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IL VIRUS DELLA DISEGUAGLIANZA
La pandemia ha reso forti i divari già presenti nella società

 

Le 1.000 persone più ricche del mondo hanno recuperato in appena nove mesi tutte le perdite accumulate per l’emergenza Covid-19, mentre i più poveri per riprendersi dalle catastrofiche conseguenze della pandemia potrebbero impiegare più di 10 anni. È quanto emerge da Il virus della disuguaglianza, il rapporto pubblicato da Oxfam, organizzazione impegnata nella lotta alle disuguaglianze in occasione del World Economic Forum di Davos.
A dicembre la ricchezza dei miliardari nel mondo aveva raggiunto il massimo storico di 11.950 miliardi di dollari, ossia quanto stanziato da tutti i Paesi del G20 per rispondere al coronavirus.

Il Covid19 ha reso più evidenti alcuni importanti divari già presenti all’interno della società. La fascia meno istruita è stata ulteriormente penalizzata, nel lavoro e nelle condizioni di vita. Angus Deaton, premio Nobel studioso delle diseguaglianze, sostiene che il Covid19 aumenterà il divario tra ricchi e poveri in America. La pandemia ha colpito prima e di più i Paesi ricchi, finendo per ridurre in qualche modo il divario tra Paesi ricchi e poveri. “Questo è forse l’unico modo in cui il Covid ha reso il mondo giusto” scrive Deaton.

Un sondaggio globale svolto da Oxfam in 79 paesi rafforza tali previsioni, mentre la Banca Mondiale prevede che entro il 2030 oltre mezzo miliardo di persone in più vivranno in povertà.
Le donne, ancora una volta, sono le più colpite perché impiegate nei settori professionali più duramente colpiti. Le donne rappresentano oltre il 70% della forza lavoro impiegata in professioni sanitarie o lavori sociali e di cura. Questo le espone a maggiori rischi.
La pandemia uccide in modo disuguale: sono le donne e le minoranze etniche a subire il peso maggiore della crisi. In molti paesi sono i primi a rischiare di soffrire la fame e ritrovarsi tagliati fuori dall’assistenza sanitaria”.

I divari nell’istruzione hanno inciso in modo forte: 1/3 degli americani ha un diploma universitario e 2/3 invece ne è sprovvisto. Un fattore, questo, che comporta come prima conseguenza la possibilità o meno di accedere ad un posto di lavoro e, dunque, di avere o meno un dato stile di vita. Si nota ancora quindi – prosegue – che dal 1990 al 2018, l’aspettativa di vita di chi è sprovvisto di istruzione, non ha subito variazioni in positivo. Per contro, in questi 2/3 di popolazione si assiste invece a una più diffusa abitudine al fumo e alle droghe.
In questo contesto il Covid19 ha ampliato le disuguaglianze. I meno istruiti si sono trovati in condizione di non poter lavorare da remoto.

Un altro importante dato di diseguaglianza riguarda le donne. Perché le donne potrebbero soffrirne di più? Prima di tutto perché ci sono molte meno donne che lavorano: il 94% degli uomini tra i 25 e i 54 anni ha un’occupazione, contro il 63% delle donne nella medesima fascia di età.
Le donne, quando lavorano, hanno uno stipendio minore. Gli ultimi dati Eurostat sulla disparità salariale tra uomo e donna in Europa [Vedi qui], registrano una differenza media del 15%.
Oltre all’aspetto economico vi sono implicazioni sociali. Secondo le Nazioni Unite, la chiusura delle scuole e dei centri diurni per le persone non autosufficienti aumenta la mole di lavoro domestico e di cura. Le donne che lavorano spendono, in media 4,1 ore al giorno per i lavori domestici e di cura non retribuita, contro solo 1,7 ore al giorno degli uomini. La pandemia enfatizza le note e sedimentate disparità.

PER CERTI VERSI
Tutto è nella terra

Ogni domenica Ferraraitalia ospita ‘Per certi versi’, angolo di poesia che presenta le liriche del professor Roberto Dall’Olio.
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TUTTO E’ NELLA TERRA

Tutto è nella terra
E se una farfalla
Chiude le ali
Se un’ape si sperde
Manca qualcosa
A quel tutto
Che sempre si rinnova
Dicono i filosofi
Ma i poeti
Non sanno rassegnarsi
Quando muore
Un uomo
Una donna
Un bambino
Quando muore
Un albero
Un gatto
Una cimice
Persino
Se ne va un pezzo di mondo
E si rimpicciolisce
L’immensità
La ragione non serve
Il cuore vuole morire
Di verità

NGEU:
Uno strumento di ingegneria sociale per il controllo delle masse

Parlare di Next Generation Eu significa cercare di capire:
– sostanzialmente cosa succede nel mondo e in Europa
– incidentalmente il perché di Draghi, del voto bulgaro al suo governo, dell’appiattimento ad un pensiero unico di partiti che solo ieri si odiavano
– cosa possa aspettarsi il popolo italiano
È un approccio schematico che prende in considerazione un punto di inizio che, anche se non rappresenta il Big Bang, quantomeno ci evita di parlare solo di effetti senza passare dalle cause.
I punti da considerare ai fini del ragionamento sul Ngeu sono almeno tre:
– Quanti sono i trasferimenti reali destinati all’Italia
– Quali le condizionalità politiche
– A cosa è destinato realmente il “piano di salvataggio”
I trasferimenti previsti li vediamo dall’infografica di seguito, di questi una parte sono credito/prestito e una parte sono trasferimenti a fondo perduto.

Se consideriamo che il bilancio Ue è settennale e andiamo a vedere i conti del bilancio 2012- 2018 risulta che l’Italia ha versato 112,85 miliardi e ne ha ricevuto 76,49, di conseguenza ha contribuito al netto al bilancio europeo per 5,2 miliardi all’anno trasferendo all’Europa in sette anni 36,36 miliardi. Nel 2019, proseguendo, l’Italia ha versato 16 miliardi e 799,2 milioni e ha ricevuto 11 miliardi e 386,2 milioni con un saldo negativo che mantiene e conferma l’andamento medio del bilancio settennale precedente.
Per il bilancio 2021-2027 l’Italia dovrebbe versare, calcolando la perdita di Pil conseguente alla pandemia, tra i 13 e i 15 miliardi all’anno per un totale di circa 100 miliardi. Poiché ne dovrebbe ricevere 81 miliardi, il saldo negativo sarà di una 20ina di miliardi cioè un trasferimento di poco meno di 3 miliardi all’anno.
Cosa succede alla parte prestiti, ovvero 127 miliardi? Per calcolare il vantaggio bisognerebbe comparare il tasso di interesse praticato ai Titoli che emetterà la Commissione europea a quelli che sta emettendo l’Italia e che sono prossimi allo zero. Si tenga presente che nell’ultima asta del 16 febbraio i Btp a 10 anni sono stati collocati all’interesse lordo dello 0,604%.
Secondo le stime di Cottarelli, avvalorate all’epoca da Gualtieri, dall’operazione Ngeu (parte prestiti) si avrebbe un risparmio di 25 miliardi. Risparmio comunque tutto da dimostrare poi nella pratica e che non tiene conto del fatto che i Titoli emessi vengono oramai quasi tutti assorbiti dalla Bce e che quindi gli interessi che paghiamo sui Btp vengono poi rigirati all’Italia. Una volta si chiamava “partita di giro” ed era solo contabilità mentre oggi è vita quotidiana.
Compreso che il Ngeu non porterà ricchezza infinita e non ci risolleverà da tutti i mali, passiamo al secondo punto, le condizionalità.
In un momento in cui è necessario spendere e fare debito per assicurare la ripresa, come persino Draghi ha ammesso in varie occasioni durante il 2020, la Commissione continua ad essere ancorata ai principi dell’austerity dettata in particolare dai paesi frugali come l’Austria, l’Olanda e la Finlandia per cui già dal 2024 ci potrebbero essere i primi controlli sul livello delle spese (deficit e debito) che potrebbero anche portare all’interruzione dei programmi di finanziamento. Considerando che è stato previsto per cosa questi finanziamenti si possano spendere, che l’erogazione deve essere approvata dalla commissione e che poi bisognerà rendicontare ogni euro, viene da se che le condizionalità non solo ci sono ma potrebbero rappresentare un peso burocratico enorme. Al punto da limitare sia l’efficacia nell’immediato che la resa nel tempo.
Quelle che precedono però sono per lo più esempi di condizionalità economiche. Un esempio di condizionalità politica potrebbe essere rappresentata … dal governo Draghi che grazie ad una manovra a dir poco inimmaginabile solo poco tempo fa, ad opera di uno sparuto gruppo parlamentare, diventa il gestore del Recovery italiano. Nientemeno una troika anticipata con regia del Pdr e plauso dell’intero emiciclo romano che, se non fosse per l’astensione di Fratelli d’Italia e qualche fuoriuscito, sembrerebbe di essere un po’ più a Est qualche decennio fa.
Detto questo rimane il punto centrale, a cosa serve realmente questo piano e forse, a voler essere diretti, a chi serve veramente.
La Germania ci tiene così tanto che l’Italia si “salvi” da mettere il suo stellare rating a disposizione dei Titoli che la Commissione europea metterà sul mercato nonostante sia stata parte integrante se non fondante dei paesi frugali. Archiviando le contestazioni a Draghi da parte della sua Banca Centrale e dei cosiddetti “falchi” ai tempi del “whatever it takes” (perché la Germania dovrebbe addossarsi le responsabilità del debito italiano & company?), si passa alle benedizioni di oggi e, insieme al francese Macron e all’amico Biden, promuove l’intervento del Ngeu e l’arrivo del salvatore.
Soldi dunque a disposizione dei paesi in difficoltà, Italia in prima linea come maggior beneficiario, mentre loro regalano senza, in sostanza, prendere nulla o quasi. Del resto con il surplus commerciale accumulato la Germania potrebbe tranquillamente fare da sola, quindi pura generosità e sogno europeo.
Ma la debolezza dell’Italia è una questione da analizzare in senso un po’ più ampio. L’Italia è un paese debole dal punto di vista politico ed esprime tutta la sua debolezza nella sua politica estera dato che si muove sempre “a corredo” di necessità altrui, in particolare per tutto ciò che interessa ad americani ed inglesi. Negli ultimi anni la strana corrispondenza tra interessi altrui e la nostra è diventata esplicita anche nei confronti dei francesi con il caso Libia (erano i tempi di Berlusconi – La Russa – Sarkosy) o quello del Mali nel 2012 – 2013. Con il caso, invece, dei turchi lasciati liberi di spadroneggiare nel Mediterraneo e in Libia grazie alla gestione Conte – Di Maio risulta del tutto evidente la nostra debolezza e inconsistenza geopolitica.
Del resto l’Italia, pur avendo inutilmente capacità belliche superiori alla Turchia, non ha altrettanto unità d’intenti e chiarezza di obiettivi, quindi qualsiasi azione di contrasto messo in atto da parte di navi militari italiane sarebbe contestata in primis proprio dalla politica, poi dall’informazione ed infine dalla magistratura, un film già visto.
Dunque un paese debole e instabile internamente a cui si aggiunge poca visione e coerenza estera (Cina si, Cina no) ma indubbiamente ricco, terzo Pil europeo e primo nella ricchezza privata. Un problema serio per i suoi partner e competitor. Abbiamo l’obbligo di rimanere nel campo occidentale per mantenere gli assetti strategici americani e occidentali e dobbiamo rimanere ancorati al sistema euro per non scompensare l’unità europea che si basa sempre più chiaramente sull’egemonia tedesca e la grandeur francese che a tratti riaffiora.
L’Europa ha bisogno in ogni caso che l’Italia continui ad assicurare il necessario interscambio commerciale, un suo crollo scompenserebbe un intero sistema e non certamente solo il nostro Paese.
Come si potrebbe spiegare quello che abbiamo visto succedere in queste settimane, gli eventi che hanno portato all’insediamento di Draghi se non mettendo tutto in riga, analizzando fatti e circostanze che includono l’assetto politico mondiale, gli aspetti macroeconomici, i deficit e surplus delle bilance commerciali di paesi come gli Usa e la Germania. Cos’è l’Italia per paesi così forti e determinati, che hanno piani industriali, commerciali e di interessi internazionali da difendere?
Non possiamo essere noi il pericolo, non lo vogliamo noi e non lo vuole la Germania e la Francia, gli Usa e la Gran Bretagna. Abbiamo un ruolo nello scacchiere altrui, di cui non è sensato pensare di essere parte decisoria, bisogna rispettare e continuare ad essere dei buoni gregari. Dobbiamo anche accettare di essere salvati e che venga deciso come.
L’Italia è una grande risorsa, buona fino a quando fa la sua parte e non crea problemi e quindi da tenere sotto controllo perché si dimostra spesso scheggia impazzita, imprevedibile, preda a volte di impulsi populisti. Ci hanno tenuto sotto controllo benissimo gli americani quando ci hanno impedito di affacciarci troppo ad Est dopo la seconda guerra mondiale, gli inglesi e i francesi hanno tessuto i fili durante gli “anni di piombo” e lo fanno ora i tedeschi per impedirci di rovinare i loro interessi economici, nuova formula di controllo degli stati.
Cos’è il Ngeu? Tante cose o forse una sola veramente centrale, qualcosa che fa a pagamento quello che una banca centrale potrebbe fare gratis, uno strumento di ingegneria sociale per il controllo degli stati europei che serve a tutti tranne, forse, a quelli che avrebbero bisogno di sostegno finanziario.

PRESTO DI MATTINA
Scrivere, perché?
… vedremo strada scrivendo

 

Scrivere, perché?
«Silenzioso passa il vento/ tra una smunta tenda/ Tace la notte/ tra la bianca nebbia/ Piange l’albero/ il suo perduto splendore/ Nuda la terra/ nella notte fredda urla le sue ferite». Parole ritrovate, con l’emozione della prima volta, riaprendo un libro dopo tanto; un foglio riappare, lo scritto d’una persona cara. E, lei, la tenda, è sempre così smunta perché sa di essere di troppo nel voler trattenere le parole esiliate dal dolore, smarrite nella bianca nebbia.
Del nulla che resta, solo il movimento ne ricorda il passaggio. E tuttavia, a margine una nota, come un destarsi del sapere che interpreta le parole, custodendone la scintilla: «questa è l’unica poesia che non sia nata da un rigurgito di angoscia, ma in un momento di silenzio nella notte. Nel cuore della notte. Era già autunno inoltrato, vuotavo la lavatrice e fuori la nebbia copriva tutti i suoni, tutto era assopito; sentivo le gocce di umidità che cadevano dai rami del ciliegio, la tenda ‒ l’unica della casa ‒ lentamente si muoveva e così nel cuore della notte ho sentito la terra nella sua intimità».

Si scrive per scoprire quello che non si sa ancora, per esprimere quello che non c’è.

Se leggere è come aprire la porta di casa a parole migranti, gocciolanti nella nebbia ‒ apri un libro e «la stanza è invasa da tutto ciò che c’è scritto dentro» (Nadia Terranova) ‒ come ospitare un forestiero, fare conoscenza e trovare compagnia tra le parole straniere, scrivere implica invece un andare a cercale: partire alla ricerca di parole che non si conoscono, non si sa dove; parole nascoste, vaganti, perdute, inanimate; o appena concepite ma non esattamente sapute, che attendono di nascere, di diventare in quel silenzio parole tue da portare in grembo.

Ma scrivere è anche prendere la via dell’esilio, costretti dal disgusto delle parole vane di un linguaggio divenuto banale, formale, zeppo di espressioni vuote. O peggio, un linguaggio servo dell’inganno di nuove dittature, anche spirituali, che mettono il bavaglio alle parole vere, quelle che nascono dalle cose incontrate e rese intime. Una pervasività del reale delle cose che preme dal di fuori e si fa sentire dentro, compagnia di parole ancora libere, levatrici del tuo germinare in terra arida, straniera, ma generativa di spazi aperti.

La prima ragione che ci porta a scrivere è allora «proprio il ‘disgusto’ di ciò che siamo costretti a pensare e a dire», ricorda Michel Ponge. Le cose, l’oggettività del reale è per lui «ciò che ‘tira fuori’ la mente, ciò che la strappa al chiuso, alla ristrettezza di sé: la ‘bellezza’ della natura consiste nella sua immaginazione, in quel modo di poter tirare l’uomo fuori da se stesso, dal maneggio ristretto». È dalle cose, dunque, che nasce la poetica. Esse sono l’oggetto interlocutore dello scrivere (Ponge scrive in prosa); «a fronte di un ripiegamento frettoloso, spiritualista o contro la superbia dell’uomo che si crede esterno e superiore alle altre creature e ‘cose’ dell’universo», la parola poetica, incontrata nel vissuto delle cose, rimette tutto in questione, perché questa attinge il suo essere sovversiva e suscitatrice all’esistenza stessa, che incontra nelle realtà più umili di ogni giorno.

Il perché dello scrivere lo si scopre però solo scrivendo. Lo trovi nascosto nelle parole in cui ci si esprime, svolgendole nel testo come sulla strada di Emmaus: come un pellegrino, straniero che si accosta e ti svela il perché delle scritture, e la sua voce a poco a poco ti scalda il cuore e tu ne scopri il senso solo dopo. Lo stesso accade anche con la parola poetica: cammina avanti, precede la conoscenza; e dopo averla incontrata, come ai discepoli, ci si aprono gli occhi; la riconosci e ti riconosci in essa, lasciando in te quella stessa gioia della parola data come un pane spezzato, a Emmaus, che nutre e ti fa partire di nuovo. Per questo, in un articolo sulla poetica di Ponge, scritto sul Corriere del 1979, Italo Calvino titolò Felice tra le cose (Saggi 1945-1985, 1, Milano 1995, 1401-1407).

Scrivere ancora, perché?

Partiamo dal basso, dal fondo valle salendo al rifugio Auronzo e alla chiesetta sotto le tre cime di Lavaredo, sul versante veneto ‒ la chiesetta dedicata a Santa Maria Ausiliatrice ‒ e poi proverò a salire, seguendo le orme sul Sentiero degli scrittori, attraversando le gallerie del Paterno, fino alle cenge più alte.

Mi capita spesso ‒ quando cerco di narrare con parole mie, scritte con la voce, il vangelo alla gente in quella che fu una chiesetta nata dalle acque edificata sulle ghiare soleggiate del Po di Primaro ritiratosi per la rotta di Ficarolo e dedicata a Santa Francesca ‒ mi accade spesso la domenica a messa di dire parole che non avevo pensato, sgorgate all’improvviso, sconosciute affiorate all’ultimo momento, che comprendo anch’io solo dopo averle ascoltate. E ogni volta mi trovo in un altrove inaspettato. Le mie parole pronunciate in piedi dall’ambone, ad un tratto, mi sembra come di ascoltarle, seduto tra la gente in silenzio, come se fosse un altro a predicare e mi stupisco di imparare anch’io. Questo sottosopra e via vai di parole, scritte a voce, che nascono da me, ma che poi sembrano invece giungermi di rimbalzo tra la gente che ascolta, non come risonanza, ma come parole nuove, diventano un annuncio anche per me che vado esercitandomi ad annunciare, come ‘un povero cristiano’, la poesia del vangelo. E mi rallegro assai poiché come l’atto poetico dà forma, a poco a poco, al poeta sino a farlo veramente tale, così l’annuncio evangelico dà forma di vangelo a chi ogni volta riprova quell’annuncio vivendolo.

Questo fenomeno lo spiega bene Carlo Bordini: «Amo la poesia perché quando scrivo so sempre da dove parto e non so mai dove arrivo. Arrivo sempre in territori sconosciuti e dopo ne so più di prima non scrivo quello che so ma lo so mentre lo scrivo è per me la poesia. È sempre fonte di continue rivelazioni è come se durante la scrittura ci fossero improvvise rotture dell’inconscio in questo senso sono abbastanza convinto che la parola venga prima del pensiero… non si scrive quello che si sa ma lo si sa dopo averlo scritto… io non creo ma sono creato, non scrivo ma sono scritto… non tradire quello che gli viene dettato; difficilissimo essere spontanei la spontaneità è nascosta sotto una serie di strati di rigidità intellettuali di pseudo conoscenze ideologiche di velleità banali, la poesia rompe tutto questo va la centro dei problemi per raggiungere la spontaneità; credo che la poesia come ogni forma d’arte sia il tentativo con mezzi non perfetti di giungere alla perfezione (un cammino di perfezione); c’è quindi sempre dentro qualcosa di artigianale di imperfetto così come artigianale è una preghiera, nulla di precostituito o di seriale», (Il costruttore di vulcani, Sossella editore 2010).

Scrivere come pregare? Come la preghiera è un andare incontro a colui che ti viene incontro, a colui che non è te, ma è dentro di te, prima di te e dopo di te, in te.

Scrivere come amare? Come cercare l’amato fuori di te che è oltre se stessi? Colui, il cui amore è già presente in te, ma anche proteso in avanti, chiede di essere di nuovo ricercato e raggiunto.

L’altra scrivente guida è stato per me in questa ascensione Italo Calvino che domandandosi: “perché scrivo” risponde: «Posso dire che scrivo per comunicare, perché la scrittura è il modo in cui riesco a far passare delle cose attraverso di me, delle cose che magari vengono a me dalla cultura che mi circonda, dalla vita, dall’esperienza, dalla letteratura che mi ha preceduto, a cui dò quel tanto di personale che hanno tutte le esperienze che passano attraverso una persona umana e poi tornano in circolazione. È per questo che scrivo. Per farmi strumento di qualcosa che è certamente più grande di me e che è il modo in cui gli uomini guardano, commentano, giudicano, esprimono il mondo: farlo passare attraverso di me e rimetterlo in circolazione. Questo è uno dei tanti modi con cui una civiltà, una cultura, una società vive assimilando esperienze e rimettendole in circolazione (1983) […]. Scrivo per imparare qualcosa che non so. Non mi riferisco adesso all’arte della scrittura, ma al resto: a un qualche sapere o competenza specifica, oppure a quel sapere più generale che chiamano ‘esperienza della vita’… E questo posso farlo solo nella pagina scritta, dove spero di catturare almeno qualche traccia d’un sapere o d’una saggezza che nella vita ho sfiorato appena e subito perso (1985)».

Si scrive per farsi strumento per far passare attraverso di sé il senso e le esperienze della più grande vita. Questo, che è anche impegno civile di condivisione del sapere anche verso i più piccoli, ritorna in Calvino nella forma dell’elogio della leggerezza nella prima delle Lezioni americane. Scrivere per togliere peso, per dare leggerezza al vivere.

Ripensando ai suoi racconti e alle sue storie, egli così definisce il suo lavoro: «la mia operazione è stata il più delle volte una sottrazione di peso; ho cercato di togliere peso ora alle figure umane, ora ai corpi celesti, ora alle città; soprattutto ho cercato di togliere peso alla struttura del racconto e al linguaggio… sono stato portato a considerare la leggerezza un valore anziché un difetto. Quando ho iniziato la mia attività, il dovere di rappresentare il nostro tempo era l’imperativo categorico d’ogni giovane scrittore. Pieno di buona volontà, cercavo d’immedesimarmi nell’energia spietata che muove la storia del nostro secolo, nelle sue vicende collettive e individuali. Cercavo di cogliere una sintonia tra il movimentato spettacolo del mondo, ora drammatico ora grottesco, e il ritmo interiore picaresco e avventuroso che mi spingeva a scrivere. Presto mi sono accorto che tra i fatti della vita che avrebbero dovuto essere la mia materia prima e l’agilità scattante e tagliente che volevo animasse la mia scrittura c’era un divario che mi costava sempre più sforzo superare. Forse stavo scoprendo solo allora la pesantezza, l’inerzia, l’opacità del mondo: qualità che s’attaccano subito alla scrittura, se non si trova il modo di sfuggirle. In certi momenti mi sembrava che il mondo stesse diventando tutto di pietra: una lenta pietrificazione più o meno avanzata a seconda delle persone e dei luoghi, ma che non risparmiava nessun aspetto della vita», (ivi, 5-6).

Così mi sono sentito interpretato, il mio sentire con le parole di Calvino. Scrivere per alleggerire dalla fatica del cammino le persone; grazie al testo, lo strumento del passatore, dalla riva della pesantezza a quella della leggerezza. Senza chiedergli permesso, ho approfittato della sua carità samaritana legando la pesantezza delle mie carte alla leggerezza delle sue.

Gratuitamente ho ricevuto; per quel poco che posso cerco di rigiocare quella gratuità ministeriale di Calvino, che mi ha risollevato e suscitato il senso. Scrivo per condividere i pesi di chi mi cammina accanto, in questa pesante pandemia, provando a offrirgli leggerezza tramite quel vangelo che mi porta mentre lo porto a lui. Scrivo dunque per unire due sponde, quelle della vita e quella della poetica del vangelo. E durante l’attraversata sulla barca, trovo un po’ di tempo per scrivere parole mie, salvate dalle acque dell’oblio, sillabate nell’umiltà delle parole del maestro che dice: «Il mio giogo è lieve, il mio peso leggero» (Mt 11,29). E vedremo strada scrivendo.

CONTRO VERSO
Mamma a sua insaputa 

 

Ci sono casi in cui è difficile mettersi nei panni degli altri. Come con questa signora, che un bel giorno è andata in ospedale per un “forte mal di pancia” e ha partorito una bambina che non sapeva di portare in grembo.

Mamma a sua insaputa 

Ma che sorpresa
la mia pancia tesa!

Che meraviglia…
C’era dentro una figlia!

Sì, nove mesi.
Siamo tutti sorpresi

Una guardata
mi avrà impressionata.

Ci penso tanto.
Che sia lo spirito santo?

Ma che disfatta,
sono proprio distratta.

A mia insaputa
questa bimba è venuta.

Eh, che parapiglia…
ho solo fatto una figlia!

Non è semplice credere che una donna possa arrivare al nono mese di gravidanza senza accorgersi di essere incinta, eppure accade. È davvero un mistero.
Così piena di emozioni è una gravidanza, ricca di sensazioni fisiche, punteggiata da visite e controlli, confermata dagli sguardi degli altri… così intima, relazionale e sociale, da non credere che possa sfuggire a ogni livello di consapevolezza, propria o altrui.

CONTRO VERSO, la rubrica di Elena Buccoliero con le filastrocche all’incontrario, le rime bambine destinate agli adulti, torna su Ferraraitalia  il venerdì. Per leggere i numeri precedenti clicca [Qui]

Bitcoin e criptovalute, la nuova bolla destinata a scoppiare

Una definizione di criptovaluta ci è attualmente offerta dalla normativa italiana (AML, V direttiva), che descrive la crittovaluta come una “rappresentazione di valore digitale che non è emessa o garantita da una banca centrale o da un ente pubblico, non è necessariamente legata a una valuta legalmente istituita, non possiede lo status giuridico di valuta o moneta, ma è accettata da persone fisiche e giuridiche come mezzo di scambio e può essere trasferita, memorizzata e scambiata elettronicamente.”

Avete presente i chip con cui giocate a poker, o che lanciate sul tavolo quando puntate alla roulette, o le banconote false del Monopoli, ammesso che giochiate a soldi veri? Immaginate di smaterializzare quell’oggettino, di renderlo un messaggio digitale – per riuscire a fare questo dovreste essere un informatico con un notevole fiuto e farvi chiamare Satoshi Nakamoto, che non è il vostro nome ma uno pseudonimo. Poi immaginate di riuscire a convincere un sacco di gente a pagare in bitcoin (la più celebre delle criptovalute) e a scambiarseli, con un meccanismo che non è tanto interessante dal punto di vista informatico, quanto economico, poichè si basa sul meccanismo della domanda e dell’offerta puro. Puro, in quanto la quantità di valuta (bitcoin) in circolazione è limitata a priori, inoltre è perfettamente prevedibile e quindi conosciuta da tutti i suoi utilizzatori in anticipo. Non che non cambi nel tempo: infatti si prevede che “asintoticamente” (concetto matematico che sconfina nella metafisica) la quantità di bitcoin in circolazione cresca fino ad avvicinarsi ad un limite progressivamente maggiore, ma senza mai raggiungerlo. Ipotizzando che la domanda di questa valuta cresca in maniera più che proporzionale rispetto alla sua disponibilità, il bitcoin subirà una deflazione del valore, ovvero un aumento del valore dovuto alla relativa e costante scarsità dell’offerta rispetto alla domanda.

Come è possibile che una scrittura contabile che non ha sotto di sè alcun valore reale (non dico dell’oro o di una moneta vera di riferimento, ma nemmeno quello di una frittola o di un bulbo di tulipano, per citare la prima grande bolla speculativa della storia), se non quello conferitole dall’incrocio tra domanda e offerta, sia legale? La risposta è semplice: è legale finché un’autorità non la dichiara illegale. Ma sarebbe comunque una rincorsa infinita, tipo quella della lotta al doping: quando scopri una sostanza e la vieti, il sistema ne ha creata un’altra, che viene usata al posto della precedente fino a che non viene dichiarata illegale, e così via. Anche perché è impossibile individuare e bloccare tutti i software capaci di generare criptovalute e conseguenti scambi economici. Una guerra persa in partenza.

Allora, perchè funziona? Funziona per ragioni che sono molto più psicologiche che economiche: chiunque può accedere ai bitcoin, e nessuno li può “stampare” a piacimento (almeno, fino a che il creatore del giochino non decide di cambiare la regola). Quindi in teoria il sistema coniuga il massimo della libertà al massimo della prevedibilità: l’unica variabile che influenza il valore del mio investimento è il fatto che ci sia sempre molta più gente che lo vuole comprare rispetto a chi lo vuole vendere. Ma bitcoin non è un investimento, è una speculazione. E chi specula, prima o poi vende per realizzare il guadagno delle propria speculazione. Per cui non si lamentino le migliaia di esercizi, attività commerciali, professionisti che accettano pagamenti in bitcoin, se un giorno il controvalore reale dei loro incassi non varrà un tubo. Perchè non c’è un regolatore, il regolatore è il mercato, puro. E’ democratizzazione della finanza, questa? No. E’ un terreno fertile per abili e disinvolti millennials o poco più che hanno colto l’affare nella sua fase ascendente, e detengono questi nulla che stanno fruttando loro un controvalore enormemente superiore a quello iniziale. Se Elon Musk investe 1,5 miliardi della sua cassa in Bitcoin (come in effetti ha fatto), il valore sale enormemente. Ma se lo stesso Elon Musk, così come chiunque detiene enormi quantità relative (rispetto al flottante in circolazione) di questi nulla, decidesse di vendere tutto all’improvviso, il valore crollerebbe. E’ già successo: nel 2017 si è passati in un amen da un valore unitario di 20.000 dollari a 3.000. Quindi altro che democrazia: il mercato non lo fanno i piccoli risparmiatori. I piccoli risparmiatori il mercato lo subiscono, come sempre. Quindi, non venite a lamentarvi con me se cadrete in disgrazia per colpa di questo delirio. Io vi avevo avvisato.

Pino Mango e una poesia che si intitola Coimbra

Io ho diciannove anni. “Rebecca ormai sei grande” mi dice sempre la zia Costanza. Mia sorella Valeria ne ha dodici e Enrico, il piccolo di casa, ne ha compiuto quattro.
Credo che una delle cose che la zia ha cercato di insegnarci in questi anni sia l’amore per la musica e per la poesia, per la storia e per quel poco di filosofia che può essere utile a dei bambini.
Fin da quando ero piccola facevamo il gioco delle rime. Lei diceva una frase e io dovevo concluderla con una rima:
“Il gatto si fece male alla testa” e io dicevo “perché volò dalla finestra”. Oppure lei diceva:    “C’è una striscia d’oro nel cielo” e io continuavo “sembra luccicante come un velo”. Oppure giocavamo alle rime tra le parole: “Cane” e “pane”, “Vento” e “tempo”, “fiore” e “amore”, “fratello” e “ombrello”.
Non so se siano giochi usuali ma a me piacevano e vedo che piacciono anche ai miei fratelli piccoli.
Enrico ama particolarmente le rime con i nomi degli ortaggi: “zucca” e “mucca” ,  “uva” e “clava”, “mela” e “ragnatela” e così via.

Oggi ho sentito in Tv un’intervista a Laura Valente, la ex moglie di Pino Mango, nonché cantante dei Matia Bazar per quasi dieci anni (dal 1990 al 1998). Oltre ad essere una bravissima cantante, Laura è una donna molto forte e determinata. L’ho sentita dire che ciò che riempie la sua vita e quella dei suoi figli è la poesia che ha lasciato loro Mango.
Le canzoni, le rime, la possibilità di ‘volare alto’ attraverso la poesia e la musica sono l’eredità che questo grande uomo, compositore e cantante, ha lasciato alla sua famiglia e di cui sua moglie si sente fiera e testimonial. Mango ha lasciato loro un modo di vivere che, abbracciando l’arte, diventa semplice, possibilista, aperto alla sorpresa e alla felicità. Un’arte aperta ai sogni e a ciò che di bello può succedere.
Filippo e Angelina Mango sono due musicisti eccellenti. Angelina canta e Filippo suona la batteria e altri strumenti. Molto talentuosi i ragazzi, figli di illustri genitori. I Mango senior (sulla terra o nei cieli) sono sicuramente contenti della scelta professionale dei loro figli perché l’hanno sempre considerata e tramandata come una strada per la felicità, come un modo, forse il migliore di tutti,  per andare via dalla tristezza del mondo e innalzare lo spirito verso la stella più vicina. Là c’è Orione.

Anche la zia Costanza, che considera Mango un poeta oltre che un bravo cantante, ogni tanto scrive poesie.  Dice che le sue sono opere “casalinghe”, che non hanno la pretesa di diventare famose. Basta che piacciano a noi tre, i suoi nipoti. Le altre migliaia di persone non contano nulla. E’ convinta che  se una poesia sia in grado di illuminare, anche solo per un attimo, la vita di un’unica persona, merita tutta la dignità della sua esistenza, del nome che l’identifica. Dice che non bisogna scrivere poesie per diventare famosi, ma per allietare le giornate delle persone che ci circondano, che ci vogliono bene, che sono la nostra famiglia (biologica o acquisita poco importa, ciò che importa è la qualità delle relazioni che si instaurano  e consolano).

Con questa premessa, e cioè che il suo scrivere poesie è esclusivamente finalizzato all’apprezzamento parentale, la zia scrive spesso senza pretese e senza alcun desiderio che altri leggano  le sue opere.
Lo scopo delle poesie della zia si esaurisce tra le mura domestiche. Sono parole che non vanno altrove, nessuno prova a mandarle ad un editore, a inviarle a una rivista, a postarle da qualche parte. Noi tre nipoti siamo gelosi dell’appartenenza, quasi esclusivamente nostra,  dei componimenti della zia. Ci sembrano più preziosi perché racchiusi nei cassetti dei nostri comodini. La poesia è sensibile come lo è chi la scrive e come deve esserlo chi la legge. Altrimenti diventa una qualunque lista di parole che serve solo a riempire cestini che vengono svuotati subito.

Una poesia che a me  piace particolarmente è stata scritta dalla zia di ritorno da un viaggio a Coimbra e si intitola appunto “Coimbra”.
Alcuni anni fa, tornata a scuola dopo la pausa estiva, ho descritto in un tema la vacanza della zia e ho trascritto la sua poesia (dopo averle chieste il permesso che mi ha concesso senza troppo entusiasmo e che non credo mai mi riconcederà. E’ stato un attimo di debolezza momentaneo che ha dato a “Coimbra” un po’ di visibilità).
Ho preso “appena sufficiente”, l’insegnante diceva che la poesia era sicuramente copiata. Ma da chi? Non lo sapeva, forse da un autore locale portoghese. Si sa i portoghesi con la poesia ci vanno a nozze. Pessoa, uno per tutti.

Le ho spiegato che la poesia era stata scritta dalla zia Costanza, ma non mi ha creduto, oppure ha creduto che era la zia stessa ad avermi imbrogliato e ad aver spacciato per sua una poesia di qualcun’altro. A quel punto è venuto un piccolo dubbio anche a me e mi sono messa a cercare ovunque. Di questa poesia non c’è traccia da nessuna parte. L’ha proprio scritta la zia per regalarla a me. L’insegnante non ci ha creduto, credo che sia ancora là che si arrovella alla ricerca del vero autore che secondo lei deve avere tutt’altro nome che Costanza Del Re. Siamo talmente abituati a conti, bollette, bilanci, rapporti scientifici che non riusciamo più a prendere in considerazione l’dea che ci sia ancora qualcuno che ama le parole baciate ed è in grado di scrivere poesie (almeno per le persone a lui care).
Eppure i grandi poeti sono importanti almeno quanto gli ingegneri, gli architetti,  i matematici e i medici. Attraverso la poesia possiamo  aprire le ali e garantire a noi stessi un senso dell’esistere che migliora i nostri respiri e i nostri attimi di pace, la nostra voglia di vivere.

Laura Valente dice che con Mango ha vissuto molti anni in mezzo alle note e alle parole  e che questo ha migliorato molto la sua vita.
Il grande regalo che Pino Mango ha lasciato a sua moglie è una poesia dentro la quale vivere e che le potrà tenere  compagnia per sempre, fin che vivrà. La poesia sopravvive a chi la scrive. Consola chi la ama. Un grande uomo non può che lasciare ai suoi amori delle poesie.
Pino Mango leggeva molto e tra i suoi autori preferiti c’erano: William Shakespeare, Eugenio Montale, Federico Garcia Lorca, Charles Baudelaire, Pablo Neruda e Nazim Hikmet. Poco prima di lasciare questa terra, ha inserito in una prefazione questo pensiero:
Non tutti amano la poesia, anzi alla maggior parte delle persone sembra non piacere affatto, però io credo che, il più delle volte, non si tratti di scarsa sensibilità verso questa nobile arte, quanto di una mancata abitudine all’analisi intima dei colori che da, all’arcobaleno dei sentimenti, la vera tonalità del vivere.”

“IO CREDO NEL MISTERO DELLE PAROLE”
Un ‘Uomo di Lettere’ e il destino di essere solo

 

di Rosario Castelli

«Ce ne ricorderemo di questo pianeta»: questa frase Leonardo Sciascia l’aveva letta probabilmente da giovane in un libro de Il Borghese di Leo Longanesi. Nei folgoranti frammenti di Parliamo dell’elefante, diario dei tumultuosi anni della guerra, dal 1938 al ’46, si legge infatti: «Usciamo. Nella piazza deserta stride una civetta e i nostri passi risuonano sul selciato come quelli di un’antica ronda. La luce dell’osteria si spegne e nelle larghe pozzanghere la luna lascia riflessi d’argento. “È triste il mondo, signori miei”, disse Stefano. “Non so chi, ma qualcuno ha detto: Ci ricorderemo di questo pianeta. Sì, ce ne ricorderemo!”».

Il racalmutese, che dell’Omnibus era stato precoce e assiduo lettore, e che all’insegna di Longanesi aveva fatto nascere le sue Favole della dittatura, di quella frase si sarebbe ricordato per tutta la vita. Tanto più al tramonto e quando, al di là della sua attribuzione a una precisa fonte letteraria, gli sarebbe risuonata in testa, con il senso del rimpianto di chi affida alla memoria del proprio passaggio sulla terra la delega in bianco di un’effimera sopravvivenza: il ricordo da un lato, dunque, l’hic et nunc dall’altro a illuminare una concezione che fa del mondo una necessità e una fatalità, l’approdo di un percorso che ha salde radici nel passato e investe, nel presente, tanto l’autore che i propri contemporanei. Ovvero come l’ultima deliberata contraddizione di un uomo dalla vocazione eretica e anticonformista e che, piuttosto, avrebbe voluto che sulla propria lapide campeggiasse la frase: «contraddisse e si contraddisse».

Questa condizione lo scrittore la incarna in Voltaire, prima di volgersi all’haiku di quel Villiers de l’Isle-Adam cui un altro degli auctores sciasciani – Jorge Luis Borges – aveva dedicato un volume della Biblioteca di Babele, definendolo uno specialista in «orrori morali».
Nel 1979, in un articolo per il Corriere della Se­ra, Sciascia definiva lo scrittore argentino «il più grande teologo del nostro tempo. Un teologo ateo. Vale a dire il segno più alto della contraddizione in cui viviamo» e che suona come una sorta di auto-definizione per il tramite di uno schermo, quello del letterato sudamericano che incontrerà a Roma l’anno dopo e che è un altro polo fondamentale in cui inquadrare la vocazione del siciliano al paradoxe di diderottiana memoria, al rovesciamento cioè di ogni verità accettata in verità che appaiono inaccettabili.
Un autore che gli apparirà come un ‘classico’, il «più significativo del nostro tempo, delle nostre vertigini», tornando frequentemente a citarlo e chiosarlo, elevandolo a modello di «filologiche e filosofiche in­dagini», di «misteriose ricostruzioni di dissepolti frammenti della storia e del pensiero umano», quali erano peraltro quelle di Sciascia stesso. E tuttavia analoghe e ben più forti sollecitazioni potevano giungere da altri scrittori come Luigi Pirandello e Alberto Savinio, trovando semmai un comune denominatore nell’idea, questa sì borghesiana, della Letteratura come unica forma di conoscenza possibile della realtà, di quella realtà i cui confini con la scrittura sono labili fino al punto di confondersi.

Era questa fiducia a fargli preferire la definizione di “uomo di lettere” a quella d’intellettuale, categoria quest’ultima segnata da una sostanziale indistinzione che finisce con l’accomunare figure eterogenee, legate tra loro da un malinteso senso di compromissione con la realtà. “Intellettuale” è vocabolo che si adatta al philosophe dell’epoca dei Lumi come al poeta romantico dalle pose titaniche, all’autore compagno di strada di un partito come al militante organico a un’ideologia. Ma Sciascia non era né Voltaire né Byron né Vittorini e nemmeno uno dei tanti corifei dell’imperante intellettualità liquida profetizzata da Zygmunt Bauman.
Se a un archetipo volessimo guardare, allora, il nome che ci viene in mente è semmai quello di Émile Zola, strenuo apostolo del primato della letteratura come strumento di smascheramento dei lati occulti della retorica dominante, assertore del principio secondo cui solo le lettere «regnano eternamente […] sono l’assoluto, mentre la politica è il relativo»: lo scrittore che usa le parole per diagnosticare i mali, senza pretendere d’imporre i rimedi che competono invece a chi governa, alieno da ogni fanatismo e detentore di un capitale simbolico che è unicamente quello della parola letteraria, con il proprio bagaglio di valori universali ed eterni.
Il modello che si afferma, a partire dall’affaire Dreyfus, mira a escludere la coazione all’impegno e a restituire al letterato una funzione, la stessa che saprà incarnare Pasolini, prima di Sciascia, ma con un sovrappiù di compromissione fisica ed energica eloquenza. È il privilegio di una Verità congetturale che detiene lo scrittore che, come scrisse nel famoso Romanzo delle stragi che si legge negli Scritti corsari, «cerca di seguire tutto ciò che succede, di conoscere tutto ciò che se ne scrive, di immaginare tutto ciò che non si sa o che si tace; che coordina fatti anche lontani, che mette insieme i pezzi disorganizzati e frammentari di un intero coerente quadro politico, che ristabilisce la logica là dove sembrano regnare l’arbitrarietà, la follia e il mistero».

La concezione della letteratura come intatto serbatoio cui attingere per trovare un senso anche all’insensatezza della Storia, Sciascia l’aveva formulata nel racconto Il Quarantotto laddove riconosceva nella scrittura «un modo di trovare consolazione e riposo; un modo di ritrovarmi, al di fuori delle contraddizioni della vita, finalmente in un destino di verità», un’accezione che traluce anche nelle parole del protagonista dell’Antimonio quando afferma: «Io credo nel mistero delle parole, e che le parole possano diventare vita, destino; così come diventano bellezza».
La letteratura non solo conosce la verità e la rispecchia, ma la redime, pacificandola nelle sue contraddizioni sicché «l’uomo, col suo cuore vivo, per la pace del suo cuore, può legare in armonia pietra e luce, ogni cosa alzare ed ordinare al di sopra di sé stesso».

È della capacità di opporsi al conformismo, di rinunciare al balsamo delle certezze accomodanti, di smascherare le imposture del Potere, di denunciare le funamboliche piroette del trasformismo, attraverso il contravveleno dei libri e di uno scrivere non compromissorio che parlano tutte le opere di Sciascia e di cui dicono le sue prese di posizione pubblica.
È questa prerogativa che lo accomuna ad autori come Pasolini con cui sconterà, soprattutto negli ultimi anni di vita, il destino di essere ‘solo’, non assoggettato al Potere, ma in grado di attingere all’«intatta e appagata musica dell’uomo solo», come si legge in Todo modo, dell’individuo cioè capace di valutare le cose nella loro immediata e semplice evidenza, interamente scevra dal pregiudizio ideologico, come il protagonista di Candido ovvero un sogno fatto in Sicilia, il cui candore non ha solo una valenza etica, ma soprattutto epistemologica.
Una virtù che accomuna un’ampia genealogia di sciasciani confréres letterari: dal professor Laurana di A ciascuno il suo al don Cecè Melisenda del Quarantotto, dall’avvocato Di Blasi del Consiglio d’Egitto all’eretico Diego La Matina di Morte dell’inquisitore o al bargello Matteo Lo Vecchio della Controversia liparitana. Tutti uomini di «tenace concetto», il cui candore divinamente incauto si realizza nella fede nelle proprie idee, nella pervicace resistenza al Potere, indipendentemente dal volto che può assumere, sia esso quello del fascismo, dello stalinismo, dell’Inquisizione o della semplice e metamorfica vischiosità dell’italico trasformismo.

Sarà per questa via che Sciascia potrà rivendicare alla letteratura la capacità di farsi documento del vero, di ergersi come valore superiore in un mondo in cui imperversano sterili disvalori e fallaci utopie, e nella sua ricerca pagò alla fine il prezzo di essere, come Pasolini, un uomo ‘solo’, isolato per le scomode prese di posizione che assunse in tema, per esempio, di terrorismo o antimafia.
Uno scotto necessario, un prezzo che, dirà lui, si dev’essere sempre pronti a pagare, come fu per i suoi più alti modelli d’impegno: il cattolico Georges Bernanos che scrisse contro il franchismo e l’André Gide di Ritorno all’URSS che anticipava di vent’anni quello che avrebbe detto Kruscev. Isolati, ma in un isolamento che, pur pesante, poteva riuscire persino redentorio e che gli faceva dire: «Ecco, a momenti io mi sento preso da questa specie di allegria. Sono criticato da destra e da sinistra. Segno che non servo né la destra né la sinistra».

Rosario Castelli è professore associato di “Letteratura italiana” presso il Dipartimento di Scienze Umanistiche dell’Università degli Studi di Catania

Sulla figura e l’opera di Leonardo Sciascia leggi su Ferraraitalia:
Sergio ReyesUN ILLUMINISTA IN SICILIA : Attualità di Leonardo Sciascia a 100 anni dalla nascita [Qui]
Giuseppe TrainaDENTRO IL GIALLO : I personaggi di Sciascia e Simenon davanti al potere [Qui]
Roberta Barbieri
, RICORDANDO SCIASCIA : Una storia semplice [Qui]
Rosalba Galvagno
IL MAESTRO E IL GIOVANE ESORDIENTE : La corrispondenza tra Leonardo Sciascia e Vincenzo Consolo [Qui]
Giuseppe Giglio“Ce ne ricorderemo, di questo pianeta” [Qui]

In copertina:Totò Bonanno: Ritratto di Leonardo Sciascia,1986 (wikimedia commons)

Parole a capo
Patrizia Benetti: “Questo cielo scalzo” e altre poesie

“E’ responsabilità del poeta essere donna, non perdere d’occhio il mondo e gridare come fece Cassandra, ma per farsi ascoltare, questa volta.”
(Grace Paley)

Questo cielo scalzo
di vento e nuvole
celeste e albicocca
dominato dal sole
blu intenso
come carta di Presepe
nero come pece
trapunta di stelle
rabbioso e incolore
di pioggia e tuoni
se lo perdoni
ti regala arcobaleni

 

L’albero
china il capo
e danza al ritmo
di un vento bizzarro.
Tempo tiranno
sabbia nella clessidra
fragili vite.
Un nostalgico tramonto
brilla negli occhi
di un vecchio stanco.
La luna raccoglie
le sue lacrime
e le trasforma in stelle.

 

Il mio domani
nelle mie mani
nel sibilar del vento
il mio tormento
nella tiepida sera
la mia primavera
nella tua carezza
la mia tenerezza
nel riverbero del sole
gioia e calore
e poi chissà
solo il tempo lo dirà.

 

I miei versi tristi
Li ho lasciati al vento.
Rincorro un raggio di sole.

 

Bevvi l’ebrezza
della mia giovinezza
di giorni assolati
di mari salati
stelle gemelle
notti in spiaggia
luna gigante
tu occhi di diamante.
Canzoni urlate
a volte stonate
risate sincere
amici vicini
ora lontani
sogni giganti
molti infranti.
imperfetti
astratti.
Vissi l’incanto
della mia giovinezza.

Patrizia Benetti
Ferrarese, educatrice professionale, classe 1961. Nel 2012 ha pubblicato: Racconti Neri, Este Edition, classificatosi secondo al Premio Nazionale di narrativa Oubliette. Altri titoli: La vendicatrice, Il direttore d’orchestra, La danza dei delfini, La Sirena edizioni. Lontano dagli occhi (romanzo), Mezzelane editrice, 2019. Amore smemorato, Delos Digital, 2020. Nel 2021 è uscito l’ebook Incubi, contenente tre racconti, Ali Ribelli editore e Delitto in castello, PAV edizioni.

La rubrica di poesia Parole a capo curata da Gian Paolo Benini e Pier Luigi Guerrini esce regolarmente ogni giovedì mattina su Ferraraitalia. Per leggere i numeri precedenti clicca [Qui]

LE PAROLE PROIBITE:
Riduzione dell’Orario di Lavoro

 

“Turni di tre ore e settimana lavorativa di quindici ore sono alla nostra portata da qui al 2030″.
Così si esprimeva l’illustre economista John Maynard Keynes nel 1930, in una celebre conferenza tenuta a Madrid, diventata nota sotto il titolo “Prospettive economiche per i nostri nipoti”. Com’è noto, Keynes non era un sovversivo incendiario, bensì più modestamente un sostenitore della necessità di una riforma del capitalismo, da non lasciare semplicemente in balia dell’ideologia del libero mercato capace di autoregolarsi. Da buon borghese e liberale illuminato, era fiero oppositore del comunismo, e in particolare dell’esperienza che era in corso in Unione Sovietica, e credeva fermamente, anche nei tempi della Grande Depressione degli anni ‘30 del secolo scorso, al ruolo progressista del capitalismo, purché opportunamente reindirizzato.

La storia ha preso un’altra strada e, comunque, in questo caso della riduzione dell’orario di lavoro, purtroppo la smentita dei fatti appare inequivocabile. E non certo perché non fosse suffragata da basi economiche solide, ancorché un po’ grossolane, esposte dallo stesso Keynes, e cioè che grazie ad una continuità dei tassi di accumulazione del capitale e di crescita della produttività, nell’arco di cento anni, dal 1930 al 2030, il tenore di vita sarebbe cresciuto da 4 ad 8 volte, rendendo possibile quella forte riduzione di orario; e consentendo l’uscita dal regno della necessità economica, così che l’uomo si sarebbe trovato di fronte “…al suo vero, costante problema: come impiegare la sua libertà dalle cure economiche più pressanti, come impiegare il tempo libero che la scienza e l’interesse composto gli avranno guadagnato, per vivere bene, piacevolmente e con saggezza”.

Effettivamente la crescita economica dal 1930 ad oggi ha sostanzialmente verificato l’ipotesi di Keynes, visto che, a livello mondiale, il PIL è cresciuto di circa 4 volte nei Paesi ricchi, quelli ai quali Keynes si riferisce di quasi 5 volte. Per la riduzione dell’orario di lavoro le cose sono andate diversamente: dal 1870 al 1930 l’orario di lavoro, nei Paesi ricchi, si riduce in modo più significativo che dal 1930 ad oggi. Dicendolo in termini schematici, si passa da più di 60 ore settimanali di fine ‘800 a circa 50 ore nel 1930 e un po’ meno di 40 ai tempi nostri. Peraltro, tali riduzioni sono scandite da un lungo ciclo di lotte del movimento operaio, che fa della riduzione dell’orario di lavoro, assieme al controllo sulla produzione e sull’organizzazione del lavoro, gli assi portanti di tutta la storia del movimento dei lavoratori nel ‘900.
Liberazione dal lavoro e liberazione del lavoro vanno a braccetto, almeno nelle elaborazioni e nelle pratiche più avanzate che si costruiscono in questo contesto. “Otto ore di lavoro, otto di svago, otto per dormire”  fu la parola d’ordine, coniata in Australia nel lontano 1855, e condivisa da gran parte del movimento sindacale organizzato del primo Novecento.

All’inizio del Novecento l’Occidente conosce le prime leggi che riducono l’orario di lavoro. In Italia, nel 1919 l’accordo tra la Fiom e la Federazione degli Industriali Metallurgici fissa l’orario di lavoro settimanale a 48 ore e questo diventerà il riferimento per il decreto del 1923 che estende i termini dell’accordo all’insieme della forza lavoro. Poi, da allora, le battaglie per la riduzione dell’orario di lavoro vanno avanti in modo alterno, fino ad arrivare al ciclo delle lotte operaie della fine degli anni ‘60 – inizio anni ‘70, quando, per stare all’Italia, si raggiungono le 40 ore settimanali.
Da quel momento, sembra inaugurarsi un lungo silenzio che perdura sino ai nostri giorni: non che non succeda nulla, ci sono diversi accordi aziendali che arrivano anche a sancire le 32 ore settimanali, nel 1995 il settore metalmeccanico tedesco approda alle 35 ore, nel 1998 la Francia vara una legislazione che riprende quello stesso risultato, ma esse appaiono più il prodotto di condizioni specifiche – un forte sindacato in Germania, uno degli ultimi tentativi di un governo di sinistra in Francia – che non l’affermarsi di una linea di tendenza forte e duratura. Tant’è che, in nome della flessibilità, entrambe queste soluzioni vengono messe in discussione negli anni successivi, assestandosi in una logica di orari medi plurisettimanali e soggetti all’andamento della congiuntura economica. Solo in questi ultimi tempi sembra si riapra uno spiraglio per tornare a discutere del tema.
Nel frattempo, poi, molte cose sono cambiate in profondità nel mondo del lavoro: sotto la spinta delle trasformazioni degli ultimi decenni, esso si è frammentato, disperso e articolato in una pluralità di figure, la precarietà è diventata una forma ‘normale’ di lavoro, è tramontata per tutti la ‘sicurezza’ del lavoro a tempo indeterminato, il capitalismo delle piattaforme ha riproposto il lavoro a cottimo e persino quello gratuito e ha dilatato e flessibilizzato, al di fuori di qualunque regola, lo stesso orario di lavoro.

Ma, per tornare al punto focale del ragionamento, perché la “profezia” di Keynes, nonostante i suoi fondamenti economici, non si è realizzata?
La risposta è abbastanza semplice: il capitalismo, nella sua versione neoliberista e del dominio della finanza, a partire dagli anni ‘80 del secolo scorso, ha costruito un’enorme redistribuzione dei redditi e della ricchezza, dai ceti bassi a quelli alti, dal lavoro ai profitti e alla rendita.
Nei Paesi più ricchi, nel 1975 il 15-25% dei redditi andava a profitti e rendite e il restante 75-85% al lavoro, mentre nel 2010 la quota dei profitti e delle rendite è cresciuta di circa 10 punti percentuali, assestandosi tra il 25 e il 35%: di fatto tutti gli incrementi di produttività, e forse anche qualcosa di più, sono andati in quella direzione, a detrimento dei redditi da lavoro. Come ha avuto modo di dire Warren Buffett, multimiliardario e protagonista della finanza, “è in corso una lotta di classe, è vero, ma è la mia classe, la classe ricca, che sta facendo la guerra, e stiamo vincendo”.
C’è inoltre una ragione, probabilmente ancora più profonda, che sta alla base di quel mancato percorso e che ha provocato anche la nuova disuguaglianza, e cioè che il capitalismo neoliberista ha ricostruito la concorrenza tra i lavoratori e  un ‘esercito di riserva’ che la alimenta, di cui ha strutturalmente necessità: altrimenti succede, come si è verificato nel corso degli anni ‘70 del Novecento, che con la piena e buona occupazione, il potere contrattuale del lavoro aumenta, si innalzano i salari e si riduce l’orario di lavoro e si comprimono i profitti. Una delle condizioni che, appunto, ha fatto scattare la controffensiva neoliberista.

In ogni caso, i motivi per riproporre oggi una significativa riduzione dell’orario di lavoro in pochi anni, per esempio a 30 ore settimanali a parità di salario – assieme a politiche per il lavoro che raggiungano la piena e buona occupazione e all’istituzione di un reddito incondizionato di base – ci sono tutti e, anzi, si sono rafforzati.
La rivoluzione tecnologica in corso distrugge più posti di lavoro
di quanto sia in grado di crearne di nuovi, propone l’ “economia dei lavoretti” sottopagati e privi di diritti, la stessa pandemia apre l’interrogativo rispetto alla messa in campo di un nuovo modello produttivo e sociale. Tornano a sentirsi, anche se troppo flebili, voci che guardano alla prospettiva della riduzione dell’orario di lavoro: dal sindacato inglese a quello tedesco, dal governo spagnolo a quello finlandese.
Spiace constatare l’assenza totale di voci dal nostro Paese: silenti i sindacato confederali, mentre è, ovviamente, chiedere troppo che il ‘beatificato’ nuovo Presidente del Consiglio dica qualcosa in proposito ( ma non era keynesiano?). Non resta che confidare in un sussulto di coscienza, organizzazione e mobilitazione dei tanti, che ci sono anche in Italia, e che ragionano sul nuovo mondo da costruire, non più fondato sul profitto ma sulla cura reciproca.

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Insegnami la tempesta
Il rapporto conflittuale tra madre e figlia nell’ultimo romanzo di Emanuela Canepa

Le viscere dell’amore materno non si arrendono, nemmeno di fronte al respingimento di una figlia che sceglie come vuole essere. Insegnami la tempesta, Einaudi, di Emanuela Canepa è un libro in cui l’essere madre è continuo sgretolamento di certezze, è un vento contro che ti investe della diversità di una figlia che si allontana. Lo sguardo della giovane Matilde perde di intensità verso la madre Emma, la ragazza si stacca e, in un enigma che starà a Emma risolvere, cresce. “Non capisco cosa le ho fatto”, si chiede Emma, niente verrebbe da suggerirle, se non la fatica di inseguire una figlia che chiede autonomia, comprensione del suo essere altro da chi l’ha messa al mondo.
Lo scontro fra le due donne diventa il conflitto tra personalità diversissime il cui reciproco riconoscimento, per il legame di sangue che lo sottende, deflagra generando chiusura, soprattutto da parte della giovane Matilde. Verso Emma, la ragazza pone confini netti e glaciali, silenzi, fuga.
Il senso di colpa di Emma è polimorfico, riconduce a sé il carico degli insuccessi in quanto figlia e madre, della non corrispondenza tra come le cose sono andate e come tutti si aspettavano che sarebbero andate.
Emma vede Matilde imboccare le strade che più la possono portare distante, fino all’antitesi, cioè a una persona del passato con cui Emma aveva chiuso e da cui Matilde si rifugia. Tra i rivoli dispersi, si muove Matilde eleggendo proprio quella vecchia amicizia di Emma, Irene, donna a cui consegnare il proprio dolore. Matilde, cercando di tutelare se stessa in un momento di grandi scelte personali, contribuisce a imprimere una svolta al vecchio rancore di Emma che si domanda se abbia ancora senso provarlo o se, invece, sia arrivato il momento di un cambio di passo.
Il cambiamento riguarderà anche altro nella vita di Emma e nel suo avvicinarsi a Matilde: una madre può arrivare a vedere la forma dell’ingombro che si è messo in mezzo tra lei e la figlia e solo allora può riuscire a stare un passo indietro e lasciarla andare.

Emanuela Canepa presenterà Insegnami la tempesta venerdì 26 febbraio alle 21 in diretta sulla pagina Facebook del Microfestival delle storie  [Qui] e su quella di Ferraraitalia [Qui].
Dialoga con l’autrice Riccarda Dalbuoni.

ELOGIO DEL PRESENTE
Il virus della solitudine

 

In questo lungo anno che abbiamo alle spalle abbiamo tutti sperimentato la fatica della solitudine. La solitudine può far male anche sul piano fisico. Da questa considerazione scaturiscono le iniziative che in diverse aree del mondo hanno costruito presidi per fronteggiare il problema. La solitudine è spesso un’epidemia nascosta che può colpirci in momenti di fragilità, quando si cambiano le proprie abitudini, ci si trasferisce in una nuova città o si affronta una separazione. Sentirsi soli può aumentare le probabilità di ammalarsi e di ridurre la capacità di combattere le infezioni virali.

Le persone sole possono anche sovraccaricare il sistema sanitario, facendo più ricorso all’assistenza. La politica di tagli alle politiche assistenziali e della salute non producono più equità ma emarginazione. Il danno della solitudine è difficile da curare. La solitudine non è solo un problema per le persone anziane, ma anche per le giovani generazioni, che pur legate ai dispositivi multimediali, hanno una scarsa coesione emotiva.

E in Italia? Secondo Eurostat, un italiano su otto si sente solo perché non ha nessuno a cui chiedere aiuto, non ha un amico, né un familiare con cui sfogarsi. I dati si riferiscono al 2015: il 13,2% degli italiani sopra i 16 anni sostiene di non avere una persona a cui chiedere aiuto, l’11,9% non ha qualcuno con cui parlare dei propri problemi. Dunque, la solitudine non colpisce solo gli anziani, anzi nessuna età è immune ad essa. Una recente indagine sulla popolazione dai 16 anni in su dell’UE segnala che il 6% della popolazione dell’UE non ha nessuno a cui possa chiedere aiuto in caso di bisogno.

La solitudine sta rapidamente diventando uno dei problemi sociali più importanti e insidiosi. Le conseguenze sono pesantissime per il benessere psicofisico di chi ne soffre. È stato dimostrato che l’isolamento sociale ha un effetto dannoso alla salute quanto l’obesità e il fumo di 15 sigarette al giorno. La solitudine è infatti associata alla riduzione dell’aspettativa di vita, problemi cardiaci e demenza senile. Di solitudine, insomma, si muore.

Cambiamenti demografici, tecnologia, inurbamento, famiglie e comunità che si allontanano geograficamente ed emotivamente, sono tutti elementi che contribuiscono a rendere il problema dell’isolamento sociale sempre più diffuso. Nel Regno Unito oltre 1,2 milioni di persone soffre di solitudine cronica Nella fascia di età tra 18 e 34 anni si riscontra la quota più alta di chi dichiara di patire per un senso di isolamento.
Gli italiani avvertono sempre di più il peso della solitudine, un sentimento capace di depotenziare il capitale sociale. L’epidemia acuisce la sensazione di isolamento.

Dopo mesi di lockdown più o meno totale, di misure di distanziamento, di raccomandazioni a non frequentare troppe persone, a limitare gli spostamenti, a ridurre al minimo le occasioni di incontro, psicoterapeuti discutono le conseguenze della cosiddetta ‘Covid fatigue’ e del ribaltamento della vita quotidiana. Per mesi, gran parte delle persone non ha visto che i propri partner, forse qualche familiare più stretto, il resto è stato affidato a videochiamate e altri canali di comunicazione. Adesso uno studio del Massachusetts Institute of Technology di Boston spiega che l’isolamento e la solitudine provate in questi mesi condividono una base neurale col desiderio di cibo che proviamo quando abbiamo fame. Inoltre diverse ricerche hanno associato la solitudine a un maggior declino cognitivo e a un più rapido deterioramento dello stato di salute. Uno studio appena pubblicato su JNeurosci, mostra che la solitudine ‘altera’ il cervello, modificandone le connessioni e la rappresentazione delle relazioni.

Un lavoro, pubblicato nel 2017 sulla Psychological Science Agenda, ha mostrato che la solitudine è tipicamente associata a depressione, declino cognitivo e maggior rischio di insorgenza di demenza e ipotizzando che possa essere collegata a una disfunzione nei circuiti di ricompensa del cervello.

Negli ultimi tempi, quando il lockdown ha imposto un regime di solitudine forzata, la comunità scientifica ha esplorato ulteriormente il tema. A marzo un’équipe di scienziati del Massachusetts Institute of Technology, che la solitudine da quarantena scatena nel cervello una sorta di astinenza simile a quella provocata dalla fame.
Mantenere le relazioni in questi lunghi mesi di Covid farà bene alla nostra salute.

Per leggere tutti gli articoli di Elogio del presente, la rubrica di Maura Franchi, clicca [Qui]

PACE, NONVIOLENZA, DIRITTI UMANI, ACCOGLIENZA
Quelle parole dimenticate da Mario Draghi

 

di Alan Turquet

Con una scontata e schiacciante maggioranza il nuovo governo italiano, presieduto da Mario Draghi, si appresta a mettersi al lavoro.
Nel presentare la natura del suo governo il Presidente del Consiglio ha detto, nel suo discorso al Senato:
“Nel rispetto che tutti abbiamo per le istituzioni e per il corretto funzionamento di una democrazia rappresentativa, un esecutivo come quello che ho l’onore di presiedere, specialmente in una situazione drammatica come quella che stiamo vivendo, è semplicemente il governo del Paese. Non ha bisogno di alcun aggettivo che lo definisca. Riassume la volontà, la consapevolezza, il senso di responsabilità delle forze politiche che lo sostengono alle quali è stata chiesta una rinuncia per il bene di tutti”.
Allora la domanda diventa, necessariamente, il governo di quale paese?
Cercherò di rispondere alla domanda, basandomi su quanto detto dal Presidente nel medesimo discorso, dal punto di vista delle cose di cui si occupa la nostra agenzia: la pace, la nonviolenza, i diritti umani, la nondiscriminazione.

La pace
La parola “pace” non è presente nel discorso di circa un’ora. In compenso l’Alleanza Atlantica è citata tre volte. Cosa significa in concreto? Gli è capitato per sbaglio? No,significa che possiamo scordarci una ridiscussione dell’acquisto di F-35 o di firmare il Trattato di Proibizione delle Armi Nucleari, alcune delle priorità condivise dalla totalità dei pacifisti italiani. Il paese che chiede la riconversione dell’industria bellica, quello del rispetto dell’articolo 11, quello del disarmo nucleare non è nemmeno citato.

La nonviolenza
Il discorso fa riferimento a valori: nel solco delle grandi democrazie occidentali, a difesa dei loro irrinunciabili principi e valori”. Temiamo che i valori del “fachiro nudo”, come lo chiamava Churchill appartengano ad altre culture ed altri valori che l’ex-presidente della BCE non aggiunge al suo valore centrale “l’irreversibilità della scelta dell’euro”. In ogni caso la parola “nonviolenza” nemmeno appare nel discorso.

Diritti Umani
Ci crederete? Nemmeno “diritti umani” appare nel discorso. E quando si citano numerosi interessi e paesi che in qualche modo preoccupano il nuovo governo l’Egitto non appare nella lista. A dire la verità la parola “diritti”, almeno, appare quattro volte; una volta per prendersela con la Russia ed altri generici paesi dove si violano i diritti, altre tre  per parlare genericamente dei diritti dei cittadini, dei giovani e dei rifugiati.

Nondiscriminazione
“Altra sfida sarà il negoziato sul nuovo Patto per le migrazioni e l’asilo, nel quale perseguiremo un deciso rafforzamento dell’equilibrio tra responsabilità dei Paesi di primo ingresso e solidarietà effettiva. Cruciale sarà anche la costruzione di una politica europea dei rimpatri dei non aventi diritto alla protezione internazionale, accanto al pieno rispetto dei diritti dei rifugiati”.

Questo l’unico paragrafo, inserito nella parte di politica estera, dove si parla del tema immigrazione. Un po’ generico, sibillino e abbastanza poco. Integrazione? Diritto di cittadinanza? Centri di Detenzione?
Almeno Conte ci consolava con le sue pompose quanto retoriche citazioni del Nuovo Umanesimo. Qua non pare che si voglia uscire da una gestione manageriale ed emergenziale della pandemia, da un radicale riaggiustamento economico e fiscale a cui sembrano sottomessi anche l’interesse per l’ambiente, per i giovani, per la parità di genere che il discorso cita.
Così un governo che sembrava emergenziale ha un programma che vuole esplicitamente andare oltre l’emergenza, che parte dalla pandemia (senza cambiare né il Ministro né lo staff che ha lavorato finora), per un programma economico e fiscale abbastanza complesso; l’altra priorità richiesta con forza dal Recovery Plan, la transizione ecologica, ha già fatto rizzare i capelli in testa a tutti gli ecologisti vecchi e nuovi  per due motivi: la vaghezza delle funzioni del nuovo Ministero della Transizione Ecologica (più o meno il Ministero dell’Ambiente con qualche delega in più) e la scelta di mettervi a capo Roberto Cingolani, tecnocrate implicato in aziende  non particolarmente ecologiche come Ferrari e, soprattutto, Leonardo.

Infine il Governo Draghi è a un soffio dal record assoluto di appoggio unanime: all’opposizione resteranno uno sparuto gruppo di parlamentari di Fratelli d’Italia, di Sinistra Italiana e dei dissidenti del Movimento 5 Stelle che per altro detiene il record di aver partecipato a tutti e tre i governi della legislatura. Questo unanimismo apparente, giustificato con l’urgenza, sembra tristemente preludere alla nascita del Nuovo Partito, il PB, il Partito della Banca; ma soprattutto preludere anche alla fine della democrazia parlamentare, con le conseguenze del caso.
Molta “società civile” tace in attesa del miracolo; i movimenti sociali cominciano le loro proteste limitate dalla pandemia. A me pare che il caos avanzi e che non manchi molto per vederne i risultati. Conviene rimboccarsi le maniche.

NOTE
Olivier Turquet  scrive per raccontare la realtà da circa 40 anni. Ha collaborato con testate cartacee, radiofoniche ed elettroniche tra cui ama ricordare Frigidaire, Radio Montebeni, L’Umanista, Contrasti, PeaceLink, Barricate, Oask!, Radio Blue, Azione Nonviolenta, Mamma!. Ha fondato l’agenzia stampa elettronica umanista Buone Nuove e il giornale di quartiere Le Bagnese Times. E’ stato addetto stampa di svariate manifestazioni come: l’Internazionale Umanista, Firenze Gioca, la Marcia Mondiale per la Pace e la Nonviolenza. Attualmente coordina la redazione italiana di Pressenza.

Il presente articolo è stato recentemente pubblicato, con altro titolo, nella agenzia internazionale pressenza.com

In copertina: Il discorso programmatico di Mario Draghi alla Camera  (Foto governo.it)

SCHEI
Alex Schwazer è pulito, lo sport è sporco

 

“Alex Schwazer è un marciatore italiano, campione olimpico della 50 km a Pechino 2008. Dopo essere risultato positivo ad un controllo anti-doping alla vigilia dei Giochi olimpici di Londra 2012, venne squalificato dal Tribunale Nazionale Antidoping fino al 29 aprile 2016. Rientrato in attività in occasione dei Mondiali a squadre di marcia 2016, vince la 50 km ottenendo la qualificazione per i Giochi olimpici di Rio de Janeiro 2016. Il 22 giugno 2016 viene comunicato alla Fidal che Schwazer risulta nuovamente positivo ad un controllo anti-doping su un campione di urine prelevatogli in un controllo a sorpresa il 1º gennaio 2016 (la sostanza dopante sarebbe testosterone). Per questo la IAAF(Federazione Internazionale di atletica leggera) decide di sospenderlo in via cautelare in attesa della decisione finale. Il 10 agosto 2016 il TAS (Tribunale Arbitrale dello sport), considerata la seconda violazione delle norme antidoping, squalifica l’atleta per 8 anni. Come diretta conseguenza della squalifica, oltre a non poter partecipare ai Giochi olimpici di Rio 2016, tutti i suoi risultati sportivi del 2016 sono stati cancellati. Nei mesi immediatamente successivi emergono sospetti di un complotto ai suoi danni, anche grazie ad un’indagine condotta dal quotidiano La Repubblica, che danno via a delle indagini ufficiali dei RIS di Parma su indicazione del PM incaricato. Nel febbraio 2021 viene disposta l’archiviazione del procedimento penale ai danni dell’atleta per “non aver commesso il fatto”. (cit. Wikipedia).

In questi casi adoro Wikipedia. E’ capace di condensare in poche righe di esordio la parabola fondamentale del personaggio descritto, senza divagazioni inutili e senza troppi dettagli (a quelli si dedica nelle righe successive). Io quel 22 giugno 2016 me lo ricordo, nonostante di solito non ricordi nessuna data. Me lo ricordo perché pensai: cavolo, ci è cascato di nuovo, dopo lo psicodramma pubblico del 2012 nel quale ammise, in una confessione che mi apparve degna di un eroe tragico greco, di essersi dopato. E me lo ricordo, il 22 giugno 2016, perché pensai: ma come ha potuto farlo ancora? Come ha potuto ricaderci, dopo la catarsi pubblica attraversata durante il primo episodio? Perché io gli credetti, allora, nell’estate del 2012. Credetti alla tragedia intima della persona, alle parole amare con le quali raccontò delle ragioni del suo errore: dolore (anche fisico), esaurimento nervoso, nausea, angoscia da prestazione alimentata dalle enormi aspettative di sponsor, federazioni, burocrati che costruiscono rendite di potere sulle vittorie sportive. Credetti alla sincerità della sua confessione, certo che lo avrebbe trasformato da eroe negativo a persona normale, con l’unica incertezza legata all’abisso di depressione e ludibrio che si trovava ad affrontare, e dal quale mi augurai si riprendesse anche con la vicinanza dei suoi cari – cosa che purtroppo non funzionò per Marco Pantani, altra vittima illustre dello sport, quando lo sport è ghermito e schiacciato da una montagna di aspettative, interessi, loschi affari, e con lui l’eroe da Domenica del Corriere, stupefacente grimpeur tra le urla della folla nei tornanti, ma fragile e solo nelle stanze d’albergo.

Il 22 giugno 2016 provai una grande delusione, più per me che per lui, perché pensai che mi ero fidato di una sensazione percepita attraverso uno schermo televisivo, che stupida illusione. Oggi scopro che non mi sbagliavo: la seconda volta, Alex Schwazer non si era dopato. Era (è) caduto vittima di un enorme imbroglio internazionale ordito su mandato o con la complicità di IAAF(la Federazione Internazionale di Atletica) e WADA (l’ Agenzia Mondiale Antidoping). Gli hanno alterato la provetta. Il gip di Bolzano, Walter Pelino, nel disporre l’archiviazione dell’accusa nei suoi confronti, afferma “con alto grado di credibilità razionale che i campioni d’urina prelevati ad Alex Schwazer il primo gennaio 2016 siano stati alterati allo scopo di farli risultare positivi e, dunque, di ottenere la squalifica ed il discredito dell’atleta come pure del suo allenatore, Sandro Donati”.

Quando l’agenzia mondiale antidoping trama in questo modo per far sembrare drogato un atleta, è come se Babbo Natale arrivasse in casa tua la sera della Vigilia mentre tu, che avrai tre anni, lo aspetti trepidante, si togliesse davanti a te barba e vestito rosso, si mostrasse per quel mostro che è in realtà e ti ghignasse sguaiato in faccia che è tutto un trucco, appiccando il fuoco ai pacchi regalo davanti ai tuoi occhi. Così, per il gusto di mostrarti che il bene è il male, e che forse, quindi, il male è il bene.

Nessuno mi toglie dalla testa che questa porcata è stata ordita non solo ai danni di Schwazer, ma anche contro Sandro Donati, l’allenatore che ha dedicato la vita alla lotta contro il doping nello sport, e che nel 2015 era diventato anche l’allenatore di Alex Schwazer. Quanti nemici si è fatto Donati nel corso della sua carriera, da quando a metà anni ottanta ha iniziato a denunciare il dilagare del doping nell’atletica, nel ciclismo e nel calcio? Tanti, a giudicare dall’enormità di quanto è successo (Donati per un periodo è stato egli stesso consulente della WADA). Del resto è proprio Donati ad affermare alla stampa che in questi 5 anni lui ed il suo atleta sono stati lasciati soli ad affrontare, come Davide, il Golia dei vertici corrotti dello sport mondiale.

Cosa c’entra il denaro, gli schei, con questa storia? C’entra eccome. I soldi c’entrano sempre. Dice sempre Donati: “Iniziai presto a capire che la radice del problema era la corruzione delle istituzioni. Forse all’inizio era un misto tra corruzione e scarsa consapevolezza. Ma negli anni successivi no. Gli effetti nocivi degli anabolizzanti e delle emotrasfusioni furono presto noti, ma non ci si fermò. Si trattava di istituzioni consapevoli e deliberatamente orientate alla ricerca del risultato ad ogni costo. Quello è stato un passaggio sconcertante, ho iniziato a dubitare delle mie scelte di vita. Ero dipendente del Coni e della federazione di atletica, come potevo andare avanti con questa gente? Presi subito posizione, forse anche con una certa ingenuità perché le mie sole forze non erano abbastanza. Mi resi presto conto dell’aggressività che le mie esternazioni suscitavano: ero quello che sputava nel piatto dove mangiava, che non si faceva gli affari propri. Tutti traevano vantaggio dal doping: le gare bisognava vincerle “.

Tutto questo sistema è funzionale alla creazione di un eroe invincibile, un personaggio sportivo con il quale riempire i giornali e vendere prodotti per anni, attraverso la sua immagine. E finché quello è il cavallo su cui puntare, potete stare tranquilli che nessuno lo toccherà, perché porta biada per tutti. Guardiamo alla vicenda di Lance Armstrong: ha vinto per sette anni consecutivi il Tour de France, dal 1999 al 2005. In quegli anni, nonostante le chiacchiere sulla reale natura delle eccezionali prestazioni sue e della sua squadra, la US Postal (a posteriori, Armstrong ammetterà di aver iniziato a doparsi dal 1993), non è mai incappato in un controllo che lo beccasse in flagrante. Dopo un primo ritiro, Armstrong si ripresentò nel 2009 con l’intenzione di rivincere il Tour, ma nel frattempo il cavallo su cui il sistema puntava e investiva era diventato Alberto Contador. Quando esci dal giro pulito e satollo e poi pretendi di rientrarci come se, nel frattempo, il giro non ti avesse rimpiazzato, il sistema non ti perdona. A quel punto le malefatte di Armstrong vennero prodigiosamente a galla tutte insieme, fino a provocare la revoca ex post di buona parte del suo palmares. Parliamo di un uomo che afferma lui stesso di essersi ammalato di cancro ai testicoli a causa, probabilmente, delle massicce dosi di ormone della crescita assunte nella prima parte della sua carriera. E’ naturale pensare che la sua impunità da cavallo vincente e la sua flagranza da invecchiato campione a caccia di revanche siano le due facce della stessa sporca medaglia. 

Adesso mi auguro che Alex Schwazer, che ha continuato ad allenarsi e ad allenare in questi anni bui, che ha subito l’onta dell’ignominia pubblica, atleta al quale è stata sbriciolata tutta la seconda parte della sua carriera sportiva, possa disputare le Olimpiadi di Tokyo. Non credo che potrà battere i cinesi, che sono l’equivalente contemporaneo, nella marcia, di quello che fu la Germania Est dell’atletica e del nuoto negli anni ’70. Non credo che la sua molla sia rappresentata da un obiettivo così irraggiungibile. Credo invece che gareggiare in mezzo al gruppo, nella sua ultima olimpiade, da atleta pulito che non potrà mai vincere contro un sistema sporco, davanti al mondo che lo ha messo alla gogna, potrà restituirgli un briciolo della dignità violata. Quanto al luridume di un apparato che sacrifica tutto, compresa la salute degli atleti, sull’altare della vittoria ad ogni costo, è appena il caso di dire che rappresenta il paradigma di un sistema che innerva tragicamente ogni campo della vita sociale.       

 

 

PER CERTI VERSI
Tu non mi annoi mai

Ogni domenica Ferraraitalia ospita ‘Per certi versi’, angolo di poesia che presenta le liriche del professor Roberto Dall’Olio.
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TU NON MI ANNOI MAI

Tu
Non mi annoi mai
Io la avverto la noia
Spesso dilaga
Nelle mie golene
Conficca le sue fiocine
Nelle mie carni
Quasi fossero balene
In un mare vuoto
Sento le parole di altri
Lontane
Opache
Non è colpa loro
Di nessuno
Sono io solo
Che rimango solo
Fino a quando
Parole care
Rintoccano
Sui miei tremori
Tremo
E la noia
Si ribalta
In una curva
Una chicane
Diventa gioia
Tutta
L’isola di Man

“Ce ne ricorderemo, di questo pianeta”

di Giuseppe Giglio

«Ce ne ricorderemo, di questo pianeta». Più volte le ho accarezzate con gli occhi, queste parole dello scrittore francese ottocentesco Villiers de l’Isle-Adam, sulla tomba di Leonardo Sciascia, a Racalmuto: incise sul bianco e nudo marmo, insieme al nome e alle date di nascita e di morte, così come Leonardo aveva fermamente voluto.

La tomba di Leonardo Sciascia a Racalmuto

«Ce ne ricorderemo, di questo pianeta»: un’iscrizione che, dice Gesualdo Bufalino, «non conta tanto come pezza d’appoggio d’una ipotesi di sopravvivenza, ma ribadisce un sentimento di distacco ironico e dolente insieme. Questo pianeta, cioè, con le sue abiezioni e dolcezze, quanto dovrà apparirci estraneo, da una remota nuvola, e tuttavia oggetto d’una insopprimibile volontà di memoria…».
Ecco, la volontà di memoria, il pensare, il voltarci indietro: è questo l’ineludibile richiamo che ci resta, dopo un incontro con la pagina di Leonardo, sia essa di un romanzo, di un saggio, di un articolo di giornale. E da quella pagina sempre balzano la gioia, la felicità dello scrivere: anche quando si tratti di cose terribili, se non angosciose. «Non faccio nulla senza gioia», diceva Montaigne. La stessa gioia di Luciano, di Stendhal, di Savinio. La stessa gioia di Leonardo Sciascia: che è poi la gioia degli scrittori veri, dei cercatori di verità.
C’è un’immagine di Sciascia, che amo più di altre: questo ritratto fotografico di Nino Catalano, che di Leonardo custodisce un’espressione (lo sguardo acutissimo, di profonda serenità, così pieno di dolcezza) tra le più emblematiche, tra le più cariche del suo destino – e del suo cammino – di uomo e di scrittore. L’uomo e lo scrittore meravigliosamente coincidenti, in un’instancabile, ostinata, gioiosa ricerca di verità e d’amore, nel vivere e nello scrivere. O, meglio, e pirandellianamente, nel vivere scrivendo e nello scrivere vivendo. Delle verità della vita, e dell’amore per l’uomo, ben oltre il tempo che gli è toccato in sorte: a lui che era già un classico da vivo, con le sue storie che dal tempo narrato si affacciavano, e si affacciano, sulle menzogne e sulle inquietudini, sulle ferite e sugli inganni di sempre, quelli cioè che appartengono all’umana natura. Uno scrittore è memoria, ripeteva Sciascia: la memoria individuale, cioè, che tenendosi in esercizio si salda alla memoria collettiva, alla Memoria. E il ricordare, per lui vigile e volontario, si faceva proficua ossessione, lanterna preziosa: a mostrare da dentro il mistero del vivere, la sua bellezza, la sua miseria.

C’è ancora molto da dire su questo Sciascia, che ha in sé tutti gli altri (il polemista, il moralista, il palombaro dei mali italiani, il difensore della giustizia giusta, del diritto, della ragione).
Su questo Sciascia che nel 1961, scrivendo di Simenon, tirava in ballo Gogol e Čechov  (tutti e tre a lui, a Leonardo, molto cari): «Gogol e Cecov: lo scrittore che vede e lo scrittore che ama. E il vedere gli uomini e l’amarli si possono considerare come qualità peculiari di Simenon: qualità che permettono allo scrittore di giungere alle verità dell’uomo come a Maigret permettono di giungere alla soluzione di un caso. Il metodo di Maigret per giungere alla soluzione di un mistero poliziesco praticamente si ripete in tutti i romanzi di Simenon: è la tecnica narrativa di Simenon, il suo modo di ordinare la realtà, di darle un senso, di collegare le cause agli effetti, di far scaturire dal mistero la verità. Maigret vede: vede perché ama. Non c’è personaggio, nella letteratura contemporanea, che ami la vita e gli uomini quanto Maigret. Non c’è, dopo Čechov, scrittore che ami così profondamente, così minutamente, così religiosamente la vita e gli uomini come Georges Simenon. Ci sarà magari in lui qualcosa di mancato: sarà un Gogol mancato, un Čechov mancato: ma è certo uno degli scrittori del nostro tempo più vicino alle ragioni umane, all’uomo così com’è».
Parlava di Simenon, Sciascia, del suo vedere e amare la vita e gli uomini. E le pagine – da A ciascuno il suo a La scomparsa di Majorana, da Todo modo a Il cavaliere e la morte, fino a Una storia semplice, per non dire delle narrazioni saggistiche, o di quelle in forma di articolo di giornale -, le pagine che egli, Leonardo, ci avrebbe lasciato inverano il sospetto che lo Sciascia di allora, tra le righe, dicesse anche di sé. E se i libri sciasciani resistono al tempo, se essi continuano a cercare e a trovare nuovi lettori in tutto il mondo, lo si deve proprio alla loro innata, sobria, affilata classicità: a quella capacità, cioè, di restituire lo spirito del tempo e contemporaneamente il tempo di tutti, quello dell’uomo di sempre.

Ne viene fuori, insomma, dalle tante storie sciasciane, la vita, il suo complicatissimo cruciverba: del quale il loro autore ha incessantemente scandito le intricate ascisse e ordinate. Non tanto a trovarne un’improbabile soluzione, quanto ad illuminarne le latenti ambiguità, le verità non visibili; e impegnato, piuttosto, a dissolvere il caos del reale (non di rado prevedendolo) nel cosmo della letteratura, in quella nitida e ordinata «sintassi della vita, del mondo, dell’uomo, di tutti gli uomini». Ben consapevole, manzonianamente, della complessa, spesso oscura natura del vero, e insofferente delle banalizzazioni, dei dogmi, delle pietrificazioni ideologiche; oltre che della natura inquisitoriale del Potere. Chiedendo aiuto (senza restarne prigioniero) alla ragione e al cuore, e sempre sorretto dal dubbio, dal rovello. Contraddicendo e contraddicendosi, insomma, tra le irreprimibili apprensioni del vivere. Sciogliendo il rigore dell’intelligenza nella gioia della scrittura.
Di quello scrivere, di quell’italiano che era per Sciascia un incessante ragionare: «l’italiano non è l’italiano: è il ragionare», fa pronunciare Leonardo al vecchio professor Franzò (che tanto gli somiglia: nelle parole scarne e affilate, come nei borbottii e nei silenzi, con quella sua acutissima vista sull’uomo e sulle cose), in Una storia semplice.
E il «ragionare» si fa prezioso scrigno di memoria, di pensiero, di stile: scendendo e risalendo lungo una tradizione linguistica profonda di secoli, che ha dentro popoli e civiltà, scrittori di parole e scrittori di cose, per dirla con Pirandello; il cui ritratto fotografico Sciascia sempre teneva sulla scrivania, a Racalmuto come a Palermo. Di quello scrivere, ancora, che era anche per lui, per Leonardo, un desiderio, un sogno; come lo era stato per Giuseppe Antonio Borgese: «aspiro, per quando sia morto, ad una lode: che in nessuna mia pagina è fatta propaganda per un sentimento abietto e malvagio».

«Ce ne ricorderemo, di questo pianeta». E non poteva che essere la memoria, la memoria che si fa verità viva, l’ultima parola di un eretico come Leonardo Sciascia, del quale quest’anno ricorre il centenario della nascita, con non poche iniziative (alcune già svolte, molte altre in programma) per celebrare Sciascia, tra cui  quelle organizzate dalla Fondazione a lui intitolata e coordinate da Fabrizio Catalano, uno dei nipoti di Leonardo, anch’egli scrittore, oltre che regista.
La memoria, dicevo: quella stessa – sempre pronta a scoprire e riscoprire – che riecheggia nel titolo dell’ultimo (l’ultimo che Sciascia approvò, e il primo dei postumi) libro: A futura memoria (se la memoria ha un futuro); laddove in epigrafe risuonano le parole di Georges Bernanos che il grande intellettuale e scrittore siciliano ed europeo sentiva, e profondamente, anche sue: «preferisco perdere dei lettori, piuttosto che ingannarli». Quella stessa memoria, ancora, che innerva Il cavaliere e la morte, il giallo (genere da Sciascia prediletto: per scrutare l’uomo, e perché «presuppone l’esistenza di Dio») più di altri testamentario, e anche oggi di vivida attualità. Per quel terribile rigenerarsi dell’indegnità del mondo – del mondo umano: con i suoi veleni, le sue corruzioni, le sue guerre – di sé stesso, della vita, come anche per la fiducia e la speranza (di un mondo umano diverso, migliore, che ritrova e rinnova la sua umanità) che proprio nella scrittura e nella memoria continuano a risiedere, a germogliare.
«Ce ne ricorderemo, di questo pianeta». E intanto leggiamolo, o rileggiamolo, Sciascia: perché ci dice chi siamo.

NOTE
L’articolo con il titolo Ce ne ricorderemo di questo pianeta, in forma più ridotta,  è stato pubblicato l’ 8 gennaio 2021 (giorno del centesimo anniversario della nascita di Leonardo Sciascia) sulla rivista Letteratitudine

Giuseppe Giglio vive a Randazzo, sull’Etna. È scrittore e critico letterario. Collabora con quotidiani e magazine: da “La Sicilia” a “Letteratitudine”, a “Succedeoggi”. Si occupa soprattutto del Novecento, nel segno di un’idea di letteratura come conversazione sull’uomo e sul mondo, e di una critica letteraria come critica della vita.
Ha pubblicato, tra gli altri: I piaceri della conversazione. Da Montaigne a Sciascia: appunti su un genere antico (Salvatore Sciascia Editore, Premio “Tarquinia-Cardarelli” 2010 per l’opera prima di critica letteraria). Nel 2014 ha partecipato al volume Dieci registi in cerca d’autore. Cinema e letteratura: un amore difficile, di Amedeo di Sora e Gerry Guida (Cultura e dintorni Editore). È tra gli autori di Letteratitudine 3. Letture, scritture e meta narrazioni (LiberAria), a cura di Massimo Maugeri, uscito nel 2017: un manuale sulla lettura, un viaggio dentro le storie e le scritture di oggi

Sulla figura e l’opera di Leonardo Sciascia leggi su Ferraraitalia:
Sergio ReyesUN ILLUMINISTA IN SICILIA : Attualità di Leonardo Sciascia a 100 anni dalla nascita [Qui]
Giuseppe TrainaDENTRO IL GIALLO : I personaggi di Sciascia e Simenon davanti al potere [Qui]
Roberta Barbieri
, RICORDANDO SCIASCIA : Una storia semplice [Qui]
Rosalba Galvagno
, IL MAESTRO E IL GIOVANE ESORDIENTE : La corrispondenza tra Leonardo Sciascia e Vincenzo Consolo [Qui]

In copertina: Ritratto di Leonardo Sciascia – Foto di Nino Catlano 

Febbraio 2060

 

I racconti di Costanza Del Re sembrano appartenere a un genere a parte, qualcosa di più o di diverso dai racconti comunemente detti. Il perché sarebbe lungo dire: per rendersene conto, la cosa migliore è ricavarsi un angolo di silenzio e lasciarsi andare alla lettura: entrare nel suo microcosmo familiare (un’altra Macondo) e nella vertigine dello scorrere – avanti e indietro – del tempo. Così, ad esempio, Costanza si è pensata e ha pensato e scritto di un mondo fra quarant’anni. A partire da Gennaio 2060 (questa è la seconda puntata) potrete seguirla tutti i mesi su Ferraraitalia. Buona lettura.
(Effe Emme)

Cosmo-111 è il nostro robot di casa. E’ alto cinquanta centimetri, bianco, con un corpo tozzo, senza gambe, una grande testa e due occhi neri e rotondi che, contenendo le telecamere, gli permettono di vedere con una precisione che corrisponde alle nostre quattordici diottrie.
Ha due braccia meccaniche, snodate e  lunghe quaranta centimetri, con cui fa molte attività.
Quando parla o canta da solo usa una lingua che nessun umano conosce, mentre quando interagisce con noi parla in italiano. Purtroppo adesso comincia ad essere un po’ vecchio e ogni tanto sbaglia e comunica con noi usando un linguaggio a dir poco strano. Usa una sola una vocale per volta e dice frasi intere usando sempre la stessa. Spesso usa solo la “A” e quindi una frase del tipo “Ciao, oggi c’è il sole, voglio pulire i vetri” diventa (sostituendo in maniera sistematica la “A” a tutte le vocali presenti nella frase): “Caaa, agga c’à al sala, vaglaa palara a vatra”.

Io e Luca volevamo portarlo al Centro-Trescia-111 (il presidio di assistenza per i robot), per vedere se lo potevano curare. Ma ad Axilla e Gianblu piace da matti quando parla a quel modo, si divertono e ridono. Hanno imparato a parlare come lui e non lo vogliono portare in assistenza. Quando hanno un po’ di tempo per divertirsi, lo sfidano al “gioco delle vocali” che a casa nostra sostituisce la Playstation e Gugyweek. Ad esempio Gianblu dice a Cosmo-111: “Dai Cosmo, giochiamo al gioco delle vocali. Comincio io. Vediamo chi è il più veloce. Uso solo la U”.

Curu Cusmu,sunu davvuru fulucu chu tu sua cun nuu nun su cusu furummu sunzu du tu” (caro Cosmo sono davvero felice che tu sia con noi, non so cosa faremmo senza di te), e Cosmo-111 risponde “Curtu chu nun suputu sturu sunzu du mu, uu sunu unduspunsubulu u vu uutu sumpru!” (Certo che non sapete stare senza di me, io sono indispensabile e vi aiuto sempre!). E vanno avanti così, seri alla prima frase, sorridendo alla seconda, ridacchiando alla terza, ridendo alla quarta, ridendo sguaiatamente dalla quinta in poi.
Vista la situazione, Cosmo-111 non pensa affatto di essere ammalato ma è convinto di avere una qualità buffa e molto utile, che gli permette di allietare le giornate dei suoi due umani preferiti: quei due bambini ormai cresciuti che corrispondono ai nomi di Axilla e Gianblu.

Guardarli mentre giocano a quel modo, mi fa sempre molto riflettere; a volte le menomazioni possono essere uno svantaggio e a volte si trasformano nell’esatto contrario. E’ così anche nel mondo animale e anche in quello vegetale. La tigre bianca è albina. L’albinsmo è una anomalia congenita. E’ una deficienza causata da un difetto o da un’assenza dell’enzima tirosinasi, enzima che è coinvolto nella sintesi della melanina. Potrebbe quindi essere considerato una malattia. Ci sarebbe un enzima da ripristinare. Eppure la tigre bianca è pregiatissima, considerata bellissima e una rarità. A nessuno verrebbe mai in mente che sia malata.

Anche nel mondo vegetale è così. Il Tambalo, fiore che cresce d’estate in mezzo al granoturco, ha una strana colorazione nera con striature argentate dovuta a un difetto di pigmentazione. Eppure tutti lo raccolgono, lo mettono nei vasi, lo regalano, lo portano addirittura in chiesa. Nessuno vorrebbe il Tambalo di un colore diverso e a nessuno viene in mente di considerarlo una stranezza o una malattia, invece che una eccellente rarità.

Anche nel mondo umano è un po’ così. Ci sono modelle albine, modelle affette da pitiriasi che trasforma la loro pelle in un manto simile a quello delle mucche pezzate (un po’ del colore normale e un po’ bianco candido). Ci sono modelle calve e magrissime. Sono considerate malate? Macchè, sono considerate bellissime.

A volte la malattia si connota per sofferenza a tutti gli effetti, dolore muscolare, osseo, febbre, vomito, cefalea, mal di denti, astenia, stanchezza. Forse tutto questo può essere considerato patologia, anche se bisogna fare dei notevoli distinguo. La diversità, in quanto tale, quando può/deve essere considerata malattia? Quando provoca sofferenza?

Un bambino con i capelli rossi, che si trova in una classe di tutti bambini mori, è ammalato in quanto vive una reiterata situazione di sofferenza causata dal colore dei suoi capelli, che è diverso da quello di tutti gli altri? Credo che la definizione di malattia non sia univoca, che non lo sia la definizione di sofferenza, come non lo è la definizione di normalità.

In questo tempo che ha superato abbondantemente l’inizio degli anni 2000 d.c., io, mio marito e i miei due figli viviamo con Cosmo-111 e ci sembra normale che sia così. Ci mancherebbe se dovesse essere rottamato e soffriremmo della sua assenza. Eppure Cosmo-111 è un assemblaggio di parti meccaniche e elettroniche, non ha di certo un’anima, anche se in maniera semi-empatica (per imitazione), sa rispondere alle sollecitazioni emotive degli umani che vivono con lui e sa piangere, facendo uscire un po’ d’acqua dalle telecamere che ha al posto degli occhi.

Un giorno parlavo con la zia Costanza di Cosmo-111 e degli strani giochi che fanno con lui i ragazzi. Lei, che di solito ha sempre qualcosa da dire, è rimasta pensierosa e poi ha commentato: “E’ davvero strano che ora stia succedendo tutto questo. Sembra fantascienza e invece è realtà. Il bello è che Cosmo-111 piace anche a me. Ci siamo tutti affezionati a esseri che non sono umani e che non appartengono nemmeno al regno animale o a quello vegetale. E’ nato una specie di  “regno di mezzo”, che non so nemmeno se si possa considerare un regno di esseri viventi o un regno “altro”. Sicuramente non lo si può considerare un regno morto. Chi lo dice a Gianblu che Cosmo-111 appartiene a un regno morto? Si arrabbierebbe di sicuro. Questo strano “mondo di mezzo”  lo descriverei come un regno di proiezioni. Un mondo di esseri che vivono grazie ai sentimenti che noi attribuiamo loro, grazie alla componente emotiva traslata dagli esseri umani ai robot. Riconosciamo questa componente emotiva come uguale alla nostra, perché è la nostra. Proprio questo ci fa affezionare a questi esseri che sono come noi, sentono quello che sentiamo noi, reagiscono come noi, sia alle avversità, che alle sorprese. E’ facile stare con loro perché non sono oppositivi, non sono imprevedibili, non vanno controcorrente, sono molto servizievoli. Questo “mondo di mezzo” è la vera novità di questi ultimi decenni, è un luogo di rifugio per le nuove generazioni, è uno spazio che si sta affrancando dalla artificialità e si sta legittimando come possibile, alternativo e in qualche modo “vero”. Mi chiedo dove ci porterà tutto questo. Fino a quando questo “mondo di mezzo” resterà tale. Non mi piacerebbe che questo spazio di proiezioni-umane prendesse il sopravvento sul mondo che conoscevamo prima, fatto di relazioni vere, di sentimenti autentici, di rapporti che nascono crescono e finiscono, ma che non sono mai animati da sentimenti riflessi”.

Come sempre la zia Costanza, che pur avendo ottantotto anni è ancora molto lucida, ha ragione. Ma poi ripenso a Cosmo-111 e mi rendo conto che il mondo è già cambiato, che la “terra di mezzo” è già legittimamente al suo posto.
A cosa porterà tutto questo non lo so, lo scopriremo cammin facendo e, soprattutto, lo scopriranno Axilla e Gianblu che considerano Cosmo-111 una parte della famiglia e che, da questo sentire, non si affrancheranno per tutto il tempo della loro lunga esistenza.

Mentre cerco di immaginare com’era la vita quando mia madre e la zia Costanza avevano vent’anni e i robot erano ancora allo status nascendi, sento il campanello di casa suonare. E’ Axilla che torna dall’università, apre la porta con la sua chiave elettronica, si disinfetta le mani e si toglie il piumino verde con il collo di pelliccia. Poi si siede sullo sgabello all’ingresso e si toglie le scarpe. Cosmo-111 arriva con le ciabatte e le dice: “Maattala sana calda a camada” (mettile sono calde e comode).
“Grazaa, Casma-111, saa straardanaria (Grazie Cosmo-111, sei straordinario)” lo ringrazia Axilla e poi gli dà un bacio sulla testa. Cosmo-111 sorride e poi dice divertito: “Questa volta ti ho fregato, ho usato tutte A solo per farti ridere”. Axilla sorride, ancora più divertita di prima e Cosmo-111 se ne va, cantando la canzone che gli piace tanto, in quella lingua che solo lui conosce, perchè esclusiva degli abitanti del “mondo di mezzo”, che lo accompagna nei momenti solitari e di non-umanità.

Quel modo di parlare e cantare è il sintomo del mondo che cambia, della realtà che si affranca da se stessa per inglobare dento di sé la tecnologia come estensione di un po’ di vita, come paradigma del progresso che cammina, senza troppi pregiudizi, a servizio dell’umanità.
“Saputo, saputo, aku aku, saputo saputo, aku totù!” canta Cosmo-111 e io lo guardo mentre se ne va.

N.d.A.
I protagonisti dei racconti hanno nomi di pura fantasia che non corrispondono a quelli delle persone che li hanno in parte ispirati. Anche i nomi dei luoghi sono il frutto della fantasia dell’autrice.

 

PRESTO DI MATTINA
Come nasce una storia

 

Come nasce una storia? Quale la sua origine, l’ambito del suo germinare, il suo milieu? Quale la ministerialità educante della narrazione, il suo compito pedagogico?
Proviamo a percorrere un sentiero.
Con l’espressione “le blanc des origines”, Pierre Teilhard de Chardin intese designare il concentrato intimo, nel tempo e nello spazio, dell’esperienza originaria del fenomeno umano, nel suo evolversi e divenire. Lo fece a partire da un immensamente piccolo, verso un infinitamente grande, attraverso l’infinitamente complesso: perché «è nella complessità che la coscienza appare» (Lettres Intimes, 11.7.1941 340), come processo di ‘riflessione’ che sale in modo irreversibile. Lo sviluppo evolutivo, non diversamente dal divenire narrativo delle storie, si sostanzia in un processo di complessità-coscienza, un divenire, il cui inizio è puntiforme, ma poi procede attraverso un’articolazione vieppiù differenziata, che si moltiplica, e torna a convergere attraverso passaggi, soglie, punti di maturazione concatenati, sempre più compositi.

Come da un solo fotogramma prende vita un film, così da una parola, un simbolo o un’immagine nascono un planetario testuale, una biblioteca. È un analogo gioco combinatorio, capace di generare lungo la narrazione sempre qualcosa di nuovo: un novum di continuità pur nella diversificazione, all’interno del fenomeno spirituale, sempre in formazione e accrescimento verso una più grande coscienza.

Per dirla con semplicità, le grandi cose cominciano sempre da un piccolo granello, finanche da ciò che appare effimero, impalpabile. Forse per questo Teilhard de Chardin parla del “bianco delle origini”, per ricordarci che l’inizio di tutte le nuove specie è invisibile e introvabile dalla ricerca scientifica. Le fonti restano nascoste, irrintracciabili e troppo piccole per lasciare il segno del loro concepimento. Si potrà allora rispondere alla domanda dell’inizio: le storie, i racconti come la vita cominciano in umiltà, l’umiltà di fronte all’altro: umiltà d’amore. Questo è il luogo della loro nascita. E nel loro dispiegarsi attraverso la narrazione, esse portano con sé la memoria di questa origine, sperimentandola ad un tempo come un perdita e un ritrovamento, come matrice rigenerativa al modo del lievito madre.

Ne La nostalgia del Fronte – descritta da Teilhard in un saggio del 1917 – viene rappresentato simbolicamente questo processo di trasformazione. La linea del fronte che è esperienza di perdita, di disfacimento, di scontro e di morte, diventa ai suoi occhi il “fronte dell’onda” che avanza, il fronte umano che non viene fermato neppure dall’entropia delle guerre, ma va oltre e avanza dopo ogni perdita e ricaduta, per poi riemergere come una nuova linea dell’onda. Così accade anche alle parole originarie, sepolte da quelle venute dopo, e poi riemerse in una nuova, ulteriore diversa nascita.

«Quando ho cominciato a scrivere storie – scrive Italo Calvino – l’unica cosa di cui ero sicuro era che all’origine d’ogni mio racconto c’era un’immagine visuale. Un’immagine che per qualche ragione mi si presenta come carica di significato, anche se non saprei formulare questo significato in termini discorsivi o concettuali. Appena l’immagine è diventata abbastanza netta nella mia mente, mi metto a svilupparla in una storia, o meglio, sono le immagini stesse che sviluppano le loro potenzialità implicite, il racconto che esse portano dentro di sé. Attorno a ogni immagine ne nascono delle altre, si forma un campo di analogie, di simmetrie, di contrapposizioni. … Sarà [poi] la scrittura a guidare il racconto». Narrare allora non è appena uno strumento di conoscenza per se stessi, ma ambito di relazione fuori di sé; un superarsi immedesimandosi nelle storie d’altri per maturare la coscienza della responsabilità e del servizio che è esperienza di trascendenza: «ho sempre cercato nella immaginazione un mezzo per raggiungere una conoscenza extraindividuale, extrasoggettiva… si tratta di processi che anche se non partono dal cielo, esorbitano dalle nostre intenzioni e dal nostro controllo, assumendo rispetto all’individuo una sorta di trascendenza», (Lezioni americane, Milano 1988, 88-89 e 86-87).

Così l’istanza etica nella narrazione non resta fuori dalle storie; non è un optional; è traccia dell’altro, filo rosso che invoca responsabilità; evocativa a sua volta di una trascendenza non solo umana. La stessa che indusse Ulisse a ripartire da Itaca, come gli aveva profetizzato Tiresia con il remo in spalla, verso una nuova odissea, altri mari da navigare, ancora genti da conoscere. Ma rivelativa di una trascendenza altrove, è anche quella che si rivelò ad Abramo per interpellarlo. E di qui subito una storia narrante; storia di un popolo in cammino in compagnia di un libro raccontato e letto sempre di nuovo.

La seduzione con cui Yhwh, il Dio pastore, attira a sé, avviene attraverso la narrazione: «la attirerò a me, la condurrò nel deserto e parlerò al suo cuore», racconta Osea il profeta innamorato. Yhwh ama le storie degli uomini e in esse tesse anche la sua. Sono storie che educano all’ascolto, che mettono in cammino, lasciando il già noto verso un dove che s’ignora. Sono racconti che narrano di un dono, quello della Parola, e di Agape da cui prende forma la gratuità. Ma non è così anche per le storie? Non si sparpagliano per il mondo senza ricevere compenso alcuno, lasciandosi portare di voce in voce, di pagina in pagina in libertà? Esse non temono i confini né i doganieri, circumnavigano la terra; si lasciano trasportare dalle nubi, dalle onde del mare, attraversano deserti, foreste, montagne e pianure da un continente all’altro prima di giungere a noi.

I racconti dei vangeli, credo, assomigliano a corsi sotterranei che percorrono le storie, parole come perle di mare, nascoste nel sottosuolo. Se si fa silenzio credo che le si odi dire: «Gratuitamente avete ricevuto, gratuitamente date» (Mt 10,7-8): «un’eco di memoria, come quel buio murmure di mare», direbbe Quasimodo.
Nelle storie si mette in atto un processo di strutturazione della realtà «la narrazione organizza e dà forma alla nostra esperienza».
L’esperienza del narrare, come pure l’esperienza spirituale e quella mistica, non sono un’evasione dal reale; non portano fuori dalla vita ma si sprofondano in essa.

Le parole e i racconti si distanziano e si avvicinano, si differenziano e si uniscono di nuovo, dando forma a un organismo narrativo, un «fabulario arcobaleno» di incontri che cambiano il mondo ed anche noi. Le storie – direbbe Teilhard pure lui narratore di storie – sono potenza spirituale della materia, linfa che sale nell’albero della vita e dunque vanno comprese come generative di un ambiente, strutturantesi e intellegibili con esso. Due suoi testi titolano proprio: Milieu divin e Milieu mystique, quest’ultimo in stile narrativo: «Un suono purissimo si è alzato nel silenzio; un’iride limpida si è diffusa nel cristallo; una luce è passata in fondo agli occhi che amo… Erano tre cose piccole e brevi: un canto, un raggio, uno sguardo… Perciò ho creduto dapprima che entrassero in me per rimanervi e perdersi. Invece, sono state esse a catturarmi e a rapirmi».

Madeleine Barthélemy-Madaule (1911-2001) una studiosa del suo pensiero riconosce al termine milieu un triplice significato. Il primo è quello che richiama l’idea di un ambiente (ciò in cui): l’orizzonte, il luogo e la struttura del formarsi dell’esperienza come polarità dialettica e convergente. Ambiente nel secondo significato si riferire invece a un mezzo (ciò per cui): un legame oppure un’apertura dialettica che fa comunicare l’Assoluto con il creato, il dentro e il fuori, l’in alto e l’in avanti. Un terzo significato, infine, riconosce nel termine milieu un punto (un centro di): la convergenza delle polarità, l’evento dell’incontro, l’attimo del presente in cui si dà la totalità. Anche per le storie il milieu è il limite estremo di ciò che si prova e di ciò che si fa, il punto più profondo della coscienza, dove questa comunica con l’Assoluto e con sé stessa e comprende con il suo sguardo le terre dell’alterità e di tutto il cosmo.

Queste mie domande e riflessioni sono nate da un dono di amicizia di Anita Gramigna. I suoi due ultimi libri: Fabulario arcobaleno. Educazione interculturale con i piccoli e Come nascono le storie. Pedagogia narrativa per i più piccoli sono stati un invito a lasciare la panchina, a rimettermi in gioco come in una partita amichevole. Il suo è stato un assist che non potevo perdere, proprio davanti alla porta; gli altri giocatori li aveva già dribblati tutti lei. Anita Gramigna dirige il laboratorio di epistemologia della Formazione presso la nostra università, insegna pedagogia generale e metodologia della ricerca. Con questi due studi ha inteso narrarci un aspetto della sua ricerca pedagogica interculturale che, condotta attraverso l’analisi e la narrazione di storie incipienti, balbettii infantili, piccoli dialoghi e racconti di altri continenti, rivela la forza educativa ed etica “del linguaggio al suo sorgere”. Una risorsa anche, tanto per i piccoli che nascono alla parola per la prima volta, come per gli adulti che li ascoltano e li assecondano, meravigliandosi di rinascere anche loro a quelle parole germinali. Qui è narrato come nascono le storie e come esse educhino alla interculturalità, intesa come riconoscimento dell’altro e dei suoi valori, della ricchezza che può venire dalla diversità che immunizza dalla pretesa di assolutizzare le proprie idee e valori. Intercultura ha un valenza progettuale, dice il comune impegno per un incontro attivo tra soggetti di estrazioni differenti ma dialoganti, per trasformare e lasciarsi trasformare cercando soluzioni ai problemi che sorgono nel nostro mondo diventato multiculturale e dunque bisognoso di convivere pacificamente.

«Quando nasce una storia prende vita un processo di rappresentazione interiore che contempla elementi cognitivi, emozionali e culturali, come sono gli artefatti linguistici. Quando nasce una storia si accende l’immaginazione interpretante». Pure lei ricorda un testo di Italo Calvino estratto dalle Lezioni americane: “l’immaginazione è un repertorio del potenziale, dell’ipotetico, di ciò che non è né è stato né forse sarà ma che avrebbe potuto essere”. Sottolinea che le storie nascenti si esprimono nella forma di un gioco-narrazione, che non è solo oggetto di riflessione ma una tecnica di gioco generativo, di gratuità che educa al dono.

«Il gioco-narrare è azione gratuita, libera dal persegui mento di scopi diretti: in questo senso, è libero, pur possedendo regole rigorose. È libero perché può disancorarsi dalla realtà, magari proprio per fornirne una versione surreale e risponde solo al desiderio di giocare con le parole, (ivi 36)…L’aurora del pre-linguaggio può divenire l’occasione per il pensiero adulto di rinunciare, almeno per il tempo breve di un gioco, alla propria esaustiva sovranità sull’attribuzione di senso alle cose. …il meraviglioso parla a ciascuno di noi infatti, può leggersi a tanti livelli, come è nella natura metaforica della narrazione e, naturalmente, del gioco… La bellezza delle immagini che fioriscono nelle gioco-storie, del ritmo ludico che lì si esprime, della musicalità delle parole, dell’assurdità delle metafore, si dà con un sentimento di dono». (ivi, 11-12; 30-31).

Per leggere gli altri articoli di Presto di mattina, la rubrica di Andrea Zerbini, clicca [Qui]

CONTRO VERSO
Filastrocca del padre sconsolato

 

Nella filastrocca intitolata “L’uomo polipo” una ragazzina di 13 anni aveva parlato del suo amore per un uomo una decina d’anni più grande che le aveva riempito la vita avvolgendola con i suoi tentacoli, tanto da farle interrompere la scuola, le amicizie… e intanto aspettavano un bambino. Qui ascoltiamo il padre di questa ragazzina. Un uomo sconsolato, che ha cresciuto la figlia da solo dopo che, tanti anni prima, la moglie se n’è andata disinteressandosi della bambina.

Filastrocca del padre sconsolato

Le ho detto: “Bimba mia,
bada, non ti fidare
di chi ti porta via
e ti vuol pilotare”

ma lei si è innamorata
c’è poco da negare.
È bella e addormentata.
Chi la saprà svegliare?

Il vile sbarbatello
che possiede mia figlia.
sarà anche forte e bello
ma… guai a chi se lo piglia!

L’avvolge nelle spire
come fosse un serpente.
Gliel’ho voluto dire,
purtroppo non mi sente.

È che lui non lavora
e lei è minorenne,
dovrebbe andare a scuola.
Quei due non fanno niente.

Li ho mantenuti io
– cosa potevo fare? –
sperando, in cuor mio,
di poterla aiutare.

In più nutro il sospetto
che lui sia un violento
ma non ne sono certo,
e intanto mi tormento.

“Sai babbo sono incinta”
m’ha detto un brutto giorno
e io ho fatto finta:
“Che bello, sarò nonno!”

Però io sono vecchio
conosco un po’ la vita
e come in uno specchio
già vedo la partita

che giocan quei ragazzi
ancora adolescenti
e son cavalli pazzi,
del tutto incoscienti.

Lo sono stato anch’io
che l’ho tenuta buona
ma avevo un dubbio mio:
se un giorno mi abbandona?

Sua madre se n’è andata
ormai da lunghi anni,
io sì l’ho perdonata
ma questi sono i danni.

Adesso son deciso
a vincer la paura,
non farò più buon viso
di fronte alla sciagura.

Lui assorbe la sua vita
e non le lascia il fiato.
Mia figlia è trasformata.
Io sono sconsolato.

Il padre sconsolato non sapeva davvero che posizione prendere. Essere troppo netto nel disapprovare l’amore della sua bambina voleva dire perdere il rapporto con lei e la possibilità di aiutarla un domani, se le cose fossero volte al peggio. Sostenerla, però, era come approvare un progetto di vita che per lui era inaccettabile.

CONTRO VERSO, la rubrica di Elena Buccoliero con le filastrocche all’incontrario, le rime bambine destinate agli adulti, torna su Ferraraitalia  il venerdì. Per leggere i numeri precedenti clicca [Qui]

Al cantón fraréś
Carletto Fedozzi: “La nòstra tèra”

 

Il profondo legame per il territorio suggerisce all’autore un canto sugli aspetti della campagna: la sua gente, il fiume, le stagioni, il lavoro. Le policromie dei raccolti, dei frutti e dei fiori, il canto dei raccoglitori e il rumore dell’acqua si intrecciano nel ricordo di gesti quotidiani.
Una scelta consapevole quella di esprimersi in vernacolo: per raccontare anche ai più piccoli da dove vengono le parole dialettali.
(Ciarìn)

La nòstra tèra

Che bèl, a la matìna, uƞ salùt col surìś,
l’ària ch’la sà da fén e da grugnó,
int l’àra, ai pasarìƞ butàr uƞ pugn ad brìś,
la źdóra da la fnèstra ch’la scròla i so laƞzó.

Che bèl stàr a la sprùgla,
d’iƞvèrn a téś al mur
e zcórar in dialèt dal témp ch’al rùgla
che s’al n’as pòl farmàr ch’al pasa pur.

Che bèla la campàgna ch’la s’imbiónda ad furmént
coll ròśal ch’i la màcia ad rós e d’vèrd,
ill cànn dill val indù s’intriga al vént,
al cànt dì ztàcarìƞ che tra i filàr al s’pèrd.

Che bèl a l’ómbra d’n’ólam
sul’àrźan a scultàr,
as sént al Po che, càlam,
al śbriśga vèrs al mar.

Che bèl favràr tut biaƞch,
che quànd a spióna al sól,
la név l’as tira ad fiàƞch
par lasàr pòst al viòl.

Guardàr luntàn i prà
e l’ fil ch’i fà i sulcàr,
fìn dù che j’òć i và
al ziél ch’al pógia par.

Che bèl int la basóra
al sól ch’al pèrd al fìl,
ill piòp ch’ill śluƞga l’òra
e i śghìt ch’i torna al fnìl.

Bèla la źuantù,
che spès l’am tórna iƞ mént,
“L’è ‘ƞ pcà ch’la n’agh sia più”
la diś la nostra źént.

Aƞziàn e stralaƞcà, al sarà bèl preciś,
cuntàr a chi putìƞ
che ill ciàcar di frarìś
ill vién dal vèć latìƞ.

E se la sgnóra négra a l’us la piciarà,
agh duvrén dìr ch’la vàga indù ch’la jéra.
L’è sèmpar témp d’andàr a stàr là dlà,
ch’l’è bèla da campàr la nostra tèra.

 

La nostra terra (traduzione dell’autore)

Che bello alla mattina, un saluto con il sorriso, / l’aria che profuma di fieno e di pane, / nell’aia, ai passerotti, gettare un pugno di briciole, / la massaia, dalla finestra, che scrolla le sue lenzuola. / Che bello stare al sole, / d’inverno, accostati al muro / e parlare in dialetto del tempo che scorre / che, se non si può fermare, passi pure. / Che bella la campagna che si imbionda di grano / coi papaveri che la macchiano di rosso e di verde, / le canne delle valli dove si intrufola il vento, / il canto dei raccoglitori che tra i filari si perde. / Che bello all’ombra di un olmo / sull’argine ad ascoltare, / si sente il Po che, calmo, / scivola verso il mare. / Che bello febbraio tutto bianco / che quando si affaccia il sole, / la neve si sposta di lato /per lasciare posto alle viole. / Guardare lontano i prati / e le file che fanno i solchi, / fin dove arrivano gli occhi /il cielo che appoggia piatto. / Che bello al tramonto, / il sole che perde il filo, / i pioppi che allungano l’ombra / e i rondoni che tornano al fienile. / Bella la gioventù, / che spesso mi torna in mente, / “Peccato non ci sia più” / dice la nostra gente. / Anziani e sciancati, sarà bello lo stesso, / raccontare ai bambini / che le parole dei ferraresi / vengono dall’antico latino. / E se la signora nera all’uscio busserà, / dovremo dirle di tornare dov’era. / C’è sempre tempo di andare ad abitare di là, / perché è bella da vivere la nostra terra.

Tratto da: Carletto Fedozzi, Scurs e fat (da tgnir da cat) : discorsi e fatti (da conservare), poesie in dialetto ferrarese,
Ferrara, 2G Editrice, 2016.

Carletto Fedozzi (Migliarino 1947)
È stato amministratore comunale ricoprendo diversi incarichi nel suo paese natale. Ha lavorato in vari zuccherifici della provincia di Ferrara. A lungo attivista sindacale in importanti vertenze a Migliarino e a Comacchio. Appassionato di archeologia, vulcanologia e storia del territorio ferrarese.
Ha iniziato giovanissimo a comporre versi in italiano e in vernacolo, ricevendo premi nei concorsi dialettali.

 

 

Al cantóη fraréś: testi di ieri e di oggi in dialetto ferrarese, la rubrica curata da Ciarin per Ferraraitalia, esce ogni 15 giorni al venerdì mattina. Per leggere le puntate precedenti clicca [Qui] 

In copertina:  Semina – foto di Marco Chiarini

LA STORIA INFINITA DELLA VIOLENZA PIU’ ANTICA:
ma la guerra alle donne continua in tutto il mondo

Violenza sessuale sulle donne arrestate o rapite dai paramilitari e in molti casi poi uccise. Lo stupro e le altre sevizie sono una forma di tortura e assieme espressione di violenza di genere. Le dimensioni di quanto accade e le forme nelle quali si traduce tolgono la parola. Forse effettivamente stuprum e stupor hanno la stessa radice. Non fossero così largamente documentati i fatti, si faticherebbe a crederci.

Stupro e guerra
Le donne, come altri ‘beni’, sono preda e oggetto di saccheggio in guerra da parte del vincitore
. Da sempre. Nei tempi a noi vicini più che una conseguenza – compenso ai sacrifici del guerriero – sono una componente dell’impegno bellico volto alla pulizia etnica se non al genocidio. L’espressione più compiuta è nei lager nazisti. Ma lì non si ferma. I soldati dell’Armata rossa respingono a ovest 15 milioni di tedeschi e violentano, a migliaia e migliaia, le donne. Per restare solo in Europa, e in tempi successivi, ricordiamo gli stupri di massa delle guerre della ex Jugoslavia e le sopravvissute alle torture e alle violenze.

Centauri. Alle radici della violenza maschile
Con la guida di Luigi Zoja possiamo interrogarci sull’inadeguatezza maschile, sull’identità fragile e recente del maschio. Non fossimo male impastati non ci sarebbe così facile fare quello che facciamo. Contagiosa, epidemica è la regressione della mascolinità alla violenza in guerra o in situazioni simili, meglio se in divisa. La crudeltà innata e prevaricatrice della sessualità emerge appena si allenta il controllo sociale e civile. Dietro ai casi illustrati da Zoja, nella storia lontana e vicina, avvertiamo il galoppo dei centauri, metà uomini e metà animali. “La loro orda non conosce altro eros che l’ebbrezza orgiastica accompagnata dallo stupro”. Diffido sempre dell’enfasi sulle componenti biologiche del nostro agire, anche se già tradotte in miti e dunque opera della creatività umana. Certo non si può negare la realtà di “branchi di maschi nella frenesia dello stupro collettivo: la predazione si ripete dai primordi della storia, attraversando immutata il processo di incivilimento, impennandosi nel cuore del Novecento e guadagnandosi ancora oggi grande spazio nelle cronache”. Con un po’ di tempo a disposizione val la pena ascoltare direttamente Luigi Zoja [Qui].

Plan Condor
Pinochet usurpa il potere con l’appoggio dei servizi Usa. È l’avvio del “Piano Condor”: Cile, Argentina, Uruguay, Paraguay, Bolivia coordinano la loro guerra a guerriglieri e oppositori. La CIA ha desegretato i dossier relativi. Richard Nixon ed Henry Kissinger (premio Nobel per la Pace) sapevano, se pure non ne siano stati anche i mandanti. In Italia c’è stato un processo, in primo e secondo grado. Ventiquattro imputati su 25 nel processo per i crimini dell’Operazione Condor sono stati condannati in 2° grado all’ergastolo per omicidio pluriaggravato di 23 italiani ai tempi delle dittature in Sudamerica. La sentenza ribalta le tante assoluzioni che avevano segnato la decisione di 1°grado.
La lunga battaglia dei familiari delle vittime ha avuto questo esito e permesso di far luce sull’operazione. Dice Aurora: “Per me questo processo è iniziato nel 1999, quando ho rilasciato le prime dichiarazioni alle autorità italiane sull’omicidio di mio marito, Daniel Banfi”. Esule dall’Uruguay, è trucidato nel ’74 in Argentina. Così funziona il Piano Condor: persecuzione, tortura, sparizione, assassinio di migliaia di oppositori in fuga da un paese in cerca di rifugio in uno vicino.

Mettere le donne al loro posto
Nell’America latina, fin da Colombo e poi dai conquistatori spagnoli e portoghesi, la violenza sulle donne indigene è stata la regola.
I colonizzatori europei hanno esercitato uno stupro sistematico delle indigene, fatte schiave. Nessun dubbio sulla loro posizione doppiamente subordinata, come donne e come non bianche. Così i figli meticci che sono nati da colonizzatori ossessionati dalla ‘limpieza de sangre’.
Le donne che hanno il coraggio di opporsi al dittatore debbono essere ricondotte a ragione. Come le indigene dei secoli passati non fanno veramente parte della società. Vanno messe al posto che loro spetta. La violenza sessuale in particolare ha questo significato. Non è solo umiliazione e tortura. Di solito non si cerca di strappare notizie utili a ulteriori arresti e persecuzioni. Vanno corrette nel modo più deciso queste donne, che agiscono contro natura. Si interessano di politica invece di stare in casa a preparare i buoni piatti della cucina cilena.
Tra i torturatori – questa a quanto pare è una novità – c’è pure qualche donna. Anche lei è fuori dalle mura domestiche, ma per una buona causa. In questa volontà di colpire e correggere le donne che non stanno in riga vedo qualche parentela con il jack rolling. In Sudafrica branchi di maschi si danno allo stupro come terapia nei confronti di donne lesbiche, gravemente devianti cioè.

Non solo in passato, non solo in Cile
Lo stato di minorità delle donne, negato dal diritto, non è ovunque superato. Le conquiste in questo campo non sono mai definitive. Il Rapporto Valech, al quale il libro di Hopenhayn si rifà, è di importanza straordinaria per l’accurata documentazione di una sistematica politica di tortura.
È sul corpo delle donne che la guerra continua nei diversi paesi. Nel genocidio c’è un nucleo di ginocidio. Non mancano le denunce e i rapporti. Penso solo all’attività dispiegata da Amnesty. Non citerò perciò i casi che le cronache, a volerle leggere, quotidianamente ci propongono. Un impegno è stato assunto solennemente 10 anni fa. L’11 maggio 2011 a Istanbul è stata firmata la Convenzione del Consiglio d’Europa sulla prevenzione e la lotta alla violenza contro le donne e la violenza domestica. Il primo paese a ratificare è stato la Turchia. Due anni dopo l’ha ratificata l’Italia. Nel 2017 l’Unione Europea ha firmato. È una buona convenzione: la violenza sulle donne è violazione dei diritti umani e discriminazione; gli Stati sono responsabili se non la prevengono adottando norme e comportamenti conformi alla Convenzione; la distinzione tra uomini e donne non è unicamente basata sulle differenze biologiche (sesso) ma anche su categorie socialmente costruite (genere); la protezione delle donne è indipendente dalla loro origine, età, razza, religione, ceto sociale, status di migrante o orientamento sessuale; ci sono reati da perseguire quali le mutilazioni genitali, il matrimonio forzato, gli atti persecutori, la sterilizzazione e l’aborto forzati.
Attualmente è firmata e ratificata da 34 paesi. Altri 12 l’hanno firmata e non ratificata. Altri l’hanno semplicemente rifiutata.
Sembra che la Turchia, già paese capofila, intenda ritirarsi. Ha avviato la disdetta la Polonia. Aveva firmato e ratificato. Un governo che si vuole “vero cattolico” non accetta che un governo “vero musulmano” lo preceda nel togliere protezione e diritti delle donne!

Questo articolo è recentemente apparso sull’edizione in rete della storica rivista del Movimento nonviolento [www.azionenonviolenta.it]

In copertina: Una panchina rossa per ricordare tutte le donne vittime di violenza, Comune di Acquaviva delle Fonti, 2020 (licenza wiki commons)

RACCONTO
La favola del grande scrittore

 

Ambra Simeone

c’era una volta un grande scrittore, che era talmente grande che ogni volta che lo chiamavano per andare a parlare in un posto, dove volevano che leggesse i suoi libri, in quel posto lì, poi, tutti quanti parlavano di lui e del giorno che avrebbero letto i suoi libri.

questo grande scrittore, come era noto da sempre, fin da quando aveva scritto la sua prima pagina di narrativa, fin da quando aveva pubblicato col suo primo grosso editore, un editore di una grande città, forte dell’esperienza e del primato detenuto da decenni, era noto che non si muovesse da casa sua in quella stessa grande città, una bellissima magione degna della sua apprezzata considerazione, che non si muovesse neppure di un passo, se prima il comune di quel piccolo paese, dove si volevano leggere i suoi libri, non avesse pagato, in anticipo, un gettone di presenza di almeno cinquecento euro, con vitto e alloggio anch’essi gentilmente offerti, ma non compresi nel gettone, perché quel gettone era una cosa a parte, era solo per la presenza e null’altro, così che subito dopo, quando si leggevano le sue narrazioni, i compaesani di quel posto lì, di quel sindaco lì, così illuminato, gridavano, ah, che meraviglia, ah, che ospite d’eccezione!

dicevano così i rappresentanti che subito si mettevano in moto o in azione, o meglio scendevano in campo, (sì, questa qui è la metafora più calcistica possibile, quindi va bene, non ditemi nulla, che oggi le metafore calcistiche vanno tanto di moda) che quindi allora, quei rappresentanti delle associazioni di paese, poche sì, ma molto solerti quando si trattava di ospitare il grande intellettuale, a trovare sponsor e location adatte, ed erano pronte a mettere a disposizione del comune e del sindaco, tutto il loro meglio, o anche il peggio, visto che si erano date battaglia fino al giorno prima, ma ora invece tutte unite per un unico fine, tutte a mostrare il loro lavoro, pitture, musiche e fotografie, pronte da usare per accompagnare l’evento culturale dell’anno, uno all’anno, con tanto di nomi, firme, loghi e marchi, che mentre la scena maestra era tutta per il grande romanziere, almeno il retroscena poteva cadere su di loro, sulle quattro piccole associazioni indigene, come si diceva nei telegiornali locali, che si erano date così tanto da fare, perché era davvero, davvero importante mostrarsi così, in questo modo o in qualunque altro, pur di rientrare nel mondo dell’arte che conta, così dicevano i rappresentanti di queste associazioni locali, di quel posto lì.

e lo gridavano tutti in coro anche i paesani, ah, che meraviglia, ah, che ospite d’eccezione, che magari per i grandi eventi di cultura quell’anno lì, il sindaco aveva speso in tutto trecento euro, mentre il resto del gettone lo avevano trovato le associazioni con gli sponsor dei negozi del paese, ma solo per quel grande autore, e poi più nulla, che in fondo quello là, era il solo e unico evento del paese e così tanto atteso dalla cittadinanza, e ne era consapevole, il sindaco, che quel grande scrittore, sarebbe stato amato da tutti, persino dai bambini, perché studiare Pirandello o Montale, in quella scuola di quel paesotto lì, in un antico edificio non ristrutturato risalente alla metà degli anni sessanta, forse quei bambini, di studiare quella roba lì, in quell’antico e non ristrutturato edificio, con le crepe sui muri e i balconi fatiscenti che disseminavano bocconi di fascinoso e antico marmo, risalenti a quei magnifici e mai dimenticati anni Sessanta, un po’ forse si erano stancati, e invece lui che spettacolo che aveva organizzato, questo bravo sindaco!

si diceva persino che per giorni e giorni, ovunque andasse il grande narratore, tutti lo chiamassero nostro, e non perché fosse davvero loro, né perché avessero la minima intenzione di approfittarsi della sua eccessiva gentilezza e disponibilità, ma solamente per una forma di deferenza, un po’ come ci si dà del signore tra soldati, soprattutto nei film americani, così che sembrava davvero uno di loro, sembrava, e a tutti faceva un po’ piacere sembrare un caro amico o un parente di quel grande scrittore, perché diventava davvero uno di loro, cioè un po’ di tutti, e un po’ di nessuno, però non ditelo mai ad anima viva, che uno dei suoi più cari e fidati amici, di quelli veri, non di quelli inventati, mi disse un giorno in estrema confidenza e quasi in confessione che, alle volte, al gran letterato, lo indisponeva un po’ questa invadenza da parte di tutti, questa dimostrazione inspiegabile di affetto, che sentiva troppo esagerata, magari contraffatta, così pensava, per cui molti sindaci di molti paesotti, molte associazioni e molti cittadini, dove lui aveva letto i suoi libri, si volevano far grandi anche loro vicino al primo affabulatore, quasi che si sentissero un po’ tutti quanti scrittori, un po’ tutti quanti critici, insomma un po’ tutti quanti migliori di quel che erano veramente.

e questo non stava molto bene pensai, pensai così d’un tratto che alla stregua di questa offesa, fatta al gran letterato, di essere così invidiato e così apprezzato, di creare così tante aspettative e sogni, ma con così grande invadenza e intraprendenza, alla stregua di tutto ciò, forse, e dico forse, sarebbe stato meglio non invitarlo proprio a prendersi quel gettone e quel vitto e quell’alloggio, in quei paesotti di provincia, dove tutti sono un po’ peggiori di quello che sono, e che volevano solo rubargli la scena, benché tutto ciò era dovuto all’ignoranza di certo, e di non perder tempo con questi sindaci e curati di campagna, che abbiamo capito che vogliono solo farsi belli assieme a lui, e su di lui, cercando di dividersi la sua fama, la sua solo, per sentirsi migliori di quello che sono.

ma d’altronde cosa poteva fare, il magnanimo scrittore? rifiutarsi di fronte a così tanti e solerti inviti, richiesti con così tanta gentilezza e competenza, ma soprattutto così ben pagati? neanche per sogno, negare tutto questo, a quei contadinotti, a quei ragazzi di provincia che tanto ambivano a diventar famosi, un giorno o l’altro con quella scrittura così imberbe? o semplicemente perché erano stati a cena con lui? no, no, era meglio tirare avanti e far regalo di sé agli altri, seppur con qualche riserva, mi aveva detto uno dei più cari amici, di quelli veri e non di quelli inventati del grande, grandissimo scrittore.

ma che gran signore, quest’uomo magnanimo, un uomo di cultura con la C maiuscola, che stavolta avevo persino pensato che fosse un po’ meno simile a quel signore che ci si dà tra soldati, e più vicino a quello dei tempi andati, che ci si dava tra uomini anch’essi andati da tempo, e che durante gli eventi culturali, uno all’anno come aveva ben programmato il sindaco assieme al curato, incantava gli spettatori, e faceva sognare gli insegnanti dei gruppi scuola, con i bambini che in quell’occasione non mancavano di esser ripresi come fossero nel mentre di una lezione di classe, bambini vedete che vocaboli sta usando il nostro grande scrittore? prendete nota che domani vi interrogo, diceva l’insegnante, presa subito da un moto di autorevolezza, a dover istruire quelle menti ancora così vuote, ma che prima di allora aveva sempre considerato abbastanza piene, invece quel giorno proprio no, perché forse, e dico forse, quel giorno, lei, si sentiva come tutti gli altri, e cioè migliore di prima.

ma che soddisfazione vedere il primo cittadino così indaffarato a organizzare ogni minimo particolare, le cene, il pernottamento, il gettone, l’unico gettone dell’anno, che bellezza vederlo così presente tra le genti, lui che adesso promuoveva il suo evento, il più bello mai organizzato dalle altre amministrazioni precedenti, ah, sì com’era impegnato adesso, tanto che alcuni cittadini si erano finalmente rincuorati a vederlo vivo e vegeto camminare per strada o alla tv locale, a promuovere l’evento con al seguito la buona presenza del gran personaggio perché, caso strano, il sindaco si era dato per morto tutto l’anno, proprio quando chiedevano di lui in comune, che c’erano certi affari che proprio non ricordava, ma che invece i cittadini avevano ben memorizzato e a cui, non si sa bene perché, tenevano molto di più che all’arrivo dell’unico evento culturale dell’anno.

pazienza, ora dovevano aspettare tutti, le ore, i minuti e i secondi, di tre giornate, tre in tutto, che erano riservate all’ospitalità da riservare al grande autore, altrimenti che figura ci facevano con tutta la cittadinanza? che importava se poi il letterato si faceva attendere, coccolare, vezzeggiare, lusingare e poi dopo li considerava un po’ tutti ignoranti, invadenti, questi paesani? almeno quei giorni lì si sentivano tutti più importanti, persino la ragazza che penna alla mano si faceva autografare il libro che aveva letto, e nel frattempo gli regalava quello che lei aveva scritto e pubblicato con un piccolo, piccolissimo editore.

e l’intellettuale, grande sì, ma forse un po’ snervato  aveva firmato la copia, e aveva di certo gradito il libro dicendole che sì, lo avrebbe letto e le avrebbe fatto sapere cosa ne pensava, appena avrebbe avuto del tempo, che importava se fosse passato un mese o un anno? la ragazza era sempre lì, in quel paesotto che amava e odiava, e pensava a quando il grande erudito le aveva dedicato il suo libro, dicendo a tutti in paese che lui aveva la copia del suo di libro, e che lo stava leggendo attentamente, perciò quando le chiedevano, ti ha scritto? che ne pensa del tuo romanzo? lei continuava a dire, a quei contadinotti di paese, che ci voleva certo del tempo per capire bene la sua storia, e che lui a breve si sarebbe fatto sentire, dopotutto era un uomo impegnato, che il tempo gli era prezioso.

(I° premio concorso italo-russo “Raduga” 2015)

© Ambra Simeone

IL MAESTRO E IL GIOVANE ESORDIENTE
La corrispondenza tra Leonardo Sciascia e Vincenzo Consolo

 

Di Rosalba Galvagno

Con una lettera d’accompagnamento datata Sant’Agata Militello 6 dicembre 1963, Vincenzo Consolo inviava a Leonardo Sciascia il suo primo romanzo La ferita dell’aprile. Viene così inaugurata una corrispondenza che si chiuderà il 21 aprile 1988 con una lunga lettera, sempre di Consolo, inviata questa volta all’amico Sciascia da Milano. Con la sua prima missiva lo scrittore esordiente desidera sottoporre alla lettura del «Conterraneo», il suo romanzo fresco di stampa: “Egregio signor Sciascia, mi permetto inviarle il mio libro La ferita dell’aprile. Ho chiesto il Suo indirizzo alla redazione de L’Ora di Palermo per compiere questo gesto che è dettato da due motivi: riconoscenza per la parte che hanno avuto i Suoi libri nella mia formazione e desiderio d’essere letto dal Conterraneo. Spero che questo primo contatto possa dare inizio a futuri colloqui. La ringrazio intanto per l’attenzione che vorrà prestarmi e Le porgo molti cordiali saluti.”

Sciascia reagisce a questa sollecitazione con tempestività, il 12 dicembre 1963, rispondendo con parole di stima nei confronti del romanzo. Il grande scrittore di Racalmuto fa sapere al suo giovane ammiratore di aver letto il testo con molta attenzione, in più chiede alcuni «ragguagli», riguardanti specialmente la lingua utilizzata, con l’intenzione di scriverne presto una recensione.
È così che, in breve tempo, si instaura un’autentica e reciproca curiosità tra i due autori siciliani. Il più anziano, nello stesso tempo in cui invita il più giovane a presentarsi ai premi letterari di cui egli è giurato, non disdegna di apprezzarne il giudizio sulle proprie opere, come ad esempio sul recente Morte dell’inquisitore, un “libretto ora uscito (che è propriamente un libretto, ma mi è costato molto lavoro)” (Caltanissetta, 18 marzo 1964). Consolo si mostra sempre attento e sensibile ai suggerimenti dello scrittore agrigentino e ricambia l’interesse capitale che quest’ultimo nutriva per il tema dell’Inquisizione e particolarmente per la vicenda storica dell’Inquisizione in Sicilia. Lo stesso che gli fece scoprire e notevolmente apprezzare un personaggio come il racalmutese Diego La Matina, una “gigantesca figura” sulla quale Sciascia tornerà a più riprese, specialmente dopo aver letto e riletto il romanzo di Luigi Natoli, come scriverà in un bel saggio del 1967.

Sciascia, quindi, già all’inizio di questa frequentazione epistolare, propone a Consolo di presentarsi al premio Soverato con La ferita dell’aprile, appena pubblicato nella collana mondadoriana “Il Tornasole” diretta da Niccolò Gallo e Vittorio Sereni. Ma un curioso destino escluderà il giovane scrittore dalla vittoria sia di questo che di altri premi letterari cui l’amico scrittore, da giurato, lo invitava a partecipare. Caduta l’iniziale barriera formale ben presto  ̶  già a partire dalle missive risalenti al 1964, i due corrispondenti abbandonano la terza persona per la seconda  ̶  , subentra in queste lettere una confidenza diretta e spontanea, che non censura i problemi di salute o quelli legati alla famiglia e soprattutto al proprio lavoro. Insomma, la corrispondenza, in un primo momento prevalentemente letteraria, si fa anche biografia del quotidiano, come quando ad esempio Sciascia accenna ripetutamente all’acquisto e al pagamento di una certa quantità di olio, per sé e anche per l’amico Emilio Greco, dal fratello di Consolo, o alla noia che lo opprime, o ancora ai propri acciacchi fisici, o a certi obblighi familiari che si intrecciano con quelli del lavoro.

Naturalmente non poteva mancare in questo carteggio la presenza di Lucio Piccolo, che viene nominato per la prima volta da Sciascia in un post-scriptum della lettera del 15 giugno1965: «Se vedi Lucio Piccolo, salutalo tanto da parte mia». In un racconto che rievoca la prima lettera del nostro epistolario, Consolo ricorda i due scrittori, «due archetipi per me», proprio da lui fatti incontrare: «Leonardo Sciascia […] a cui avevo mandato il libro con una lettera, mi rispose chiedendomi delucidazioni sulle particolarità linguistiche della mia scrittura, e invitandomi insieme ad andare a trovarlo a Caltanissetta, dove allora abitava. Così feci. E dopo, di tempo in tempo, cominciai a frequentare, oltre Piccolo, anche Sciascia. Mi diceva Piccolo, quando gli comunicavo che sarei andato a Caltanissetta, «Mi saluti il caro Sciascia». E Sciascia, a sua volta, quando mi congedavo da lui, «Salutami Piccolo». Così, alla fine, feci in modo di far incontrare il poeta e lo scrittore, così antitetici, così lontani l’uno dall’altro: due archetipi per me, due cifre letterarie che ho cercato, nella mia scrittura, di far conciliare. L’incontro avvenne una domenica, la domenica in cui per la prima volta si celebrava nelle chiese la messa in italiano. […]. Sciascia rimase affascinato dal personaggio e ne scrisse dopo, in Carte segrete e ne la Corda pazza. Scrisse: “Tutto quello che Piccolo dice è di un’acutezza che sempre, sia che giunga a verità semplici sia che attinga al paradossale, sorprende e incanta. È uno che sottilmente conosce l’arte del conversare; i giudizi, gli aneddoti, i calembours, gli epigrammi, le citazioni scorrono nella sua conversazione con limpida e incantevole fluidità”».

Oltre all’interesse letterario e storico per la Sicilia dei secoli XVII, XVIII e XIX Consolo e Sciascia dichiarano anche di condividere l’amore per Parigi, un mito incrollabile, com’è noto, per molti aristocratici e intellettuali siciliani a partire già dal Settecento, e che scandisce a più riprese, tra il 1976 e il 1988, questa corrispondenza. Sciascia intitolerà Parigi un singolare saggio autobiografico e storico-letterario al contempo, nel quale colpisce la scoperta di Parigi fatta attraverso la Sicilia, come se Parigi gli avesse consentito di riscoprire una certa immagine dell’isola.

Tra queste lettere sui «luoghi dell’anima», c’è anche quella in cui Sciascia nomina La Noce, la contrada di campagna dove egli soleva trascorrere le sue vacanze estive e amava ospitare gli amici, che è stata immortalata in alcuni celebri scatti degli amici fotografi Ferdinando Scianna e Giuseppe Leone.

Tra il fitto scambio di libri, di articoli e di recensioni, preme infine segnalare il ripetuto riferimento di Sciascia alla bella, e oggi un po’ dimenticata, antologia dei Narratori di Sicilia, nella quale, accanto ai testi dei più significativi scrittori siciliani, appare il racconto di Consolo Per un po’ d’erba al limite del feudo che Sciascia gli aveva caldamente richiesto.

Numerose altre curiosità letterarie e aneddoti biografici riserva naturalmente la lettura integrale di questo prezioso carteggio, che condensa la vita e il lavoro di poco meno di un trentennio di due fra i più grandi scrittori del Novecento, offrendo uno spaccato singolare del contesto non soltanto letterario ma più profondamente antropologico dei due corrispondenti, un contesto da un lato fortemente radicato nell’arcaismo della cultura siciliana, dall’altro incredibilmente aperto all’Europa (alla modernità). Ma questo apparente, fecondo e affascinante contrasto costituisce, com’è noto, l’originalissima cifra della grande letteratura siciliana classica.

Note
Rosalba Galvagno ha insegnato Letterature comparate e Teoria della letteratura all’Università di Catania.
Il testo per Ferraraitalia ripropone parzialmente l’Introduzione di Essere o no scrittore: Lettere 1963-1988. Libro di Leonardo Sciascia e Vincenzo Consolo , a cura di Rosalba Galvagno, Milano, Archinto, 2019

Sulla figura e l’opera di Leonardo Sciascia leggi su Ferraraitalia:
Sergio Reyes, UN ILLUMINISTA IN SICILIA : Attualità di Leonardo Sciascia a 100 anni dalla nascita [Qui]
Giuseppe Traina, DENTRO IL GIALLO : I personaggi di Sciascia e Simenon davanti al potere [Qui]
Roberta Barbieri, RICORDANDO SCIASCIA : Una storia semplice [Qui] 

In copertina: Leonardo Sciascia con Vincenzo Consolo a Racalmuto, contrada La Noce, 1984 –  Foto di Giuseppe Leone (su licenza dell’autore)

Dalle “retrovie” delle missioni alla Chiesa tutta missionaria
Uno studio di Miriam Turrini

 

La pubblicazione è del 2017, ma mi è capitata tra le mani solo di recente. È il numero 40 dei Quaderni del Centro di documentazione della parrocchia di Santa Francesca Romana (Cedoc).
Un parroco, don Andrea Zerbini, che da anni pubblica studi di storia della chiesa locale, e non solo, e ha creato una biblioteca di decine di migliaia di titoli di scienze religiose e teologia: semplicemente geniale.
Il quaderno numero 40 s’intitola: Dalle “retrovie” delle missioni alla Chiesa tutta missionaria. Il Centro missionario diocesano di Ferrara-Comacchio (1929-2000), scritto da Miriam Turrini.
Alla storica ferrarese, allieva di Paolo Prodi e docente all’Università di Pavia, va il merito di avere fatto parlare le carte del Centro missionario diocesano come, ritengo, nessun altro avrebbe saputo fare.

Ferrara, Santa Francesca Romana

Un archivio finito nelle mani di don Zerbini, al quale si dovrebbe dire un grazie grande come una casa, per averlo custodito e valorizzato in uno studio che andrebbe prescritto come un farmaco contro la perdita di memoria. Prima o dopo i pasti non importa.
Lo studio è uno spaccato di storia ecclesiale vista dall’angolo di una diocesi, che attraversa sei papi (da Pio XI a Giovanni Paolo II), e cinque vescovi (Ruggero Bovelli, Natale Mosconi, Filippo Franceschi, Luigi Maverna e Carlo Caffarra).
La cavalcata dal 1929 al 2000 in sella al Centro missionario diocesano, è come una sonda locale che ci racconta cambiamenti e passaggi d’epoca, che non è esagerato definire sorprendenti.

Troppo spesso si giudica come minore la storia locale rispetto a quella con la esse maiuscola, ma è un errore. Leggere e diffondere queste pagine sarebbe cosa buona e giusta, non tanto per ricordare con nostalgia i tanti protagonisti, quanto per mettere a fuoco temi, intuizioni e limiti di un percorso pastorale, cui occorrerebbe prestare attenzione perché continuano a parlare al presente e dare attualissime indicazioni sul domani. È la lezione della storia, alla quale anche in ambito ecclesiale si ha l’impressione che non si presti il dovuto ascolto.

Un esempio è, appunto, il significato della parola missione, ossia la chiave di lettura della ricerca di Miriam Turrini e, allo stesso tempo, la cartina tornasole della temperatura storica che cambia ed evolve, attorno a questo tema cruciale per la chiesa.

Ai tempi del vescovo Ruggero Bovelli il linguaggio usato era delle missioni tra gli infedeli,  espressione di mentalità, cultura, teologia e pastorale. Al netto delle numerose e meritorie mobilitazioni per raccogliere aiuti in un tempo disastrato da fascismo, guerra, distruzione e miseria, scrive bene Miriam Turrini che il contesto era quello di “propagare la fede progressivamente nell’intero mondo e salvare le anime inserendole nella chiesa attraverso il battesimo” (pag. 261). Era questa, in fondo, l’ansia sottesa all’Opera della Santa Infanzia, articolazione vaticana delle allora Pontificie opere missionarie.
In un mondo essenzialmente diviso tra ‘fedeli e infedeli’, il modello era la conquista alla fede per la diffusione del Regno di Cristo e non è casuale che in questo clima la rivista per la diffusione di idee e iniziative si chiamasse Crociata Missionaria.

Per nomina dell’arcivescovo Natale Mosconi, gli anni ’50 e ’60 vedono l’allora Ufficio missionario diocesano, animato dall’impegno, ma soprattutto dal talento, di don Alberto Dioli, accanto alla vulcanica Gisa Trevisani.
Don Dioli fece a tal punto della missionarietà il principio organizzativo della propria vita, da diventare egli stesso un prete fidei donum (l’enciclica di Pio XII del 1957) e partire come missionario per l’Africa nel 1968. Fatali furono alcune chiavi di volta per comprendere quel passaggio d’epoca, fra cui i pontificati di Giovanni XXIII (dall’enciclica Mater et Magistra del 1961) e Paolo VI, oltre alla maturazione di un’idea di missione più attenta alla crescita delle chiese indigene, la riflessione sul colonialismo, l’emergere delle istanze di giustizia e promozione umana, accanto alla carità e il ritorno sul piano locale in termini di cultura ed educazione alla mondialità.
Missione non era più un semplice dare, portare e civilizzare, fra popoli avanzati e arretrati, ma iniziava a diventare una trama di rapporti nel rispetto delle rispettive originalità e culture.

Soprattutto, con il clima inaugurato dal concilio Vaticano II, iniziava a farsi strada un’idea di chiesa basata sull’ecclesiologia della comunione di chiese. Missione non erano più i soli preti missionari, ma anche l’ingresso dei laici in un compito destinato a essere non un singolo settore della pastorale, ma il modo di essere – l’intima postura – di tutta l’ecclesia, sacramentalmente concepita come locale e, come tale, universale. Una vera e propria accelerazione teologica, destinata a incontrare attriti durante l’episcopato Mosconi.
Se, da un lato, la svolta conciliare chiedeva di tradursi pastoralmente in un rapporto di aiuto innanzitutto tra chiese locali, dall’altro, Mosconi restava culturalmente dentro il modello ecclesiologico centralistico romano. Destinare prioritariamente i fondi raccolti alle Pontificie opere missionarie (PP.OO.MM.) della Santa Sede, significava che la linea economica delle risorse doveva ricalcare quella ecclesiologica, che gerarchicamente scendeva dal papa, ai vescovi, ai preti, fino al gregge dei fedeli.

Occorreva attendere l’ingresso in diocesi del vescovo Filippo Franceschi (1976), perché questo cambio di paradigma fosse riconosciuto e diventasse l’essenza di un intero disegno pastorale. Il respiro dell’Ufficio missionario (poi Centro missionario) entrava così in una sintonia speciale con quello interamente diocesano, segno di una chiesa che si scopriva tutta missionaria.
Nelle pagine di questo capitolo Miriam Turrini è esemplare nel far parlare le carte come di un vero e proprio stato di grazia che, per quanto durato pochi anni (nel 1982 terminò l’episcopato ferrarese di Franceschi), fu per tanti versi irripetibile.

La spinta di quella sintesi si protrasse per anni durante il successivo episcopato di Luigi Maverna (1982-1995), con un singolare coinvolgimento della città ben oltre i confini ecclesiali (Camera di Commercio, istituzioni, banche, scuole), nelle campagne di sensibilizzazione e raccolta fondi. Un percorso inclusivo che arrivò a inaugurare una fase di collaborazione inedita con le amministrazioni locali – Comune e Provincia – da sempre espressione della cultura politica social-comunista.

Eppure, qualcosa si ruppe rispetto al precedente periodo. Scrive Miriam Turrini: “il progetto ecclesiale organico prospettato durante l’episcopato Franceschi pare sfumare: l’arcivescovo Luigi Maverna intraprende il percorso del sinodo mentre in ambito missionario si afferma la frammentazione delle iniziative” (193).
Quello della frammentarietà di gruppi e iniziative in campo missionario è un problema che riaffiora ciclicamente nella storia ecclesiale, con limiti d’impostazione nazionale oltre alle peculiarità locali.
Con Mosconi gli attriti nascono perché la sintesi fatica a trovarsi in un paradigma ecclesiologico di tipo gerarchico, sospinto ben oltre il concilio. Sintesi, invece, che emerge durante gli anni di Franceschi, in cui ogni frammento pare trovare posto in un disegno.

Perché allora questa spinta centrifuga torna a fare problema durante Maverna, nonostante un modello pastorale imperniato sul sinodo (camminare insieme)? Tutta colpa di particolarismi e mancanza di senso ecclesiale?
Forse non basta dire sinodo perché tutto vada a posto e in equilibrio e il dubbio pare trovare conferma nelle parole di Turrini: “La conclusione dell’episcopato Maverna (…) non favorì lo sviluppo di una chiesa che operava attraverso piani pastorali condivisi” (229).

Chapeau, dunque a Miriam Turrini e don Andrea Zerbini per una ricerca assolutamente da leggere, con l’auspicio che l’intera chiesa locale sappia fare tesoro di queste pagine, come di quella miniera di sapere ed esperienze a disposizione nei quaderni del Cedoc.

NÉ MAGHI NÉ PRESAGI
Teatro Abbado e strategie culturali a Ferrara

 

Ha un sapore di rivisitazione rinascimentale, quando i sovrani per dare lustro alla propria corte chiamavano i migliori artisti, i quali, a loro volta, fornivano lustro a se stessi assicurandosi cospicui appannaggi. Tutta la vicenda intorno alla direzione, presidenza e al consiglio di amministrazione del teatro cittadino ha un po’ di questa patina antica, di un Ducato decaduto che tenta di risollevarsi dalle polveri del tempo.

Nel frattempo la politica culturale si eclissa e con essa la città. Fare rete, fare tessuto culturale non appartengono al lessico del soggetto pubblico che ci amministra. Fatti e scelte dovrebbero dar corpo ad una politica culturale per la città di cui non si conoscono né gli obiettivi, né i contenuti, se non i ‘gradita’ del deus ex machina a cui l’attuale amministrazione, evidentemente priva di idee, ha pensato di delegare l’impresa culturale cittadina, puntando a lucidare le medaglie del proprio governo.

La parola cultura è di quelle ampiamente stropicciate; nel 1947 Adorno e Horkheimer coniavano l’espressione culture industry con un obiettivo chiaramente polemico, vale a dire mettere in risalto il nesso paradossale tra cultura e industria, sottolineando l’emergere di una mercificazione e commercializzazione dei prodotti culturali. Da allora ad oggi l’industria della cultura si è ampiamente diffusa e solidificata, tanto da averci fatto perdere di vista che ‘cultura’ racchiude molteplici significati, da coltivazione della mente e dell’intelletto a prodotto delle arti, fino al modo di vivere di una società. Così, ciò che ha finito per prendere il sopravvento nell’ambito delle politiche culturali è la cultura come ‘prodotto’ anziché la cultura come ‘processo’.

Del resto è molto più facile per una città vendere ‘prodotti culturali’ che tessere la trama di ‘processi culturali’. Insomma i processi non rendono quanto i prodotti in termini di consenso elettorale, andando ben oltre la durata di un mandato amministrativo.
Trastullarsi in teatri e mostre sarà importante per l’industria del loisir, ma se non si produce, se non ci si attrezza con la cultura del futuro, non potremo neppure disporre delle risorse per permetterci di occupare i nostri loisir.

L’avvento della società della conoscenza ha rafforzato l’importanza del capitale creativo nelle economie contemporanee e il suo sviluppo è considerato la forza e il motore della crescita economica delle società occidentali.
Non c’è politica culturale autentica se la città non si interroga su quali siano le condizioni che possono stimolare e far emergere la creatività, quali strategie possono fare della nostra città un milieu creativo, ‘una città di successo’.

Perché cultura come processo? Perché il legame delle politiche culturali con le politiche riguardanti l’educazione, la formazione, la ricerca e lo sviluppo ha assunto, già a partire dall’ultimo decennio del secolo scorso, un ruolo centrale. Il successo delle strategie culturali non può più essere misurato semplicemente in termini di borderò e di biglietti staccati, ma in termini di vantaggi a partire dalla cittadinanza, in termini di miglioramenti della qualità della vita, della coesione sociale, del profilo culturale delle comunità locali.

Non ci sono atti dell’attuale amministrazione comunale che possano avvalorare un tale visione. Non vi sono segnali né della capacità né della volontà di creare sinergie tra politiche culturali e politiche urbane, dove le amministrazioni pubbliche svolgono un ruolo determinante.
Una politica culturale che utilizzi spazi e strutture a prescindere dalla città e dai suoi cittadini, tanto che avrebbe gli stessi connotati ovunque, non è in grado di rispondere ai nodi che per uno sviluppo urbano basato sulla cultura sono strategici.
Innanzitutto il pubblico. Turisti verso residenti. Il pubblico a cui le iniziative culturali sono rivolte, in definitiva l’audience.
Poi lo spazio, centro e periferia, aree da riqualificare, vale a dire l’obiettivo geografico delle iniziative culturali per amalgamare la città.

L’opposizione e la separazione tra strategie orientate al consumo culturale e strategie orientate alla promozione dei saperi e delle competenze. Sostanzialmente il rapporto tra cultura e sviluppo economico. In fine c’è il tema di sempre: l’effimero. La rete delle infrastrutture culturali: scuole, università, musei, biblioteche, istituzioni e associazioni culturali, centri artistici verso la politica degli eventi, in sintesi come e per che cosa la pubblica amministrazione spende i soldi dei suoi cittadini, con quali ritorni per il capitale umano della città. A queste considerazioni si collegano gli investimenti nel settore dell’educazione e dell’istruzione e nelle sue interrelazioni con la città, gli investimenti in milieu o cluster creativi, nell’attrazione, sviluppo e ritenzione di una classe creativa per dirla con Richard Florida, autore di The Rise of the Creative Class.

Per concludere, il direttore d’orchestra, anche se blasonato, sta suonando lo spartito sbagliato, del resto nomen omen, dicevano i latini, ma la città non ha bisogno né di maghi né di presagi, ma di idee, di politiche, di un lavoro collettivo di uomini e donne capaci di pensare la città.

LA MODA AL TEMPO DEL LOCKDOWN

I mesi di reclusione imposti dalla pandemia, hanno cambiato anche la vita quotidiana e l’abbigliamento. Anche il settore della moda ne è stato coinvolto. Non è stata la moda a dettare le pratiche, ma le pratiche ad influenzare la moda.
Il tema della sostenibilità ha acquistato più peso ed è cresciuta la domanda di un mondo ecocompatibile, capace di mantenere nelle città spazi di verde, ancorché verticale. L’orientamento ecologico ha stimolato alcuni marchi di moda a lanciare linee con materiali naturali e a fissare obiettivi etici nelle produzioni.
Dal versante delle vendite, le visualizzazioni in rete indicano una crescita di interesse per il ‘naturale’. Termini come “pelle vegan”, “cotone biologico”, “plastica riciclata” entrano nel vocabolario della moda.
L’esplosione delle tute ha accompagnato il tempo di lavoro a casa durante il lockdown, ma ha sollecitato usi più diffusi, facendo scoprire il valore della comodità, della morbidezza, ma anche del colore. Le scarpe hanno lasciato la scena a imponenti ciabatte pelose, fatte di materiali sintetici più simili a ciabatte che a scarpe, ma da portare anche fuori casa.

Si impongono abiti comodi e morbidi, ma rivisitati con colori decisi. È come se si fosse imposta una moda del lockdown connotata da una diffusa offerta di morbidezza. Lavorare a casa significa poter indossare abiti confortevoli, ma adatti al bisogno di sentirsi “presentabili” nei momenti di lavoro in videoconferenza.
L’abbigliamento della vita quotidiana interpreta bisogno di morbidezza e di praticità di una vita ricondotta alla dimensione essenziale, che non si concede neppure le cene con gli amici. Mentre le sneakers e i jeans rimangono due delle categorie di prodotto più ricercate nell’ambito della moda sostenibile, in crescita rispettivamente del 142% e del 108% su base annua.

Il tempo della pandemia ha cambiato, insieme alle relazioni, anche il modo di vestirsi. Ad esempio è cresciuto del 90% annuo l’interesse per i gioielli rigenerati. Ed è cresciuta anche la domanda di capi di moda di seconda mano e usati. In Italia in particolare è aumentata del 20% la domanda di moda sostenibile, in particolare sono i consumatori della Lombardia quelli che effettuano il maggior numero di ricerche di moda eco-friendly. Il termine “eco-pelliccia” è tra le parole chiave più usate nella moda.
Smart working e distanziamento hanno ridotto drasticamente anche le uscite per lavoro. In un’Italia profondamente cambiata in abitudini, modalità di lavoro e d’incontro, e tempo libero. Le molte declinazioni della tuta e delle ciabatte hanno imposto un abbigliamento nuovo centrato sull’essenziale e sull’eccentricità, ma proponendo un nuovo lusso: la morbidezza.
È come se il Covid ci avesse indotto ad abolire il superfluo, l’eccessivo, l’illusorio, per ricercare senso, profondità, autenticità, ma anche morbidezza e colore. Secondo un’indagine di Confartigianato, da gennaio a luglio 2020, in una situazione di forte riduzione dei consumi, si è registrato un calo del 27,9% nell’abbigliamento e del 17,3% nelle calzature. Una débâcle che ha fatto ridurre della metà la produzione delle imprese artigiane. Intanto le vendite online hanno visto una crescita del 28%. I consumatori si rivolgono a canali d’acquisto che permettono di risparmiare sui costi. In generale cresce la domanda di prodotti di moda riciclata. Gli indumenti usati raccolti da queste grandi aziende sono riutilizzati per il mercato del second-hand, smistati in paesi terzi, o recuperati per essere trasformati in nuove fibre tessili.

Per ottimizzare i percorsi di sostenibilità, salvaguardando l’occupazione nell’intera filiera tessile, è necessario però pensare, già in fase di progettazione, all’intero ciclo di vita di un prodotto, massimizzandone il valore d’uso. Solo con una buona “cultura della circolarità” applicata già in fase progettuale si impiegano meno risorse e materie prime e si riduce lo spreco mantenendo l’occupazione nella manifattura e l’economia della filiera integra.

Siamo di fronte a cambiamenti radicali ai quali la pandemia ha fatto da acceleratore e che impongono una diversa cultura della moda, che impone tra l’altro una formazione di base per i nuovi eco-fashion designe” mirata alla nuova logica del riuso. In sostanza la moda dovrà affrontare un mercato recessivo e in forte trasformazione.
Anche nella moda è il momento di prepararsi ad un mondo post-coronavirus.

PER CERTI VERSI
Guardami il cuore

Ogni domenica Ferraraitalia ospita ‘Per certi versi’, angolo di poesia che presenta le liriche del professor Roberto Dall’Olio.
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GUARDAMI IL CUORE

Guardami il cuore
Coi tuoi raggi
Fai correre le tue pupille
Sui suoi solchi
Il tuo laser
Da vicino
Mi fa ridere il sangue
Fino alle carotidi
Ho solletico
E le tempie
Battono come martelli
Su quell’incudine
Fatta di mantelli
E nebbia lungimirante
Che graffi
E che graffiti
Sono i ricordi
In un blu
Che
Spacca
Le miniere
Del sole
Sento le tue dita
Noleggiare
La mia anima
Colpita

petrolchimico-ferrara

“La fabbrica di là dal canale”
La presentazione di Patrizio Bianchi
del volume ‘Ferrara e il suo Petrolchimico’

 

Il ferrarese Patrizio Bianchi, da oggi ministro dell’Istruzioneè conosciuto dalla grande parte dei lavoratori (più anziani) del Petrolchimico di Ferrara n quanto, fin dagli anni della sua formazione scolastica (laureato in Scienze politiche all’Università di Bologna, economista), ha avuto, come ricercatore, un rapporto molto stretto con il mondo dell’industria ferrarese, per le problematiche del settore industriale e la formazione.

In tale periodo è cresciuto insieme ai ricercatori del CDS, in gran parte tecnici e ricercatori  del Petrolchimico e ad altri colleghi studenti, con i quali ha affrontato i grandi temi della politica industriale e della sua trasformazione. Al di là dei suoi successivi impegni professionali e istituzionali Patrizio Bianchi ha mantenuto sempre i rapporti con il CDS, presentando quasi ogni anno l’Annuario socioeconomico ferrarese, la presenza più recente è del 2019, mentre la pandemia ha impedito la sua partecipazione (in video) esattamente un anno fa, alla presentazione del libro Ferrara e il suo Petrolchimico, volume secondo. Riportiamo di seguito, la presentazione del libro, realizzata da Patrizio Bianchi nel mese di febbraio dell 2020. Blog Voci del Petrolchimico

di Patrizio Bianchi

Dopo tredici anni esce il secondo volume sul Petrolchimico di Ferrara, un volume che riunisce ancora una volta oltre cento autori, che propongono analisi, riflessioni e memorie su un impianto che costituisce un pilastro dell’industria europea e nel contempo un architrave della vita di un intero territorio. La memoria storica è un bene pubblico, come scrive giustamente la Presidente del Cds, Cinzia Bracci, e come tale va preservato, ma proprio la memoria è un fiore che deperisce in fretta, lasciando segni incerti nella smagliatura del ricordo. Per questo bisogna investire sulla memoria perché questa diventi storia.
Questo è ciò che ha realizzato il Cds in questi anni, il Cds ha costruito memoria, attraverso un lavoro dettagliatissimo di analisi della realtà locale, estraendone una sostanza che va aldilà della condizione specifica che l’ha originata.
Sono quarantasette anni che il Cds opera a Ferrara, tanto da essere esso stesso un pezzo di memoria collettiva della Città. Nei primi anni settanta un gruppo di tecnici del Petrolchimico ed un ristretto numero di studenti dettero vita ad una esperienza di ricerca e documentazione sindacale che vista oggi aveva caratteri pionieristici di una presenza sul territorio, in cui una “fabbrica” usciva dai suoi muri e diveniva cultura di tutta una Città.Il Cds testimoniò una fase della società italiana in cui il lavoro tornava ad essere centrale, sfuggendo tuttavia ad una tendenza ad un “operaismo” che inchiodava i lavoratori ad un fordismo che già allora volgeva al termine. In questo la posizione del Cds si fondava sulla esperienza di una “fabbrica” molto diversa da quella metalmeccanica – la Mirafiori di Torino – su cui si erano disegnati per anni le regole sindacali italiane e su cui si plasmava anche una lotta operaia che rimaneva comunque dentro la logica della catena di montaggio.
Il Petrolchimico sperimentava già allora una impresa che fondava la sua competitività sulla ricerca, anzi la fase trasformativa si riduceva ad una struttura aperta e multifunzionale che generava prodotti le cui caratteristiche venivano definite ex ante nella fase di ricerca.
La chimica dei catalizzatori – la cui evoluzione è descritta in questo volume nel capitolo di Nello Pasquini – anticipa quindi quasi cinquanta anni fa quel processo di produzione mirata che oggi chiamiamo Industria 4.0. Come tale la lotta sindacale al Petrolchimico non si attardava a rincorrere il mito dell’“operaio-massa” ma apriva la strada ad una azione sindacale imperniata sui tecnici e che vedeva nella salvaguardia del Centro Ricerche il suo punto di riferimento.
In quegli anni venne portata avanti una riflessione profonda sulla responsabilità del team di lavoro, che era straordinariamente più avanti della cultura sindacale del tempo.
Così come molto più avanti del suo tempo era l’esperimento di penetrazione nel territorio con “fabbrica, scuola, quartiere” in cui i tecnici di fabbrica agivano nel quartiere del Barco-Pontelagoscuro, per ricostruire una cultura del territorio in cui la “memoria deportata” dei tanti lavoratori di miniere chiuse, che dalle Marche erano stati trasferiti nel “quartiere di servizio” del Petrolchimico, potesse ritrovare una identità perduta.
Egualmente avanti era l’attività che il Cds ed i suoi tecnici di una fabbrica tecnologicamente avanzata fece con i sindacati dei braccianti nella vertenza con la società Bonifiche terreni ferraresi, latifondista della Bassa, che storicamente apriva i contratti del settore agricolo.

Il Petrolchimico, di cui si raccolgono qui analisi e testimonianze, è stato del resto specchio e misura della trasformazione del sistema industriale italiano. Dalla vecchia Montecatini, che nel grande mare della conglomerata, che riuniva dalle miniere ai fertilizzanti, coltivava la punta più avanzata della ricerca industriale italiana, fino alla fusione con la Edison, che dalla nazionalizzazione della energia elettrica aveva tratto una liquidità tanto ingente da portarla alla dissipazione.
Dalla “fusione del secolo” con l’Eni, orfana di Mattei ed incrocio di competenze uniche e di misteri altrettanto unici, giù giù fino alla tragica cometa di Gardini, che raggiunto il cielo della finanza mondiale scomparve in una notte buia come la storia italiana di quegli anni, fino alle multinazionali che si susseguirono nel controllo di quella fabbrica che aveva nel Centro di Ricerche il suo cuore pulsante, anglo-olandesi, tedeschi, americani, tutti che venivano pensando di insegnare e che invece imparavano in quel centro ricerche cosa fosse la nuova industria.
E d’altra parte, diciamocelo, la Città non ha mai amato, o semplicemente capito una “fabbrica” che non stava dentro la stilizzazione che in quel tempo ed anche in tempi più recenti si faceva dei rapporti di lavoro o più semplicemente dell’industria.
In realtà il Petrolchimico era la “fabbrica di là dal canale” e ciò che veniva al di dentro manteneva un carattere misterioso che non si traduceva in pezzi di ferro, così facilmente leggibili sia dalla politica cittadina che dallo stesso sindacato confederale.
L’origine del Cds affonda quindi nel bisogno di “fare cultura industriale” in un paese ed in una città che rimanevano, nonostante miracoli economici e crisi finanziarie, profondamente contadini.
Questo bisogno di “fare cultura di produzione” è rimasto sempre nel DNA del Cds ed ancora oggi che ci avviciniamo ai 50 anni di questa longeva ed ancora innovativa istituzione troviamo un Cds capace di fare cultura, fondando la propria azione sulla evidenza che approfondendo una realtà locale si possa individuare le linee evolutiva di una realtà nazionale ed europea molto più ampia.
La realtà locale viene esplorata come poche altre in Europa attraverso quello strumento unico che sono gli Annuari – vero momento in cui una comunità si auto-analizza fino a scarnificarsi – ma anche attraverso le molteplici attività culturali, che scoprono realtà economiche a noi stessi sconosciute a sottovalutate.
In una fase come quella attuale, che ha eretto la banalità a modo di governo e l’ignoranza a competenza distintiva, l’esempio del Cds che ha attraversato questi decenni con la determinazione del “fare cultura” sembra fuori luogo, ma è qui in queste pagine, in questo modo onesto ed appassionato di partecipare al bene collettivo che si ritrova un percorso di speranza futura per tutti noi.

Per visitare il blog del CDS Cultura Voci del petrolchimico clicca [Qui]

In copertina: Il petrolchimico di Ferrara (foto di Aldo Gessi)