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Vite di carta. Vecchie vestite di nero

Accabadora: che nome strano. Quando nel 2010 ho acquistato il romanzo di Michela Murgia con questo titolo sono stata attratta dal fatto di non conoscerne il significato. Riconoscevo solo il suffisso, che indica la titolarità di un mestiere, indica una donna come la ‘zdora’ bolognese che gestisce il menage familiare, o come la ‘zipadora’ che cuce i pellami.

A fare l’accabadora nel romanzo è una donna avanti negli anni, perennemente vestita di nero e col volto segnato dalle rughe. Con gli occhi lucidi e vivi. Fa la sarta e da lei vanno a farsi confezionare i vestiti tutti gli abitanti di Soreni, il paese sardo in cui vive. Bonaria Urrai, questo è il suo nome, non si limita però a cucire vestiti.

Artemisia detta Misia ce l’ho davanti agli occhi se solo ripenso alla casa della mia nonna materna, la nonna Ednalda, e alle visite che le facevo da bambina andandoci con la bici. Era una presenza costante nella casa e ogni volta speravo di trovarla per poter ascoltare le sue storie. Tra il mutismo di mia nonna, che parlava davvero poco a noi nipoti di una generazione troppo diversa dalla sua, e i racconti magici della sua amica non c’era che da scegliere lei, la Misia chiacchierona dalla voce roca e dalla risata potente come un tuono. Anche lei sempre vestita di nero, con la gonna lunga fino alle caviglie e dei golfini scuri che mettevano in mostra il busto esile ma ancora eretto. Quando salutava per andarsene si avvolgeva con un colpo solo nello scialle nero e ampio e via, si allontanava a passo svelto. Già dalle prime pagine dell’Accabadora il personaggio è stato occupato da lei. Perfino nei dettagli: il volto grinzoso e mobile, col naso e il mento ben pronunciati, come nei profili della luna disegnata nei fumetti; le caviglie sottili ed elastiche.

La nonna Ednalda non vestiva molto diversamente, tuttavia le sue gonne meno lunghe e l’eterno fazzoletto nero portato sul capo come una bandana le davano un’aria meno stregonesca e meno empatica. Parliamo di due ragazze nate attorno al 1890; quando io le ho frequentate eravamo nei primi anni Sessanta e ormai erano vecchie davvero. Tuttavia anche mia madre e le sue sorelle le hanno sempre viste vestite di nero e precocemente invecchiate fino dall’età di trenta-quarant’anni.

Ecco la storia che la Misia raccontava su mia richiesta e che risale proprio agli anni Trenta: molto presto una mattina sulla strada per la borgata di Bancareno, quando non c’era ancora luce, lei e la nonna camminavano per raggiungere il campo dove lavoravano come braccianti. Erano rimaste indietro rispetto al gruppo delle compaesane arrivate quasi a destinazione e, siccome andavano di fretta, non avevano subito notato la vecchina chinata a raccogliere erbe, che girava loro le spalle.  Se l’erano trovata a due passi. Al loro saluto non aveva risposto, si era solo alzata un po’ e si era girata, quel tanto che bastava a mostrare sotto il copricapo un vero e proprio teschio. Mentre la nonna confermava il racconto facendo su e giù con la testa, la Misia si spostava davanti a me per mimare la scena: si chinava a raccogliere qualcosa per imitare lo scheletro e poi balzava indietro per imitare se stessa, nella reazione che doveva aver avuto quella strana mattina, quando ancora faceva buio.

Se non erano racconti come questo, racconti inquietanti di strane creature delle nostre campagne, erano episodi di donne del paese che si rivolgevano alla Misia per farsi consigliare tisane curative. Figuriamoci se ne ricordo gli ingredienti; della sola ortica mi viene in mente. La Misia ne beveva l’infuso ogni giorno e con pazienza mi spiegava i benefici che se ne potevano trarre. Tutto inutile: non ero nell’età giusta per concepire cosa fossero gli acciacchi e dell’ortica conoscevo solo l’effetto urticante, che mi provocava alle gambe quando giocavo a nascondino con gli altri bambini e mi eclissavo nell’erba alta.

Si parlava anche di paure che molta gente aveva necessità di farsi togliere. Ma la Misia non aveva questo potere e allora dirottava tutti da una sua conoscente, che aveva ricevuta in dote la pratica di guaritrice da una anziana parente. Formule e gesti rituali che dovevano essere trasmessi a una persona sola e nella massima segretezza potevano levare la paura del buio, del sangue o di qualche animale. Molti anni dopo, quando la Misia e mia nonna non c’erano più, ho conosciuto una signora che riceveva e guariva compaesani e anche persone dei paesi vicini. Si diceva che non sbagliasse un colpo, che li guarisse tutti. Devo ammettere però che non sono riuscita a prenderla sul serio: i capelli biondi tagliati corti e il suo abbigliamento normale, senza la gonna lunga e lo scialle nero, non me l’anno mai resa credibile nel ruolo di guaritrice.

Se fossi stata una abitante di Soreni negli anni Cinquanta e Sessanta del secolo scorso, avrei invece conosciuto Tzia Bonaria e sua figlia Maria. Più che una figlia vera e propria, una creatura che si era presa in casa per accudirla e mantenerla togliendola dalla famiglia originaria, troppo povera e numerosa. Maria era divenuta così di fronte a tutto il paese ‘fill’e anima’ di Bonaria, la figlia adottata da lei quando era già avanti negli anni, con il viso rugoso e la gonna e lo scialle sempre neri, portati in segno di vedovanza per il suo Raffaele morto in guerra sul Piave tanto tempo prima.

Nel romanzo Maria vive in casa di Bonaria per tredici anni senza sapere il segreto che la riguarda e che in paese tutti tranne lei conoscono. Per lei la vecchia Tzia vestita di nero che cuce abiti di altre fogge e di altri colori alle donne e agli uomini del paese, che ha la casa ingombra di stoffe per ogni stagione e che l’ha fatta studiare fino al diploma di terza media e poi le ha insegnato il suo stesso mestiere, per lei Tzia Bonaria è la seconda madre. La prima, quella vera, si chiama Anna Teresa Listru e abita poco distante con le altre tre figlie.

Quello che in paese tutti sanno è che a volte nelle case dove è morto qualcuno, prima ancora delle visite dei parenti che vengono a fare le condoglianze e prima del pianto che ‘l’attittadora’ ha attaccato con le altre donne, i familiari hanno ricevuto un’altra visita. Anzi, l’anno richiesta. Di notte. Uno degli uomini di casa è andato a bussare alla casa di Bonaria Urrai e l’ha condotta con sé fino alla camera del malato in agonia.

E’ già adulta Maria quando scopre dove va l’anziana sarta quando esce di notte. Scopre che la sua seconda madre è ‘lultima madre’ per chi è senza speranza di guarigione nel proprio letto di morte, per chi prima di chiudere gli occhi per sempre vede il suo volto, l’ultimo.

“Ci sono cose che si fanno e cose che non si fanno”, questo crede Maria. Che non ha l’età per concepire la verità sulla donna che l’ha cresciuta. Lascia Soreni per andare a vivere lontano, sul continente.

Molti mesi dopo tornerà in paese a compiere il suo dovere di fill’e anima al capezzale di Tzia Bonaria, colpita da una forma grave di ictus, che le ha tolto l’uso della parte destra del corpo e della parola. Davanti a un’agonia spietata e senza speranza, che si protrae per un tempo lunghissimo in lei matura piano piano una considerazione diversa della eutanasia, un’idea che nasce dallo sguardo di Bonaria, sempre più dolente, sempre più supplice. In lei il sacrilegio si avvia a diventare una possibilità. Glielo aveva insegnato la Tzia: quando vivevano insieme e le parlava delle cose della vita le aveva raccomandato di non dire mai, “di quest’acqua io non ne bevo”.

Se fossi una delle paesane di Soreni saprei che l’anziana sarta, che va di notte ad ‘addormentare’ i non più vivi, compie un gesto di pietà estrema e solo nei casi davvero disperati. Saprei che quando una famiglia l’aveva chiamata “senza motivo” perché il vecchio malato non era “vicino al suo giorno”, Bonaria si era rivolta alla figlia Antonia Vargiu per maledirla e per inchiodarla al suo dovere di accudire il vecchio genitore.

Se vivessi dentro il romanzo di Michela Murgia non conoscerei le tisane miracolose della Misia, ma il bene dell’estremo gesto della accabadora. Vecchie vestite di nero, depositarie di un sapere antico e di una originaria pietà.


La stesura dell’articolo prende ispirazione da un bel romanzo e da una notizia di cronaca che risale a pochi giorni fa. Rispettivamente
:

  • Michela Murgia, Accabadora, Einaudi, 2009
  • AGI, La Spagna è il settimo Paese al mondo a legalizzare l’eutanasia. Via libera del Parlamento di Madrid. Si tratta della quarta nazione europea a introdurre tale norma dopo Olanda, Belgio e Lussemburgo. A cui si aggiungono Canada e Nuova Zelanda. Internet, 18 marzo 2021

 

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Roberta Barbieri

Dopo la laurea in Lettere e la specializzazione in Filologia Moderna all’Università di Bologna ha insegnato nel suo liceo, l’Ariosto di Ferrara, per oltre trent’anni. Con passione e per la passione verso la letteratura e la lettura. Le ha concepite come strumento per condividere l’Immaginario con gli studenti e con i colleghi, come modo di fare scuola. E ora? Ora prova anche a scrivere

Ogni giorno politici, sociologi economisti citano un fantomatico “Paese Reale”. Per loro è una cosa che conta poco o niente, che corrisponde al “piano terra”, alla massa, alla gente comune. Così il Paese Reale è solo nebbia mediatica, un’entità demografica a cui rivolgersi in tempo di elezioni.
Ma di cosa e di chi è fatto veramente il Paese Reale? Se ci pensi un attimo, il Paese Reale siamo Noi, siamo Noi presi Uno a Uno. L’artista polesano Piermaria Romani si è messo in strada e ha pensato a una specie di censimento. Ha incontrato di persona e illustrato il Paese Reale. Centinaia di ritratti e centinaia di storie.
(Cliccare sul ritratto e ingrandire l’immagine per leggere il testo)

PAESE REALE
di Piermaria Romani


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