempo fa memoria dell’invasione coloniale degli europei a danno dei popoli africani. Anche qui il tempo e lo spazio si fondono, la potenza artistica irrompe nella nostra mente insinuando l’intuizione, che in seguito diviene analisi e comprensione.

Proseguiamo la visita inoltrandoci su altre passerelle affacciate sull’atrio centrale dell’edificio, fino a giungere in uno spazio triangolare i cui muri sono decorati con enormi forme geometriche di diversi colori : è il Murale n.831 progettato nel 1997 da Sol Le Witt, maestro dell’arte concettuale. Egli sosteneva che l’opera d’arte è eterna perché vive nel concetto, cioè nell’idea che l’artista ha avuto e che rimarrà per sempre nel mondo delle idee.

 

In questo spazio, che accoglie e propone attimi di eternità, sono allestite anche mostre temporanee che ci stupiscono e, in un certo senso , ci provocano: Yayoi Kusama, poliedrica artista giapponese, tra le tante opere esposte, ci hanno colpito i puntini i “polka dots“che lei utilizza su qualsiasi superficie per suggerire l’esistenza di reti d’infinito.

Oskar Kokoschka, il maestro viennese di origine ceca, esponente dell’espressionismo, che nelle sue opere ha catturato la dimensione psicologica dei suoi modelli e l’ha resa immortale.

Lynette Yiadom Boakye pittrice di origine ghanese formatasi a Londra, che esegue ritratti in cui l’interesse non è rivolto al soggetto raffigurato, quanto piuttosto all’osservazione della luce e dei colori: l’esperienza che ci propone è rivolta alla materia artistica in sé, anziché ad un contenuto concettuale.

Sono trascorse diverse ore da quando abbiamo incominciato la visita, gli occhi, il cuore, la mente hanno necessità di una pausa e così, a malincuore, ci avviamo all’uscita.

Ritroviamo la luce del sole, il caldo estivo, tante persone che scattano foto, il rumore del traffico, eppure, lo sfavillio metallico delle pareti esterne del Guggenheim ci ricorda che lì, fuori e dentro lo spazio definito dalle sue vele, abbiamo vissuto un’esperienza d’infinito.

Foto dell’autrice

Lettera aperta ai maschi “perbene”

Lettera aperta ai maschi “perbene”

Riprendendo il bel contributo di Arianna Ciccone, Lo stupro e la violenza sulle donne non è un’emergenza, è un enorme problema endemico e sistemico [Qui su Periscopio], vorrei approfondire in cosa consiste il caratterizzarsi come ‘endemico e sistemico’.

Per esperienza personale, purtroppo, posso infatti testimoniare che il secondo stupro alla vittima viene fatto dal sistema istituzionale. Non mi riferisco solo ai social, ai media, all’informazione, che non rispettano il legittimo bisogno di dimenticare della vittima per andare faticosamente avanti.

Mi riferisco al sistema giudiziario, composto da giudici e avvocati, assistenti sociali, forze dell’ordine, tutti apparentemente perbene che, specie quando sono nella veste di avvocato difensore, accettando di difendere l’indifendibile, rivelano tutta  la violenza del fenomeno della “vittimizzazione secondaria”, per cui la vittima è sempre complice diretta o indiretta dello stupratore.

In questa fase, che dura anni, si svela la struttura profondamente maschilista della nostra società, per cui una donna che fa esattamente quello che fanno gli uomini, cioè esce sola, beve, accetta di relazionarsi a persone sconosciute, si veste succintamente quando fa caldo, “SI CERCA lo stupro”.

Il messaggio piuttosto esplicito, espresso, anche se non richiesto, dal compagno della Meloni, è che le donne farebbero bene a limitare le loro estrinsecazioni di libertà eccessiva e  stare “attente al Lupo”. Non rendendosi conto che ci sono anche i lupi in doppiopetto, gli insospettabili uomini perbene, che tutto fanno tranne indagare quell’enorme buco nero della loro psiche che li porta a interpretare alcuni atteggiamenti femminili come un invito a divorare la preda senza chiedersi cosa sia il consenso.

L’impari patrimonio di libertà personale fra i sessi non solo non viene contestato, viene rafforzato dall’implicita accettazione che i maschi sono pericolosi, meglio rifugiarsi nella nicchia familiare o nella coppia, sempre più necessaria per la libertà di movimento della donna.

Ma da dove deriva il maschilismo endemico, poi organizzato come sistemico? Qui ci sono delle responsabilità politiche e culturali degli intellettuali, anche loro “maschi perbene”.

Nel deserto di filosofi femministi, si distingue Engels, nel suo L’origine della famiglia, della proprietà e dello stato aveva dato qualche giusta indicazione, mai seguita dagli intellettuali che hanno delegato pilatescamente un problema politico alle femministe, perchè rimanesse fondamentalmente tutto uguale. Engels ha indicato nella famiglia la prima cellula della proprietà capitalistica, basata sull’ineguale ripartizione del lavoro, sia per qualità, sia per quantità e dove la donna e i figli sono gli schiavi dell’uomo.

Nell’attuale versione riveduta e corretta in cui i genitori sono spesso acritici schiavi dei figli e difensori della malsana ideologia maschilista a loro trasmessa, permane tuttavia alla base dei femminicidi la punizione di “lesa proprietà” dell’ex partner che elimina fisicamente chi “osa” scegliere di porre fine alla relazione.

Lo stupro collettivo, al contrario, essendo non parentale, ma anonimo, sembra rivendicare un diritto di proprietà sulla donna come proprietà collettiva, come “bene comune” di cui godere sconsideratamente e impunemente.

Il famoso sociologo Pierre Bourdieu nel suo Il dominio maschile denuncia l’arbitrarietà del sistema simbolico patriarcale, senza alcuna corrispondenza nell’ordine naturale, ma basato sul dominio e il potere. La violenza sistemica ha bisogno dei suoi riti trionfali per rimarcare la differenza fra chi ha il potere (eludendo  vigliaccamente ogni forma di simmetria numerica nello scontro) e chi lo deve subire.

Gli uomini “perbene” delle istituzioni cercano ogni mezzo per minimizzare i fatti che si accumulano ripetitivi: femminicidi, stupri e violenze domestiche, rendendoli casi, elementi singolari e non collettivi, elementi del sistema impazziti, mentre il sistema “democratico” promette di rieducarli, dicono che il carcere non serve, anzi peggiora.

Ma chi si preoccupa della vittima che, dopo che ha denunciato, deve stare barricata in casa per paura della vendetta, in attesa che si muova la pachidermica macchina della giustizia? A cui propongono, se fa troppe storie, una casa protetta in totale anonimato, dove non ti possono venire a trovare parenti e amici? Chi si preoccupa degli psicofarmaci presi per anni per placare l’ansia di una fiducia nella vita distrutta?

La preoccupazione maggiore dell’ordine simbolico maschile sembra invece di dimostrare di essere buono, a parte alcuni rari casi, senza mettere in discussione il comandamento lacaniano che il significante principale della nostra società sia il fallo.

Come dice Chiara Saraceno, siamo di fronte a un enorme problema culturale, che non si può relegare alle donne, perchè riguarda la convivenza civile fra persone, le relazioni umane, il senso del mondo.

Tu, uomo per bene, da che parte stai?