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“Son Ebreo ed ebreo rimarrò…”, una poesia scritta da František Bass, piccolo-grande poeta, quando aveva 11 anni, nel campo di Terezin

di Maria Cristina Nascosi

Son Ebreo… è una poesia scritta da František Bass, piccolo-grande poeta, quando aveva 11 anni, in campo di concentramento.

Era nato il 4 settembre 1930, a Brno, oggi seconda città dopo Praga, della Repubblica Ceca e capitale storica dell’antica e cólta regione della Moravia.
Fu veramente un picco-grande poeta: le sue liriche, tradotte in inglese da Edith Pargeretova, son opere di spessore incredibile; il dolore, la sofferenza, specie in un bambino, son esperienze che maturano, rendono adulti anzitempo e Franta – questo vezzeggiativo fu il suo pseudonimo autoriale – le fermò, per sempre, sulla pagina scritta, piccoli capolavori di umanità negata da una delle più atroci prove che l’uomo abbia fatto subire ad un ‘altro’ uomo.
Franta fu condotto a Terezin, (Theresienstadt), il campo di concentramento dei bambini, il 2 dicembre 1941.
Quel campo, il ‘fiore all’occhiello’ di Hitler, fu il gioiello della sua mostruosa e sapiente propaganda: vi si giraron filmati, venivano fatte regolarmente visite da personaggi di spicco, per mostrare loro che il nazismo creava talenti, esprimeva cultura, non morte: in realtà i bimbi venivano poi uccisi – ne furono internati 15.000, si salvarono in 100 !! – prima del compimento del quattordicesimo anno di età.
Ecco perché il piccolo Franta, che ormai aveva oltrepassato, seppur da poco quell’età fatidica, venne condotto ad Auschwitz il 28 ottobre 1944 dove morì dopo soli 2 giorni, otto mesi prima della fine del Secondo conflitto mondiale.
La sua poesia è conservata in una bacheca di vetro nella Sinagoga vecchia di Praga, una delle culle della civiltà mitteleuropea, la capitale della Repubblica Ceca che qualche tempo fa, durante un viaggio, ebbi modo di leggere, per caso.
Mi colpii tanto e volli tradurla per proporla proprio per il Giorno della Memoria di quest’anno.
Grande è il potere di quelle parole, che si potrebbero trasporre in ogni lingua e dialetto del mondo: dietro ognuna di esse, frutto di orgogliosa identità da difendere dalla criminale damnatio memoriae, ci sono un significante ed un significato dal sapore universale.

 

František Franta Bass

Son Ebreo

Son Ebreo ed Ebreo rimarrò.
Anche se morissi di fame,
mai mi sottometterei ad alcuna nazione,
combatterò sempre
per la mia nazione, sul mio onore.
Non mi vergognerò mai
della mia nazione, sul mio onore.
Son fiero della mia nazione,
una nazione più che mai degna d’onore.
Sempre sarò oppresso,
e ancora rivivrò, per sempre.

Ricordare tutte le vittime per rimanere liberi

Giornata della memoria il 27 gennaio: quel giorno nel 1945 è liberato il campo di concentramento di Auschwitz, estrema conseguenza di un pensiero di morte, coerentemente teso fino al genocidio.
In Israele c’è un giorno dedicato, Yom HaShoah, sempre il 27, ma del giorno di Nissan. Per la differenza con il nostro calendario cade in aprile o nei primi giorni di maggio. Si era pensato al 15 di Nissan (rivolta di Varsavia 19 aprile 1943) scartato perché coincidente con l’inizio delle festività pasquali. La giornata internazionale – senza nulla togliere alla straordinarietà della Shoah – è dunque memoria di ogni sterminio.

Importante la ricorrenza in questo periodo in cui più evidenti si fanno tendenze naziste, anche nel nostro Paese. Da tempo le indica Giuliano Pontara, amico della nonviolenza (e mio) e massimo conoscitore di Gandhi. Così, più o meno, le riassume: Mondo, teatro di una spietata lotta per la supremazia; Diritto assoluto del più forte, Politica libera da ogni vincolo morale Suprematismo, Disprezzo per il debole, Violenza glorificata, Obbedienza assoluta, Dogmatismo fanatico. Importante è nel nostro Paese dove il fascismo, padre del nazismo, ha avuto origine. Circostanza dimenticata o sottovalutata, magari accompagnata dal richiamo al vasto sostegno popolare conseguito dal regime. Come se questo non comportasse, proprio perciò, maggiore attenzione alla situazione che si profila. Intanto il dannunziano Vittorio Sgarbi, molto ascoltato dagli amministratori di Ferrara, propone una mostra e l’intitolazione di una strada o piazza in onore di Italo Balbo, squadrista e quadrumviro. Non mi pare fuori luogo pensare a quando il fascismo ha mosso i propri sanguinosi passi, anche nella mia città, giusto cento anni fa.

Nella documentata “Inchiesta socialista sulle gesta dei fascisti in Italia”, pubblicata nel giugno del 1921, trovo a Ferrara, nel solo mese di gennaio: il 3 Alfredo Brugnoli è aggredito e bastonato da una trentina di fascisti; il 10 è la volta di Alfredo Brugnoli (che ho ben conosciuto) salvato dall’intervento di compagni e, per una volta, dalle forze dell’ordine; il 18 a Gaibanella squadristi bastonano operai che cantano inni proletari; sempre il 18 aggressione a Giacomo Matteotti, tafferugli tra fascisti e socialisti e socialisti arrestati; il 19 un fornaio che canta Bandiera Rossa è fatto segno di revolverate e ferito a una gamba, il vice commissario perquisisce lui e i suoi compagni. fornai pure loro, nessuno è armato, nessuna ricerca dei responsabili malgrado le indicazioni; il 20 l’assessore comunale Autunno Ravà è insultato e provocato, l’intervento di numerosi compagni evita il peggio; sempre il 20 Matteotti uscendo dall’ospedale, dove ha fatto visita a un operaio ferito, è aggredito a sassate, che colpiscono non lui ma operai accorsi; ancora il 20 a San Martino bastonatura del capo lega; il 23 sempre a San Martino ferito da una revolverata il compagno Fioravante Bernagozzi; ancora il 23 a Cona squadristi assaltano la Camera del Lavoro con scambio di revolverate e due fascisti feriti, i carabinieri arrestano 15 leghisti; il 24, giorno successivo, i fascisti tornano a Cona e incendiano la Lega; sempre il 24 incendiano pure la Lega di San Martino; ancora il 24 a Denore sono feriti cinque operai a revolverate, due gravemente; il 26 è incendiata nella notte la Lega di Fossanova; ancora il 26, nella tarda serata, a Cona una bomba è scagliata contro il Sindacato operaio. Poi sarà peggio, fino alla Marcia su Roma.

Così Matteotti, su  La Lotta di Rovigo del 7 gennaio 1922, commemora i trucidati antifascisti del vicino Polesine: Giù il cappello, signori della borghesia! Sono i nostri poveri compagni che vi guardavano, signori della borghesia! Giù il cappello, e guardateli pur voi questi poveri, che senza odio vissero e nell’angoscia della morte non seppero odiare. Questa è la pagina del ricordo e il ricordo nella nostra umana dottrina è sinonimo di amore. Noi ricordiamo i morti per amore dei vivi, non per odio ai carnefici. Se i morti ci lasciarono un pegno, esso fu di spargere il bene per quelli che rimangono.
Signori della borghesia, guardate i nostri morti! Li uccideste voi, ma sono nostri, guardateli e, se potete, dalla luce dei loro occhi imparate ad amare, ma non li toccate. Essi furono uccisi da voi; ma noi li seppelliremo. Voi apriste le fosse, noi le ricopriremo di fiori; perché li uccideste? Furono uccisi perché vollero essere fra i primi a dire la parola dell’unione, della buona battaglia incruenta in nome dell’Ideale. Furono uccisi, perché alzarono il capo dalla terra e guardarono in faccia il signore. Perché dissero: «Siamo legati alla gleba che amiamo, ma non siamo servi del nostro simile». Non per altra ragione ebbero il cuore trafitto, il cranio spezzato, le povere carni martoriate.
Ognuno cadde presso la sua casa, perché una macchia di sangue restasse sulla soglia e creasse, non il vendicatore, ma il figlio della vittima, ma il successore al posto di combattimento lasciato vuoto dal padre. Ogni vittima è di un paese diverso, perché ogni paese aveva fatto la sua battaglia e perché ogni paese avesse il suo martire. Così vollero i signori della borghesia, per punizione del servo che volle essere uomo e non pensarono che la loro bieca volontà crea uomini d’acciaio.
Dormite in pace, morti gloriosi! Nessuno vi tocca. Altri morti girano per le contrade del Polesine e d’Italia in attesa d’essere vivi. Risorgete in ispirito con loro. Se apriste, gli occhi, non vedreste che rovine. Tante rovine! Lasciate che vi liberiamo le sedi ove parlaste, che vi liberiamo la terra ove lavoraste. I morti che girano, vi ripetiamo, stanno per lasciare la veste del lugubre silenzio, attendete!
Voi non odiaste: amaste soltanto. Vi sarà resa tutta la libertà, tutto l’amore. Non per voi, non per i vostri corpi mortali, ma per il vostro spirito vivente nelle vostre creature.
Giù il cappello, se volete che i figli dei morti partiscano in un’era migliore, coi vostri figli, il pane del lavoro.

L’invito va accolto, anche ora, da chi trae profitto dalla violenza passata e presente e dalla profonda diseguaglianza economica e sociale. La diseguaglianza è alla base – lo ricorda sempre Pontara – del malessere della società, che giunge fino alla barbarie nazista. I privilegiati trovano sempre volonterosi scellerati al loro servizio. La maggioranza volta la testa per non vedere, sperando di non essere vittima. Poi si unisce ai plaudenti. Una presa di coscienza, il rispetto alle vittime sono dunque preliminari alla costruzione di un percorso di liberazione. Verità e riconciliazione è la lezione che si viene dal Sudafrica. Intanto bisogna sapere opporsi in tempo. Nella notte dei cristalli, 9-10 novembre 1938, 267 sinagoghe furono distrutte, non quella di Schiederwindt. Fece scudo con il proprio corpo il Presidente della Provincia. Di fronte alla sua decisione le squadre d’assalto si ritirarono.

Questo articolo è recentemente apparso sull’edizione in rete della storica rivista del Movimento nonviolento [www.azionenonviolenta.it]

In copertina: i funerali di Giacomo Matteotti (wikimedia commons)

Vite di carta /
27 gennaio 2021: giornata della memoria

Vite di carta. 27 gennaio 2021: giornata della memoria

Di mercoledì cade in questo 2021 la giornata della memoria. Ai primi di gennaio scrivo diligentemente sul nuovo calendario da appendere in cucina le date notevoli, che vanno rispettate nel nuovo anno. Scrivo le ricorrenze familiari, a partire dai compleanni di chi non c’è più, fino a quelli dei più piccoli, i due nipotini così pieni di futuro. Scrivo le date di qualche visita medica già fissata, o incontri programmati con gli amici, pochi in verità in tempo di Covid. La giornata del 27 gennaio non ha bisogno di essere scritta, è un riferimento fisso e ineludibile. Da insegnante l’ho onorata con le attività da fare a scuola insieme ai ragazzi, come le maratone di lettura che occupavano tutta la mattina nell’atrio grande della scuola. Bisognava iscriversi per tempo per non restare esclusi, si cercavano testi e immagini da condividere. Alcuni si schermivano, ma la più parte degli studenti voleva leggere davanti agli altri anche solo poche righe.

Quest’anno da neopensionata rileggo alcuni testi su cui ho già lavorato, col gusto di ricordare il già fatto e di lasciare altri segni a matita sulle pagine, di impadronirmi di alcuni frammenti in totale libertà di movimento,  senza la bussola della didattica.

Apro Vanadio, il penultimo dei racconti compresi nella raccolta Il sistema periodico uscita nel 1975. Herr Müller risponde cortesemente che una piccola dose di vanadio può facilitare la reazione chimica sperata per le vernici, perché riescano di buona qualità. La sua lettera è la prima di una serie con cui risponde a un chimico italiano di lunga esperienza, persona cortese a sua volta e dotata di grande competenza. Il suo nome è Primo Levi. Ha cominciato lui lo scambio epistolare per segnalare che sembra difettosa una partita di resina fatta venire dalla Germania, dalla prestigiosa fabbrica in cui Herr Müller lavora.

Dalla risposta che ha ricevuto, Levi si accorge che il suo corrispondente tedesco fa un errore di ortografia, scrive Naptylamin anziché Naphthylamin. Anche quel Doktor Müller che veniva spesso a fare ispezione al laboratorio chimico del lager aveva questo vezzo. Era un borghese, dall’aspetto corpulento e autorevole, che controllava il lavoro fatto da Primo e dagli altri due prigionieri specialisti in chimica.

Nelle lettere che seguono avviene lo svelamento: da un ‘pt’ sbagliato esplode la memoria del passato, che in Primo è rimasta intatta, “di una precisione patologica”. Primo manda a Herr Müller il suo libro sul lager, Se questo è un uomo; chiede se Müller conosceva allora gli “impianti” di Auschwitz: non può non andare a fondo nel dialogo che si è riaperto dopo tanti anni – siamo nel 1967 –  “con uno di quelli di laggiù, che avevano disposto di noi, che non ci avevano guardati negli occhi, come se noi non avessimo avuto occhi”.

Nella sua risposta il tedesco dice di deplorare i fatti di Auschwitz, dice di esserci stato per poco tempo e di essersi occupato solo dell’attività del laboratorio. Si è riletto le annotazioni prese a quel tempo e vorrebbe incontrare Primo, di cui ha mantenuto un ricordo speciale. A Primo aveva procurato allora un paio di scarpe, e ora dice di avere provato empatia per lui durante le brevi visite in lager.

Trascrivo le parole di Levi, insostituibili: “Forse, in buona fede, si era costruito un passato di comodo…Durante il suo breve soggiorno ad Auschwitz ‘non era mai venuto a conoscenza di alcun elemento che sembrasse inteso all’uccisione degli ebrei’. Paradossale, offensivo, ma non da escludersi: a quel tempo, presso la maggioranza silenziosa tedesca, era tecnica comune cercare di sapere quante meno cose fosse possibile, e perciò non porre domande… Müller continuava dunque, nel momento in cui scriveva, a non avere ‘keine Ahnung’, a non rendersi conto”.

Quando Primo si accinge a rispondergli, è pieno di perplessità e intende scrivere che non vuole incontrarlo. Può provare rispetto per lui, perché in fondo ha condannato il nazismo, seppure timidamente, non ha cercato giustificazioni, ma non può amarlo né desiderare di rivederlo. Nessuna redenzione dal passato, nessuna distorsione. Il racconto si chiude con la notizia della morte improvvisa del Dottor Lothar Müller, che pone fine a qualunque iniziativa di incontro tra i due.

Dalla raccolta La notte sul mondo (Auschwitz dopo Auschwitz) del mio caro amico Roberto Dall’Olio leggo la poesia dedicata ad Anne Frank, alcuni versi sono particolarmente belli: “non si poteva camminare/nel tuo nascondiglio/se non nelle ore stabilite/la stessa tua casa/oggi calcata da tante scarpe/da tante gambe volti lingue/e folla che omaggio ti reca/avessi tu avuta questa libertà/tenera e dovuta”. La poesia si riferisce al nascondiglio, in cui Anne e la sua famiglia sono stati rifugiati per 761 giorni nel centro di Amsterdam, tra il luglio del 1942 e l’agosto del 1944.

La stanza, in cui Anne ha trascorso il tempo della sua scrittura e dove si è formato il suo celebre Diario, l’ho vista ricostruita in un bellissimo documentario trasmesso da Rai1 sabato scorso, per la regia di Anna Migotto e Sabina Fedeli: Anne Frank. Vite parallele. Dentro la stanza si muove l’attrice Helen Mirren, che ora osserva le pareti e le suppellettili, ora siede e prende tra le mani il diario a scacchi rossi di Anne. Legge le pagine della adolescente che è divenuta il simbolo della Shoah. Intanto si incrociano a questa altre storie di donne che hanno vissuto la deportazione nel lager nazisti, ma sono sopravvissute. Quando appaiono sul video si rivelano anziane donne dall’aspetto curato. Sono i ricordi che liberano guardando la cinepresa a tradire un passato straziante, che non è normale e non è umano. Come è stata la loro vita dopo il lager? Dopo una faticosa rielaborazione del passato, dei sensi di colpa per essere rimaste in vita, si sono poste come testimoni instancabili della shoah. Non ne ricordo il nome, ma ho negli occhi la camminata lenta di una di loro, che ogni settimana fa visita al campo di Terezin. Mentre varca l’ingresso principale vacilla lievemente e si appoggia allo stipite prima di riprendere a muoversi, ha 93 anni e indossa un cappotto pesante contro il gelo di questi mesi invernali. Credo che così facendo compia ancora oggi, così vecchia e stanca, il dovere di ricordare e far ricordare ciò che è stato.

Un breve flash dai telegiornali visti in queste settimane mi riporta la figura di Liliana Segre, che a 90 anni occupa la sua poltrona in Senato. Ha affrontato un lungo viaggio in treno per essere presente e per sostenere col suo voto e col suo profondo senso civico il Governo in questa fase delicata e confusa. La bella faccia di Sami Modiano è comparsa domenica sera su Rai3 durante una intervista a Walter Veltroni, che ha scritto la storia di questo “bambino che tornò da Auschwitz” dal titolo Tana libera tutti appena uscito presso Feltrinelli.

Segre e Modiano sono qui. Come sarebbe stata la vita di Anne Frank se fosse sopravvissuta al lager di Bergen-Belsen, dove invece morì nel febbraio del 1945? Il documentario su di lei e sulle altre cinque sopravvissute pone questa domanda. Una tra le risposte possibili, forse la migliore risposta viene da Katarina, una adolescente di oggi, che nel filmato percorre a ritroso le tappe di quella storia di morte, incontra le testimoni della Shoah e finalmente approda ad Amsterdam alla casa di Anne, alla stanza dove Helen Mirren ha finito la lettura del diario ed esce lasciandole il posto. Scrivere un proprio diario di viaggio attraverso hashtag e sms, entrare nella stanza di Anne Frank è un bel modo di ricordarla.

Anche i ragazzi che Roberto Dall’Olio ha accompagnato al campo di Auschwitz hanno fatto un lungo viaggio; dalle parole finali della prima poesia della raccolta, Auschwitz la prima volta, comprendo che è stato soprattutto un viaggio dentro loro stessi: “schnell schnell juden /siamo in fila/per visitare l’inferno/perché tutto questo? Perché/questo epocale inverno?”

I testi a cui faccio riferimento nel testo sono:

  • Primo Levi, Il sistema periodico, Einaudi, 1975
  • Primo Levi, Se questo è un uomo, Einaudi, 1958
  • Roberto Dall’Olio, La notte sul mondo (Auschwitz dopo Auschwitz), Mobydick, 2011
  • Walter Veltroni, Tana libera tutti, Feltrinelli, 2021

 

In copertina: particolare di Le foglie cadute di Menashe Kadishman, in mostra permanente al Museo Ebraico di Berlino.

Per leggere gli altri articoli e indizi letterari della rubrica di Roberta Barbieri clicca [Qui]

Le scarpette rosse di Joyce Lussu
Una poesia sulla Shoah

La tragedia della Shoah ha toccato il cuore di moltissimi poeti e autori e quindi sono innumerevoli le poesie e i testi dedicati allo sterminio ebraico. La sottoscritta, negli ultimi anni, soprattutto su questa testata giornalistica, ha pubblicato decine di articoli sugli ebrei e sulla Shoah e, per non ripetermi, quest’anno la mia scelta è caduta sulla struggente e veritiera poesia della scrittrice Joyce Lussu, datata 1944: non esiste nulla di più emozionante e terribile, nella Giornata del Ricordo della Shoah, per non dimenticare. Sì, perché non si può dimenticare lo sterminio di oltre un milione e mezzo di bambini. Un bambino di soli tre anni e mezzo a Buchenwald, con il numero ventiquattro di scarpe, che non potrà più indossare le sue scarpette rosse, praticamente nuove. Lui non sapeva nemmeno cosa significasse essere ebreo, come tutti i bambini nei campi di sterminio. La demenziale politica nazista nei confronti dei bambini fu ancor più crudele e devastante poiché erano proprio i bambini i primi ad essere eliminati.

C’è un paio di scarpette rosse 

C’è un paio di scarpette rosse
numero ventiquattro
quasi nuove:
sulla suola interna si vede
ancora la marca di fabbrica
“Schulze Monaco”

C’è un paio di scarpette rosse
in cima a un mucchio
di scarpette infantili
a Buchenwald.
Più in là c’è un mucchio di riccioli biondi
di ciocche nere e castane a Buchenwald.
Servivano per fare coperte per i soldati.
Non si sprecava nulla
e i bimbi li spogliavano e li radevano
prima di spingerli nelle camere a gas.

C’è un paio di scarpette rosse
di scarpette rosse per la domenica
a Buchenwald.
Erano di un bimbo di tre anni, forse di tre anni e mezzo.
Chi sa di che colore erano gli occhi bruciati nei forni,
ma il suo pianto lo possiamo immaginare,
si sa come piangono i bambini
anche i suoi piedini
li possiamo immaginare.
Scarpa numero ventiquattro
per l’eternità
perché i piedini dei bambini morti
non crescono.

C’è un paio di scarpette rosse
a Buchenwald,
quasi nuove,
perché i piedini dei bambini morti
non consumano le suole…

Esisterà mai una Giornata della Memoria senza atti di antisemitismo, dichiarazioni deliranti a carico di certi personaggi, senza dimenticare i patetici negazionisti? Purtroppo la cronaca ne è piena, dandoci la dimostrazione che la macchina della menzogna e dell’odio verso le diversità è ancora troppo potente. Gli odiatori del popolo ebraico vanno considerati degli Ignorantoni con la i maiuscola, come gli autori della lettera anonima di carattere antisemita recapitata giorni fa al Meis (Museo Ebraismo e della Shoah) di Ferrara a dimostrazione che non è vero che nella nostra città non succede mai niente…

“Coro dei superstiti”:
una poesia di Nelly Sachs 

Coro dei superstiti 

Noi superstiti
dalle cui ossa la morte ha già intagliato i suoi flauti,
sui cui tendini ha già passato il suo archetto –
I nostri corpi ancora si lamentano
col loro canto mozzato.
Noi superstiti
davanti a noi, nell’aria azzurra,
pendono ancora i lacci attorti per i nostri colli –
le clessidre si riempiono ancora con il nostro sangue.
Noi superstiti,
ancora divorati dai vermi dell’angoscia –
la nostra stella è sepolta nella polvere.
Noi superstiti
vi preghiamo:
mostrateci lentamente il vostro sole.
Guidateci piano di stella in stella.
Fateci di nuovo imparare la vita.
Altrimenti il canto di un uccello,
il secchio che si colma alla fontana
potrebbero far prorompere il dolore
a stento sigillato
e farci schiumar via –
Vi preghiamo:
non mostrateci ancora un cane che morde
potrebbe darsi, potrebbe darsi
che ci disfiamo in polvere
davanti ai vostri occhi.
Ma cosa tiene unita la nostra trama?
Noi, ormai senza respiro,
la nostra anima è volata a Lui alla mezzanotte
molto prima che il nostro corpo si salvasse
nell’arca dell’istante –
Noi superstiti,
stringiamo la vostra mano,
riconosciamo i vostri occhi –
ma solo l’addio ci tiene ancora uniti,
l’addio nella polvere
ci tiene uniti a voi. 

Nelly Sachs (1890 – 1970)*
(Traduzione di Ida Porena)

Tratto da: Nelle dimore della morte, in Al di là della polvere”, Torino, Einaudi, 1966

La memoria necessaria

Shemà 

Voi che vivete sicuri
Nelle vostre tiepide case,
Voi che trovate tornando a sera
Il cibo caldo e visi amici:
Considerate se questo è un uomo,
Che lavora nel fango
Che non conosce pace
Che lotta per mezzo pane
Che muore per un sì o per un no.
Considerate se questa è una donna,
Senza capelli e senza nome
Senza più forza di ricordare
Vuoti gli occhi e freddo il grembo
Come una rana d’inverno.
Meditate che questo è stato:
Vi comando queste parole.
Scolpitele nel vostro cuore
Stando in casa andando per via,
Coricandovi alzandovi:
Ripetetele ai vostri figli.
O vi si sfaccia la casa.
La malattia vi impedisca,
I vostri nati torcano il viso da voi.
Primo Levi (1919 – 1987)

Ritratto della famiglia Levi, gennaio 1927 (Wikipedia Commons)

Vehuda Amichai

Dopo Auschwitz non c’è teologia:
dai camini del Vaticano si leva fumo bianco,
segno che i cardinali hanno eletto il papa.
Dalle fornaci di Auschwitz si leva fumo nero,
segno che gli dei non hanno ancora deciso di eleggere
il popolo eletto.
Dopo Auschwitz non c’è teologia:
le cifre sugli avambracci dei prigionieri dello sterminio
sono i numeri telefonici di Dio
da cui non c’è risposta
e ora, a uno a uno, non sono più collegati.
Dopo Auschwitz c’è una nuova teologia:
gli ebrei morti nella Shoah
somigliano adesso al loro Dio
che non ha immagine corporea né corpo:
Essi non hanno immagine corporea né corpo.
Paul Celan (1920 – 1970)

Paul Celan con Petre Solomon, Bucarest 1947 (wikimedia commons)

VIDEO DELLA SENATRICE A VITA LILIANA SEGRE AL PARLAMENTO EUROPEO

 

In copertina:Treno al Binario 21 nel Memoriale della Shoah di Milano (Wikimedia Commons) 

LO STRISCIONE PER GIULIO REGENI:
un mezzo risarcimento, ma meglio tardi che mai

Oggi è il 25 gennaio del 2021. Sono passati esattamente 5 anni dal rapimento, dalle torture e dalla morte di Giulio Regeni. La verità che la famiglia e tutti gli italiani chiedono non è ancora venuta fuori. Colpa dell’Egitto, ma non solo. L’Egitto è un partner commerciale troppo importante (deve acquistare soprattutto aerei italiani) e, per compiacerlo, il governo italiano si guarda bene dal ritirare il proprio ambasciatore a Il Cairo.
Intanto, da 5 anni, sul palazzo comunale di tantissime città italiane rimane appeso lo striscione giallo di Amnesty International per chiedere la verità sulla morte di Giulio Regeni.
Fino a un anno e mezzo fa a Ferrara lo striscione giallo è rimasto lungo lo scalone del municipio, quando una notte è stato rimosso con un atto vandalico di matrice fascista. In tutto questi mesi si sono moltiplicate le voci di gruppi, associazioni, organi di stampa – anche questo giornale – per chiedere al nuovo Sindaco leghista Alan Fabbri  di ripristinarlo nella medesima posizione. Giunta e Sindaco hanno continuato a fare orecchie da mercante e avanzare scuse risibili.
Solo oggi, dopo più di  500 giorni, lo striscione è stato ripristinato, anche se collocarlo su Palazzo Paradiso appare un risarcimento a metà, perché appeso sul palazzo sede del Comune aveva un valore simbolico diverso e più alto. Bentornato comunque, meglio tardi che mai, senza quello striscione Ferrara era un po’ orfana: oggi, esattamente come cinque anni fa, vogliamo la VERITA’ PER GIULIO REGENI.

In copertina: lo striscione per Giulio Regeni appeso sulla facciata di Palazzo Paradiso, sede della Biblioteca Ariostea – foto di Beniamino Marino

DIARIO IN PUBBLICO
Fragilità, parola mistificata

Nei pochi oggetti di qualità che ornavano la nostra casa un tempo spiccavano alcuni vasi antichi e soprattutto dei piccoli bassorilievi in terracotta. Bambino curioso come pochi mi compiacevo di maneggiarli o di giocarci. Scattava allora l’ammonizione di nonna o di mamma: “Nanin, stai attento che son fragili!”, con immediato ritiro dell’oggetto.

Ora mi ritrovo ‘fragile’ come quegli oggetti e la reazione è rabbiosa perché, purtroppo, da filologo e/o italianista non sopporto più l’abuso stomachevole di alcune parole-simbolo che invadono ogni piega pubblica e privata dell’esserci. E mi viene da imprecare sia contro la seria ammonizione degli scienziati che masticano la parola ‘fragile’ come fosse un biscottino e le infinite interpretazioni che i poco informati speakers o pseudo giornalisti o attori o comparse in tv, sui social, e via enumerando danno di questa parolaccia. E ripensando al senso della parola di fronte, allo svenevole slogan filmato da Tornatore, sorge altissimo l’inno di guerra che incita a dire “Fragil, to nona! Che per i non ferraresi significa Fragile! Un c….o”.

Siamo di fronte al peggio, anche rispetto all’ ‘assolutamente sì/no‘, che ormai viene usato anche nei privatissimi bagni di casa nostra. Travolti dalle ‘problematiche/tematiche’ e dagli imprestiti da lingue straniere (ah, i lockdown!) mi aggiro spaesato nella selva dei segni oscuri e trovo pace nel leggere non solo prosa ma anche poesia.

Forse avrò qualche risposta alla mia domanda, ma non l’ho ancora incontrata oltre la “canna pensante” di Pascal: “L’uomo non è che una canna, la più fragile di tutta la natura; ma è una canna pensante”. O questo splendido pensiero di Michelangelo:”Desti a me quest’anima divina e poi la imprigionasti in un corpo debole e fragile, com’è triste viverci dentro”.
Quindi, Illustrissimi, datevi una mossa e smettetela di usare in modo coatto e cretino le parole! Quelle sì sono fragili; più degli oggetti della mia infanzia.

Stiamo per uscire anche dal tormentone provocato dall’assunzione di Ovadia e dalle dimissioni del presidente Resca e del CdA del Teatro Comunale di Ferrara. Per fortuna! A mio piccolo avviso l’unico che ne esce con onore è un membro del dimissionario Cda: Massimo Acanfora Torrefranca. Ne dirò, forse, le ragioni in altro momento. Ora a un non-fragile vecchio, Pier Luigi Pizzi, 91 anni, è stata affidata la Presidenza del Teatro comunale.

Intanto godo come un riccio ad apprendere la nomina di Procida a capitale della cultura. Chi ha letto qualche volta i miei trascorsi letterari forse ricorderà la descrizione dell’isola incantata. E prepotente mi ritorna in mente la raccomandazione che l’Amatissima mi fece dal letto dell’ospedale mentre la salutavo partendo per gli USA: “Gianni, se andrai ancora sulla nostra isola porta un rametto di gelsomino con te e mettilo nella mia casa”. Procida è per me tra i pochissimi luoghi che hanno una valenza, legata soprattutto alla universalità della poesia. E chi vi ha abitato non può che rendersene conto. Così salendo verso la fortezza dei d’Avalos potevi incontrare Beppe Barra, o sua madre e se eri particolarmente fortunato, Elsa con i suoi amici.

Di questa consapevolezza è ora testimone diretto un ricco volume, il n.18, 2020 della rivista Contemporanea, pubblicato sia online che in cartaceo da Fabrizio Serra editore. Il mio paziente e straordinario tecnico (san) Lorenzo Caruso sta cercando di recuperare tutte le testimonianze che affidai al computer del mio soggiorno procidano. Spero che riaffiorino. Semmai sarà la memoria che comincerà il lavoro di riappropriazione del passato e che, se le forze mi sosterranno, sarà l’ultimo atto d’amore per Elsa.

E’ notte. Ho appena visto il film Anne Frank. Vite parallele. Di grande qualità e necessità. Basterebbe solo vedere come Helen Mirren legga le pagine del Diario di Anne, i movimenti della bocca, l’espressione degli occhi per capire che la memoria va preservata e affidata all’arte affinché quest’ultima possa codificarne l’universalità e la necessità.

Per leggere gli altri interventi di Gianni Venturi nella sua rubrica Diario in pubblico clicca  [Qui]

Per la Giornata della memoria
“L’ebrea! Io, Liliana, ho scelto la vita”
Reading al Microfestival delle storie

Dalle dichiarazioni e dai racconti di Liliana Segre, nasce il reading teatrale, curato dall’associazione Orizzonte degli eventi, L’ebrea! Io, Liliana, ho scelto la vita. Il Microfestival delle storie, in collaborazione con l’associazione no profit, propone per la Giornata della memoria una videotestimonianza in cui viene data voce a quanto vissuto dall’onorevole Segre negli anni della deportazione. Il video sarà trasmesso il 30 gennaio alle 21 sulla pagina facebook del Microfestival delle storie e di Ferraraitalia [Qui] , La proiezione sarà introdotta dal vicesindaco Consuelo Pavani e da Marco Mucci di Orizzonte degli eventi.

Scheda tecnica dello spettacolo a cura di Orizzonte degli eventi

I testi che abbiamo selezionato, tratti dalle dichiarazioni e dai racconti dell’onorevole Segre, formano un corpo teatrale di circa un’ora, in cui quattro donne si avvicendano nel raccontare il percorso della Liliana ragazza, prima, durante e subito dopo i rastrellamenti e la detenzione nei campi di concentramento nazisti. In scena sono presenti anche una quinta voce narratrice (che funge da congiunzione fra le varie interpretazioni) e una costante proiezione sul fondo, che è un’illustrazione di cosa significhi oggi la persecuzione etnica, e funge anche da illuminazione per una azione scenica abbastanza dinamica, ma raccolta. Lo stile narrativo è di impostazione moderna, abbiamo scelto di discostarci dalla lettura troppo drammatica e istituzionale, per fornire un racconto più caldo e vicino allo spettatore, che metta in risalto il dettaglio della memoria e fugga dagli schemi narrativi solitamente scelti per illustrare questo genere di argomenti, non solo per rispetto verso una memoria di cui noi non abbiamo una esperienza diretta, ma anche per avvicinare il documento di presentazione de L’ebrea! Io, Liliana, ho scelto la vita.
La videotestimonianza è diretta da Marco Mucci e Marco Barin, con Giorgia Forno, Rossana Vallese Turrato, Letizia Zambon, Rita Marchioni, Luana Volpe.

In copertina: Liliana Segre con il padre Alberto (Wikipedia commons)

SCHEI
Io ti banno (come la censura privata orienta il pubblico consenso)

Quando CNN e MSNBC hanno deciso di togliere la parola (staccando il collegamento) a Donald Trump, presidente Usa in carica ma perdente, che il 6 novembre 2020 farneticava in diretta televisiva degli inesistenti brogli di cui sarebbe stato vittima, di primo acchito ho esultato: ecco l’informazione libera che si ribella alle fake news, anche se è il tuo Capo di Stato a diffonderle. Poi, a botta fredda, ho iniziato a pensare a come fosse stato possibile che Trump, un uomo che aveva costruito tutta la sua comunicazione sulle fake news diffuse in buona parte attraverso i media, fosse riuscito a diventare il Presidente degli Stati Uniti a dispetto di tutta la “informazione libera”, in primis quella del suo paese. Meglio tardi che mai, si potrebbe dire, se lo scopo è smascherare le falsità di un potente. Temo però che sia legittima anche un’ altra lettura di questo evento: il potente viene bannato, ridicolizzato, censurato solo quando il suo potere sta crollando. Fino a quando è stabilmente sul trono, il teatro della comunicazione ammette il dissenso, ma non discute le fondamenta di cartapesta del Truman Show costruito dal potente. Invece, quando il potente annaspa, abbarbicato al trono che scricchiola, solo allora il mondo della comunicazione fa cadere i proiettori dal soffitto e fa sbrecciare il fondale del finto panorama marino, gli elementi della storia farlocca che il potente ha raccontato ai sudditi per diventare il sovrano. E allora però la sensazione di essere manipolati non diminuisce, ma aumenta.

Nemmeno George Orwell immaginava che alcune sue intuizioni sarebbero state tanto profetiche. Le sue simpatie socialiste e democratiche gli fecero scrivere, sia in termini giornalistici che letterari, parole seminali contro il totalitarismo di Stato, incarnato storicamente da quella Unione Sovietica parodiata ne “La fattoria degli animali”. Eppure, nemmeno il visionario Orwell di “1984” e del “Grande Fratello”  poteva immaginare che il controllo sociale e l’orientamento del consenso sarebbero passati nelle mani di privati, e che quei privati sarebbero diventati più potenti degli Stati sovrani.

Facebook è nato come una piazza virtuale tra universitari per dare i voti alle ragazze. Progressivamente è diventato il social media più influente e capillare del pianeta, e alla fine del giro è diventato il posto nel quale l’ analfabeta funzionale si forma la sua opinione e poi vota Trump, o Salvini o Meloni o Le Pen (sillogismo aristotelico: non tutti coloro che votano questi signori/e sono analfabeti funzionali, sia chiaro; però gli analfabeti funzionali che votano, votano questi signori/e). Come sia stato possibile che l’espansione planetaria di questo strumento abbia disegnato una parabola circolare, che sia stato utilizzato da tutti, compresi gli intellettuali e i geni del pianeta, per poi tornare come in un gioco dell’oca alla casella di partenza dell’ignoranza, Dio solo lo sa (oltre a Zuckerberg). Con la differenza che un social “ignorante” usato da studenti universitari potrebbe essere inteso come una operazione con un senso, seppur frivolo e goliardico, mentre quello che accade adesso sul social network più mainstream fa venire i brividi per l’assoluta inconsapevolezza della propria buaggine da parte di certi leoni da tastiera. Questo non significa che non eserciti un potere immenso sulla mente delle persone: tutto il contrario. Pensate a quanto tempo della vostra giornata “cazzeggiate” su Facebook, e pensate alla genialità totale, perversa, di chi ha intraveduto le potenzialità commerciali di questo strumento: una piazza in cui ognuno può dire la propria opinione, anche se “la propria opinione” non esiste, perchè l’organismo mononeuronale di turno non si è mai messo nelle condizioni di potersi formare una opinione, nonostante le illimitate possibilità attuali, se confrontate con l’analfabetismo di necessità dei nostri nonni o bisnonni. E questa è una responsabilità gravissima sia del soggetto, sia della scuola, sia della società della intermediazione culturale, risultata talmente irrilevante da consentire la proliferazione di questi ultracorpi, dei baccelli che anzichè provenire da un altro pianeta si autoreplicano in casa, doppiando idioti a ripetizione.

Come se, all’improvviso, questi gestori-loro-malgrado della democrazia diretta fossero stati travolti dal senso di colpa per aver consentito ai mostri di moltiplicarsi e diventare anche famosi (a mezzo di manifestazioni di odio razziale, sessuale, religioso, sociale, civile nonché idiozie terrapiattiste et simlia), Facebook Twitter e Instagram hanno iniziato a censurare contenuti e bannare pagine. Il risultato è talvolta paradossale (persino la pagina Facebook di Ferraraitalia è stata mandata negli spogliatoi per diverse settimane a causa di alcuni vocaboli, non offensivi nè turpi, contenuti in un articolo satirico su Sgarbi), talvolta inquietante. L’inquietudine nasce dal fatto che questi social network privati, che hanno raggiunto una diffusione enorme e veicolano “informazione” disintermediata a miliardi di esseri umani, moltissimi dei quali li utilizzano per formare lì la propria (sub)cultura, decidono ormai senza appello a chi dare e togliere la parola. L’autorevolezza e la pericolosità di questa facoltà dipendono entrambe dalla rilevanza sociale e mediatica di questi mezzi, che è divenuta smisurata. L’autorevolezza è, in qualche modo, autoconferita ma anche guadagnata “sul campo”: se un mezzo diventa così potente, il merito è di chi lo ha creato e gestito. La pericolosità è altissima: una società per azioni di private persone decide se dare, togliere o amplificare la voce di un pazzo o di un genio, di un fanatico o di un Nobel, di un genocida o di un Gandhi. Si dirà: è un mezzo privato, potranno decidere quello che può passare o non passare sui loro canali. Se non ti piace, esci e “cambia canale”. Inoltre: tanto lamentarsi dell’odio e dell’ignoranza che viaggiano sul web non può diventare lamentarsi anche del fatto che l’odio e l’ignoranza vengano rimossi dal web. Altrimenti siamo gente che si lamenta di tutto. Anche questo è un ragionamento con una sua coerenza. Tuttavia…

Tuttavia: adesso la censura su Facebook e Twitter sta attraversando un momento di popolarità politically correct, perchè la vittima è Trump (un Trump che ha perso le elezioni, e quindi il potere). Io però mi faccio una domanda: se domani l’algoritmo di Facebook diventasse razzista, come la metteremmo? Se la sua policy prevedesse all’improvviso che si può inneggiare alla mafia o addirittura veicolarne i messaggi e i contenuti, come la metteremmo? Se da domani fosse consentito ridicolizzare e bannare Trump, ma fosse vietato criticare Putin? A nessuno viene il sospetto che il neoprogressismo di queste policy private colpisca i potenti solo quando sono decaduti, finiti, detronizzati?

Trovo molto pericoloso che un Elon Musk o un Mark Zuckerberg possano decidere quali informazioni e opinioni possano circolare, e quali no. Intanto questi media sono diventati mille volte più influenti di una testata editoriale, ma a differenza di questa non sono imputabili per diffamazione, anche se intermediano calunnie – il che fa il paio con il fatto che fatturano mille volte il fatturato di un editore “tradizionale”, ma attualmente si possono permettere, con semplici escamotage, di non pagare le tasse. Ma soprattutto: e se la macchina del consenso e della censura spostasse la sua banda di oscillazione sulla base di impulsi squisitamente “commerciali”? Finché il cavallo è vincente, può dire qualunque enormità suprematista, nazionalista e razzista. Quando il cavallo è perdente, si chiudono quei profili che fino al giorno prima propagandavano teorie complottiste e folli nella più totale libertà.

Questo tipo di atteggiamento al mio naso non profuma di libertà e democrazia, ma puzza di opportunismo. Certo, nel mondo c’è un problema altrettanto grande, enorme e contrario: il fatto che in molti paesi retti da regimi totalitari (Turchia, Cina, Iran) l’accesso ai social network è pesantemente limitato, e i contenuti vengono impediti spesso ben prima di accedere all’analisi delle policy dei social. Tuttavia una questione ugualmente importante rimane aperta: se sia giusto lasciare la valutazione dei contenuti solo ed esclusivamente nelle mani di questi potentissimi neo-capitalisti della comunicazione liquida, che detengono oggi un potere di orientamento del consenso superiore a quello di uno Stato di stampo orwelliano.

 

PER CERTI VERSI
Galaverna

Ogni domenica Ferraraitalia ospita ‘Per certi versi’, angolo di poesia che presenta le liriche del professor Roberto Dall’Olio.
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GALAVERNA

La magia
La fiaba
Della cauta immobilità
Del fascino ritmico
Dei rami ritti
Dell’erba surgelata
Della miscela
Di nebbia e cielo
Di quella china
Di gelo
Che ripassa
Le ansie dei bordi
I cancelli le reti
Forse lo Yeti
Le tane dei fiordi
Ricorda
Le tue caramelle
Di menta
E cioccolata fondente
È il solo profumo
Il tuo
Che si senta

PRESTO DI MATTINA
Aperuit illis sensum: se apri l’occhio del cuore, puoi vedere l’invisibile

ice un proverbio iraniano: «Se apri l’occhio del tuo cuore, potrai veder cose altrimenti invisibili».

Aperuit illis sensum. Come poco prima aveva fatto ad Emmaus apparendo a due di loro, anche a Gerusalemme Gesù risorto aprì il cuore dei discepoli, la loro mente, i loro occhi. Di più: riaprì loro il cammino del vangelo, rinvigorendo quella buona notizia nascosta come un seme nelle scritture sante, «nella legge di Mosè, nei Profeti e nei Salmi». A quei discepoli turbati e dubbiosi nel cuore, ridonò un’esultanza indicibile, tanto che stentavano a credergli proprio per la gioia di quell’incontro. Quella stessa irrefrenabile gioia, che il vangelo riporta, contornava l’agire salvifico del Signore: come quella volta che in terra straniera, nella Galilea delle genti in pieno territorio delle dieci città (Decàpoli), egli guarì un sordomuto. Proprio come allora, sul punto di lasciare loro il suo Spirito, «guardando verso il cielo, emise un sospiro e disse: “Effatà”», cioè: «Apriti!». E subito anche agli Undici si aprirono loro gli orecchi, si sciolse il nodo della loro lingua perché a Pentecoste potessero comunicare a tutti il buon annuncio della sua passione, morte, risurrezione e del suo ritorno: il vangelo del suo amore.

Venne poi un uomo mandato da Dio il cui nome era Giovanni e, nei pochi anni del suo pontificato, aprì il cuore della gente alla gioia, sino a scardinare anche quello della Chiesa, quando aprendo solennemente il Concilio pronunciò il suo discorso dicendo: «Gaudet mater ecclesia, la santa madre chiesa gioisce, poiché, per singolare dono della Provvidenza divina, è sorto il giorno tanto desiderato in cui il concilio ecumenico Vaticano II qui, presso il sepolcro di san Pietro, solennemente si inizia con la protezione della Vergine santissima, nel giorno stesso in cui si celebra la sua divina maternità… Nell’esercizio quotidiano del nostro ministero pastorale ci feriscono talora l’orecchio suggestioni di persone, pur ardenti di zelo, ma non fornite di senso sovrabbondante di discrezione e di misura. Nei tempi moderni esse non vedono che prevaricazione e rovina; a noi sembra di dover dissentire da cotesti profeti di sventura, che annunziano eventi sempre infausti, quasi che incombesse la fine del mondo. Nel presente momento storico, la Provvidenza ci sta conducendo ad un nuovo ordine di rapporti umani, che, per opera degli uomini e per lo più al di là della loro stessa aspettativa, si volgono verso il compimento di disegni superiori e inattesi; e tutto, anche le umane avversità, dispone per il maggior bene della chiesa», (11 ottobre 1962).

Fu alcuni anni prima, il 25 gennaio 1959, nella basilica di San Paolo fuori le mura, ricorrendo la festa della vocazione/conversione dell’apostolo, in occasione della quale Giovanni XXIII aveva celebrato anche la messa di chiusura della “Settimana di preghiera per l’unità dei cristiani” (18-25 gennaio), che il Papa rivelò l’intenzione di indire un concilio. Nello stesso giorno, un breve articolo di stampa diceva che il concilio voleva essere anche un invito alle comunità separate per la ricerca dell’unità. Un concilio, dunque, desiderato soprattutto per promuovere l’unità nella famiglia cristiana e umana, ritenendo come un dovere suo proprio «adoperarsi attivamente, perché si compia il grande mistero di quell’unità».

Aperuit illis sono pure le parole di apertura della lettera apostolica con cui Papa Francesco istituisce nella chiesa la “domenica” della parola di Dio, che cade, non a caso, in prossimità della Giornata di dialogo tra Ebrei e cattolici e della Settimana di preghiera per l’unità dei cristiani. Una scelta che intende segnare un ulteriore passo nel dialogo ebraico-cristiano ed ecumenico, facendo della Parola di Dio il cuore stesso di questo impegno, il progetto già scritto del cammino verso l’unità.

Scrive papa Francesco: «Aprì loro la mente per comprendere le Scritture» (Lc 24,45). È uno degli ultimi gesti compiuti dal Signore risorto, prima della sua Ascensione. Appare ai discepoli mentre sono radunati insieme, spezza con loro il pane e apre le loro menti all’intelligenza delle Sacre Scritture. A quegli uomini impauriti e delusi rivela il senso del mistero pasquale: che cioè, secondo il progetto eterno del Padre, Gesù doveva patire e risuscitare dai morti per offrire la conversione e il perdono dei peccati (cfr Lc 24,26.46-47); e promette lo Spirito Santo che darà loro la forza di essere testimoni di questo Mistero di salvezza (cfr Lc 24,49). La relazione tra il Risorto, la comunità dei credenti e la Sacra Scrittura è estremamente vitale per la nostra identità. Senza il Signore che ci introduce è impossibile comprendere in profondità la Sacra Scrittura, ma è altrettanto vero il contrario: senza la Sacra Scrittura restano indecifrabili gli eventi della missione di Gesù e della sua Chiesa nel mondo».

Il “logo” della giornata è dato dalla raffigurazione di Gesù che si accompagna ai discepoli di Emmaus. È la Parola di Gesù che apre le scritture e traghetta i due discepoli dall’incredulità alla fede, dalla tristezza a un cuore ardente, dal trovarsi accompagnati a uno sconosciuto a un ritrovarsi familiari a lui, discepoli attorno alla sua mensa. Mi piace pensare che in quella celebrazione liturgica itinerante che fu la strada di Emmaus, prima alla mensa della parola e poi a quella del pane, Gesù fu per loro omileta: spiegò e interpretò loro (interpretabatur illis in omnibus scripturis) ciò che lo riguardava nello stile dell’omelia rabbinica, che consiste nell’intrecciare legami non scontati e spesso ancor meno evidenti, tra un testo e l’altro, tra un passo della scrittura ‘vicino’ che si sta leggendo e un altro testo ‘lontano’ ma vivo, che all’improvviso affiora alla memoria. O partendo da un salmo, per arrivare a un passo della Torah, e da questo ai profeti, o ad un altro salmo o dai profeti per arrivare ai salmi. Non è forse accaduto questo lungo la via al termine della quale i discepoli lo riconobbero allo spezzare il pane?

Scrive Alberto di Mello introducendo le letture dal midrash sui salmi: «Molto spesso, anzi di preferenza, poteva accadere che l’omelia sul brano settimanale scelto si aprisse proprio con un versetto dei salmi o degli altri scritti sapienziali. Per meglio dire: il testo dei Salmi “apriva” quello della Torà. L’“apertura”, nell’omelia rabbinica, non è semplicemente l’inizio, l’esordio dell’omelia, ma questa abitudine di illuminare un testo con un altro, un testo povero con un testo ricco, o anche viceversa, fino talora a inanellare tutta una serie di testi, a farne una collana, passando dalla Torà ai Profeti agli Scritti», (Un mondo di Grazia a cura di A Mello http://www.atma-o-jibon.org/italiano7/un_mondo_di_grazia1.htm).

È la parola di Gesù che apre il senso delle scritture, e le scritture rivelano il senso del suo destino e della sua storia alla comprensione dei discepoli. Le parole della scrittura sono sempre aperte su Gesù e Gesù ne è l’esegeta, l’interprete e chiave di lettura. Esattamente come si canta nelle antifone e nella novena di Natale che ricalcano il testo di Isaia 22,22: «Chiave di Davide, e scettro della casa di Israele, che apri e nessuno chiude, chiudi e nessuno apre: vieni e fa uscire dal carcere il condannato, che siede nelle tenebre, e nell’ombra della morte». Un testo, quello d’Isaia, commentando il quale Antonio da Padova diceva nel sermone di Natale (§ 13): «Dice il Padre, per bocca di Isaia: “Porrò sulla sua spalla la chiave della casa di Davide”. La chiave è la croce di Cristo, con la quale egli ci ha aperto la porta del cielo».

Sulla stessa linea è il testo particolarmente suggestivo del monaco benedettino Ruperto di Deutz (1075- 1129), in cui egli sovrappone i gesti dello spezzare del pane eucaristico e dello spezzare il pane della Parola di Dio: «Gesù prese il libro e lo aprì, cioè ricevette da Dio tutta la Santa Scrittura per adempierla in se stesso… Il Signore Gesù dunque prese il pane delle Scritture nelle sue mani quando, incarnato secondo le Scritture, subì la passione e risuscitò; allora egli prese il pane nelle sue mani e rese grazie quando, adempiendo le Scritture, offrì se stesso al Padre in sacrificio di grazia e di verità» (In Jo VI). Come a dire che c’è una “presenza reale” di Cristo anche nella Parola di Dio, come del resto sostiene il Concilio nella Sacrosanctum Concilium: «il Cristo è presente nella sua parola, giacché è lui che parla quando nella chiesa si legge la sacra Scrittura» (§ 7) e più avanti, afferma che attraverso la Bibbia «Dio parla al suo popolo, Cristo annunzia ancora il vangelo» (§ 33). La parola di Dio dona un’energia di grazia, una potenza interiore che è certamente misteriosa ma realissima: perché è il Cristo stesso nel suo Spirito che parla in noi.

Per questo, domani, la domenica della parola di Dio, ricorreremo un a segno per sottolinearne la centralità: l’intronizzazione del vangelo sulla cattedra, sul seggio di colui che presiederà la celebrazione. Il primato, nella celebrazione, spetta al Cristo, unico Signore e maestro della sua comunità convocata tramite la sua Parola.

Nella storia ecclesiastica raccontata da Teodoreto di Cirro, riferendosi alla chiesa di Antiochia degli anni di poco antecedenti al concilio costantinopolitano del 381, che avrebbe riconfermato il concilio niceno circa la questione trinitaria, egli ci riferisce di una chiesa antiochena ancora lacerata da divisioni; non solo per via della crisi ariana, ma per una molteplicità di lacerazioni interne alla stessa comunità ortodossa. Tanto che i vescovi orientali avevano eletto Melezio e quelli occidentali il vescovo Paolino. Vi era contesa e divisione tra le due comunità, pur essendo quella di Paolino molto più ridotta rispetto all’altra, ed entrambe professassero il credo niceno. In questo contesto, per nulla concorde e comunionale, emerge la grande figura di Melezio che incarna nelle sue scelte pastorali lo stile sinodale e rende “al vivo” la prassi del cammino verso l’unità capace di ricomporre le divisioni: «Melezio, il più mite di tutti gli uomini, in modo amabile e insieme benevolo, disse a Paolino: “Poiché il Signore diede anche a me la cura delle sue pecore e tu ti sei dato pensiero delle altre e il nostro pio gregge è in reciproca comunione, uniamo, o caro, le nostre pecore e componiamo le nostre contese per il primato. Pascolando insieme le pecore, diamo loro una comune cura. Se, poi, è la divisione del seggio a generare la contesa, io tenterò di rimuoverla. Io consiglio che, avendo posto su di esso il santo Vangelo, ci sediamo ai lati di esso. Se sarò io ad accogliere per primo la fine della vita, allora tu avrai da solo la guida del gregge; se, invece, sarai tu, allora secondo le mie forze ne avrò la cura io”» (Teodoreto di Cirro, Storia ecclesiastica, Città nuova, Roma 2000, libro V, 3, 13-16).

Per leggere gli altri articoli di Presto di mattina, la rubrica di Andrea Zerbini, clicca [Qui]  

Il tempo delle uova d’oro

A casa mia, in fondo al cortile e vicino alla legnaia, c’è la stanza-dispensa. Ha il pavimento di smalto rosso e le pareti di cemento bianco. Due finestre tondeggianti, un piccolo camino che nessuno accende più da almeno dieci anni. Lo aveva voluto mio padre e un suo amico muratore lo aveva aiutato a costruirlo. La sua parte incavata contiene adesso un piccolo deposito di fiori secchi che io porto al cimitero sulle tombe dei nostri parenti morti.
All’interno c’è un grande tavolo su cui sono posizionati cesti di vimini che tengono separate le scorte alimentari, le scorte di frutta e verdura, i detersivi, le uova che ci porta la mia amica Teresa che ha il pollaio. Noi le diamo il pane raffermo per il suo cane e lei ci regala le uova. Lo scambio è impari, ci guadagniamo sicuramente noi. Ma Teresa è una mia amica da sempre. Lo scambio diventa apprezzabile per entrambe, in nome di tale appartenenza.
L’amicizia permette di trovare una parità, dove parità non c’è. Permette di trovare aiuto e tolleranza là dove altrimenti ci sarebbe diffidenza. E’ un sentimento autentico che non si basa su vincoli biologici, parentali o di appartenenza sociale, ma si basa su qualcosa che è molto meno scontato e molto più fondante: la complicità.

Scrittori e scrittrici hanno dedicato tante pagine a questo tipo di relazione, che tutti noi conosciamo. Alcune storie sull’amicizia sono molto conosciute: ‘Uomini e Topi’ di John Steinbeck, ‘Il cacciatori di aquiloni’ di Khaled Hasseini, ‘Occhio di gatto’ di Magaret Atwood, ‘Parlarne tra amici’ di Sally Rooney.
A Teresa non piace quasi nulla di quel che piace a me. Ma questo non è essenziale. Condividiamo però un passatempo, che circa trent’anni fa era diventato un lavoro: il nuoto. Ci eravamo messe ad insegnarlo. Passavamo le estati con bambini schiamazzanti e bagnati che puzzavano di cloro, il disinfettante che si usa per le vasche d’acqua. Amiamo entrambe l’odore del cloro, che per noi evoca ricordi estivi, belle giornate, tanti giochi, i vent’anni di entrambe. Riparliamo sempre del tempo dei corsi di nuoto, di Vincenzo, il direttore della piscina dove insegnavamo che ci regalava un ghiacciolo ogni pomeriggio, a fine lavoro. A Teresa azzurro e a me rosso, tanto per non fare mai nulla di uguale. Insegnare nuoto ai bambini ci piaceva molto, non ci sembrava nemmeno un impegno.
Quella piscina era diventata casa nostra, ci conoscevano tutti, piacevamo a tutti.  Era uno spazio privo di risentimento dove si poteva sentirsi sicuri, dove il futuro appariva ricco di buone promesse.

Sto guardando le uova nella mia dispensa. Stamattina Teresa ne ha portate trenta. Hanno tutte scritto a matita sul guscio la data in cui sono uscite dalla gallina. Lo scrive sua madre, prima di riporle nel cesto dove le conserva. E’ come se in ognuna di quelle uova io potessi vedere un po’ del tempo di questa amicizia.
Prendo in mano un uovo. È bianchissimo, di media misura, ha una crepa. Quella crepa seghettata mi ricorda l’ingresso della piscina. Il cancello era fissato a due colonne di cemento bianche, diroccate. Da quella porta entravano bambini a frotte, insegnanti, inservienti, badanti, istruttori di nuoto, animatori, personale delle pulizie, amministratori e Vincenzo. Pover’uomo non so cosa gli sia successo. A forza di bere Fernet si è rovinato il fegato. Gli è venuta la cirrosi epatica. L’ho incontrato lo scorso anno. Mi ha davvero impressionato. Magrissimo e color marrone. Anni fa era grasso e bianco come un gelato al limone, come una nuvola solitaria nel cielo d’estate. L’alcol uccide, un po’ alla volta, in maniera spietata, senza tregua, lavora sempre.

Ripongo l’uovo, ne prendo un altro.  Il secondo uovo è rosa e piccolo. E’ come Teresa: rosa e piccola. Teresa ha una sclerodermia che assottiglia la pelle, per questo il suo colorito è molto roseo e le sue labbra rossissime. Terry sa tutto di me, siamo cresciute insieme e abbiamo sempre passato molto tempo assieme. Ricordo che quando insegnavamo nuoto, dopo aver finito il lavoro e dopo aver fatto la doccia, Teresa si asciugava i piedi con una meticolosità impressionante. Un dito alla volta. Se le restava tra le dita qualche goccia di acqua e cloro, la pelle le si screpolava, assottigliava, fino quasi a sanguinare. Per questo problema della pelle ammalata, era sempre l’ultima ad uscire dallo spogliatoio. Stava là fino a quando Vincenzo chiudeva l’impianto. Alla fine le avevano dato una chiave di scorta e lei poteva tranquillamente entrare per prima e uscire per ultima.

Il terzo uovo è chiaro, liscio e stranamente grosso. Probabilmente conterrà due tuorli. Quando lavoravamo in piscina avevamo due piccoli nuotatori fratelli gemelli. I fratelli Baffi. Sebastiano e Silvestro Baffi. Erano bambini piccoli, abbronzati, scattanti, dei grandi nuotatori, dei grandissimi divoratori di gelati. Chissà che fine hanno fatto. Teresa ha saputo che uno dei due si è sposato, abita a Verona, si è laureato in scienze motorie, insegna educazione fisica. Assaporiamo l’orgoglio. Forse anche noi abbiamo contribuito a far crescere in quei due cuccioli d’uomo l’amore per il nuoto, per lo sport in generale, per la vita. Un grande risultato, un bel ricordo tra i tanti che condividiamo.

Nella mia stanza-dispensa ci sono sempre le uova di Teresa e con loro un po’ della nostra amicizia, un po’ dei ricordi che rendono questo rapporto insostituibile. Le immagini del passato sono il fondamento e il contenuto del nostro bagaglio amicale, sono il tampone per i momenti di crisi. Se mai ci dovesse capitare di litigare sono sicura che basterebbe ripensare al periodo dei corsi di nuoto, a Vincenzo, ai nostri piccoli campioni e anche  alle sue galline e al suo golden retriver. (la presenza del cane  è una costante della vita di Terry, ne ha avuto diversi nel corso degli anni). Basterebbe ripensare ai ghiaccioli che abbiamo mangiato e alle  molte giornate passate assieme, nuotate con stili diversi, ma prossime nel desiderio di sperimentare e fare.

Guardo le uova e poi penso che devo ricordarmi di portare a Teresa il sacco del pane raffermo per il suo cane. Questa è una delle tante differenze tra noi: io ho due meravigliosi gatti arancione e lei un cane marrone.
Nel frattempo mi sono ricordata di altri  scrittori illustri autori di libri sull’’amicizia:
Niccolò Ammaniti “Io non ho paura”; Elena Ferrante “L’amica geniale”; J. K. Rowling “Harry Potter”; Fred Uhlman“ L’amico ritrovato”; Andrea De Carlo “Due di due”; Siegfried Kracauer “Sull’amicizia”; Herman Hesse “Narciso e Boccadoro”; Joseph Epstein “Amicizia ”. Credo che se ne scrivessi uno io si intitolerebbe: “Il nuoto e le uova”.
Ci sono anche delle splendide canzoni che parlano di amicizia: Lucio DallaCaro amico ti scrivo”; Lucio BattistiUna donna per amico”; Francesco GucciniGli amici”; Giorgio Gaber  “L’amico”; Laura PausiniUn Amico è Così”.

Una volta o l’altra scriverò una canzone sull’amicizia. Ho ben presente una storia amicale che vale la pena di essere raccontata. Può servire da esempio e da conforto. Ho già deciso il titolo: Il tempo delle uova d’oro. Le riguardo adagiate nel loro cesto e le vedo proprio così: d’oro. Le mie uova sono preziosissime, contengono ricordi, permettono di comunicare, di vivificare in ogni momento un sentimento importante, duraturo e sicuro.
Come dice sempre Teresa: “Ciò che è stato nessuno può cambiarlo ed è questo che fa la differenza”.
Ha ragione.

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CONTRO VERSO
Paura del vuoto

Questo bambino era stato segnalato per un insieme di ragioni, ma mi aveva colpito una sua caratteristica: la paura del vuoto che arrivava al rifiuto di andare in bagno. Svuotare le viscere era per lui inaccettabile, voleva dire lasciar andare una parte di sé.

Paura del vuoto

C’è un buco assai profondo
dove finisce il mondo
e dove scivolo anch’io.
Perciò faccio a modo mio.

Sul water non mi siedo,
mi tengo tutto dentro
e quando lo decido
mi sciolgo in un momento.

Mi accorgo di puzzare,
ma che ci posso fare?
Anche se sono grande
mi sporco le mutande.

Diceva la maestra
di aprire la finestra.
Lo dico al professore:
“Mi scusi per l’odore”.

Lo so che i miei compagni
si fidano dei bagni
ma io sono diverso
e mi ritrovo perso.

Piuttosto che restare
sospeso su quel vuoto
trattengo da scoppiare
teso, chiuso e sudato.

“Babbo, guarda, mi mangia!”,
piangevo ancora ieri.
E sento nella pancia
un pieno di pensieri.

Ci proteggiamo con i tic, le abitudini, e anche con i rifiuti. A volte la difesa che ci viene accordata comporta così tanti svantaggi, che non conviene più.

CONTRO VERSO, la rubrica di Elena Buccoliero con le filastrocche all’incontrario, le rime bambine destinate agli adulti, torna su Ferraraitalia  il venerdì. Per leggere i numeri precedenti clicca [Qui]

Il Microfestival diventa noir: Paolo Regina apre il MicroNerofestival

Da: Microfestival delle Storie

Il Microfestival delle storie diventa noir: <br> Paolo Regina apre il MicroNerofestival

Sarà lo scrittore ferrarese Paolo Regina con Morte di un cardinale (edizioni Sem) a inaugurare il percorso MicroNerofestival, una rassegna nella rassegna, dedicata ai libri noir. Intervistato da Consuelo Pavani giovedì 28 gennaio alle 21, lo scrittore anticipa l’atmosfera del secondo romanzo, ambientato a Ferrara, con protagonista il capitano della finanza Gaetano De Nittis: “Racconto la borghesia di una città di provincia, le dinamiche sociali, certi misteri che una città murata nasconde”. Il capitano De Nittis, pugliese trapiantato a Ferrara, si trova a indagare sulla morte di un cardinale. A guidarlo per la città e nella ‘ferraresità’, alla stregua di un Virgilio, l’amico giornalista Gianni Bonfatti. Paolo Regina, avvocato di professione, è interessato a raccontare l’animo umano al di là dell’intreccio noir e dell’indagine che fa da sfondo alla vicenda: “Ho una natura di cantastorie, rifletto sulle tipologie umane che la realtà offre, sulla psicologia dell’uomo di fronte al tragico, sui rapporti di potere e la sociopatia delle persone, che poi trasferisco nei personaggi”.

Dai libri di Regina – il terzo uscirà a marzo -, emerge un affresco di Ferrara: “De Nittis, uomo del sud, ha una cultura diversa da quella ferrarese, De Nittis non è ammesso a tutti gli ambienti della città, che sono ambienti esclusivi, paradigmatici della mentalità di questa città”.

La presentazione di giovedì 28 gennaio andrà in diretta sulla pagina facebook del Microfestival delle storie e di Ferraraitalia.

Sinossi Morte di un cardinale di Paolo Regina. Un uomo cammina velocemente sulle sponde del Po. Ha le mani insanguinate. A un certo punto si ferma e lancia una rivoltella nel fiume, dove le acque sono più profonde. Poi si mette a correre. Poco più indietro, sotto i piloni del pontile, c’è un altro uomo con il foro di un proiettile sulla fronte. È il cardinale di Ferrara. Gaetano De Nittis, brillante capitano della Guardia di Finanza, si trova a indagare su questa morte eccellente. Il caso lo trascina nelle sabbie mobili degli interessi dei notabili della città, tra intrighi di palazzo, giochi di potere e grossi accordi economici.

PAROLE A CAPO
Luca Ispani: “Civago” e altre poesie

“Poesia è lotta continua contro silenzio, esilio e inganno”
(Lawrence Ferlinghetti)

Civago

Sono una pietra che rotola
da un fiume invisibile di calcestruzzo.
Scappo dal cemento
dai camion della tangenziale
dal rumore
voglio piantarmi lì
in una casa abbandonata
ascoltare chi passa
dimenticare tutto
tranne i tassi e i gatti che vengono a strusciarsi qui
dove sono io
facendo le fusa.

 

Gazzano Val Dolo

Abitare la gioia
qui nei castagneti
amare fin dentro le ossa dei muri.

Ascoltare il fiume argentino in lontananza
sentire il tuo cuore e il suo avvicinarsi
imparare una poesia che può leggerti un paese.

 

 Sologno (Appennino reggiano)

Abitare le vene dei faggi
berne il sangue
udire il verso del lupo in lontananza.

Trovare un centro
magari una casa vuota
fare un foro
io metto il mio amore
tu metti il tuo amore
separati
li mischieremo
quando gli occhi dei vecchi
ci parleranno
e sentiremo il pellegrino squittire.

 

Luca Ispani (Modena, 1979)
I suoi preferiti sono Whitman, Berry, Tiziano Fratus, Sinisgalli, ed è affascinato dal movimento della beat generation e il suo legame con la musica jazz di cui è appassionato assieme al rock anni ’70 e ’90. Negli ultimi vent’anni si è appassionato alla paesologia, cercando con i suoi scritti di sensibilizzare sulla vita nei campi e sull’Appennino modenese da cui proviene. Inizia a fare letture poetiche nel 2004 per lo più in eventi di arte di strada dove si sente più a suo agio.
Dal 2014 al 2015 ricopre il ruolo di vice-presidente presso l’associazione culturale i poetineranti. Collabora con il collettivo di poesia nazionale Bibbia d’Asfalto dal 2014 al 2016. Da qualche mese segue il progetto “Grungeart” che é la creazione di un vero e proprio spettacolo basato su testi performanti, musica e arte visiva riconducibili al movimento “grunge” dei primi anni ’90.
Parecchi suoi testi sono stati tradotti negli Stati uniti ,in Messico e in Australia. Vincitore e segnalato in numerosi premi nazionali e internazionali, studia da tempo da autodidatta diversi autori. Ha pubblicato nel 2019 con Roundmidnight Edizioni la sua prima raccolta poetica “il rumore dei passi” che sta avendo numerosi riscontri positivi. Parla con gli alberi e li abbraccia.

La rubrica di poesia Parole a capo curata da Gian Paolo Benini e Pier Luigi Guerrini esce regolarmente ogni giovedì mattina su Ferraraitalia. Per leggere i numeri precedenti clicca [Qui] 

Didattica a distanza e didattica in presenza:
Il naufragio del sistema formativo

My dad, il mio papà, il mio paparino oltre manica e oltre oceano. Detta cosi non c’è niente di più familiare e rassicurante della DAD, della didattica a distanza di casa nostra. Essere a scuola, ma sentirsi come a casa propria, circondato dal calore e dalle comodità domestiche. Chi non l’ha desiderato in vita sua? E poi, diciamo la verità, fare colazione in fretta, caricarsi dello zaino, prendere l’autobus, o sfiancarti con un chilometro di strada a piedi per raggiungere la scuola, non è proprio il massimo. A casa tua ti siedi a tavolino, accendi il computer e sei in classe. Hai già risparmiato un sacco di calorie e ciò ti rende più disponibile, più attento, meno affranto di quando arrivavi in aula già stanco e ancora assonnato. Diciamo la verità: la DAD, con il trasferimento della scuola a casa propria, è riuscita là dove hanno fallito anni di progetti ministeriali di ‘Star bene a scuola’. Anche gli insegnanti sono più disponibili, non stracciati dalla pendolarità quotidiana, dagli affanni famigliari, specie quelli mattutini, per non parlare dei rientri a casa sempre troppo tardi. Senza tenere conto del sacco di soldi risparmiati tra abbonamenti al bus, ai treni o al metró, merendine, Red Bull e caffè non consumate ai distributori nei corridoi della scuola. Siamo sinceri, tutta un’altra vita.

Raccontiamola giusta, la didattica a distanza mica l’abbiamo inventata noi dell’era digitale, l’ha inventata Gutenberg con i suoi caratteri mobili. La parola stampata è il medium di massa, che ha posto fine alla ‘didattica in presenza’, ovvero alla ‘tradizione orale’.
La formazione per generazioni è avvenuta sempre a distanza: libri, biblioteche, archivi, musei e poi i mass media. Docenti seduti in cattedra e studenti tenuti a debita distanza nei banchi, a scuola come nelle aule dell’università.

I digital learners, giovani di età compresa tra i 12 e i 25 anni, per i quali la tecnologia è qualcosa di assolutamente scontato, non dovrebbero avere problemi con la DAD. Cellulare e computer sono i loro strumenti usuali di lavoro e di divertimento. Allora non nascondiamoci dietro alla DAD o ai problemi psico-sociali dei giovani, per non vedere il naufragio di un sistema formativo che fa acqua in presenza, come a distanza.

Innanzitutto perché non puoi fare andare la DAD con lo stesso carburante della didattica in presenza, finendo col proporne una brutta copia. Se ibrido deve essere l’insegnamento che ibrido sia. Per intenderci, in una auto ibrida l’elettricità è elettricità e la benzina è benzina, entrambe muovono l’auto, ma si tratta di due energie nettamente differenti tra loro e non confondibili.

La didattica a distanza, che ripropone la copia di quella in presenza con lo zapping tra i saperi, altro non è che la negazione della tecnologia a cui i giovani sono abituati, senza considerare come il modo con cui gli insegnanti usano le tecnologie finisce per influenzare e condizionare l’apprendimento dei loro studenti.

Ci si doveva pensare prima quando c’era tutto il tempo e non è stato fatto. Si sono spacciati i banchi a rotelle come innovazione didattica, si sono spese parole nella retorica della adolescenza privata di tutta la strumentazione sociale per risolvere i conflitti di un’età che ci siamo inventati, di un’adultità ritardata, come se avessimo sottratto ad Ulisse la sua possibilità di fare ritorno al proprio “luogo delle origini”, per dirla con il grande psicoanalista inglese Donald Winnicott.

Ma di quale socializzazione scolastica stiamo parlando, quella della competizione, quella del bullismo, quella dello spinello, quella del conflitto scuola-famiglia?
Dov’è la resilienza parola tanto emblematica e consumata in questo ventunesimo secolo?
Tutti i nodi vengono al pettine, e con l’emergenza era inevitabile che esplodessero.

È esplosa una scuola che così come è non serve a nulla. Anzi ci sta rendendo sempre più poveri ed ignoranti. L’attuale sistema scolastico è semplicemente anacronistico, strutturato per essere perfetto in una situazione sociale in cui si passava dall’analfabetismo all’alfabetizzazione del nostro paese, dall’era agricola a quella industriale.

La realtà delle scuole è ancora costituita da classi formate secondo l’età degli alunni, l’orario delle lezioni è rigido, persiste la netta prevalenza della lezione frontale, l’ora di lezione è fatta di alternanza di spiegazioni e interrogazioni, le valutazioni sono affidate al voto numerico. Questo modo di essere si è preteso di riprodurlo a distanza con l’uso delle nuove tecnologie. Ora l’incongruenza di tutto ciò salta agli occhi anche del più sprovveduto.

Si levano gli appelli a invocare il ritorno alla didattica in presenza, a tornare a rinchiudere i nostri adolescenti nella gabbia ottocentesca delle nostre scuole, spacciandole per i luoghi dell’istruzione, dell’addestramento sociale, della condivisione delle crisi e dei conflitti di un’adolescenza che altrove non ha spazi.

Tutti continuiamo a fingere che si tratti di una narrazione vera, perché non disponiamo di altre trame per affrontare i numerosi segnali che ormai da tempo indicano l’invecchiamento del nostro sistema formativo, facendo presagire che manca poco al suo esaurimento.

Come continuiamo a giocare a mosca cieca con i problemi e i conflitti di adolescenze che non si risolvono col condividerli con i compagnucci di classe, i quali hanno il tuo stesso problema, quello di vivere in una società che non si mostra affatto accogliente nei confronti dei suoi giovani. Così le adolescenze bisogna relegarle nelle scuole, perché è l’unico spazio che gli resta, considerato che le prime ad abdicare e delegare sono le famiglie e intorno c’è il vuoto.

Nascondere una scuola che non funziona, una DAD che funziona peggio dietro i problemi dell’adolescenza è una solenne vigliaccata, che non aiuta né gli uni e né gli altri a ricercare la propria identità e a conquistare la propria autonomia.

Per leggere gli altri articoli di Giovanni Fioravanti della sua rubrica La città della conoscenza clicca [Qui]

Padre Sorge: dalla Primavera di Palermo
allo scontro con Comunione e Liberazione

Il 2 novembre 2020 è morto Bartolomeo Sorge. Aveva compiuto da pochi giorni 95 anni, essendo nato il 25 ottobre 1925 all’Isola D’Elba.
Ad alcuni il nome può dire poco, ma il punto non è tanto elencare quante cose sia stato: gesuita, teologo, politologo, direttore de La Civiltà Cattolica,  Aggiornamenti Sociali e Popoli, protagonista della Primavera di Palermo (1986-1996) all’istituto Padre Arrupe insieme con il gesuita Ennio Pintacuda, collaborato alla stesura dell’Octogesima Adveniens, la Lettera Apostolica di Papa Paolo VI del maggio 1971, e tanto altro.
Ricordarlo significa, piuttosto, mettere a fuoco alcuni snodi, tuttora non digeriti, nella Chiesa e nel cattolicesimo italiani.

Lo spunto è un suo scritto del 2019 per La Civiltà Cattolica, che diresse dal 1973 al 1985: Un probabile sinodo della Chiesa italiana? Dal primo convegno ecclesiale del 1976 a oggi.
Per Giuseppe De Rita, protagonista di Evangelizzazione e promozione umana (Roma, ottobre 1976) insieme con lo stesso Sorge, Filippo Franceschi (vescovo di Ferrara dal 1976 al 1982) e Achille Ardigò, quello fu “il coraggio di osare” (La Civiltà Cattolica ottobre 2020, intervistato dal direttore Antonio Spataro).
Dietro l’avvenimento ci fu la regia del vescovo Enrico Bartoletti, segretario della Cei, che però non fece in tempo a vederne la celebrazione, perché morì improvvisamente nel marzo di quello stesso anno. Tanta fu l’eco, che la Conferenza dei vescovi italiani decise di cadenzare i convegni ecclesiali ogni dieci anni.

Eppure, l’irrompere del vento conciliare nella Chiesa italiana di lì a poco si interruppe.
I motivi furono diversi. Alcuni, cronologici, li enumera lo stesso De Rita nell’intervista a Spataro: il pontificato di Paolo VI volgeva al termine senza più la spalla del fidatissimo Bartoletti, oltre al fatale 1978 con l’epilogo della vicenda Aldo Moro e la morte, il 6 agosto, dello stesso Papa Montini.
Ma furono le due principali proposte di Evangelizzazione e promozione umana che, secondo Bartolomeo Sorge, subirono uno stop: lo stile del convenire e la nuova concezione missionaria.
La non accettazione dei due punti di svolta ebbe il suo epilogo a Loreto nel 1985 (Riconciliazione cristiana e comunità degli uomini), quando il nuovo pontefice, Giovanni Paolo II, scrisse in preparazione di quel secondo convegno: “l’episcopato abbia il posto che gli compete per istituzione divina”.
Dallo stile del convenire, in cui vescovi e laici riscoprivano la comune radice battesimale della missione e cittadinanza ecclesiali, si tornava a rimettere le cose nella loro tradizionale distanza.

“Da Loreto a Firenze – scrive Bartolomeo Sorge – i convegni che seguirono furono visti come l’occasione propizia per i vescovi di comunicare al popolo di Dio che è in Italia, con autorità – occupando il posto che gli compete per istituzione divina –, il programma pastorale per il successivo decennio”.
Così avvenne per la concezione missionaria. Se nel 1976 si diceva che non bastavano più dichiarazioni, documenti ufficiali dei vescovi e principi dottrinali, per affermare una nuova forma di presenza dei cattolici nella scena sociale e politica, la prospettiva mutò quando arrivò Camillo Ruini.

“Si renda conto – ne ricorda De Rita il monito – che noi siamo qui non per cambiare la società, ma per predicare il Vangelo”.
Parole che fanno il paio con quelle scritte da padre Sorge su Aggiornamenti Sociali (2009), ricordando Giuseppe Lazzati, storico rettore dell’Università cattolica di Milano e autore dell’espressione Città dell’uomo, che il gesuita scomparso lo scorso 2 novembre usò per intitolare la scuola di formazione politica a Palermo.

Sorge ricorda una lettera che i leader di Comunione e Liberazionedon Luigi Negri, don Angelo Scola, Rocco Buttiglione e Roberto Formigoni – gli indirizzarono il 10 febbraio 1977, delusi dal convegno ecclesiale del 1976, per la mancata “conferma – scrissero – che il problema è quello del recupero di un’identità ecclesiale di fronte al mondo, e quindi di un apporto specificatamente cristiano ed ecclesiale alla soluzione dei problemi umani della nostra società”.
In gioco c’era, e c’è, la questione di fondo della partecipazione a pieno titolo dei laici all’unica missione evangelizzatrice della Chiesa, secondo il criterio della laicità, cavallo di battaglia teologico di Lazzati.
Il punto è se si vuole riconoscere senso alle realtà temporali, rispettandone l’autonomia e, appunto, la laicità, oppure se il mondo vada convertito. Da qui il tipo d’impegno dei cattolici nella Città dell’uomo: se cioè vada costruita-ripristinata una società cristiana (nel perdurante mito della cristianità perduta), anche a costo di prove muscolari, oppure se tale impegno debba assumere lo stile del dialogo e della collaborazione con uomini e donne di buona volontà, lontano da ogni collateralismo o nostalgie del partito cattolico.

Per questo Lazzati fu sempre contrario, e con lui Sorge, tanto a strumentalizzare le realtà temporali a fini religiosi, quanto la fede a fini politici.
Fu questo il terreno pastorale su cui si svolse la partita tra la Scelta religiosa’ dell’Azione Cattolica di Vittorio Bachelet e la Presenza di Comunione e Liberazione di don Luigi Giussani, che vide la prima uscirne nettamente sconfitta.
Comunione e liberazione vinse quel confronto con l’appoggio determinante del pontificato di Karol Wojtyla e della Cei durante il lungo regno di Camillo Ruini, secondo il modello di una Chiesa “forza sociale” oltre che spirituale, con tanto di richiami all’unità politica dei cattolici.

Avrebbe dovuto consumarsi per intero quella stagione, fino agli esiti per certi versi emblematici del Celeste Formigoni, prima che un nuovo pontefice riprendesse i fili di quel cammino interrotto. È successo al convegno ecclesiale di Firenze (novembre 2015), quando Papa Francesco nel suo discorso ha detto: “spetta a voi decidere: popolo e pastori insieme”, quasi volendo ripartire dal quel con-venire che fu il motore di Evangelizzazione e promozione umana.
Qui Bartolomeo Sorge, significativamente dalle pagine di Civiltà Cattolica, ha voluto andare oltre lanciando nel 2019 l’appello di un Sinodo, perché più che un convegno alla Chiesa italiana servirebbe l’andatura del camminare insieme.

Il problema è che i decenni trascorsi hanno fatto tabula rasa di fermenti, riferimenti, idee e speranze, e riprendere i fili di un discorso prosciugato nei contenuti e nei metodi, in un tempo peraltro profondamente cambiato, appare compito – in primo luogo formativo – lungo e arduo, anche per un laicato nel frattempo largamente ridotto a uno stato silente, o quasi.

Cover: Padre Bartolomeo Sorge parla a un seminario (Wikimedia commons)

La pandemia non si combatte coi soldi ma con la buona politica

Le prime istituzioni scese in campo per combattere la pandemia da Covid 19 sono state le Banche Centrali. Lo hanno fatto supportando le crescenti spese e le mancate entrate degli Stati con iniezioni di liquidità nel sistema, attraverso l’acquisto di titoli di stato e la concessione di prestiti a tassi agevolati, a volte addirittura a tasso negativo (cioè regalando soldi).
Rispetto al passato i bilanci delle Banche Centrali si sono gonfiati a dismisura, certo il fenomeno era iniziato già dopo la crisi del 2007-2008 ma i dati confermano che nell’ultimo anno si è notevolmente accentuato. La Bce è passato dai circa 2.000 miliardi di euro del 2008 ai 4.671 miliardi del 2019 (come si può vedere dal grafico di seguito), per arrivare agli oltre 7.000 miliardi di euro a dicembre 2020

Di questi 7.000 miliardi risultanti dal rendiconto del 25 dicembre 2020 risultavano alla voce “Titoli detenuti a fini di politica monetaria” ben 3.704 miliardi, segno che la Bce detiene gran parte del debito sovrano dell’eurozona.
Bankitalia, dal canto suo, aveva chiuso il 2019 con un bilancio di poco più di 960 miliardi, come si vede dall’infografica seguente

Al 31 ottobre 2020 era già a 1.279 miliardi con in pancia ben 523 miliardi di “titoli detenuti per finalità di politica monetaria”, quindi quasi la metà del suo bilancio è costituita dai nostri titoli di stato.
Dall’altra parte dell’Oceano la Federal Reserve non è stata da meno passando dai circa 4.059 miliardi di dollari del bilancio 2019 agli oltre 7.000 miliardi di Agosto 2020

Anche qui, come si vede chiaramente in verde, quasi 4.500 miliardi sono di Treasury Bonds, ovvero titoli del tesoro americano.
Gonfiare i bilanci delle banche centrali è qualcosa che abbiamo scoperto essere possibile dal 2008 anche se la Bce ha cominciato a farlo, con colpevole ritardo, solo dal 2012. Questi bilanci si ampliano comprano titoli di stato e questo permette agli Stati di spendere senza che si alzino troppo gli interessi, il 2020 ci ha dimostrato che si può non solo esagerare ma che quasi la totalità dei deficit messi in atto o programmati dai vari governi possono essere quasi interamente coperti da un’attenta politica monetaria delle banche centrali.
Nel 2021 ci resta da imparare che questo però non basta, che c’è bisogno in contemporanea anche della politica fiscale e programmatica degli Stati. C’è bisogno, insomma, che questi soldi vengano spesi con programmi stabili dedicati alla crescita, alla ricerca sanitaria e scientifica, all’istruzione e ai giovani senza togliere agli anziani, perché non c’è assolutamente bisogno di creare lotte generazionali o di togliere a qualcuno per dare ad altri.
Il 2020 e l’economia monetaria da Covid 19 dovrebbe averci insegnato che i soldi non sempre sono un problema e che il punto non è più come trovarli ma come spenderli in maniera coerente per uno sviluppo sostenibile, solidale e magari anche green. Soprattutto, senza dar vita a conflitti sociali e possibilmente senza lasciarsi dietro troppi cadaveri.

In copertina: elaborazione grafica di Carlo Tassi

SCHEI / Cultura a Ferrara:
quando il mecenate è più potente dell’imperatore

Gaio Clinio Mecenate fu consigliere dell’imperatore Augusto. Sotto la sua gestione da ministro della cultura ante litteram, nella corte imperiale fiorì un consesso di intellettuali e poeti di tale livello (citiamo Orazio e Virgilio tra i tanti) da rendere, nel tempo, il suo nome sinonimo di chiunque si faccia protettore e patrono degli artisti, elemento di collegamento tra l’arte ed il potere, ma con una screziatura di protezione, appunto, dalle grinfie del potere stesso. Ti pago (anche) per cantare le lodi del potente, ma al contempo ti garantisco la libertà e l’indipendenza (anche economica) per esercitare il tuo talento e diffonderlo, per farne godere ai contemporanei ed ai posteri.

La recente nomina di Moni Ovadia a direttore del Teatro Comunale Abbado di Ferrara sembrava, fino a ieri, un paradigma di questo schema. Vittorio Sgarbi (il mecenate), presidente di Ferrara Arte e ministro de facto della cultura della giunta Fabbri, palesando il “traffico di influenze” (inteso in senso non illecito, ma come utilizzo delle relazioni privilegiate tra persone) alla base della sua scelta, disorientava e spiazzava, a destra e a sinistra, chiamando a gestire il Teatro un autorevole artista ebreo, antifascista, impegnato politicamente a sinistra e aspramente critico verso il pensiero intollerante e discriminatorio di quella Lega che governa la città attraverso i suoi rappresentanti locali. Una scelta di libertà, rivendicata come improntata alla prevalenza dell’uomo di cultura sul settarismo di ogni parte e propagandata in conferenza stampa come sostanzialmente disinteressata, perchè in questo caso l’artista non aveva bisogno di denaro (maliziosamente insinuato, da alcuni, come elemento concausale della convinta adesione alla proposta da parte di Ovadia); la sua storia – fatta di grandi successi teatrali e anche di gran rifiuti, come quello di un lauto seggio al Parlamento Europeo – parlava per lui.

Qualche giorno fa Mario Resca, manager ferrarese con una carriera prestigiosa in cui spiccano il ruolo di AD di McDonald’s Italia, amministratore in Eni, Mondadori, L’Oreal, presidente di Kenwood Electronics, attualmente (lui sì a titolo gratuito) presidente della Fondazione Teatro Comunale Abbado, ha rimesso il suo mandato, come quello di tutto il CdA, nelle mani del sindaco Fabbri, in sostanza il suo padrone – essendo il Comune socio fondatore ed unico della Fondazione. La ragione, come si legge dal comunicato diramato dallo stesso Resca, risiede nel fatto che l’incarico formalizzato a Moni Ovadia, comprendente “i limiti della durata e del compenso ad esso attribuibile”, veniva unilateralmente modificato, avendo Resca appreso “da alcuni rappresentanti del socio unico, dallo stesso Moni Ovadia e dal Presidente di Ferrara Arte che i termini della proposta contrattuale andavano totalmente ridiscussi, con un sensibile aumento del compenso e con un prolungamento del contratto a favore del Direttore, in contrasto con la delega ricevuta sulla base di quanto deliberato dal C.d.A. in forza delle sue competenze”. Di conseguenza il Consiglio della Fondazione “all’unanimità, ritiene corretto e istituzionalmente opportuno rimettere il proprio mandato nelle mani del Sindaco stesso…“. Della serie: mi hai sconfessato, Sindaco. Ti restituisco le deleghe, fanne quello che credi.

Il Sindaco Fabbri, senza batter ciglio, dopo aver ricordato le iniziative svolte sotto la gestione Resca, dal “concerto, storico, di Riccardo Muti, a quello di Maurizio Pollini, alle produzioni streaming, e tv, di Alessandro Baricco e Simone Cristicchi”(il tutto garantendo tra l’altro una gestione economica e finanziaria in equilibrio, pur in un anno tragico), ha serenamente accettato le dimissioni di Resca e del CdA. Esaminiamo per un attimo la logica del comunicato di Alan Fabbri: non vi è una sola parola di critica o di presa di distanza, neppure velata, dell’attività della Fondazione Teatro; anzi se ne riconfermano le iniziative d’eccellenza, compresa quella prossima, nel “giorno della memoria” (27 gennaio), con Moni Ovadia e Corrado Augias. Verrebbe da dire: se hai un personaggio con qualità del genere (da te riconfermate) a gestire una delle vetrine della cultura ferrarese, fai qualcosa per non fartelo scappare. Manco per idea: arrivederci e grazie.

Poi leggiamo che il presidente di Ferrara Arte, Sgarbi, afferma invece che Resca ha un approccio “rigido e antico”. Che lo ha scelto lui, certo, ma che ha già pronto il nome di chi lo può sostituire, immaginiamo un uomo dall’approccio elastico e moderno. Esaminiamo per un attimo la logica della parole di Sgarbi: si tratta di affermazioni coerenti con la scelta di accettare le dimissioni di Resca. Mentre le elogiative parole di Fabbri suonano incomprensibili e contraddittorie di fronte alla decisione di non voler trattenere Resca, viceversa le parole di Sgarbi suonano come perfettamente compatibili con la scelta di avvicendare Resca. Non si può nemmeno invocare la diplomazia del linguaggio istituzionale, normalmente reticente e ipocritamente sussiegoso nel licenziare un alto dirigente: sia Fabbri che Sgarbi, infatti, ricoprono un incarico istituzionale. Solo che il Sindaco dirama un comunicato il cui tenore contrasta in maniera sconcertante con la decisione di giubilare Resca. Sgarbi invece “parla come mangia”, per una volta in maniera urbana ma inequivocabile.

Ma chi è, quindi, il “padrone” del Teatro? Il Comune, che ne è socio unico, o Sgarbi? Non staremo qui a ricordare le perplessità (diciamo così) suscitate dalla vicenda dei biglietti per visitare il Castello collegate alla mostra della collezione Sgarbi ivi ospitata, caso singolare di socializzazione degli oneri (al Comune le spese per cataloghi, eventuali spostamenti della collezione eccetera) e privatizzazione degli incassi(il biglietto è unico e una lauta percentuale dello stesso va comunque alla Fondazione Sgarbi). Non ci soffermeremo sulla scelta di azzerare la dirigenza di Ferrara Arte, riconosciuta anche all’estero come fucina di una produzione di rassegne originali e uniche nel panorama nazionale e internazionale, sostituita da mostre standardizzate e sostanzialmente comprate come pacchetto da offrire al grande pubblico, ai Diamanti come negli outlet del resto della penisola. Quest’ultima opzione, peraltro, è stata premiata da una grande affluenza di pubblico (Banksy), per cui la si potrà criticare per l’impostazione, ma non si potrà certo dire che sia stata un fiasco commerciale.

Limitiamoci quindi alla vicenda Teatro. La domanda sorge spontanea: c’è un padrone formale(il Comune, il suo Sindaco) che tesse le lodi del presidente del CdA nel momento stesso in cui accetta con glaciale cordialità le sue dimissioni. E poi c’è il Presidente di Ferrara Arte che rivendica la bontà dell’allontanamento di Resca per far posto ad un uomo più malleabile, che non faccia tante storie sul compenso da riconoscere a Ovadia (si parla di centomila euro). Del resto non si vorrà mica che un artista di simile levatura lavori gratis?

Personalmente ritengo e continuo a ritenere che una scelta non possa essere giudicata a priori, ma a posteriori, dopo aver visto se il prestigioso teatrante metterà la sua passione e il suo talento al servizio di Ferrara e del suo Teatro: solo allora si potrà esprimere una opinione, positiva o negativa, sulla qualità del suo operare. Mi permetto di osservare subito, tuttavia, che le premesse di questo incarico non rassicurano sulla libertà totale e sull’indipendenza di cui potrà godere Moni Ovadia. E non tanto nei confronti del suo “imperatore” quanto, curiosamente, nei confronti del suo mecenate, che appare nei fatti come il vero padrone del vapore.

In copertina: elaborazione grafica di Carlo Tassi

PER CERTI VERSI
La tua voce

Ogni domenica Ferraraitalia ospita ‘Per certi versi’, angolo di poesia che presenta le liriche del professor Roberto Dall’Olio.
Per leggere tutte le altre poesie dell’autore, clicca
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LA TUA VOCE

Mettimi le tue mani
Davanti agli occhi
Inebriati di luce
Di parole lette
Scritte
Di odori della tavola
Il pane
Il pollo alla diavola
Di amori
Per le vite accanto
Cosi importanti
Fitte

Ma ho bisogno
Della tua sera
Di quel bistro
Che non annerisce indistintamente
Ma che invera
I saluti
Del tuo carbone
Della tua terra
Che rivedo
Nel buio agone
Sfioro
E ascolto
La tua voce
Della Sierra
Svuotare
Il vuoto

Cosa c’è (e cosa manca)
nel “pacco regalo” del recovery plan

Dentro una delle crisi di governo più “incomprensibili” da molti anni in qua, però il Recovery plan, il progetto nazionale per arrivare ad avere le risorse europee di Next Generation UE, dopo l’approvazione nel Consiglio dei Ministri del 12 gennaio, appare in dirittura d’arrivo. Vale allora la pena spendere alcune parole per capire meglio quali sono gli obiettivi lì contenuti e l’orizzonte lungo il quale si muove. Lo si deve fare al di fuori della retorica sulla “svolta” europea, sul suo valore di appuntamento con la Storia, sulle ingenti risorse a disposizione e via dicendo, ma guardando bene contenuti e profilo lì presenti.

La prima considerazione che si può avanzare riguarda l’utilizzo dei 209 mld di € ( 65,4 mld. di sussidi a fondo perduto e 127,6 mld. di prestiti dal Recovery Fund europeo), lievitati nell’ultima versione a 222 mld con l’incorporazione di ulteriori risorse europee. Nell’ultima versione nota, essi sono distribuiti su 6 missioni fondamentali: Digitalizzazione, innovazione, competitività e cultura (46,1 miliardi); Rivoluzione verde e transizione ecologica (68,9 miliardi); Infrastrutture per una mobilità sostenibile (32 miliardi); Istruzione e ricerca (28,5 miliardi); Inclusione e coesione (27,6 miliardi); Salute (19,7 miliardi). Si potrebbe disquisire a lungo se non si poteva trovare un equilibrio più utile tra queste voci, spingere maggiormente in direzione degli investimenti piuttosto che degli incentivi, destinare maggiori risorse ai nuovi progetti rispetto a quelli già esistenti, superare una decisa frammentazione degli interventi previsti nelle singoli missioni.Non c’è dubbio, però, che alcune siano decisamente sottovalutate. Solo per esemplificare, basta pensare a quanto destinato alla salute, che non ripaga neanche l’insieme dei tagli prodotti negli ultimi 10-15 anni. Ragionamento analogo vale per la scuola e l’istruzione.

Al di là di questo, però, ciò che emerge con ancora più forza e, purtroppo, inadeguatezza, sono le finalità cui vengono indirizzate le risorse dei vari capitoli.  Anche qui, senza poter entrare in una disamina più approfondita, non si sfugge alla constatazione che non si affrontano le questioni di fondo che i vari temi propongono, continuando a seguire un pensiero debole e subalterno alle narrazioni mainstream.
Se guardiamo al tema della digitalizzazione, ormai assunto come un mantra in qualunque discussione che dovrebbe portarci nel futuro, non si va al di là delle politiche già avviate in questi anni, con un loro potenziamento, o di buoni, quanto scontati, propositi: incentivi a Industria 4.0, che notoriamente non sono in grado di guidare una reale ricollocazione dell’apparato industriale, e innovazione nella Pubblica Amministrazione.
Su quest’ultima questione, non si può evitare di notare che degli 11,45 mld, ad essa dedicati, ben 4,75 se ne vanno per il progetto Cashless, meglio noto coma Cashback, ossia per l’ incentivo all’utilizzo di mezzi di pagamento elettronici sia per i consumatori sia per gli esercenti. Insomma, si evita di misurarsi con le novità emerse in questi anni, e cioè il dominio delle grandi aziende multinazionali hi-tech made in USA – in primis le famose FAANG, Facebook, Apple, Amazon, Netflix e Google– che hanno dato vita ad un modello costruito sul fatto di produrre profitti mediante le inserzioni pubblicitarie e la pratica strutturale dell’elusione fiscale, utilizzare i dati degli utenti come nuova materia prima e ridurre l’esperienza umana a merce da collocare sui mercati. Fino alla conseguenza di aver privatizzato l’informazione, la comunicazione e la loro produzione, come emerso in questi giorni con la vicenda dell’esclusione di Trump da Facebook e Twitter. Decisione condivisibile, ma, come evidenziato da molti commentatori, che evidenzia il grande potere di soggetti privati nel disporre chi può intervenire o meno in quello che è diventato spazio e discussione pubblica. Questa è diventata la vera questione: ricondurre a bene comune e servizio pubblico informazione, comunicazione e conoscenza e impedire la loro appropriazione privata, su cui la stessa Unione Europea fatica a misurarsi e il Recovery Plan dimostra grande cecità.
Allo stesso modo, si possono avanzare obiezioni forti in tema di quanto previsto sulla cosiddetta “Rivoluzione verde e transizione ecologica”, che non assume fino in fondo l’obiettivo europeo della riduzione del 55% al 2030 delle emissioni da gas climalteranti e tantomeno quella di una fuoriuscita in tempi rapidi dall’utilizzo delle risorse fossili. Per non parlare, per usare un eufemismo, del rischio di supportare interventi di vero e proprio “green-washing”, in gran parte ispirati da ENEL e ENI.
A questo proposito, sembra sia rientrata l’intenzione di erogare risorse per il progetto sbagliato di realizzare a Ravenna il più grande impianto di cattura e stoccaggio della CO2 nel sottosuolo, che comunque rimane obiettivo dell’ azienda energetica nostrana, ma viene confermata l’idea di ricorrere ad un uso massiccio del gas per la riconversione delle centrali a carbone.
Ancora in questa missione, si può leggere quanto emerge sulla tutela e valorizzazione del territorio e della risorsa idrica, dove sono individuate risorse aggiuntive assai scarse e, soprattutto, viene incentivata una nuova spinta per la privatizzazione del servizio idrico, con l’obiettivo di consegnare alle grandi multiutilities quotate in Borsa – Iren, Hera, A2A, Acea– gli affidamenti anche nel Mezzogiorno, dopo che esse sono saldamento insediate in tutto il Centro Nord.
Sulla salute, non si assume con chiarezza  la centralità del ruolo della sanità pubblica, dopo la stagione della privatizzazione strisciante cui abbiamo assistito anche in questo settore, mentre per scuola e istruzione ciò che emerge è che una parte consistente delle risorse stanziate ( 11,7 mld. sul totale di 28,5 mld.) va sotto l’intervento “Dalla ricerca all’impresa”, ribadendo che scuola e istruzione sono subordinate alle esigenze del mercato e del sistema delle imprese.

Quello che, alla fine, emerge dal Recovery Plan, insomma, è un’idea di “ammodernamento” del Paese, fondato sui nuovi “driver” della digitalizzazione e della green economy, senza però mettere in discussione il paradigma della crescita trainata dal mercato e dalla finanza, anzi provando a dargli basi rinnovate e costruendo su queste una lettura ideologica della prossima fase di uscita dalla crisi e del nuovo sviluppo. Un tentativo che va visto anche nei suoi tratti di “novità”, non indulgendo ad un approccio per cui esso sarebbe una pura riproposizione del passato, ma, nello stesso tempo, senza occultare che non basterà la propaganda delle ingenti risorse a disposizioni per mettere tra parentesi che è destinato a non funzionare a quei fini.
Probabilmente ne sono consapevoli anche gli attori più avvertiti delle classi “dirigenti”, a partire dagli estensori del Recovery Plan, nel momento in cui indicano che nel 2023 il PIL crescerà tra il 2,5% e il 3% e il tasso di disoccupazione attestarsi dall’attuale 9,5% all’8,7% nel 2023.
Non grandi dati, in realtà, senza dimenticare che, dopo il forte ricorso all’indebitamento pubblico conseguente alla pandemia, il rapporto debito/PIL passerà, secondo la Nota di aggiornamento del Documento di Economia e Finanza, dal 134,6% del 2019 al 158% del 2020, per “rientrare” ad un livello del 143,7% nel 2026. Con tutte le incognite che ciò comporterà in una situazione nella quale si riaprirà, probabilmente nel 2022, la discussione sui vincoli di bilancio in sede europea, dopo la loro sospensione decisa nel corso del 2020. Nonché il rischio, tutt’altro che remoto, che la crisi economica e sociale possa conoscere un ulteriore aggravamento nei prossimi mesise non verrà attivata la proroga del blocco dei licenziamenti, misura osteggiata sempre dagli apologeti del mercato, che non sanno e non vogliono prendere atto che è finita da un pezzo – in realtà mai esistita – la stagione della sua capacità di autoregolazione e, ancor più, di generare ricchezza sociale e sviluppo di qualità.
E’ invece proprio da questa consapevolezza che bisognerebbe ripartire, per riscrivere da capo il Recovery Plan, per prospettare viceversa un reale Piano per il lavoro e i beni comuni, assumendoli come misura e obiettivo di una nuova traiettoria per il Paese

PRESTO DI MATTINA / Antonio e Beatrice:
monachesimo e spiritualità al servizio del popolo

«Dall’Egitto ho chiamato mio figlio»: questo testo del profeta Osea dice la cura di Dio per il suo popolo; di come egli continui ad amarlo senza pentimenti, anche se non ricambiato; anzi accrescendo sempre più questo amore: «Quando Israele era giovinetto, io l’ho amato e dall’Egitto ho chiamato mio figlio. Ad Efraim io insegnavo a camminare tenendolo per mano, ma essi non compresero che avevo cura di loro. Io li traevo con legami di bontà, con vincoli d’amore; ero per loro come chi solleva un bimbo alla sua guancia; mi chinavo su di lui per dargli da mangiare» (Os 11,1-5).

Si riaggancia a questo passo l’evangelista Matteo che, rivolgendosi soprattutto ai cristiani approdati dall’ebraismo, ricorre spesso a ‘citazioni di compimento’, tramite le quali egli mostra ai suoi come le promesse di Dio si siano realizzate nella storia in Gesù. Così troviamo frequenti espressioni come “Questo avvenne perché si compisse”, quest’altro “accadde come era stato detto dal profeta”. Anche l’episodio della fuga in Egitto e del successivo ritorno alla morte di Erode è riportato con questa intenzione. Anche in questa vicenda si deve leggere infatti il compiersi in Gesù della storia del suo popolo, «perché si compisse ciò che era stato detto dal Signore per mezzo del profeta: dall’Egitto ho chiamato mio figlio» (Mt 2,11).

L’evangelista Matteo vuole rendere consapevoli le sue comunità di giudeo-cristiani, che vivono nella diaspora della Siria, che proprio quel Gesù in cui credono è la Parola, che porta a compimento tutte le parole e le profezie di Dio rivolte a Israele. Nella pienezza del tempo, Dio fa conoscere in Gesù la sua parola definitiva, in risposta al grido del profeta Isaia: «Se tu squarciassi i cieli e scendessi davanti a te sussulterebbero i monti» (Is 63,19). Gesù è parola fattasi carne di amore, non solo per il suo popolo eletto, ma attraverso Israele, donata a tutti i popoli e a tutte le generazioni della terra. Tutte le parole di Dio, quelle proferite nei tempi antichi, divengono nelle stesse parole di Gesù a pienezza. Il Padre, manifestandosi, in voce, nel battesimo del Figlio dice anche a noi: “Ascoltatelo”. Le sue promesse, come sementi nella terra d’Israele, divengono nel Figlio come chicchi pieni nella spiga da sparpagliare nel mondo attraverso l’annuncio del vangelo.

Ma siamo proprio sicuri allora che l’andata in Egitto, di cui da poco abbiamo fatto memoria nella liturgia, sia stata solo una fuga? Segretamente, nascostamente, non è stato per Gesù un andare là dove tutto era cominciato, dentro il cuore stesso di un popolo minacciato di sterminio, per condividerne le sorti? Al principio di una storia di liberazione, di riscatto dalla schiavitù e di promettente alleanza?

La sua fu certamente anche la fuga da una strage. Così come Mosè fu salvato dalle acque per sottrarsi alle ire del Faraone, anche Gesù fu custodito da Giuseppe dalla furia omicida del re Erode, ma poi ritornò come Mosè inviato da quel Dio il cui nome è “colui che mette in cammino”. Per questo, il Messia inizia la sua vita terrena scendendo in Egitto, nel luogo simbolo del dolore innocente, alla radice di ogni strage, di ogni sterminio perpetrato dal potere quando si sente minacciato e fa di se stesso un Moloch cui tutto sacrificare.

«Dall’Egitto ho chiamato mio figlio» perché ripercorresse l’esodo, sperimentasse l’esilio del suo popolo, e, peregrinante, affidato al Padre, compiendo la sua parola, giungesse, con un nuovo esodo, alla sua Pasqua, compimento di quella antica e anticipazione di quella futura che è la terra promessa da Dio per tutti i suoi figli e figlie. L’approdo dove ‒ come profetizza Isaia ‒ «sarà strappato il velo che copriva la faccia di tutti i popoli e la coltre che copriva tutte le genti; sarà eliminata la morte per sempre e – come padre e madre – asciugherà le lacrime sul volto dei suoi figli» (25,7-8).

Dall’Egitto ho chiamato pure i miei figli e le mie figlie, si potrebbe anche dire. Ricordiamone alcuni: Antonio l’egiziano e Maria Egiziaca; ma poi anche Benedetto da Norcia e Beatrice II d’Este. In loro ci è dato percorrere le antiche vie del monachesimo orientale e occidentale, fin nelle nostre terre; l’ininterrotta migrazione degli uomini e delle donne delle beatitudini, il continuo esodo della mistica e della spiritualità cristiane, in compagnia di tanti altri viatores e velatores in itinere, a piedi o su barconi, verso la terra che Dio ha voluto donare loro. Questa peregrinazione della fede come speranza e come amore è un continuo passa parola, anche nella vita nascosta degli eremi e dei monasteri; un salmeggiare e celebrare, come in una universale liturgia cosmica che continua nella vita attraverso la carità fraterna dell’ascolto e della condivisone dei beni. Nell’esperienza monastica si custodisce e si rende al vivo quella coscienza della chiesa che sa di non dover vivere per se stessa, ma per il mondo cui è inviata, ricalcando le orme del suo Signore e Maestro che non è venuto per farsi servire, ma per servire e dare la sua vita.

Non diversamente dalla discesa in Egitto di Gesù non va paragonata la vita monastica a una fuga (dal mondo), un volontario esilio lontano dagli intrighi degli uomini e dai conflitti della storia. Non c’ingannino dunque le massime aforistiche del monachesimo egiziano (“fuge, tace, quisce”: fuggi, taci e rappacificati”) e di quello occidentale ora et labora. In realtà tutti gli uomini e le donne dell’esperienza monastica sono situati sulla frontiera, in cui si fa argine all’esondazione del male. Li troviamo intenti a quel passante di valico che è il mistero pasquale di Cristo, “passatori oranti” alla sequela del passeur blessé che è il crocifisso Risorto presso quel varco aperto nella morte, in ascolto del dolore del mondo, solidali nella oscura notte del Figlio, che continua in quella dei suoi fratelli, pronti a riporre, ancora una volta come lui, nelle mani del Padre il destino di tutti noi. Il monachesimo, come un tempo nel deserto egiziano della Tebaide, resta anche oggi per le donne e gli uomini che vi si incamminano una lotta e un martirio vissuti a nome di tutti. Per loro, come dice Paolo, «Non c’è più giudeo né greco; non c’è più schiavo né libero; non c’è più uomo né donna, poiché tutti sono uno in Cristo Gesù» (Gal 3,28). Essi sono persuasi infatti che «né morte né vita, né angeli né principati, né presente né avvenire, né potenze, né altezza né profondità, né alcun’altra creatura potrà mai separarci dall’amore di Dio, in Cristo Gesù» (Rm 8, 38-39). La loro vocazione nella chiesa e nel mondo è quella di condurre all’unità la famiglia umana, con una vita orante ispirata dalla preghiera stessa di Gesù, che chiede al Padre il dono dell’unità (Gv 17,21).

Domani 17 gennaio nel monastero delle sorelle Benedettine si ricorda proprio Antonio Abate titolare del loro monastero; e il giorno dopo, lunedì 18, esse ricorderanno la loro fondatrice la Beata Beatrice II d’Este (Ferrara, 1230 – 18 gennaio 1262). Come si è attuata questa presenza cristiana di Beatrice II per la nostra città? E che cosa dice a noi ancora oggi? Non ho trovato di meglio che rigiocare i tratti della sua spiritualità di mediazione con le indimenticate parole di mons. Antonio Samaritani, che di storia monastica è stato umilissimo e luminosissimo indagatore e scopritore.

«Allora non si davano sante se non canonichesse regolari, di spiritualità agostiniana, o di spiritualità monastica, qui, in zona nostra, benedettina. La beata Beatrice II d’Este è innovatrice e originale: innanzitutto non parte da un normale convento; parte da S. Stefano della Rotta di Focomorto, quindi da un eremitorio; parte da esperienza non monastica, non benedettina, ma mendicante, francescana. Quella della beata Beatrice II d’Este è una tipica spiritualità di mediazione. La vocazione ferrarese forse non è tutta contemplativa, né tutta operativa. La beata Beatrice II d’Este consacra sì la legittimità illegittima, se così vogliamo dire, della sua casata in Ferrara, ma la legittima con connotazioni allettanti per la nuova spiritualità della prima borghesia emergente, supportata appunto dai “fratres minores”, dai domenicani e da tutti gli ordini mendicanti di Ferrara. Si pensa che a Ferrara ci fossero pure delle forme minoritiche avanti la venuta dei francescani, come si possono individuare a Treviso e Vicenza. E’ bello pensare che, in sintonia col messaggio della minorità di S. Francesco, non solo c’è stata una ricezione fra le prime del movimento francescano femminile, le “Sorores Minores”, ma c’è stata direi una precursione, un anticipo tipico della spiritualità padana.  La beata Beatrice d’Este non è la santa contemplativa del Basso Medioevo, la santa medievale dei conventi benedettini; gli Estensi non hanno bisogno di una santa né eccessivamente miracolistica, né eccessivamente contemplativa. Le ossa di Beatrice d’Este sono diventate un centro anche di miracolosità nei secoli, ma molto posteriormente. La spiritualità ferrarese della beata Beatrice d’Este, santa sostanzialmente di ceppo veneto, del basso Veneto, è una spiritualità vicina al popolo: non miracoli, non contemplazioni eccelse, ma testimonianza di povertà e di umiltà. Gli Estensi non erano certamente umili, né certamente poveri, ma hanno avuto bisogno di inserirsi nel cuore dei ferraresi con una carta d’identità di questo tipo» (Radici della spiritualità ferrarese, in Bollettino Ecclesiastico, 2 1993, 349).

Don Primo Mazzolari, in un libro che scrisse per i suoi parrocchiani ricordando l’immagine di S. Antonio, presente in tutte le stalle della sua parrocchia, ne delinea la figura e alla fine si domanda: «cosa fece di straordinario S. Antonio? Niente. Non ha costruito città né fondato imperi, non ha scritto libri né vinto battaglie, non ha scoperto terre né macchine nuove, non microbi di malattie né sieri per guarirle. Eppure il suo posto è tra i benefattori dell’uomo, e, benché la sua lunga giornata si sia svolta in condizioni alquanto diverse dalla nostra, egli ci è di esempio. Vi pare un uomo da poco, uno che non crede nel denaro e non vi corre dietro come fanno i più, vendendo coscienza, pensiero, dignità? Vi pare un uomo da poco, uno che per amore della giustizia e per amore verso i poveri, si spoglia delle proprie ricchezze? Vi pare un uomo da poco, uno che affronta la povertà, la fatica, la solitudine per mantenersi libero onde meglio servire Dio nel prossimo? Vi pare un uomo da poco, uno che potendo fare, secondo l’opinione corrente di tutti i tempi, “il proprio comodo”, sceglie l’ultimo posto e la regola morale del Vangelo?», (S. Antonio Abate. Il contadino del deserto, Vicenza, 1974, 57-58).

Per leggere gli altri articoli di Presto di mattina, la rubrica di Andrea Zerbini, clicca [Qui]

Fotografia di copertina di Giorgia Mazzotti  

CONTRO VERSO
Il democratico

Dev’essere difficile per un uomo cresciuto in una cornice culturale molto precisa, che esalta il dominio maschile sulla donna, accogliere visioni diverse o anche solo modificare il proprio comportamento. Quest’uomo non aveva problemi con la legge, era un onesto lavoratore e ci teneva molto a fare bella figura con l’autorità – che, per colmo di sfortuna, era rappresentata da una donna! Ma non è riuscito a camuffarsi per bene…

Il democratico

Mia moglie è libera
fa ciò che vuole
purché lo faccia
senza rumore.

Anzi, che taccia
e senza sporcare.
E non si azzardi
a denunciare.

Su tutto il resto
non metto bocca.
Lei ha l’occhio pesto
ma mio figlio non si tocca

Sono sincero:
io sono aperto,
sono straniero
e di concerto

con i miei vecchi
e la comunità
sto tra il rispetto
e la modernità.

All’apparenza
assai democratico
salvo l’essenza
e resto arcaico.

Dico a mia moglie:
“Fai ciò che vuoi
ma se m’imbrogli
passi dei guai.

Io mi accontento
se mi ubbidirai.
L’amore è questo
o ti accorgerai:
ti tolgo il bambino.
Tanto, tu che mi fai?”

Il preteso dominio sul destino dei bambini continua a essere una delle minacce più quotate tra gli uomini violenti. A volte pensano di poterli sottrarre alla madre per il peso intrinseco della figura maschile, a volte in ragione della propria superiore capacità economica, altre volte ancora perché li allontano fisicamente, fino ai casi più drammatici.
È importante far comprendere a questi signori che sono i padroni di niente, certo non dei loro figli. I bambini devono essere preservati e protetti dalla violenza. Insieme alla madre.

CONTRO VERSO, la rubrica di Elena Buccoliero con le filastrocche all’incontrario, le rime bambine destinate agli adulti, torna su Ferraraitalia  il venerdì. Per leggere i numeri precedenti clicca [Qui]

Al cantón fraréś
Francesco Avventi: “Viazz d’Lasagnin da Milzana”

Il poemetto “Viazz d’Lasagnin da Milzana” fu pubblicato inizialmente nell’almanacco “Chichett da Frara”, un canto all’anno dal 1845 al 1849. Fu poi stampato per la prima volta in unico volume nel 1925, con grande successo di pubblico.
Narra le avventure di Lasagnìn, ingenuo ma dotato d’ingegno, “quasi in grado a quindici anni di leggere da solo”, avendo frequentato con profitto la scuola. Il nostro viene invitato dal padre ad intraprendere un viaggio per conoscere le cose del mondo, non verso Ferrara ‘che la città è piena di vizi’, ma da Mizzana verso Bondeno.
Lasagnìn parte in ottobre al tempo della vendemmia, con il vecchio somaro Scapuzzón, un fagotto di vestiti, pochi scudi, molte raccomandazioni, l’elenco dei parenti da incontrare, l’itinerario di andata e il percorso per il ritorno.
Prima tappa: Cassana, (ovvero) a due chilometri dalla partenza…
Personaggi e vicende via via comiche e paradossali si dipanano in cinque canti, con alcune rime sull’esperienza teatrale dell’autore.
Si offrono ad una sorridente lettura le prime 9 sestine del poemetto di “formazione”, nella versione originale.
(Ciarìn)

Viazz d’Lasagnin da Milzana

1.

Lasagnon da Milzana, era un vilan
D’ quei che sol dir la zent, ch’j ha i rugnun gross
L’j era sta’ par fator, con Cocapan,
L’aveva fat cumerzi d’ divers coss;
O trà quatrin, e tera, l’avrà avù
Un’intradina d’ tarsent scud e più.

2.

Al spusò la Mudesta, ch’ j era fiola
D’ Mezzazarvela favar d’al Miarin
E al n’avì un mascc, ch’al la mandava a scola,
E che tutti al ciamava Lasagnin;
Qual, grazia al mistar, ch’j era al padar d’l’osta
D’ quinds ann, quasi l’alzeva da sò posta.

3.

Lasagnon che l’amava grandement
Vist al prufitt dal fiol, al pensò ben
Parchè al gniss educà più zivilment
D’ mandarl a far un viaz fin a Bunden
Tant ch’al ciapass d’ l’ om, fasend in fond
Quela che s’ ciama, pratica d’al mond.

4.

Sò madar, verament, quand la savì
Al pensier dal marì, la s’in dols fort
Parchè, la dseva, andand luntan acsì,
Chi sa s’al vadrò più, prima dla mort!
Un viaz d’ sta fatta! Oh Dio! L’ j era dsprada;
Ma par quiet vivr, in fin, la diss: Ch’al vada!

5.

Alora al padar, al ciamò al ragazz
E al gh’ diss: Sapi fiol miè, ch’a j ho fissà,
(Post ch’ a ved t’ ha dl’ inzegn, dal talentazz)
T’ vad viazand a studiar quel che t’an sà,
Essend cumun parer, che col zirar
L’om s’istruis, e impara al mond a star.

6.

A n’ voi che t’ vad chi dala banda d’ Frara
Parchè il zità è pin d’ vizi e d’ distrazion
E mi, da zovan, a n’ ho avù capara
Che essendagh capità, pr n’ ucasion,
Causa i cumpagn, a m’ guadagnò un zert quèl
Che agh mancò poch ch’ a n’ agh lassass la pèl.

7.

A t’ darò al sumar vecc, parchè l’ è quiet
T’ n’ abbi a incuntrar disgrazi par la strada;
Intant preparat in t’ un fazzulet
Na camisa, un par d’ bragh, e la tò vlada
Che t’ putrà po ligar al fagutin
In tla bastina d’ drè dal sumarin.

8.

A t’ dagh anch sò quant scud; ma abi giudizi
Che in t’ al spendar agh vòl ecunumia!
Stà luntan, caminand, dai precipizi
Fa che la bestia tiena al mez d’ la via
Parchè i sumar, va sempr’ avsin ai foss,
E s’ j scapuzza a s’ riscia d’ rompars j oss.

9.

In t’ al prim dì, t’ po andar fina in Cassana
Tant che al sumar s’ avezza a far dla strada;
In cà dal Prèt agh sta miè Cmar Mariana;
Vala a truvar: fà li la to farmada;
Al gioran dop, t’ putrà andar a Vigaran;
E po par Snedga, e acsì al Bunden pian pian.

. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .

Viaggio di Lasagnino da Mizzana

  1. Lasagnone da Mizzana, era un campagnolo / di quelli che la gente suole dire, che hanno grossi rognoni / era stato fattore, da Coccapani, / aveva fatto commercio di diverse cose; / tra quattrini, e terra, avrà avuto / un’entratina di trecento scudi e più.
  2. Sposò la Modesta, che era figlia / di Mezzacervella fabbro a Migliarino / ebbe un maschio, lo mandava a scuola, / e che tutti chiamavano Lasagnino; / il quale, grazie al maestro che era il padre dell’ostessa, / a quindici anni, quasi leggeva da solo.
  3. Lasagnone che l’amava grandemente / visto il profitto del figlio, pensò bene / perché venisse educato più civilmente / di mandarlo a fare un viaggio fino a Bondeno / tanto da crescere come uomo, facendo in fondo / quella che si chiama, pratica del mondo.
  4. Sua madre, veramente, quando lo seppe / il pensiero del marito, se ne dolse forte / perché, diceva, andando così lontano, / chissà se lo vedrò più, prima di morire! / Un viaggio di questa fatta! Oh Dio! Era disperata; / ma per il quieto vivere, infine, disse: Che vada!
  5. Allora il padre, chiamò il ragazzo / e gli disse: Sappi figlio mio, che ho deciso, / (vedendo che hai dell’ingegno, del talentaccio) / tu vada viaggiando per studiare quello che non sai, / essendo comune parere, che girando / l’uomo si istruisce, e impara a stare al mondo.
  6. Non voglio che tu vada dalla parte di Ferrara / perché le città son piene di vizi e distrazioni / ed io, da giovane, ne ho avuto un anticipo / essendo capitato, in un’occasione, / a causa dei compagni, mi guadagnai qualcosa / che mancò poco non ci lasciassi la pelle.
  7. Ti darò il vecchio somaro, perché è quieto / tu non abbia ad incontrare disgrazie per la strada; / intanto preparati in un fazzoletto / una camicia, un paio di braghe e la tua giacchetta / che potrai poi legare al fagottino / nella cestina dietro al somarino.
  8. Ti dò anche alcuni scudi; ma abbi giudizio / che nello spendere ci vuole economia! / Sta’ lontano, camminando, dai precipizi / fa che la bestia tenga il mezzo della via / perché i somari van sempre vicino ai fossi, / e se inciampano si rischia di rompersi le ossa.
  9. Nel primo giorno, puoi andare fino in Cassana / intanto che il somaro s’abitua a fare della strada; / in casa del prete ci sta la mia madrina Marianna; / valla a trovare: fa’ lì la tua fermata; / il giorno dopo, potrai andare a Vigarano; / poi per Senetica, e così a Bondeno piano piano… (continua)

Tratto da: Francesco Avventi, Viazz d’Lasagnin da Milzana, Ferrara, Liberty House, 2000.
A cura di Gian Paolo Borghi; con contributi di Gualtiero Medri e di Luciano Maino.

Conte Francesco Avventi (1779 – 1858)
Librettista per G. Rossini, C. Coccia, F. Sampieri e altri, membro della direzione del Teatro Comunale di Ferrara, colonnello della “Guardia Nazionale” contro il brigantaggio del Basso Po, bibliofilo, collezionista di libri antichi, narratore e poeta in lingua e in dialetto. Amministratore pubblico conosciuto e stimato dalla cittadinanza.  Altre note bio-bibliografiche nel testo citato.

Al cantóη fraréś: testi di ieri e di oggi in dialetto ferrarese, la rubrica curata da Ciarin per Ferraraitalia, esce ogni 15 giorni al venerdì mattina. Per leggere le puntate precedenti clicca [Qui] 

Cover: Illustrazione di Gianni Cestari, part. di pag. 54 del libro – Per gentile concessione dell’editore.

PAROLE A CAPO
Liliana Capone: “Il senso” e altre poesie

“La poesia è un atto di pace. La pace costituisce il poeta come la farina il pane.”
(Pablo Neruda)

 Il senso

Graffianti, umilianti parole
nel profondo feriscono
Aprono a silenzi,
dimensioni lontane, solinghe
Ricuci, rattoppi:
il detto , il non detto, le pause,
i lunghi intervalli di tempo
trascorsi in un’arida, sterile guerra
quasi a dar un senso
a qualcosa che si perde nel vuoto
come corpo amorfo privo di testa
E allora taci,
meglio lasciar sbollire il non senso,
non chiudi la porta ma aspetti.
Domani il cielo sarà più chiaro
e il tutto riacquisterà un….senso!

 

Sono nata ieri…

Sono nata di febbraio…
un giorno di freddo pungente,
dai riccioli nevosi corteggiato
Camino scoppiettante a rischiarar
le attonite pareti
al lamento straziante di una madre
Brulicare di persone, parenti
Poi.. uno strillo: il mio
e benvenuta in questo mondo,
piccola e indifesa!
Emaciata, sospesa nel limbo della vita,
indecisa se restare tra i vivi
o dar retta alla voce di lassù
E l’altalena continua
a tenere il fil della speranza
Solo tenacia in quel corpo ostinato a mordere la vita
Abbarbicata, la testa reclina,
non mollare….
E crebbi come esile fuscello all’apparenza,
Col vuoto dentro
di un’esistenza strappata coi denti
Sgomitando, implorando per un gioco, un libro,
vivere, almeno, con una manciata d’amore!

 

Una donna

Il tempo di una donna si sgrana miseramente  nel giorno.
La sua compattezza, osteggiata, contesa, difesa…+
Doveri per l’uno, per l’altro,
a tacitare un ego sociale severo, impassibile.
Gli affanni tanti da togliere il fiato.
Le gioie ben poche…
Effimere, volano celandosi nell’incedere grigio.
Un pezzetto di pace per lei dovrà pur esserci…
ma dove, ma quando?
L’arrovello è potente, non districa, imbriglia, soffoca …
A tacitar la corsa diurna del cuore:
aria, respiro libero, notturno,
nell’ inceder più calmo
al ritmo naturale, vitale.
Al sonno abbandonate, le membra stanche, sopite,
disgiungon fisicità e fantasia.
Mentre ancora la mente galoppa,
in un gioco di irrefrenabile angoscia
che pace non ha.

Liliana Capone (Chieti). Insegnante di scuola primaria, (attualmente in pensione). Psicologa, regolarmente iscritta all’albo della regione Abruzzo. Ama la lettura e la scrittura, le considera: cibo per la mente, (permettono di pensare i pensieri), cibo per il corpo, (danno rilassatezza). La sua formazione socio-psico-pedagogica coadiuva l’introspezione nei rapporti umani.

La rubrica di poesia Parole a capo curata da Gian Paolo Benini e Pier Luigi Guerrini esce regolarmente ogni giovedì mattina su Ferraraitalia. Per leggere i numeri precedenti clicca [Qui] 

Donald Trump, la crisi della democrazia, la crisi della fiducia nelle istituzioni.

Il 7 Gennaio 2021 è stato un  giorno drammatico per tutte le democrazie occidentali. I “partigiani di  Trump” hanno preso in ostaggio le istituzioni della più grande democrazia del mondo. L’America è tramortita, sconvolta dalle immagini del suo Congresso invaso e occupato. Pochi minuti prima della mezzanotte, Camera e Senato degli Stati Uniti bocciano gli ultimi ricorsi contro l’elezione di Joe Biden. E’ il primo segnale di ritorno alla normalità.
Tutto questo rimanda a un tema che avevo già provato a declinare su queste pagine: la grande crisi delle democrazie occidentali.

E’ in crisi l’idea di ‘democrazia’ che ha dominato nel mondo occidentale per almeno cinquant’anni.  Democrazia (dal greco antico: δῆμος,  démos, “popolo” e κράτος,  krátos, “potere”)  significa “governo del popolo”, ovvero sistema di governo, in cui la sovranità è esercitata, direttamente o indirettamente, dal popolo.
Si vedono, a maggior ragione oggi,  delle tendenze generali  che impressionano:
– Non ci si riconosce più nell’idea che un “governo del popolo” sia una “buona” e auspicabile forma di governo. Da qui molte derive: riproporre le oligarchie dei nobili, i governi illuminati dei magnati, le dittature della finanza e dell’esercito fino alle forme di autoritarismo monocratico e assoluto. I fanatici di Trump non conoscono il valore della democrazia e non si fidano delle sue istituzioni. Si fidano solo di quello che dice Trump, il deus ex machina che propone una “nuova verità” accettabile agli occhi di questa gente.
– Queste tendenze tendono a verificarsi quando  la popolazione si trova in un forte  stato di insicurezza e preoccupazione. La storia insegna che in tutti i momenti di forte crisi ‘sociale’ riemergono in maniera prepotente spinte all’autoritarismo. Ma non è solo quello.

Per quale motivo questa gente si fida di Trump?
– E’ più facile credere in una persona che in una istituzione. E’ più facile fidarsi di un magnate della finanza che sembra ricco, potente, invincibile piuttosto che di un sistema ramificato di partecipazione/discussione che trasmette un senso di maggiore incertezza e indeterminatezza da una parte, di inviolabilità dall’altra. “L’inviolabilità della confusione” è l’oggetto contro il quale questa gente si oppone al punto da rischiare di perdere la vita.
– “L’inviolabilità della confusione” crea un senso di impotenza e di irrealtà. L’impotenza derivata da una convinzione di fondo che non si potrà mai cambiare nulla se non saltando tutti quelli che sono gli iter democratici invasi da una burocrazia perniciosa e da una tendenza all’omeostasi  insopportabile. Se a questo si associano esperienze personali di fallimenti professionali e personali si arriva ad una situazione di insofferenza insopportabile che può avere conseguenze devastanti sull’idea di legittimità delle azioni che uno può decidere di intraprendere.
– “L’inviolabilità della confusione” porta a valorizzare altre forme di “confusione” che sono considerate paritarie e legittime al pari della prima. Ad esempio la “confusione” dei travestimenti. E’ un travestimento quello di Biden che si presenta sempre in giacca e cravatta e che, anche attraverso il suo modo di vestire, incarna l’omologazione al déjà-vu, esattamente come è un travestimento quello di Batman che, tra l’altro, è un paladino della giustizia. Allo stesso modo è un accettabile il travestimento del guerriero vichingo con le corna sulla testa. Si fa avanti una forma di partigianeria distorta che prevede anche il ricorso a maschere delle fiction televisiva e dei fumetti.  Tali “maschere” presentano un grado di “verità” non accettabile se paragonate all’abbigliamento dei parlamentari del congresso. Ma se salta l’idea che esistono delle istituzioni di cui fidarsi, di cui accettare un grado di “verità” condivisa e condivisibile, allora la loro esistenza diventa possibile e auspicabile.  Si trasmigra nel mondo dell’  “è vero ciò che io considero vero”. Se per me Batman è vero, allora Batman è vero, perché non esiste altra verità aldilà di quella che io riconosco come tale, per quanto balzana sia.
– “L’inviolabilità della confusione” porta a un ripiegamento sull’individualismo smodato, a una necessità di farsi giustizia da soli, a una allentamento di tutti i vincoli sociali che di fatto garantiscono dei comportamenti corretti. Paradossalmente questo riporta come un circuito malato alla necessità di trovare qualcuno che incarna tutto il malessere, qualcuno che rappresenta un riferimento alternativo, diverso, adatto a dei Batman che non credono più a niente, che odiano le istituzioni perché inviolabili, che detestano  i poteri democratici perché confusi. E’ abilità di pochi legittimare una nuova realtà che possa essere accettabile a dei personaggi delle fiction che prendono forma di esseri umani e invadono uno spazio fisico e simbolico che si chiama istituzione-democratica arrivando al terreno quasi-sacro del potere costituito. Trump è uno di questi e di questo suo potere bisogna prendere atto.
– L’idea di “inviolabilità della confusione” nasce anche da un profondo malessere personale. Dalla convinzione che da soli non si riuscirà mai a fare nulla di buono, che la vita sarà sempre più brutta, che mancheranno i soldi per pagarsi le medicine e la scuola dei figli, che i ricchi saranno sempre  più ricchi e i poveri sempre più poveri. Da una tendenza al nichilismo che annienta tutto e non permette di credere più a niente. Allora si diventa aggressivi per salvare prima se stessi e poi per legittimare una nuova realtà che permetterà ai vincitori di fare cose diverse, creare un mondo migliore, come tanti nuovi super-eroi del mondo nuovo. Apparentemente si vede un miscuglio tra realtà e fantasia che sembra degno di soggetti malati. Ma non è così, il travestimento è solo un modo di affermare la ricerca di una identità diversa perché si è persa la precedente. Questo, non necessariamente è un fenomeno inta-psichico malato.  Lo stigma di “malattia” è, in situazioni come queste,  il segnale di un irrigidimento del sistema delle istituzioni che si deve riprodurre sempre uguale piuttosto che la preoccupazione per una specie di deviazione collettiva verso la fantasia e l’irrealizzabilità. (Poi tutte le scienze umane insegnano che più i sistemi sociali sono rigidi e più tendono ad espellere ciò che è diverso e ciò che fa paura perché minaccia le regole di sopravvivenza del sistema in quanto tale).
– “L’inviolabilità della confusione” ha fortemente a che fare con il tema della fiducia. E’ completamente saltata in queste persone scorrette, fantasiose e aggressive l’idea che le istituzioni democratiche potranno migliorare la loro vita e quella dei loro figli. Forse lo potrà fare un non-democratico, un autoritario dai capelli gialli e dagli occhi di ghiaccio che sembra anche lui uscito da una fiction.
Ricordo che la fiducia può essere riposta nei confronti di una singola persona e nei confronti di un sistema sociale. La fiducia ha quindi una dimensione “personale” che si concretizza nel fidarsi di un’altra persona e ha una dimensione “sistemica” dipende cioè dal fatto che dei sistemi sociali diventino stabili grazie alla comunicazione intersoggettiva. Sistemi stabili riducono la complessità del mondo e permettono alla fiducia di passare dalla personalità singola al sistema, riponendo aspettative sulla correttezza e prevedibilità delle regole di funzionamento dello stesso.

E’ proprio questa previsione di “stabilità” che permette il passaggio dalla fiducia nel singolo alla fiducia nel sistema.  Un sistema stabile, utilizzando le regole che si è dato, garantisce la prevedibilità delle conseguenze di molte azioni e, facendo questo, assolve a diverse funzioni: facilita la codifica dei messaggi, semplifica le procedure, rende relativamente stabili le aspettative. In sostanza riduce la complessità del mondo. Il problema della fiducia è fortemente legato a quello della riduzione di complessità necessaria per capire e prevedere cosa succederà nel mondo. Come scrive Luhman (1989): “Il problema della fiducia è legato ad una riduzione di complessità, e in modo ancora più specifico, di quella complessità che entra nel mondo in virtù della libertà di altri individui. La fiducia ha quindi la funzione di ridurre tale complessità

Se questo avviene si passa dalla fiducia nell’azione del singolo alla fiducia nei meccanismi organizzativi del sistema, cioè la fiducia viene riposta in quelle regole che garantiranno un funzionamento prevedibile e semplice dei sistema stesso.
Ma può anche capitare che la fiducia sistemica sia tradita.  In questo caso per un po’ la fiducia viene comunque reiterata e poi si traduce in sfiducia nel sistema e nell’insieme delle regole che usa per semplificare/ridurre la complessità del mondo. E’ per questo che fiducia e sfiducia convivono in un universo esplicativo di carattere sociale. Sarebbe difficile spiegare il vero significato e le implicazioni di una se non fosse altrettanto chiaro il vero significato e le implicazione dell’altra.

La fiducia e la sfiducia incorporano meccanismi di reiterazione che sono sia riduzionistici che limitati temporalmente e quindi è possibile che a un certo punto si invertano. La fiducia tradita si trasforma in cieca sfiducia oppure, al contrario, la sfiducia assorge a una possibile fiducia retroattiva.
In questo complesso passaggio dalla fiducia nel singolo alla fiducia nel sistema e nelle sue continue trasposizioni e reiterazioni che si innesta e si spiega, a mio parere, quel che è successo ieri.
In quel gruppo di persone è completamente saltata la fiducia nel sistema ed è emersa, in maniera prepotente ed esiziale, la necessità della fiducia in un singolo individuo (Donald Trump il super-eroe invincibile) come unica e ultima strada per risuscitare quel minimo di “mondo buono” che permette di tenere lontano la disperazione più bieca.
Non c’è dubbio che tutto questo attesti una forte crisi della democrazia. Non c’è dubbio che quello che abbiamo visto è solo l’iceberg di un cambiamento sistemico che si sta muovendo da molto tempo, che è molto significativo e degno di  importanti riflessioni da parte di tutti quelli che credono nei valori proposti e sostenuti della democrazia.

Trump centra in tutto questo perchè è stato il catalizzatore di in grande malessere. La sua presenza e azione ha facilitato la retroazione della fiducia dal sistema alla singola persone. Ma anche senza Trump la situazione non sarebbe cambiata di molto. Ed è in quest’ultima consapevolezza la vera riflessione che, a parer mio,  va fatta.  Bisogna analizzare il fenomeno con molta lucidità se volgiamo salvare le nostre istituzioni e aprire la porta a un futuro di cambiamento democratico, di riforma costituzionale, di deburocratizzazione e di ricostruzione di un senso del “vero” che vada bene ai più.