Skip to main content

I bambini, il miele prezioso e lo Yemen in guerra

 

Qualche bomba in meno sugli yemeniti: l’Italia ne vieta, dopo una sospensione, definitivamente l’invio. La fabbrica di Bombe RWM Italia fa ricorso. Intanto possiamo essere soddisfatti della decisione presa. La situazione dello Yemen resta comunque disperata.

Ne so solo quello che leggo sulla stampa. Ricordo che circa un anno fa a Monaco – Conferenza sulla sicurezza, 14-16 febbraio – tra i 10 conflitti da fermare urgentemente lo Yemen – bombardato, affamato, in preda al colera, e al Covid oggi possiamo aggiungere – è secondo solo all’Afghanistan. Il coinvolgimento degli Emirati Arabi Uniti si va estinguendo e pure appare in diminuzione quello dell’Arabia Saudita, a fronte delle offensive degli huthi, alla presenza di Al Qaeda, alla dichiarazione di autonomia da parte del Consiglio di transizione del sud.
In tanta amarezza c’è un a nota dolce. Si tratta infatti di miele. Ne leggo su Internazionale.

In un articolo ripreso da Der Spiegel International leggo di una provincia, Shabwa, grande il doppio dello stato tedesco dell’Assia, con una popolazione 700.000 abitanti. Vedo che l’Assia è di 21mila km², con 6 milioni di abitanti. Per raggiungere le dimensioni della provincia Yemenita dobbiamo dunque sommare Lombardia (24mila km²) e Lazio (17mila km²) per un totale di 41mila km². La somma delle popolazioni di Lombardia (10 milioni) e Lazio (6 milioni) fa 16 milioni. Aggiungo un ultimo confronto: Yemen, 528mila km² con 24 milioni di abitanti, Italia, 302mila km² con 60 milioni. È dunque una provincia arretrata e dimenticata, anche per gli standard dello Yemen, leggo ancora. È una regione arida e montuosa, che si estende a sud fino alla costa. È riuscita a respingere tutti gli aggressori, è in gran parte autosufficiente e sta vivendo una ripresa senza precedenti. La città di provincia di Ataq, dove gli apicoltori e i venditori si incontrano ogni novembre, ospita circa 100.000 persone.
Da lì miele di grande e differente qualità va in tutto il mondo. Una tanica da 10 litri del miglior miele vale 1.300 euro!

I doni del miele
Non solo un buon apporto all’economia viene da questa attività. Per l’annuale fiera mercato gli apicultori passano per territori controllati da forze tra loro in guerra, rispettati dalle opposte milizie. Anche tra loro ci sono divergenze non irrilevanti, ma la produzione di miele viene prima. Gli apicultori sono in stretta comunicazione e collaborazione tra loro per difendere dai pericoli i loro preziosi alveari. Ciò induce a una cura comune, che si estende anche agli agricoltori. È bene anche per loro che api in buona salute impollinino come si deve. Ecco che l’uso dei pesticidi va limitato e comunque comunicato. Parlano del miele ma è un messaggio che va oltre nella provincia investendo sempre più persone:
“Se solo combattiamo gli uni contro gli altri e tutti vogliono la loro strada, perderemo tutti”. È solo una goccia in un mare di amarezza, ma forse per questo anche più preziosa.

Con i bimbi dello Yemen
Mi piace pensare di incontrare i bimbi dello Yemen e d’essere in grado di parlare con loro. Mi è già accaduto in passato. Li ho pensati raccolti, curiosi e premurosi accanto all’avvoltoio Nelson, abbattuto come drone spia e poi curato e liberato.
Ho immaginato di divertirli raccontando loro la storia della regina di Saba e dell’incontro con Salomone (Sulayman). Ora penso come sarebbe bello ricordare con loro che la sura XVI del Corano – un vero inno cosmico – è intitolata Le Api, AN-NAHL.

Leggiamo la sura XVI
Il nome deriva dal versetto 68, che leggiamo. “Ed il tuo Signore ispirò alle api: “Dimorate nelle montagne, negli alberi e negli edifici degli uomini. 69. Cibatevi di tutti i frutti e vivete nei sentieri che vi ha tracciato il vostro Signore”. Scaturisce dai loro ventri un liquido dai diversi colori, in cui c’è guarigione per gli uomini. Ecco un segno per gente che riflette.”

Chiedo ai bambini: “Cosa vuol dire e negli edifici degli uomini? Dovete tenervi le api in casa? È questo che ha detto il Signore?”.
Ridono: “Sono gli edifici fatti apposta dagli uomini: gli alveari. Sono fatti di legno. Li avete anche in Italia?”.
Esaurisco subito le mie scarse cognizioni sull’argomento. Chiedo loro del miele e di quale preferiscono per colore, sapore, intensità. E da dove derivano le differenze. Qualcuno, figlio di apicultore, mi sa dare le giuste risposte. Mi dice anche delle virtù curative. Potessero i bimbi addestrarsi come apicultori, rischiando qualche puntura, molto meno di quanto rischino – nell’immediato e per le conseguenze anche sopravvivendo – i loro coetanei trascinati a fare i bimbi soldato nelle opposte fazioni.
“Ma la più importante guarigione per gli uomini, non potrebbe essere la fine della guerra? Non è questo è il segno per gente che riflette?”.
Vedo che sono d’accordo.
È ora di merenda.
Mi faccio consigliare il miele da mettere sul morbido, soffice pane yemenita, lahuh. Mi sembra di sentirlo. È squisito.

Questo articolo è recentemente apparso sull’edizione in rete della storica rivista del Movimento nonviolento [www.azionenonviolenta.it]

SCHEI
BCE, rimetti a noi i nostri debiti

Ci voleva un flagello biblico (l’epidemia planetaria da Covid-19) per trasformare la fredda scienza economica in una smisurata preghiera. “Rimetti a noi i nostri debiti”, nella parabola del Re buono e del servo spietato, è la decisione cui perviene il padrone compassionevole, che invece di farsi saldare il debito di diecimila talenti, che il servo non può pagare se non vendendo tutta la sua famiglia, gli condona interamente il debito. Peccato che, una volta libero, il servo non rimetta il debito (più modesto) che vanta nei confronti di un compagno, ma anzi gli richieda di pagarlo.

Non illudiamoci: se anche la Banca Centrale Europea condonasse il debito che vanta nei confronti dell’Italia, l’Italia si comporterebbe esattamente come il servo graziato: continuerebbe a chiederci di pagare i nostri debiti. Non possiamo quindi aspirare alla cancellazione del nostro debito da cittadini (o da sudditi, come molti ritengono di essere) verso lo Stato. Tuttavia, sul proscenio economico si è appena affacciata una proposta che sarebbe apparsa folle solo qualche settimana fa: quella che punta a convincere la BCE a rinunciare a parte del suo credito nei confronti dei Paesi dell’area euro. Attualmente, un quarto dei debiti pubblici dei paesi dell’area euro è detenuto dalla Banca centrale europea. Un centinaio di economisti (tra i quali il noto economista progressista Thomas Piketty) hanno lanciato, dalle colonne della stampa internazionale, un appello affinchè la BCE “cancelli” o renda inesigibile questa quota di debito (in parte contratto per far fronte all’emergenza Covid) in cambio dell’impegno dei paesi “condonati” ad utilizzare questa riserva per finanziare investimenti che favoriscano una trasformazione dell’economia in senso ecologico e sostenibile. L’idea venne lanciata a novembre, suscitando reazioni scandalizzate o canzonatorie, dal Presidente del Parlamento Europeo David Sassoli, che disse: “nella riforma del patto di stabilità dovremo concentrarci sull’evoluzione a medio termine di deficit e spesa pubblica in condizioni di crisi e non solo ossessivamente sul debito”. Il deficit è il delta negativo tra quanto uno Stato spende in un anno rispetto a quanto incassa nel medesimo anno, delta sottoposto al rigido sbarramento del tre per cento, sempre più difficile – e forse anacronistico – da rispettare in un periodo in cui gli Stati devono spendere in deficit per non far affogare definitivamente i propri cittadini.

Citiamo dalla lettera aperta: “I cittadini scoprono, con sconcerto per alcuni di loro, che quasi il 25% del debito pubblico europeo è oggi detenuto dalla loro banca centrale. Dobbiamo a noi stessi il 25% del nostro debito. Se rimborsiamo questa somma, dovremo trovarla altrove prendendola nuovamente in prestito per far girare il debito invece di investirla, oppure aumentando l’imposta oppure abbassando la spesa. Eppure ci sarebbe un’altra soluzione. In quanto economisti, responsabili e cittadini impegnati nei diversi paesi, è nostro dovere sollecitare l’opinione pubblica sul fatto che la Bce potrebbe offrire agli Stati europei i mezzi per la loro ricostruzione in chiave ecologicamente sostenibile, ma anche riparare la frattura sociale, economica e culturale dopo la terribile crisi sanitaria che stiamo attraversando.”

La lettera prosegue affermando la consapevolezza che si tratterebbe di una decisione eccezionale, concernendo la cancellazione di un debito pari a 2.500 miliardi di euro. Eppure decisioni simili non sono prive di precedenti: nel 1953 “la Germania beneficiò della cancellazione di due terzi del suo debito pubblico, che le permise di ritrovare il cammino della prosperità ancorando il suo futuro nello spazio europeo. L’Europa non attraversa forse una crisi di dimensioni eccezionali che giustificherebbe misure altrettanto eccezionali?”. Del resto, proseguono i firmatari della lettera, “una banca centrale può funzionare con fondi propri negativi senza difficoltà. Può addirittura emettere moneta per compensare queste perdite: ciò è previsto dal protocollo n°4 accluso al trattato sul funzionamento dell’Unione europea. Inoltre, giuridicamente e contrariamente a quanto affermano alcuni responsabili delle istituzioni, in particolare in seno alla Bce, l’annullamento non è esplicitamente proibito dai trattati europei. Tutte le istituzioni finanziarie a livello mondiale possono deliberare una rinuncia ai loro crediti…”. Si fa poi riferimento al Quantitative Easing (l’acquisto illimitato del debito pubblico dai paesi dell’area euro), messo in atto da Mario Draghi proprio da Presidente della BCE, per mostrare come una recente prassi di politica monetaria ritenuta borderline rispetto alle regole del trattato istitutivo della BCE sia stata attuata senza provocare alcuno scossone nel forziere dei forzieri, ma anzi abbia prodotto l’ effetto di neutralizzare la speculazione contro le economie europee più indebitate, con un effetto stabilizzatore per il quale Draghi sarà ricordato nei manuali di storia economica come “il salvatore dell’euro”. Peraltro, nonostante ormai i tassi per indebitarsi siano quasi negativi, gli Stati dal 2015 non fanno che tentare di ridurre il livello di indebitamento. Del resto, se la tua famiglia non incassa abbastanza soldi per ripagare i debiti esistenti, saresti un cretino se decidessi di prendere altri soldi in prestito semplicemente perchè sono a tasso zero. Piuttosto, cerchi di tirare la cinghia e cominciare a rientrare dai debiti che hai.

Gli economisti fanno poi un’affermazione decisiva: “…in questo ambito solo la volontà politica conta: la Storia ha dimostrato a più riprese che le difficoltà giuridiche spariscono a fronte degli accordi politici”. Questa frase non suona solo come una sconfessione dell’atteggiamento tuttora notarile di Christine Lagarde, neopresidente della BCE, che dichiara banalmente che questa proposta è irrealizzabile perchè “lo vietano le regole”. Grazie al piffero: le regole si possono cambiare, se c’è la volontà comune di farlo. In realtà, il contenuto rivoluzionario della frase risiede nel fatto che degli economisti di chiara fama riaffermano il primato della politica sull’economia, sovvertendo il mantra secondo il quale sono le leggi economiche, elevate al rango di principi della fisica, a determinare la direzione del mondo. Sono proprio alcuni tra i depositari della “scienza”  più idolatrata del mondo moderno a sovvertire le basi del ragionamento: è una politica alta e lungimirante che influenza l’economia e il destino della storia umana.

 

DIARIO IN PUBBLICO
Il Pallidone, il Rosso, l’Ossimoro e via inventando

 

Nella gara immaginifica che scuote e delizia il ‘fragile’ sistema culturale della nostra ‘Ferara’ ci si avvia alla creazione di nuovi miti e nuovi contendenti. Tutto nasce da una definizione del roboante ‘signore della cultura’ che ci definisce “pallidi intellettuali”, dove l’aggettivo certamente non montaliano, per sempre fissato nel celeberrimo “Meriggiare pallido e assorto”, a quanto apprendo dalla stampa è rivolto anche a me. Ma me ne compiaccio. Essere pallido e ragionare, contrapponendosi a chi è sempre rosso di rabbia e di immotivato sdegno. Il mio ruolo allora diventa quello del Pallidone, che deve il suo colorito non certo alla presenza di anemia o altri sintomi patogeni, ma ad una discreta consapevolezza, usatissima in altri tempi, quando il pallore era significativo di discrezione e di calma da contrapporsi al Rosso – non certo di tal colore per motivi politici e ideologici – quanto per costituzione e mentalità connaturate. Nel ‘teatrino’ delle sorprese che accumula, oltre all’uso smodato della fragilità, altri lessemi, confortato dall’uso spericolato di “poc’anzi” e “quant’altro” (e si legga lo spassoso e intelligente libro di Claudio Nutrito pubblicato nel 2014, Quant’altro parole di salvataggio per parlare senza dire niente) viviamo accompagnati da ‘altro’ e ancor più spassoso uso di una parola, questa volta non rivolta a me ma ad un amico carissimo, il quale viene interpellato da un amministratore che ammette di averlo colto in fallo su di una formula di “deposito temporaneo gratuito di durata illimitata”.
Il suddetto assessore conclude che la definizione che ha proposto è un ossimoro. Anzi un errore! E lo rimprovera di non avergli inviato una mail, quasi che gli atti pubblici e la loro discussione si potessero risolvere mail. Così s’infoltiscono le schiere dei contendenti. Sulla pubblicazione della lettera stilata da un gruppo che s’interessa della politica culturale della città e che nel giro di una settimana ha raccolto 1500 adesioni si è scatenata l’ira della dottoressa Sgarbi, che minaccia di portare tutti i firmatari in tribunale per fantomatiche offese. Altra figura fondamentale si aggiunge alla recita: quella di Medea. Così tra Covid e ristori, tra vaccinazioni e scelte Draghi, il ‘popolo’ partecipa alla recita. Frattanto s’accumula e si inferocisce il ricorso ai ‘social’, che nell’amata pronuncia ferrarese si scandisce come sciocial esibiti dal primo cittadino in una sequela straordinaria di followers.

E così ‘Ferara’ s’inorgoglisce delle proprie lotte.

Un lutto che ha colpito la nostra comunità, specie quella di quartiere, è stata la scomparsa del professor Morsiani, un medico celebre e competente; ma io lo definirei soprattutto con una parola che tanti, troppi, ora sporcano e male interpretano: un intellettuale curioso di tanti aspetti della vita politica, sociale e culturale. Con lui negli ultimi anni condividevo la passione per i pelosi, che portavamo a ‘pascolare’ nel giardinetto davanti al Monastero di Sant’Antonio in Polesine, ben presto divenuto una specie di conversation room all’aperto, a cui partecipavano compagni di peloseria o curiosi. Poi Lilla mi è mancata e da lontano guardavo con malcelata invidia e tristezza il ‘profe’ che portava a spasso la sua cagnetta. Una volta ci incontrammo lungo la nostra via XX settembre. Morsiani portava un bellissimo berretto di tweed grigio. Gli feci i complimenti per l’indumento. Senza proferir verbo lui se lo tolse e me lo diede: “tenga è suo!” Alle mie proteste non volle sentire ragioni: nemmeno di un cambio. Ora quel bellissimo berretto l’ho indossato oggi per ricordarmi la qualità e la generosità di un uomo gentile. Che nel mio lessico è ciò che di più laudativo si possa dire per ricordare.

Per leggere gli altri interventi di Gianni Venturi nella sua rubrica Diario in pubblico clicca  [Qui]

PAROLE A CAPO
Laura Borghesi: “Polaroid” e altre poesie


“Solo una cosa è necessaria: tutto”.
(G.K. Chesterton)

Polaroid
Gli uragani non avvisano in estate
alzano le onde come fossero preghiere esaudite
sanno come gelare l’aria e mettono i silenzi dove mancano.
Non arrivare in anticipo
in questo quadrato di tempo che ferma le galassie e mi spezza i
nervi
Non togliere i confini dove ho messo virgole.
Rimaniamo come la polaroid,
dentro al buio di una pagina chiusa.

Anelli
Forse le verità stanno dentro l’anello di congiunzione
hanno il peso del metallo e il movimento circolare della giostra
sono stelle comete che appaiono dopo il diluvio.

Cono d’ombra
Sto dentro al cono d’ombra
nella parte centrale sciolgo tutti i nodi.
Traccio i meridiani con la matita
fanno il giro dei poli e attraversano gli oceani,
la sospensione è la mia perfezione
cancello i tracciati e rinasco seme dentro la terra.

Inverni
Ieri sera la vita non ha soffiato forte
ma la fiamma non è rimasta accesa.
Ci sono inverni improvvisi
quando arrivano non conoscono la regola delle stagioni
gelano il circuito del sangue per chi rimane.
Questa fermata segna quarantasette
è l’anticipo che non si aspetta,
odora di lenzuoli bianchi e disinfettante,
ampi corridoi
carne dilatata e ossa.
Elvis canta ancora una requiem dal palco
con la camicia hawaiana e gli anelli d’oro,
spiega con gli occhi chiusi quanto siamo meteoriti.

Laura Borghesi (Rimini, 1972)
Insegnante di scuola primaria, segue contemporaneamente il suo percorso di studio in poesia e nel 2012 pubblica Scrivere ai tempi delle nuvole informatiche per Fara Editore. Ha partecipato a varie letture nella biblioteca della sua città, recentemente un suo testo è stato utilizzato nello spettacolo teatrale Multistrato dal regista e attore Silvio Castiglioni. Alcuni testi sono stati tradotti e pubblicati sul portale Vallejo. Nel 2019 alcuni inediti vengono scelti per Estroverso. Nel 2017 e nel 2021 alcuni inediti vengono pubblicati per Atelier.

La rubrica di poesia Parole a capo curata da Gian Paolo Benini e Pier Luigi Guerrini esce regolarmente ogni giovedì mattina su Ferraraitalia. Per leggere i numeri precedenti clicca [Qui]

É SOLO UN’IDEA IN ALTA MAREA…..
Intervista a Diego Cignitti, in arte Cigno

 

di Michele Kraisky

ROMA. Abbiamo come ospite un musicista, cantautore e insegnante di una delle scuole di musica più prestigiose d’Italia, il Saint Louis College of Music di Roma, che ospita ogni anno centinaia di nuovi aspiranti musicisti. Il suo nome è Diego Cignitti, in arte ‘Cigno’.

Un paio di mesi fa è uscito Udine, un singolo accattivante, dalle atmosfere evocative e soffuse. Udine come simbolo, come una città immaginaria, pur se realmente esistente, un luogo in cui la solitudine e la creatività convivono accanto alla vita di sempre. Mondi paralleli, un po’ come le città invisibili di Italo Calvino. Cigno è un under 30, ma nel profondo dell’anima sente di appartenere a generazioni passate come mentalità e mondi musicali, pur esprimendo un sound attuale e apprezzato anche dai più giovani. Ci parlerà del suo singolo, ci esporrà le sue opinioni personali sulla situazione della musica di oggi e delle influenze che più lo hanno segnato. Ci darà anche la sua opinione sulla situazione dei musicisti in questo periodo nero, un periodo in cui accadono fenomeni del tutto nuovi, come la vendita su piattaforme online dei diritti d’autore di grandi artisti – da Dylan a Neil Young in poi -ed altro ancora.

M: Buonasera Diego, anzitutto grazie davvero per la tua disponibilità. Dunque, è uscito qualche mese fa, a fine 2020, il tuo singolo Udine. A cosa ti sei ispirato per questo brano? A una canzone, a un evento particolare, oppure altro?

D: Allora…prendo spunto dalla tua domanda: non credo che un brano nasca dal nulla. Esiste un mondo di riferimenti a cui attingo, questo è rapportabile anche alle altre arti che conosciamo e a qualsiasi attività creativa. Sicuramente dentro c’è il mio universo musicale, chiamiamolo ‘Immaginario musicale’; nello specifico le sonorità anni ’80. Che significa dunque ? Io sono nato e cresciuto in un piccolo paesino che si chiama Subiaco e ho l’impressione che nelle piccole cittadine di provincia la moda arriva qualche anno dopo, per cui nei miei anni ’90, che ho vissuto a Subiaco, in realtà erano ancora gli anni ’80 per quanto riguarda i riferimenti musicali ed estetici. Mi viene in mente ad esempio McGyver, che guardavo quando avevo la febbre e non andavo a scuola, la pubblicità della cedrata Tassoni, o la sigla degli Stadio e di Lucio Dalla su Raiuno (ride ndr).

M: Questo singolo ha una sonorità davvero particolare, un misto tra indie, pop, rock e musica psichedelica. Tu che mi dici ?

D: Sì, in realtà non è un genere ben definito, questo probabilmente è un punto a sfavore per la sua comprensione, ma credo che per Udine sia un punto a favore, perché ha una propria personalità ed è originale. Questa dimensione sognante e rarefatta probabilmente la porterò avanti anche nei prossimi brani che usciranno.

M: Pensi che nei prossimi mesi potrai farai dei live? Ne hai qualcuno in programma o in streaming per caso?

D: Beh, sicuramente me lo auguro. I live mancano molto a tutti, sento molti amici che stanno male per questo motivo. Purtroppo questo brutto periodo sta mettendo a dura prova molti lavoratori, e ovviamente non parlo solo del mondo degli artisti. Mi manca molto la parte preparatoria del live, che considero importantissima, e anche la parte più fisica, quando si suda e si vive il palco. Live in streaming per adesso in programma non ne ho, ne ho fatti alcuni precedentemente, ma in realtà questo livestreaming secondo me è solo un palliativo.

M: Pensi che i live in streaming siano una buona soluzione per i musicisti in questo periodo di semi lockdown o comunque di limitazioni? E oltre a questo come pensi che i musicisti possano trovare degli sbocchi nei prossimi mesi o anni?

D: Secondo me sono un palliativo i live in streaming,   sono un surrogato…ma detto ciò vanno bene, gli artisti hanno bisogno di espressione, il pubblico di ‘vibes’ positive e soprattutto di buona musica ! Quindi ben vengano per ora. Per quanto riguarda gli sbocchi che avranno i musicisti in futuro con i livestreaming…credo che le cose andranno di pari passo, perché il livestreaming serve e risolverà molti problemi, e contemporaneamente conviveranno sia la dimensione online e quella offline per mandare avanti i progetti dei musicisti.

M: Si parla molto di nuove leggi per garantire un sussidio per i lavoratori dello spettacolo…. Qualcosa sul modello francese, da finanziare con i soldi del Recovery Plan. In ogni caso chi lavora nel mondo del cinema, della musica e del teatro ha subito grossi danni, molti di questi già hanno rinunciato e sono costretti a cercare altri lavori che nulla hanno a che fare con la loro passione e il loro talento.

D: Sì, secondo me questa sarà un’occasione unica ed irripetibile per il riconoscimento del nostro mestiere! Nel Nord Europa i musicisti sono tassati e la situazione è sotto controllo… C’è purtroppo questa brutta consuetudine nel nostro paese nei confronti degli artisti, nel senso che chi non ha una partita Iva o chi non è tracciato per lo Stato è come se non lavorasse, e in questa maniera non ha diritto a  sussidi e contributi. Dunque facciamo in modo che il nostro diventi un mestiere riconosciuto proprio come gli altri. Questo è un discorso che in Italia purtroppo va approfondito, perché nei Paesi del nord Europa, dove sono sicuro che la gestione funziona meglio, il musicista è più integrato nella società, di questo sono certo! Se facciamo parte dell’Europa e dall’Europa riceviamo fondi così importanti è bene che ci adeguiamo ai loro standard

M: Vuoi aggiungi qualcosa se vuoi per i nostri lettori e per i tuoi ascoltatori?

D: Mah, aggiungo solo che sono su Instagram (mi trovate come ‘Cigno’) ed è uscita da poco una session proletaria in cui si mescola il blues con i prodotti e la tradizione dell’artigianato. Non aggiungo altro.”

M: Prossimamente uscirà anche un nuovo brano, giusto?É

D: Sì certamente, ma per adesso non ne parlo ancora. Dico solo a chi ha progetti : “Tenete duro e stringete i denti in questo periodo di difficoltà, che alla fine si vedranno i risultati! Ringrazio te e tutti i lettori del vostro giornale che amano la musica!

M: Grazie a te Diego! Ci vediamo presto.

Ascolta qualcosa di Cigno: [Qui] ; [Qui] e [Qui]

Vite di carta /
Ricordando Sciascia: Una storia semplice

Vite di carta. Ricordando Sciascia: Una storia semplice

Mercoledì scorso ho trovato ancora una volta il mercato del mio paese mal distribuito tra la piazza e la via principale. Dipende dal Covid, mi è stato detto, le bancarelle disposte così sono più distanziate. Sarà, ma mi sembra un altro mercato in un altro posto. Ci sono venuta raramente in questi ultimi  mesi, solo per gli acquisti di frutta e verdura e senza incontrare molta gente. Qualche conoscente meno riconoscibile del solito con la mascherina e il cappello addosso.

Mercoledì scorso ho incontrato invece i miei amici storici. Entrambi con le sportine della spesa appena fatta, entrambi con l’aria da neopensionati. Abbiamo subito parlato della situazione politica, una settimana fa confusa, appesa al filo di una crisi priva di sbocchi evidenti. Ora che ne scrivo si è evoluta fino a coinvolgere il Quirinale e l’incarico che Mario Draghi ha accettato con riserva.

E’ stato un parlottare fitto fitto, che strideva con il contorno dei banchi del pesce, dove i clienti erano in silenziosa attesa del loro turno. Accesi da una mimica facciale vivacissima, dovevamo risultare buffi a chi avesse notato il contrasto con le nostre braccia immobili, tese dal peso delle sporte. Una crisi ora! E giù con le questioni di merito, e poi con quelle di metodo. Soprattutto: non era questo il momento! Con la pandemia che ha spostato perfino le bancarelle del mercato, non avesse portato altre difficoltà nelle vite di tutti. Con il Recovery plan da presentare entro aprile all’Europa! Con la crisi economica che c’è. E le ripercussioni sociali. Intanto le incombenze della giornata ci hanno dato lo stop, ma nel lasciarci un’ultima battuta ci è uscita, ironica: “Una bella situazione! Soprattutto chiara e semplice e da risolvere!”

Mio padre lamentava che al bar le chiacchiere dei clienti risolvevano ogni giorno i problemi nazionali e internazionali e per questo aveva smesso di andarci, trovando insopportabile tanto dilettantismo. “Anche oggi hanno messo a posto l’Italia”, diceva. Ora ho visto me in questa luce e ho sorriso nell’andarmene via. Proprio ‘una storia semplice’! Metto la ‘U maiuscola’ ed ecco il titolo dell’ultimo romanzo di Leonardo Sciascia, un poliziesco di ambientazione siciliana, uscito nell’anno in cui l’autore è scomparso, il 1989.

Il titolo del libro riprende la battuta che pronuncia il questore di Ragusa quando viene chiamato nelle campagne di Monterosso sul luogo di un delitto commesso alla vigilia della festa di San Giuseppe: Giorgio Roccella, un anziano diplomatico tornato inaspettatamente dall’estero nella propria casa siciliana è stato trovato morto alla scrivania dello studio; accanto c’è una pistola, la sua, e questo basta al questore per decretare che si tratta di suicidio e per concludere: “Questo è un caso semplice, bisogna non farlo montare e sbrigarcene…”

Come in un giallo classico, la narrazione si proietta nella ricostruzione minuziosa dei fatti. In questo, l’autore accentua lo sguardo sui diversi stili investigativi e mette in primo piano le deduzioni del giovane brigadiere di polizia, che ha fatto il primo sopralluogo nel villino di Roccella. Per lui si tratta di omicidio. Molti altri soggetti curano le indagini nei tre giorni successivi al ‘delitto’, sia dalla parte della polizia che dei carabinieri e nella gerarchia dei poliziotti si mettono in luce due pezzi grossi, questore e procuratore della Repubblica. Ognuno ipotizza come sono andate le cose sulla base dei riscontri che vengono effettuati via via. Il lettore è colpito dalla ironia con cui Sciascia mette a nudo l’incompetenza e il pressapochismo generali, e più i personaggi ricoprono un’alta carica più sono lontani da una considerazione razionale dei fatti. Ironia amara, che alla fine del libro arriva a svelare la custodia nel solaio del villino di una celebre tela del Caravaggio trafugata da tempo a Palermo (la Natività con i santi Lorenzo e Francesco d’Assisi) e la preparazione della droga che avveniva nei magazzini attigui alla casa. C’è di mezzo la malavita anche in questo romanzo che Sciascia ha costruito con la volontà di mostrare le attività mafiose e le loro infiltrazioni sempre più tentacolari nel tessuto politico e sociale della Sicilia e del Paese. E’ accaduto con gli altri romanzi politici che l’autore ha scritto dagli anni ’60, da Il giorno della civetta nel 1961 e A ciascuno il suo nel 1966 a Todo modo che è del 1974 e fino a questo ultimo romanzo del 1989.

Ancora una volta voglio scandagliare scrupolosamente le possibilità che forse ancora restano alla giustizia” recita la dedica che apre Una storia semplice. Sono parole di Friedrich Dürrenmatt, il versatile intellettuale svizzero, che è coetaneo di Sciascia e autore tra gli altri di un romanzo uscito in Italia nel1986, dal titolo Giustizia.

“Voglio scandagliare scrupolosamente: chi potrebbe dirlo tra i nostri personaggi? Non il colonnello dei carabinieri, che abbraccia l’opinione opposta a quella del questore per partito preso; non il questore e il magistrato inquirente che spiegano frettolosamente i fatti, dando prova di una superficialità a tratti grottesca. Eliminiamo anche il nugolo di agenti e di carabinieri spruzzati sulla scena del delitto a fare coreografia. Chi resta a rielaborare i dati di realtà con metodo e razionalità è il giovane brigadiere che, dopo il primo sopralluogo, ha osservato con passione persone e comportamenti. Nel ricostruire l’accaduto lo sostiene il professor Franzò, amico d’infanzia della vittima e per molti anni stimato professore di Italiano. È sua la più bella battuta del romanzo, la dice quando raggiunge la questura per dare la sua testimonianza e viene accolto dal magistrato che era stato suo allievo. Il professore lo ricorda molto bene, ricorda anche di avergli assegnato sempre l’insufficienza nei componimenti di italiano. Trascrivo le loro parole: “L’italiano: ero piuttosto debole in italiano. Ma, come vede, non è poi stato un gran guaio: sono qui, procuratore della Repubblica…”

L’italiano non è l’italiano: è il ragionare – disse il professore. Con meno italiano, lei sarebbe forse ancora più in alto”.

Cosa deve scoprire il brigadiere! Quale verità amara sulla corruzione, che ha coinvolto persino un uomo di chiesa nelle attività illecite che si tenevano nel villino di Roccella. Che è entrata fin dentro il suo ufficio. In una delle sequenze finali il brigadiere spara. Spara per difendersi dal suo commissario che gli ha puntato contro la pistola. È stato più veloce, il brigadiere. E’ stato abile nel fare il suo lavoro e nel cogliere due errori che il commissario si è lasciato sfuggire. Forse, come gli suggerisce il professor Franzò, li ha commessi per un “fenomeno di improvviso sdoppiamento: in quel momento è diventato il poliziotto che dava la caccia a se stesso”. Viene da pensare a Pirandello.

L’8 gennaio scorso Sciascia avrebbe compiuto cento anni. Immagino che saranno tante le occasioni per ricordarlo e per celebrarne il ruolo di scrittore impegnato e acuto. Per rivedere il contributo che ha dato come parlamentare e come fine conoscitore della politica italiana.

Dalle bancarelle del mercato ho saputo ricordare intanto la sua ironia, tagliente come una lama. Poi, qui a casa dalle pagine del romanzo ho voluto trarre quello che Sciascia dice della scrittura. Oltre alla battuta “feroce” del professor Franzò sul carattere ragionativo dello scrivere, trovo due passi piuttosto incisivi: nel primo il professore sottolinea il valore testimoniale e storico della scrittura, quando riferisce che l’amico Roccella era tornato nella sua Sicilia per cercare nel solaio del villino due “pacchetti di vecchie lettere: uno di Garibaldi al suo bisnonno, un altro di Pirandello a suo nonno (avevano fatto assieme il liceo); e gli era venuta la fantasia di recuperarli, di lavorarci un po’ su”.

Nell’altro Sciascia parla di sé e della sua scrittura di denuncia, mentre ci dice quanta fatica faccia il nostro brigadiere quando deve passare dalla realtà alle parole, quando deve stendere i rapporti e trasferirvi il suo lavoro di osservazione: “Ma, curiosamente, il fatto di dover scrivere delle cose che vedeva, la preoccupazione, l’angoscia quasi, dava alla sua mente una capacità di selezione, di scelta, di essenzialità per cui sensato ed acuto finiva con l’essere quel che poi nella rete dello scrivere restava. Così è forse degli scrittori italiani del meridione, siciliani in specie: nonostante il liceo, l’università e le tante letture”.

Sulla figura e l’opera di Leonardo Sciascia vedi anche:
Sergio Reyes, UN ILLUMINISTA IN SICILIA : Attualità di Leonardo Sciascia a 100 anni dalla nascita [Qui]
Giuseppe Traina, DENTRO IL GIALLO : I personaggi di Sciascia e Simenon davanti al potere [Qui]

 

Per leggere gli altri articoli e indizi letterari della rubrica di Roberta Barbieri clicca [Qui]

Gennaio 2060

 

Oggi è il primo Gennaio 2060, fra un po’ compio cinquant’anni. Mio fratello Enrico ne ha quarantadue e mia sorella Rebecca cinquantasette. Io ho un marito che si chiama Luca e due figli: Axilla che ha vent’anni e Gianblu che ne ha diciotto. Vive con noi anche Cosmo-111 un piccolo robot che pulisce la casa, accende e spegne la caldaia e gli altri elettrodomestici, apre e chiude la porta quando qualcuno arriva. Cosmo-111 sta ancora abbastanza bene, anche se ha dieci anni e alcune delle sue parti meccaniche cominciano a creargli qualche problema. La zia Costanza ne ha ottantotto ed è ancora in forma, a parte le sue gambe che non la sorreggono più come una volta. Riesce a camminare e passeggiare, ma non a correre e, se il cemento non è bello liscio, inciampa. Ma lei non si lascia scoraggiare e affronta le giornate con lo stesso spirito di sempre. Scrive ancora con molta serietà e poi ogni tanto si ferma, rilegge quello che ha scritto e ride da sola divertita dalle parole che ha posizionato sulla carta.

I suoi capelli sono completamente bianchi, lisci come spaghetti e tagliati con un caschetto dritto che arriva sulle spalle. La stessa pettinatura di sempre. Lo stesso profilo per bene e molto bello. Il suo viso si è riempito di piccole rughe e lei non fa assolutamente nulla per nasconderle. Dice che le sue rughe le piacciono, sono tutti i cartellini timbrati nella sua vita, le pietre miliari di tutto ciò che è stato, di tutto quello che ha visto. I suoi occhi un po’ nocciola e un po’ verdi si sono schiariti nel corso del tempo e adesso sono ancora più belli di quando era giovane, se questo è possibile. Ogni tanto racconta ai miei figli pezzi della storia che ha vissuto, strani aneddoti che divertono tutti, oppure sue idee sul mondo e sulla vita, che, in quanto bizzarre e assolutamente autentiche, sono oggetto di riflessione da parte dei ragazzi. Ha creato un suo mondo di piccole idee alternative e controcorrente che acuiscono la curiosità delle persone e aumentano a dismisura il fascino di quella donna, ormai vecchia, ma sempre unica.

Io le sono sempre piaciuta, mi ha sempre detto. “Valeria, sei bellissima” e lo ha anche sempre pensato. Anche adesso, ogni volta che mi vede, mi abbraccia e mi guarda con compiacimento come se quello che sono e quello che faccio dipenda anche da lei, da quello che mi ha insegnato e da tutte le volte che mi ha detto “Sei bellissima”. Ed è così! Ognuno di noi è il frutto delle cose che ha imparato, delle persone che ha incontrato, delle relazioni buone che ha saputo costruire e mantenere e, soprattutto, dell’amore che gli è stato donato. Solo chi ha ricevuto amore, sa donare amore. Credo fermamente in questo. Sono stata una bambina molto amata dalla mia famiglia, dai miei vicini di casa, dai miei parenti di Cremantello e perfino da una suora di Clausura Carlottina Scalza. Si chiamava Guenda, era una cugina di Cremantello, la sorella più grande di Ines e Bella. La zia Costanza mi ha portato alcune volte a Carpino Solano, presso il convento di San Leopoldo, a trovarla. Quella donna irradiava pace sul mondo, era la serenità in persona. Anche quel ricordo accompagna la mia vita, come molti altri.

Io abito, come sempre, a Pontalba, ma nella zona industriale del Paese, perché Luca aveva una casa là e siamo andati ad abitarci quando ci siamo sposati. Rebecca abita vicino al fiume, in una piccola cascina ristrutturata che si chiama Portici e costeggia il Lungone. Mia madre Cecilia e la zia Costanza abitano ancora in via Santoni Rosa nella vecchia casa dei Del Re, di fronte a quella di Albertino e Gina Canali. Albertino è morto lo scorso anno con grande dispiacere della zia, mentre Gina e Luigi abitano ancora di fronte al numero civico 21, la nostra vecchia casa.

Axilla e Gianblu vanno quasi tutti i giorni a trovare la nonna e la zia, sono affascinati dalle vicende che raccontano e da tutti i tesori vecchi e ammuffiti costuditi nella soffitta della grande casa. In modo particolare amano farsi raccontare delle vicende di quarant’anni fa, quando c’era l’epidemia di Covid-19 e, solo in Italia, sono morte più di centomila persone.

Io allora avevo dodici anni e non ho vissuto quel periodo in maniera drammatica, ma come un tempo  di grande noia. La Lombardia è stata per due anni (2020-2021) quasi sempre in zona Rossa (era chiamata così la zona caratterizzata dalle maggiori restrizioni: limitazioni negli spostamenti, nella attività economiche, nella vita sociale, coprifuoco), e io ho vissuto quasi sempre chiusa in casa. Facevo le lezioni scolastiche attraverso una piattaforma che si chiamava Zoom e usavo WhatsApp per comunicare con le mie amiche.

In quel periodo molto lungo e grigio, caratterizzato da poco entusiasmo e da una fatica interiore che mi rendeva difficile affrontare quelle giornate tutte uguali, mi ha sicuramente aiutato l’avere una casa con cortile e orto. Là si poteva passare tempo all’aperto in maniera protetta e sicura. Mi ha anche aiutato la soffitta della nonna Anna piena di ciarpame, vecchi cimeli e oggetti improbabili da osservare, ripulire. E’ stato utile poterli guardare, catalogare, cercare di capire da  dove arrivassero e cosa ci facessero lì. Ciò che viene dal passato riverbera nel nostro tempo delle immagini, dei significati, la storia dei nostri antenati, ci riporta pezzi di noi, di quel che siamo stati, di quel che siamo e di quel che diventeremo.

Ricordo che guardavo il portone di casa e desideravo uscire in biciletta, andare da Sara a fare i compiti, soffrivo terribilmente quella reclusione che non finiva mai. A volte chiedevo alla zia: “Zia Costanza, quando posso andare all’oratorio? Io sono stufa di stare sempre qui!” e lei mi rispondeva: “Valeria, amore mio, vedrai che si potrà a breve, vedrai che adesso ci vaccinano e poi si tornerà alla normalità, vedrai che col caldo questa brutta malattia se ne andrà”. Cercava di rincuorarmi come poteva, per quel poco che sapeva, che sapevano tutti.

Ricordo che un giorno, tutto grigio dentro e fuori di me, mi misi a piangere. Piangevo perché mi sentivo in un tunnel di morte, senza prospettive, con poco entusiasmo e nessuna aspettativa per il futuro. Allora la zia mi abbracciò e mi disse: “Siamo ancora vivi Valeria, siamo vivi e nessuno di noi è ammalato, prova a sorridere almeno per questo. Se riesci a sorridere spunterà un po’ di sole, vedrai. Altrimenti finiremo tutti per passare la giornata in questo grigio cupo. Sei solo tu che oggi può far sorgere il sole!” Cosi mi sforzai di sorridere e un po’ di sole, almeno dentro casa mia, arrivò.
I miei amici passavano le loro giornate a guardare la TV, alcuni ad accudire il cane. Altri a fare strani giochi in internet, altri ancora, i meno fortunati, a litigare con genitori e fratelli, oppure ad ascoltarli mentre litigavano tra loro.

Alla fine di quei due lunghissimi anni eravamo tutti tristi, anche se  a Pontalba ci sono stati pochissimi casi di Covid-19 perché il paese è molto isolato. Si trova all’interno del parco Natuale del Lungone Nord. Un luogo molto poco frequentato, certamente non di passaggio. A Pontalba non c’è turismo, se non quello degli uccelli migratori, degli aironi, delle talpe. Eppure io ricordo in maniera molto vivida quella sensazione di vuoto pneumatico, quell’infinita tavolozza di diverse tonalità di grigio che colorava quelle giornate. Ho dovuto smettere per quasi due anni di fare nuoto, di andare ai corsi di inglese e di provare i giochi matematici che mi divertivano tanto.

La mamma e la zia giocavano con noi a carte, incognito, dama, oca e molti altri giochi in scatola. In quel periodo mi hanno comprato anche tanti libri, il telefono, dei nuovi giochi per la playstation. Hanno fatto di tutto per cercare di rendere quelle giornate accettabili, per alleggerire la situazione.
In quei due anni ho sicuramente perso molte cose. Ho perso la vita normale di una bambina di dodici anni. Poi il tempo è passato e tutto, un po’ alla volta, è tornato quasi normale. I morti sono stati sepolti e col tempo dimenticati, la scuola, il lavoro, le attività all’aperto sono riprese.
Questa nostra vita scorre inesorabile come un lungo fiume e scorrendo porta via il male, la morte, la malattia e tutto il buio di quei due anni di reclusione e spavento.

Axia e Gianblu vogliono sempre sapere come stavamo in quel periodo, cosa facevamo sempre chiusi in casa, cosa dicevamo, se avevamo paura. Quello che mi vien sempre da dir loro è che non avevamo paura, c’era qualcosa dentro di noi che ci faceva andare avanti sperando che il giorno dopo sarebbe stato migliore, che sarebbero arrivate delle buona notizie, che la situazione avrebbe cominciato a migliorare. Ricordo che la nonna Anna diceva sempre: “Passa Valeria, vedrai che questa malattia passa. Anche la peste del 1600 dopo due anni se n’è andata e le persone hanno ricominciato a vivere normalmente”. Ricordo che la nonna Anna guardava la porta chiusa e poi diceva a bassa voce: “Apriti sesamo, apriti per tutte le persone di questo povero mondo”.

Noi siamo sopravvissuti tutti e adesso che sono passati quarant’anni, siamo ancora quasi tutti qui.

Guardo Cosmo-111 che passa tra i miei piedi aspirando la polvere depositata sul pavimento. Mentre si muove veloce canta una canzone che gli piace tanto: “Saputo, saputo, aku aku, saputo saputo, aku totù!”. Lui del Covid-19 non sa nulla.

 

LO YOGA CHE MI HA CAMBIATO LA VITA:
non tutti i mali vengono (solo) per nuocere

 

Molti anni fa, in un periodo di crisi esistenziale e completo disorientamento, ho incontrato lo Yoga. Grazie alle sue tecniche mi sono incamminato un po’ alla volta lungo un percorso di crescita personale. Con la pratica  di certe posizioni ho migliorato la mia condizione fisica, la mia energia e la mia salute, con l’uso sapiente della respirazione ho imparato a modulare con più armonia le mie sensazioni, con la meditazione ho cominciato a controllare i pensieri e ottenere una maggiore chiarezza mentale.
Con lo studio della cultura e della filosofia orientali ho sviluppato, un po’ alla volta, una personalità più gioiosa, serena ed equilibrata. Grazie allo Yoga ho scoperto nuove prospettive da cui guardare il mondo, un metodo per interrogarmi e trovare risposta alle mie domande e ho iniziato un nuovo ciclo di vita con maggiore consapevolezza e  solidità.
Pratico e insegno yoga da molti anni, con il piacere di condividere questa disciplina che mi è stata di tanto aiuto nell’affrontare complicate vicissitudini e continua tuttora a fornirmi spunti di riflessione non abituali  tra gli abitanti di una ‘società occidentale civile’.

L’esperienza della pandemia, che ha scosso tante persone e messo in crisi stili di vita e valori consolidati, mi ha  portato a una serie di considerazioni che inevitabilmente risentono delle conoscenze da me acquisite dallo Yoga in tutti questi anni.
Premetto innanzitutto che il mio pensiero e la mia vicinanza sono andati a tutti coloro che sono stati colpiti nella salute e hanno visto mancare le risorse necessarie per continuare a vivere in modo decente. Nessuna filosofia riuscirà a cancellare la loro sofferenza nell’animo di molti di noi. E credo che dobbiamo costantemente ricordare come il diritto alla Vita (dignitosa) vada considerato un diritto per tutti gli uomini, in tutto il mondo, di qualsiasi razza, sesso, opinioni politiche e religiose.

Ricordo sempre quanto è scritto nella Dichiarazione d’indipendenza americana (4 luglio 1776): “Noi teniamo per certo che queste verità siano di per se stesse evidenti, che tutti gli uomini sono creati eguali, che essi sono dotati dal loro Creatore di certi Diritti inalienabili, che tra questi vi siano la Vita, la Libertà e il perseguimento della Felicità“.
Una vita decente, innanzitutto. Già, ma cosa serve per una vita decente? La risposta che le società ‘progredite’ hanno dato a questa domanda è stata declinata nel raggiungimento di obiettivi sempre più numerosi  e complessi, così come complesse sono le società in questione.
Innanzitutto il possesso di crescenti beni materiali e di consumo, in linea con l’affermarsi di una economia capitalistica sempre più estrema. Ciò che doveva essere il mezzo per il raggiungimento della felicità (il bene materiale che agevola la vita) è diventato il fine da raggiungere, anche a costo di una vita più sofferta, insana e infelice. Una diabolica inversione tra mezzo e fine.
Per ogni obiettivo raggiunto subito un altro da conquistare, in una catena ininterrotta di tensione verso altro da quanto presente e in nostro possesso. Non è un caso che guardandoci attorno vediamo spesso tanta scontentezza e frustrazione, pochi sorrisi.
Uno stile di vita assolutamente nocivo, ma molti lo danno per scontato.
Preferisco le visioni di alcune filosofie orientali, per cui un concetto chiave per ottenere una soddisfazione profonda è quello di ‘appagamento’, che consiste nell’accontentarsi di ciò che si è e di ciò che si ha. Subito, in ogni momento presente. A cominciare dall’apprezzamento per il fatto stesso di essere e di vivere,  fortuna di cui troppo spesso ci dimentichiamo.

Certo, in molte società un frainteso senso di ‘appagamento’ ha dato adito a una passività che ha frenato lo sviluppo di attività importanti, come la medicina o la scienza alimentare, con riflessi negativi sulla qualità e durata della vita.
Ma per un essere umano desideroso  di migliorare e di risolvere i nuovi problemi che la vita pone di continuo, l’essere appagati dal presente non impedisce di proporsi e realizzare obiettivi di progresso. Senza però presumere che questo potrà dargli felicità definitiva e completa.
Dunque godersi l’oggi, il più possibile tutti i giorni, è essenziale per realizzare una felicità profonda, senza per questo escludere l’impegno verso nuovi traguardi.

Allargando poi la visuale oltre la nostra piccola vita personale possiamo vedere come intorno a noi si pongano  sempre nuove sfide. A periodi favorevoli succedono inevitabilmente momenti critici: guerre, epidemie, eventi climatici disastrosi fuori dal controllo e dall’influenza umana, come eruzioni vulcaniche, terremoti e tsunami.
Non esiste una crescita continua e lineare. L’esistenza è un susseguirsi di eventi di segno opposto, favorevoli e terribili, che evidenzia un altro concetto essenziale della filosofia orientale: l’impermanenza. Tutto cambia, e non sempre per il meglio.
Essenziale dunque non dare nulla per scontato e coltivare una dote fondamentale: la capacità di adattarsi a situazioni diverse trovando nuove soluzioni. Ritengo che proprio questa sia stata la principale caratteristica che ha consentito il diffondersi della popolazione umana sul pianeta.

Personalmente, avendo dovuto interrompere i miei corsi di Yoga in presenza a causa della pandemia, ho provato a proporre ai miei contatti corsi on line. Ho pensato che, quanto meno per alcuni, potessero costituire un’attività che avrebbe aiutato a utilizzare positivamente gli spazi di isolamento domestico in tempi di lockdown. Il successo che ha riscosso questa iniziativa  è andato oltre le mie aspettative e mi ritrovo a dover gestire più gruppi e persone di quanto non facessi in tempi pre-covid. A fronte della perdita di importanti elementi come la presenza, con le sue possibilità di contatto diretto, ho sperimentato la possibilità di sviluppare elementi di unione e condivisione tra le persone con modalità diverse, anche online.
In uno dei miei corsi ho allievi che si collegano dalla Gran Bretagna, dalla Germania e da Viterbo. Dunque per ogni spazio che si svuota c’è sempre la possibilità di riempirlo con qualcos’altro, se ci si pone nell’ottica di essere sempre pronti per ricominciare.
La passione per le filosofie orientali non mi fa però perdere la fiducia in alcune alte espressioni della civiltà occidentale che hanno grande risalto in questi tempi, come ad esempio la scienza medica.  Fondata sulla capacità logica di osservare, sperimentare e verificare le sue affermazioni, mi sembra molto più affidabile di tante voci che si sono levate per propagandare teorie e pratiche sulla pandemia basate su fantasie di singoli e sensazioni estemporanee prive di approfondimento..

Abbiamo sentito in questo periodo le più svariate opinioni, anche palesemente irragionevoli, per  nulla fondate su fatti, ma su libere e fantasiose interpretazioni. Penso che la scienza saprà esprimere con esiti positivi il suo ruolo autorevole nel contrasto alla pandemia; credo inoltre che anche noi stessi possiamo aiutarci coltivando la capacità di ragionare validamente, piuttosto che affidandoci agli umori del momento.
Purtroppo però nelle nostre istituzioni preposte all’istruzione si fa molta più attenzione alla quantità di competenze settoriali piuttosto che allo sviluppo dell’equilibrio della persona.
Non meno carente è la formazione degli individui  rispetto alla comunità di appartenenza. Ho spesso sentito persone, anche ‘colte’, che si vantavano di riuscire ad aggirare l’onere di contribuire alle cassa nazionale per mezzo delle tasse e parecchie altre che neppure ne capivano la ragione, negandone la necessità. Salvo poi usare le strade, mandare i figli a scuola e godere dell’assistenza pubblica, come se la costruzione e il mantenimento di questi servizi fosse a carico della provvidenza; ben altro sono ovviamente le critiche per la cattiva gestione dei servizi comuni!

Ma l’atteggiamento che più mi ha colpito, in questo periodo, è stato quello tenuto da molti sul tema della libertà. Le limitazioni imposte dai provvedimenti per fronteggiare il Covid hanno messo in evidenza non solo come molti rifiutino di adattarsi a una situazione nuova, ma abbiano a cuore un’idea di libertà completamente scissa dalla responsabilità verso gli altri. Per costoro, insomma, la libertà dell’individuo non può essere limitata in alcun modo, per nessun motivo.
Una sensibile fetta di popolazione, in buona parte del mondo, ha contestato la possibilità di veder diminuire la propria libertà di azione anche a costo di arrecare notevoli danni alla salute di altre persone e all’intera comunità.
Non sto parlando ovviamente di chi ha osteggiato le varie chiusure di attività commerciali perché da queste attività doveva trarre il proprio sostentamento, ma di chi ha fatto (e suppongo continuerà a fare) una vera e propria battaglia ideologica contro il principio che la società possa applicare dei limiti agli individui per difendere il bene comune. Non vorrei dare l’idea di affrontare la questione in modo semplicistico, perché dietro l’applicazione di norme restrittive dei diritti possono spesso celarsi tentativi antidemocratici di controllo sociale; provvedimenti di questo tipo meritano dunque particolare attenzione, anche critica.

Il modello di sviluppo economico e sociale delle nostre società hanno indirizzato gli individui verso stili di vita edonistici fortemente caratterizzati da indifferenza e scarso rispetto per il prossimo. Il sacro anelito alla libertà e alla giustizia sociale, nato in tempi di evidente oppressione da parte di pochissimi uomini nei confronti di molti, si è trasformato ormai in atteggiamenti di perenne contestazione e opposizione a qualsiasi regola sociale o morale che appaia esterna all’individuo.
Si urla il diritto di negare: l’esistenza di virus, la shoah, la rotondità della terra e ogni altra cosa  immaginabile.
Certo, i motivi di sofferenza e insoddisfazione nel mondo non sono certo cessati e moltissimo c’è da fare per migliorare le condizioni di vita della gran parte della popolazione, ma per mio conto non credo che un atteggiamento fondato sulla negazione sia il migliore per procedere in questa direzione.

Ritengo che non solo vada tenuto sotto stretta osservazione l’evolversi del mondo e vadano stimolate attività costruttive nella e per la società, ma che sia assolutamente necessario sviluppare una altrettanto  attenta osservazione nei propri stessi confronti: mettere in primo piano la necessità di migliorare in primo luogo noi stessi, in quanto parte del mondo sulla quale più immediatamente possiamo agire.
Non solo antiche filosofie, ma anche moderne acquisizioni scientifiche, sulle quali si basano ad esempio le  scienze ambientali, ci dimostrano come tutto ciò che vive è in stretta relazione  e che il benessere di ogni parte è collegato al benessere di tutte le altre.

Siamo uomini in viaggio sulla stessa astronave, il pianeta terra, e la soluzione dei nostri problemi coinvolge tutti noi e l’ambiente in cui viviamo. Vederci come individui separati dagli altri e dalla vita è un punto di vista limitato e non lungimirante, riduttivo anche dal punto di vista dei benefici che arreca.
Meno io, più noi; meno competizione, più condivisione. Per questo motivo ormai insegno Yoga senza richiedere un corrispettivo economico, accontentandomi ‘solo’ del piacere di condividere e procedere insieme agli altri.
Trovare un modo per migliorare noi stessi e il nostro stile di vita può essere un buon inizio per migliorare il mondo e la nostra felicità. Ha detto il Dalai Lama: “Quello che mi ha sorpreso di più negli uomini dell’Occidente è che perdono la salute per fare i soldi e poi perdono i soldi per recuperare la salute. Pensano tanto al futuro che dimenticano di vivere il presente; in tale maniera che non riescono a vivere né il presente, né il futuro. Vivono come se non dovessero morire mai e muoiono come se non avessero mai vissuto.”

La mamma che “affettava” le case

 

A scuola, qualche giorno fa, un bambino della classe prima che sto frequentando ha ricordato un episodio e lo ha raccontato a tutti: si riferiva a qualche anno prima quando la sua mamma aveva affittato una casa. Nel parlare però ha fatto un errore stupendo, di quelli che mi piacciono moltissimo: ha detto che la sua mamma aveva “affettato” una casa. In classe ci sono state risate da parte di quasi tutti perciò mi sono preoccupato di far capire la differenza tra “affittare” e “affettare”, di dire a quel bambino che tutti noi sbagliamo o ci confondiamo (anche i maestri) e che non stavamo ridendo di lui ma con lui per il bellissimo errore che ci dava la possibilità imprevista di inventare una storia insieme.
Lo abbiamo ringraziato e poi ho chiesto ai bambini e alle bambine di dirmi tutte le parti della casa o i suoi arredi per verificare quali di queste parole potessero contenere, al loro interno, altre parole di senso compiuto. Le abbiamo scritte alla lavagna una alla volta e loro le hanno lette, intere e poi “affettate”. Quindi, con i suggerimenti dei bambini e delle bambine, ho scritto una breve storia che metto a disposizione di chi pensa che si possa imparare meglio divertendosi insieme. Comunque la pensiate, buona lettura.

C’ERA UNA VOLTA UNA MAMMA CHE, PER LAVORO, AFFITTAVA LE CASE ALLA GENTE CHE NON LE AVEVA.
SULLA VETRINA DEL SUO UFFICIO PERÓ C’ERA UN CARTELLO CON SU SCRITTO: “AFFETTO CASE” E NON “AFFITTO CASE”.
QUELLA MAMMA SI ERA TALMENTE ABITUATA A QUELLO SBAGLIO CHE SI DIVERTIVA A DIRE AI SUOI CLIENTI CHE LE CASE CHE “AFFETTAVA”  ERANO SPECIALI.
INFATTI LEI “TAGLIAVA A FETTE” ANCHE LE PAROLE COSÌ, ALLA GENTE CHE ANDAVA A VEDERE LE SUE CASE, LEI DICEVA:
“LA CUCINA È GRANDE COME LA CINA.
NEL SOGGIORNO CI PUOI STARE TUTTO IL GIORNO.
NELLO STUDIO SI STA DA DIO.
STARE ALLA SCRIVANIA È COME ESSERE SULLA RIVA DI UN FIUME DI PAROLE.
SE GUARDI LA LIBRERIA TI SEMBRA DI ESSERE UN RE.
SE TI METTI SUL DIVANO TI SENTI UNA DIVA.
IL LETTO TI REGGE ANCHE SE PESI PIÙ DI UN ETTO.
SULLA COMODITÀ DELLE SEDIE E DEI MATERASSI NON CI SONO SE E MA.
ATTENZIONE: NELL’ARMADIO C‘È UN ARMA , NEL CUSCINO CI SONO GLI SCI, IL TAPPETO DEVE ESSERE PULITO IN VARIE TAPPE, PER APRIRE IL COMODINO BISOGNA USARE I MODI GIUSTI.
VAI SPESSO AL GABINETTO ALTRIMENTI TI SENTIRAI UN INETTO.
SAPPI INOLTRE CHE, QUANDO SEI SEDUTO A TAVOLA IN COMPAGNIA, IL TEMPO VOLA.
E PER FINIRE…  SE GUARDI MENO LA TELEVISIONE PUOI CONOSCERE DI PIÙ I VISI DELLE PERSONE”.
QUELLA ERA DAVVERO UNA MAMMA FANTASTICA.

PER CERTI VERSI
La nutria

Ogni domenica Ferraraitalia ospita ‘Per certi versi’, angolo di poesia che presenta le liriche del professor Roberto Dall’Olio.
Per leggere tutte le altre poesie dell’autore, clicca
[Qui]

LA NUTRIA

Sono contento
Il mio castorino
Che fila nel Navile
È piaciuto a tanti
Non mi lamento
Ma è una nutria
Così elegante nell’acqua
Quanto sgraziata fuori
Con quella coda da topo di fogna
Ma non è colpa sua
L’uomo che ce l’ha messa
Fuori dal suo mondo
Non si vergogna
Anzi spreca fiato
Perché rompe gli argini la bestiola
E le da la caccia
Le spara
Le mette una tagliola

FacebooK: Servizio pubblico o Hackeraggio sociale?
Minimalismo digitale e Free/Open Source

 

Come sia stato possibile che l’espansione planetaria di Facebook abbia coinvolto tutte le fasce di popolazione non lo sanno solo Dio e Zuckerberg, come provocatoriamente suggerito da Nicola Cavallini nel suo interessante articolo del 24 Gennaio su Ferraraitalia [Qui]  .
La costruzione di un social network come Facebook richiede il contributo di fior fior di psicologi e sociologi, impiegati a costruire algoritmi adatti a parlare alla psiche umana e studiati per sfruttarne le fragilità. Lo scopo è quello di ottenere che gli utenti lo utilizzino in un modo specifico e prevedibile (ad esempio, farci restare il più a lungo possibile sulla piattaforma, proponendoci una serie di contenuti verso i quali abbiamo una reazione di “click” compulsivo). In altri parole, nella costruzione di un Facebook servono elevate  professionalità impegnate per hackerare – trovare e sfruttare delle falle di sistema- i nostri comportamenti normali e funzionali: renderli cioè disfunzionali per noi, ma vantaggiosi per altri.
Questo problema, e alcune strategie per venirne a capo, sono trattate da Cal Newport nell’ottimo Minimalismo digitale (ROI EDIZIONI, 2019). Di fronte alle società della Silicon Valley che hanno sfruttato le più avanzate scoperte della psicologia e delle neuroscienze per tenerci incollati ai loro dispositivi. dando vita alla cosiddetta ‘economia dell’attenzione’, il minimalismo digitale di Newport, professore di Computer science, ci propone di fare un passo indietro e ripensare il nostro rapporto con la tecnologia in maniera attiva, assieme a diverse tecniche per riprenderne il controllo.

Facebook (tra gli altri), benché architettato da un’azienda privata, è diventato così diffuso e funzionale (anche se solo per una frazione degli scopi per cui viene propagandato), tanto da esserci presentato alla stregua di un servizio pubblico. Con qualche fondamentale differenza, perché, essendo un software ‘proprietario’, il pubblico non può esercitare nessun controllo (se non molto in superficie) né sul modo in cui tale strumento funziona (come è scelto davvero ciò che vedrete) né sulla qualità dei prodotti che fornisce.
Un po’ come se il gestore dell’acqua potabile non rendesse pubblici i risultati delle analisi dell’acqua che arriva ai rubinetti di casa, né li trasmettesse all’Azienda Sanitaria Locale. Ciò permette l’introduzione di dis-funzionamenti sociali molto discutibili dal punto di vista etico, sociale e politico, con impatti di larga scala. A titolo esemplificativo, può sorprendere sapere che gli stessi progettisti di questo tipo di strumenti, tendono ad imporre a se stessi e ai propri familiari (a partire dai bambini) una sostanziale distanza da questi strumenti ‘social’. E’ questione di autoconservazione.

Certo, non è facile capire quanto uno strumento che siamo abituati ad usare di continuo sia disfunzionale per la nostra vita. Rendersene conto è appunto una questione di autoconservazione e può rendere la nostra vita molto più funzionale a ciò che ci interessa veramente. Usare software di tipo Free/Open Source è un modo per voltare pagina, riprendere controllo su questo interazioni: ristabilire chi è che controlla e chi è controllato (il social Mastodon [qui e qui]è un notevole esempio di questo tipo). Ma anche confinare Facebook e consimili in uno ‘spazio sotto maggiore controllo’ può essere rendervi un grande servizio. E Newport vi suggerisce una serie di metodi per riuscirvi e sentirvi presto più liberi e padroni della vostra vita.

Ad ogni modo, se un servizio è davvero un bene di prima necessità, indubbiamente il modo e la qualità con cui questo viene fornito dovrebbero essere sottoposti al controllo del pubblico, seguendo il principio di trasparenza. In altre parole, per l’autoconservazione individuale e sociale, la richiesta più giusta e più ovvia è quella che i codici alla base dei servizi internet – oggi di fatto considerati essenziali  – siano forniti come Free/Open Source. Solo così il pubblico potrà controllarli e renderli innocui per individui e società.

PRESTO DI MATTINA
Candelora, la festa della luce

Candelora, 2 febbraio. Una festa di luci, che potremmo chiamare anche ‘l’aurora dell’anno’, prendendo in prestito l’espressione riservata all’albero del sorbo (Sorbus aucuparia) dai fiori bianchi composti da cinque petali, che emanano lo stesso profumo del biancospino, mentre le sue bacche rosse rivestono in autunno i rami come coralli, restando così raggianti fino ad inverno inoltrato.
A Candelora la luce ritorna a brillare. Entra come Gesù nel tempio del mondo, preludio della natura che rifiorisce e pare dirci “presente, ci sono, non manco all’appuntamento, all’incontro con voi”. Alzatevi porte antiche! apritevi porte chiuse del solstizio d’inverno! entra il sole di giustizia che trasfigura e accende l’universo in attesa!

Eteria, scrittrice romana del V° secolo, ricorda per prima nel suo diario questa festa, descrivendo il suo viaggio nei luoghi santi: «Si accendono tutte le lampade e i ceri, facendo così una luce grandissima» (Peregrinatio Aetheriae 24, 4).
È nome popolare Candelora. Ricorda un passato lontano: le fiaccolate rituali nell’antica Roma; riti di purificazione e di rinnovamento del fuoco sacro nella casa della dea protettrice della città, Vesta, custodito dalle vergini vestali. Ma soprattutto la candelora è anticipazione e primizia di quell’altra solenne e peregrinante fiaccolata nella notte della veglia pasquale. Allorquando, dopo il rito del lucernario, in cui viene benedetto il fuoco nuovo, è fatta brillare la luce del cero pasquale, l’alta candela, che spargerà il suo raggio, il sabato santo, sul sepolcro vuoto. Come scintilla nella stoppia essa si presterà ad accendere tutti gli altri lumi tenuti in mano dai presenti trasfigurati, nella notte, come luci che camminano.

In occidente la ricorrenza del 2 febbraio prese sempre più la forma di una festa mariana, così da far prevalere l’aspetto di purificazione della madre, la vergine Maria, quale mistica aurora di redenzione, che dopo aver generato il figlio Gesù lo porta al tempio per offrirlo al Signore. In Oriente invece la festa si connotò in senso cristologico, assumendo il nome greco di Ipapante (lett. incontro). Presentato al tempio, Gesù si assoggettava infatti alle prescrizioni della legge, ma in realtà veniva incontro al suo popolo, che l’attendeva nella fede, rivelandosi anche luce per tutte le genti. Ed è proprio questo tratto che prevalse con la riforma liturgica del Concilio Vaticano II, allorché la festa si allineò alla tradizione orientale prendendo il nome di “Presentazione del Signore”.

“Ma com’è la luce di candelora?” Essa ricorda la luce della poesia. O anche “una mistica chiara”, come direbbe Maria Zambrano, riferendosi a Giovanni della Croce tramite un concetto di ‘chiarezza’ che la filosofa spiegherà meglio nel libro Chiari del bosco (Milano 2004, 13-14). Il chiaro del bosco allude infatti a una condizione mistica; mentre il riferimento alla poesia ci ricorda quell’esperienza del lettore che, ostinandosi nel cercarvi un senso, non trova nulla, finché abbandonandosi ai versi, riceverà una risposta illimitata e imprevista: «Il chiaro si mostra ora come specchio che trema, chiarezza palpitante che appena lascia comporsi qualcosa che insieme si scompone. E tutto allude, tutto è allusione e tutto è obliquo, la luce stessa che si manifesta come riflesso si dà obliquamente, ma non liscia come spada. Leggermente si curva la luce trascinando con sé il tempo. E non si dimenticherà mai che la curvatura di luce e tempo non è castigo, o che non è solo questo, bensì testimonianza e presenza frammentata della rotondità dell’universo e della vita, e che il tremolio è iridescenza della luce che non cessa di discendere e di curvarsi in ogni anfratto oscuro, che si insinua così, giacché di entrare direttamente dove più recondite sono le nostre difese può permetterselo solo ricorrendo a una violenza travolgente. E i colori stessi nascono per renderci la luce accessibile. E l’Iride risplende, prima che in alto nei cieli, in basso tra l’oscuro e il folto, creando così un imprevedibile chiaro propizio. Brillano i colori sostenendosi fino all’ultimo istante di un dissolvimento nel gioco dell’aria con la luce, e del cielo che quasi impercettibilmente si muove. Un cielo discontinuo, esso stesso anche un chiaro. E i colori scuri appaiono come luoghi privilegiati della luce che in essi si raccoglie. E poi c’è da proseguire di chiaro in chiaro, di centro in centro, senza che nessuno di essi perda né sconfessi nulla. Tutto si dà iscritto in un movimento circolare, in circoli che si susseguono ogni volta più aperti finché non si giunge là dove ormai non c’è più che orizzonte».

Ma non è forse questa l’esperienza che facciamo ogni volta che attraversiamo i boschi in montagna, sprofondati nella penombra oscura di pini e abeti? All’improvviso, quando non te l’aspetti, il chiarore di una radura, di ridotti spazi tra gli alberi diradati, o piccole piante cresciute solo un poco, incapaci di schermare la luce che appare dall’alto. Chiarori di vita, di significati, spuntati all’improvviso in cui sostare, per osare poco dopo un altro passo sul sentiero fattosi di nuovo oscuro, un passo ancora custoditi da quel chiarore.

Provo la stessa sensazione facendo camminare la luce della mia candela nella veglia pasquale. L’alone di luce ‒ come quello che cinge la luna nelle notti in cui è piena e appena velata dal filtro di nubi quasi trasparenti, così da formare nel buio del cielo un’aureola che dal centro luminosissimo va vieppiù sfumando e di nuovo si perde nell’oscurità ‒ così assomiglia il riverbero della mia candela nel buio delle vie che attraverso per riconoscere un volto, fare luce ai passi di chi segue, indirizzando una preghiera a una porta o a una finestra chiuse.

La luce della candelora è luce tremolante, compagnia nel passaggio tra la notte oscura e quella della «fiamma d’amor viva, che soave ferisce – scrive Giovanni della Croce – Delicata carezza, Tu parli di vita eterna. Cambiando la morte in vita. O fuoco nel cui splendore le oscure profondità rischiari al mio diletto. Portando luce e calore. O amore che tutto crei. Sublime eterna carità. La tua fiamma è più forte d’ogni cosa. Più forte della morte». È questo allora l’incontro con la “chiara mistica” «che disvela la creazione» ‒ scrive ancora Maria Zambrano ‒ non è un abbandono della realtà da parte dei mistici, ma un addentrarsi in essa, inoltrandosi nel folto dell’umano che «fa leva sulla misericordia, sulla presenza meravigliosa del mondo e delle sue creature» (Giovanni della Croce), sulla «carne […] col suo palpitare», e non ultimo sulle «cose considerate maternalmente» (Teresa d’Avila)», (Pensiero e poesia nella vita spagnola, Roma 1992, 110). Finché stupita di fronte a tanta chiarezza essa esclama: «Che religione è mai questa del Carmelo che permette, e anzi genera, la poesia?», (La confessione come genere letterario, Milano 1997, 110).

Fu il vescovo Luigi Maverna, il vescovo del Sinodo diocesano, a farmi appassionare a questa festa che riscatta la notte con un soffio di luce, che si affida, si offre, senza essere spenta dall’oscurità. Lui per il quale l’incontro e il convenire ecclesiale, non meno di quello con le persone della città, dovevano attuarsi con stile sinodale, rischiarandosi l’un altro, ciascuno con la propria luce. Egli così diceva: «È solennità che mette a fuoco, dei Misteri di Cristo, quello dell’offerta al Tempio. Gesù viene presentato al Tempio, a Dio, al Padre. Viene presentato, ossia offerto. Offerto dalle mani verginali di Maria, offerto e riscattato con una copia di tortore o di giovani colombi, prezzo dei poveri. Offerto, sì; ma insieme “autoffertosi”, su quelle mani verginali e sacerdotali.» (Omelia, 2 febbraio 1994).

Candelora è una Luce che si perde e si ritrova, da custodire e da donare nel discernimento e nella fedeltà di ogni incontro, perché si possa almeno un poco dimorare nell’amore.

«Luce gentile» la chiama, in una poesia, John Henry Newman (1801-1890); che intitola Candelora un altro suo scritto poetico, riservato a quel frammento di tempo che va da Natale a Pasqua, collegando il mistero dell’Incarnazione con quello pasquale. È qui che si incontra la luce gentile della Candelora: come se, dopo 40 giorni, spente le luci della natività, ci trovassimo d’improvviso al buio ad iniziare l’arduo cammino della quaresima, e non sapessimo come proseguire. Ma ecco venirci incontro i santi Simeone e Anna, che uscendo dal tempio mettono tra le braccia anche a noi la “luce di riserva”, da loro riconosciuta e accolta: un’ulteriore provvista di luce, per quanto tremolante e flebile, che basterà a tenere unite la luce dal Natale con quella ancor più intensa irradiata dalla Pasqua, quella del Cristo Tutto-Luce, è luce per tutti.

Poesia di luce è la Candelora di Newman: «Le luci angeliche, annuncio del mattino di Natale,/ che attraversarono dardeggiando il cielo,/ passano via e scompaiono alla Candelora,/ risplendono e poi muoiono./ Come luci di funerale estinte per Natale/ risplendono le candele del vecchio Simeone./ E poi per otto lunghe settimane è più,/ noi attendiamo nel grigio del crepuscolo,/ finché l’alta candela spenderà un raggio sul sabato Santo./ E mentre la spada nell’animo di Maria/ va a segno, noi nascondiamo/ nei nostri cuori, e contiamo,/ le ferite di passione e di orgoglio./ E però, anche dopo che è passata Candelora e son cessati gli Alleluia,/ è musica Maria nel nostro bisogno, e luce è Gesù di scorta».

Lead, Kindly Light fu scritta da Newman su una nave carica di aranci diretta a Marsiglia il 16 giugno del 1833. Nel suo primo titolo era paragonata alla nube dell’esodo, pure questa una luce effusiva di gentilezza: di giorno riparava il popolo in cammino nel deserto dalla calura, mentre di notte lo illuminava e lo proteggeva dal freddo come un fuoco.

«Guidami, Luce gentile, in mezzo alla tenebra che mi circonda,/ Guidami Tu innanzi!/ Buia è la notte, ed io son lontano da casa./ Rendi saldi i miei piedi: io non chiedo di vedere/ l’orizzonte remoto, mi basta un solo passo./ Non mi sono mai sentito come mi sento ora,/ né ho pregato che fossi tu a condurmi./ Amavo scegliere e scrutare il mio cammino;/ ma ora sii tu a condurmi!/ Così a lungo la tua forza mi ha benedetto,/ e certo mi condurrà ancora,/ landa dopo landa, palude dopo palude, oltre rupi e torrenti, finché la notte scemerà;/ e con l’apparire del mattino rivedrò il sorriso di quei volti angelici/ che da tanto tempo amo e, per un tratto, avevo perduto» (Apologia pro vita sua, Milano 2001, 84). Dopo la conversione al cattolicesimo Henry Newman si sentì attratto dalla forma di vita della Congregazione dell’oratorio di San Filippo Neri per la loro scelta della semplicità, dell’umiltà, della vita comune, della gioia e di quella gentilezza da lui cantata e diceva: «Obbedire alla luce che possediamo è il modo per acquisire ulteriore luce… agisci secondo la luce che hai anche se sei nel mezzo delle difficoltà e verrai portato avanti non ti immagini fino a dove» (Ian Ker, Newman. La fede, Milano 1993, 163).

Per leggere gli altri articoli di Presto di mattina, la rubrica di Andrea Zerbini, clicca [Qui]  

CONTRO VERSO
Conta di Mamma Mammina

 

Bisogna dirlo, che non è amore imprigionare l’infanzia.
Considero questa conta tra i versi più inquietanti che mi sono ritrovata a scrivere.
Si canticchia in cerchio sulle note di “Stella stellina”. Chi la intona, sillaba per sillaba e a turno tocca il petto dei vicini. Segue, in poche righe, la storia.

Conta di Mamma Mammina

Mamma Mammina
la bimba non cammina.
È grande e non va a scuola
la mamma la consola.

Bimba non cresce
vorrebbe e non riesce.
Mamma non vuole,
fa finta che sia amore.

Amore non ce n’è.
A star so-tto to-cca pro-prio a TE!

Eh sì, è proprio uno stare sotto quello che toccava a questa bambina. Una bimba perfettamente sana che a 3 o 4 anni non sa camminare è impressionante. Ma perché stupirsi? Le bambole non si muovono da sole, e la mamma – unico genitore presente in quella famiglia – pettinava la sua bambola in carne e ossa e la lasciava adagiata nel lettino.

CONTRO VERSO, la rubrica di Elena Buccoliero con le filastrocche all’incontrario, le rime bambine destinate agli adulti, torna su Ferraraitalia  il venerdì. Per leggere i numeri precedenti clicca [Qui]

SCHEI
The Drake is on the table

L’investitura più esilarante è arrivata dallo stratega del due per cento: Matteo Renzi, che nel suo pseudo inglese con la bocca piena di pici ha rivendicato di non avere avuto un piano, ma di avere regalato agli italiani un sogno (sempre modesto l’uomo): Mario Draghi a capo della squadra  – quale, sarà sinistramente eccitante scoprirlo – che deciderà come impiegare la cascata di denaro (209 miliardi) che è riservata all’Italia sotto il nome di Recovery Fund.

Il Drago è un serpente (etimo latino, a sua volta proveniente dal greco): è presente nell’immaginario collettivo di tutte le culture, in quelle occidentali come essere malefico portatore di morte e distruzione, in quella orientale come creatura portatrice di fortuna e bontà (cit. Wikipedia). Noi siamo in Occidente, quindi il dragone dovrebbe portarci sfiga e malocchio, ma quella roba lì è già arrivata sotto forma virale, per cui lo abbiamo orientalizzato per l’occasione. Si tratta dunque di una creatura ambigua e ambivalente, e in quanto tale rivestita di un fascino speciale, come tutte le creature la cui collocazione di genere non è ben chiara. L’ambiguità è definita dal punto di vista dell’osservatore: se l’osservatore fosse un dipendente del Monte dei Paschi di Siena nel 2008, anno in cui Draghi, da Governatore di Bankitalia, firmò l’autorizzazione all’acquisto di Antonveneta per un prezzo poi definito spropositato da diversi analisti, il Drago sarebbe percepito come un portatore di sventura, perchè quell’acquisizione, unita alla gravissima tempesta finanziaria scatenatasi dal 2009, sancì l’inizio del declino della banca più antica d’Italia. Se l’osservatore fosse uno Stato indebitato fino al collo (tipo il nostro) che, nel 2012, doveva strapagare interessi a chiunque per invogliarlo ad assumersi il rischio di prestargli denaro, Mario Draghi, fresco governatore della Banca Centrale Europea, sarebbe considerato un salvatore della patria. Infatti il Drago disse chiaramente agli speculatori che scommettevano sul fallimento di Italia e Spagna che la sua banca, dotata di risorse pressochè illimitate, avrebbe fatto di tutto (whatever it takes) per evitarne la bancarotta. Come? Comprando illimitate quantità del loro debito. Capite che, se il capo delle riserve monetarie e auree del continente vi dice che potete scordarvi di scommettere contro l’Italia e la Spagna perchè tanto lui ci metterà tutti i soldi che servono, la speculazione finisce, il debito di questi paesi torna ad essere percepito come sicuro (perchè ci sarà comunque il Capo dei Soldi che lo sosterrà) e gli interessi che lo Stato dovrà pagare ai suoi creditori scenderanno, e torneranno ad essere simili agli interessi che paga la Germania, formidabile corazzata statale capace di ridiventare la locomotiva d’Europa dopo aver perso una guerra mondiale sotto la rovinosa e genocida dittatura hitleriana. In quel 2012 Draghi disse ai draghetti, ai piranhas, ai gamblers e agli squali una cosa semplice, un messaggio secco: finchè ci sono io l’euro rimane, e nessuno Stato fallirà. Su questo sì, che potete scommettere. Tutte le volte che un potente appartenente alla tradizione democratica occidentale, addirittura italiana, trasmette un messaggio così netto e inequivocabile, uno resta a bocca aperta per lo stupore: ma allora anche uno dei nostri può parlare così chiaro?

Lo Stato italiano si ritrova ora, per motivi diversi (in parte) da quelli di nove anni fa, nella medesima pericolosa situazione di pre-dissesto finanziario. Infatti attualmente il debito pubblico ammonta ad una cifra pari all’incirca al 160% del Prodotto Interno Lordo. Come dire che in famiglia porti a casa 100.000 euro l’anno, ma che ne devi restituire 160.000 – fortunatamente, non tutti in un anno. Non è tanto la quantità secca del debito che ti inguaia: infatti, se l’anno prossimo portassi a casa 110.000 euro (il tuo prodotto interno lordo familiare), e il tuo debito fosse stabile, avresti più risorse per ripagarlo. Peccato che, nell’anno del coronavirus, le tue entrate non aumentano ma diminuiscono, mentre il tuo debito rimane uguale, quindi il rapporto negativo cresce.

Mario Draghi però, con la sua sola chiamata all’incarico di Presidente del Consiglio, ha già prodotto un effetto positivo: il tasso d’interesse del tuo debito è sceso. Il mondo dei prestatori di denaro (fondi, stati sovrani, privati) si è rassicurato: è come se un (notoriamente) ricco e affidabile gentiluomo avesse messo una mano sulla spalla dei tuoi creditori, dicendo loro: tranquilli, ci sono io a garantire per questa famiglia. Là dove non arrivano loro, ci sono io. Non solo. I tuoi creditori, fino a ieri sospettosi e diffidenti sulla tua capacità di investire e spendere con criterio la cascata di denaro che ti arriverà in casa per far fronte al crollo delle tue entrate da crisi Covid, adesso sanno che a gestire quei soldi nel tuo interesse (e nel loro) c’è il ricco e affidabile gentiluomo di nome Mario Draghi.

Possibile che un banchiere, per giunta drago, sia così filantropo? Secondo molti non è necessario che sia filantropo, ma che sia efficiente. Il suo grado di efficienza deve essere superiore alla media dei tecnocrati efficienti, perchè purtroppo, come è noto a tutti, la tua famiglia non brilla per la capacità di tenere sotto controllo le spese voluttuarie, e spende male (nel senso che potrebbe risparmiare di più) anche quei soldi che le servono per aggiustare i lavandini, ritinteggiare i muri, cambiare la macchina, comprare le medicine, fare la spesa del mese. In parole povere: la tua famiglia ha bisogno di un amministratore di sostegno, e lo ha trovato. Il migliore sulla piazza, si dice.

Se siamo minimamente consapevoli di quanta è l’acqua nella quale nuotiamo, esistono zero possibilità che Mario Draghi non ottenga la fiducia dal Parlamento per formare un Governo. Zero. Se invece siamo ancora convinti di poter sguazzare (si fa per dire) in un universo parallelo; se siamo ancora convinti di poter continuare a giocare alla piccola politica romana (e purtroppo, appena ti insedii nella Capitale da privilegiato vieni rapito dalla languidezza malandrina del ponentino), allora esiste la possibilità che Mario Draghi non riesca a trovare una maggioranza che lo sostenga. Personalmente sarei piuttosto spaventato all’idea che uno con il suo curriculum fosse chiamato a mettere ordine nei nostri conti senza poter contare su denaro fresco. Un tecnocrate, per quanto abile, per quanto capace di non sacrificare al dominio della téchne tutta l’umanità che da ragazzo lo pervadeva, non fa mai scelte neutre. Al limite fa scelte che servono a tutelare il sistema, ma se ci guardi dentro scopri i morti e i feriti. La mia speranza è riposta nella circostanza che la sua occasione da statista arriva assieme ad una valanga di denaro, e Dio solo sa quanto abbiamo bisogno che questo denaro venga impiegato bene.

Per leggere tutti gli articoli della rubrica SCHEI di Nicola Cavallini, clicca[Qui]

CULTURA A FERRARA
Le Sardine rispondono ai f.lli Sgarbi:
firma l’Appello!

 

Sardine Ferrara

Il diniego del maestro Pizzi alla presidenza della Fondazione Teatro Comunale, motivato “a malincuore” con l’incompatibilità statutaria all’ambito incarico di direttore artistico per il settore opera e danza, dimostra ancora una volta la gestione confusionaria dell’Assessorato alla Cultura e conferma le preoccupazioni espresse da quasi 1000 cittadini ferraresi in un appello volto a tutelare la bellezza di Ferrara.
Di fronte a questo ennesimo smacco per una città d’arte e cultura famosa in tutto il mondo, spiace leggere che l’addetto stampa di Vittorio Sgarbi non trovi di meglio da fare che organizzare in tutta fretta una petizione sul sito change.org [Qui] che ha raggiunto circa 250 firme, non verificabili e probabilmente non interessate alla triste quotidianità vissuta dagli operatori del nostro settore culturale a causa di politiche inadeguate ai tempi straordinari che stiamo vivendo.
Pur rimanendo sconcertati dalla reazione provocata dall’affermare che la Fondazione Elisabetta Sgarbi abbia generato introiti con la mostra in Castello, ci preoccupa di più la gestione personale e mecenatesca delle politiche culturali a Ferrara, sottolineata anche da recenti interviste sulla stampa locale dall’ex presidente della Fondazione Teatro Comunale Mario Resca.
Di fatto langue da ancora prima del periodo pandemico, la condizione di chi è fondamentale alla costruzione di un sistema turistico, museale, bibliotecario che necessita di occupazioni offerte da bandi mai indetti dal Comune. Il personale delle biblioteche è palesemente in difficoltà: sono i dipendenti stessi a chiedere da tempo un contratto per evitare le esternalizzazioni delle tre biblioteche periferiche preannunciate dal sindaco Fabbri.
Le scelte politiche da oggi a fine mandato prevedono un programma strutturato? Ci si può finalmente augurare una condivisione partecipata con i vari attori culturali della città o resteremo in attesa delle “improvvisate” di uno storico dell’arte che decide chi nominare e come procedere a trecentosessanta gradi, assecondato dal silenzio assordante del sindaco? Ora più che mai i giovani hanno bisogno di risposte chiare, di opportunità tangibili, al fine di consentire il meccanismo occupazionale che sostiene l’indotto cittadino: vi impegnerete per tutelarli?
In sostanza, ci si aspetta dall’assessorato alla cultura una visione più ampia, che comprenda anche il centro storico, devastato dalla congestione perenne di auto e furgoni dovuta alle scelte del vicesindaco Lodi, il quale, apprendiamo oggi, aspetterà fino a giugno per redigere un nuovo regolamento Ztl. Altri cinque mesi di smog che si aggiungono ai diciotto già trascorsi.
Il vasto numero di firmatari si compone di cittadini sensibili che hanno a cuore il benessere della propria città, di operatori del settore culturale e di intellettuali che non accettano di essere tacciati di ignoranza da chicchessia.
La responsabilità delle scelte politiche, anche in campo culturale, resta in capo al sindaco e alla sua giunta: da loro gradiremmo una risposta concreta in termini di progettualità e autonomia rispetto alle intemperanze del presidente di Ferrara Arte.
Sardine Ferrara

CONTATORE: Alle ore 22,30 del 11 febbraio 2021 hanno già firmato 1.426 persone

Per leggere l’appello e aggiungere la tua firma clicca [Qui]

TUTTI I GIORNI “UNA BOTTA DI VITA”
Ferraraitalia vi offre una pillola. Imperdibile

 

Vagavo per casa con un mal di testa insopportabile dovuto al famigerato virus contratto non si sa come nonostante le precauzioni seguite con estrema ubbidienza. Non riuscivo a leggere né disegnare, figuriamoci! A stento qualche puntata di una serie tv a caso. Non ero abituato a stare senza fare nulla, a rotolare dal letto al divano e dal divano alla sedia della cucina, senza realizzare qualcosa, senza progettare. La condizione di malato mi preoccupava al punto da temere che quell’annullamento dello stimolo creativo perisse del tutto e per sempre rosicchiato dal virus. Sapete, noi inventori di storie nati nel ventesimo secolo, in fondo temiamo che anche questa capacità possa essere a tempo determinato; che un giorno si presenti uno con un impermeabile blu e un cappello e ti revochi la licenza di creare e ciao.

Sulla scrivania il monitor azzurro illuminava le mie perplessità quando decisi di provare a realizzare lavori mignon. Piccole illustrazioni che raccontassero piccole storie: bignami dei miei pensieri imprigionati nella quarantena senza amici, pub e giropizza. “Faccio una vignetta”, pensai. Ne realizzai una e tac, la buttai sul mio impolverato profilo Instagram. A quella ne seguì un’altra che trovò spazio anche su Facebook dove ricevetti numerose facce gialle sganascianti: sproni a continuare. Le mie vignette facevano sorridere e stimolavano pensieri: i miei in fase di realizzazione e quelli dei lettori dopo. Decisi di continuare prendendomi l’impegno di farne una al giorno, una pillola per una cura che andava fatta per bene. Da allora non mi sono mai fermato. Le persone sorridono come sorrido io mentre le disegno e questo per me ha un grosso significato, soprattutto adesso che passati i sintomi del mio virus so cosa significa vivere con un’ombra inquietante dietro alle spalle pronta a fare bubusette! Un sorriso, un pensiero, rendono la vita più leggera e forse l’insostenibile situazione attuale un pochino più digeribile.

Le vignette non si occupano, se non occasionalmente, di satira politica, sarebbe come sparare sulla croce rossa. Preferisco sfottere me stesso e con me i miei amici e alla fine tutti noi, la ‘gente comune’, accendendo un faretto che ne illumini le contraddizioni, le paure, le goffaggini e perché no anche le qualità. I protagonisti sono sgargianti individui che non sembrano appartenere al nostro mondo, forse vivono in un mondo variopinto o più probabilmente i loro colori accesi spiccano in un mondo all-white; un avatar del nostro contesto quotidiano, dove ciascuno di loro assomiglia a tutti e non assomiglia a nessuno. In fondo diverte l’idea di identificarsi con sagome fluo col naso a pera, ma voglio credere che anche questo può contribuire a guardarsi “da fuori” per sorridere e riflettere su ciò che siamo e ciò che stiamo diventando.

Inizia la collaborazione con Ferraraitalia, il tutto grazie ad un mio caro amico che ha immaginato le mie vignette in mezzo ad articoli che indagano a tutto tondo la nostra società, senza ovvietà, senza riportare i tweet di questo o di quello, senza concetti premasticati.
Una telefonata ed eccomi qua a condividere con voi le battute caustiche dei miei amici variopinti. Grazie dell’ospitalità, buon divertimento e benvenuti.

La rubrica di Riccardo Francaviglia si chiama Una botta di vita.
La trovate tutti i giorni nella Home del giornale, nel quadrato al centro in basso.
Per vedrete tutte le vignette 
[Qui]

PAROLE A CAPO
Jubal Alfonso Varas Acosta: “Oltre il tuo silenzio” e altre poesie

“Il poeta scrive da sé la vita. Nelle poesie di un vero poeta, voi vedrete sempre apparire un uomo e vedrete che questo uomo illuminerà tutta la storia dei suoi tempi”.
(Giuseppe Ungaretti)

Oltre il tuo silenzio
Stai lì impercettibile

raccolta nel tuo viaggio,
oltre il tuo stesso silenzio.
Sempre introversa,
immersa,
silente.

Senza di te come vedi non sono niente.
Mi manca tutto:
le tue mani operose,
la tua attenzione presente
nel dettaglio sublime.
Nel fiore che appassisce
mi manca la tua lieve tristezza come bianchi gigli,
e lo splendore dei tuoi lilium e gladioli,
nel nostro giardino multicolore.

Mi mancano gli odori gioiosi
dei tuoi cibi e i dolci aromi
della tua cucina.
Mi manca la tua ombra e la tua luce,
il tuo lieve stupore,
e la tua eterna speranza.
La leggerezza della tua presenza
e la tua strana lontananza
Senza di te l’inverno è eterno
e la prossima primavera passerà rapidamente.
Vedi:
La vita prosegue,
come lampada accesa
dispersa nella nebbia.

Restiamo senza gli affanni
per i figli lontani,
senza il sussurro della tua voce
ed il tuo tenero sguardo

Restiamo perplessi
sul ciglio della strada,
sperando che tu faccia ritorno
dal tuo smarrito viaggio,
oltre il tuo impercettibile destino.

 

Azzurra nostalgia
Sulla sponda del fiume,
sotto il ponte
mentre le ore
si nascondono
con fuggitivi ricordi,
sono tornato
dopo l’assenza.

E nell’acqua,
danza il tuo ampio  sorriso
e quello sguardo:

—Lacrima e farfalla—
Febbrile tempo raccolto,
azzurra nostalgia
sugli specchi trasparenti
dove mai ritorneremo
per attendere il tramonto

 

Al paese più lontano
Vado,
irrimediabilmente solo,
afferrato dall’ultima barcarola
lontano
molto lontano dal porto
e solo

Vado,
blu come stella fugace
oltre il paese più lontano.

Vado,
erto a prua,
intravedo distanze impossibili,
mentre emigrano le ultime
rondini
e mi circonda l’azzurro del tuo silenzio

 

La bella lasciva
Sono ancorato
ai tuoi occhi, alla tua spiaggia
agli affanni
della tua anima.

Bella lasciva,
come il fiore per la vespa
moribondo.

Baciami
amami,
come se fosse
l’ultimo crepuscolo.

Aggroviglia la mia anima,
viaggiatrice di altri mari,
passionaria vegetale,
irrompi nella furia
dei miei desideri.

Consumiamo questo frammento
di vita che ci rimane
questa allegria sconosciuta.

Gioca con il riscatto
di quei peccati,
furiosa traditrice dei miei anni,
amica dalle distanze
infinite.

Dolce birbante
—di carte truccate—
attraverso la tua bocca insaziabile
con un bacio alato,
sensuale e fuggitivo.

Come se fosse
l’ultima aurora

Jubal Alfonso Varas Acosta (1942) , nato a Saavedra, Regione della Araucania, Cile. Pedagogista, poeta e scrittore approdato in Italia a Vignola nel 1976, dopo il colpo di Stato in Cile.  È stato Bibliotecario comunale a Vignola , presso la Biblioteca di Villa Trenti sin dal 1977.
Ha pubblicato la silloge Labirintos y ausencias (1995) , e la più recente La Magia de los dias (2015), che è stata tradotta e pubblicata nel 2019 dalla casa editrice dAVeP nella collana Poesia. Da questa raccolta sono tratte le poesie che abbiamo qui presentato.   

La rubrica di poesia Parole a capo curata da Gian Paolo Benini e Pier Luigi Guerrini esce regolarmente ogni giovedì mattina su Ferraraitalia. Per leggere i numeri precedenti clicca [Qui]

QUANTO COSTA IL VACCINO?
Gli accordi segreti fra Governi europei e Big Pharma. La proposta del Vaccino Bene Comune Globale

 

La situazione e, di conseguenza, la discussione sui vaccini per contrastare la pandemia si è fatta incandescente.  E, come sempre, si moltiplicano prese di posizioni, comunicati, opinioni, molte volte contrastanti, che rischiano di produrre un’insopportabile cacofonia. Forse, allora, bisognerebbe fissare alcuni punti fermi, magari ponendo domande scomode.

1) Perché si sono costruiti contratti con aziende farmaceutiche prima ancora che arrivasse l’autorizzazione all’immissione in commercio da parte dell’EMA (Agenzia europea del farmaco)? Nei giorni passati abbiamo assistito ad una polemica rovente tra UE e AstraZeneca sul ritardo delle consegne rispetto al contratto sottoscritto, ma l’EMA ha autorizzato il vaccino solo venerdì scorso.
Allo stato attuale, secondo le comunicazioni ufficiali dell’Unione Europea, sono stati sottoscritti contratti da parte della stessa UE per l’acquisto di vaccini da Biontech-Pfizer, Moderna, AstraZeneca, Sanofi-GSK, Jansenn Pharmaceutica ( Johnson & Iohnson) e CureVac, ma solo i primi 3 sono stati autorizzati. Non c’è dubbio che ci sia stata una corsa forsennata tra Stati e aziende per arrivare in tempi brevi a somministrare il vaccino, obiettivo in sé più che giusto, ma non è che si siano anteposti interessi commerciali e politici, appunto le definizioni contrattuali, alla verifica della loro sicurezza ed efficacia? E’ solo un pensiero malevolo quello, suggerito da molti, che ci siano pressioni perché l’EMA “si sbrighi” a procedere con le suddette autorizzazioni?

2) Perché i contratti sono segretati? Sempre nella polemica tra UE e AstraZeneca sono volate parole grosse tra chi, la prima, ha denunciato l’azienda di violare i patti sottoscritti e la seconda, che per bocca del suo amministrazione delegato Soriot, avrebbe dichiarato che AstraZeneca non ha alcun obbligo rigido con l’Europa  sulla forniture, ma solo un “best offert”, ossia l’impegno a fare del proprio meglio. Ora, chi ha ragione? Perché non vengono resi pubblici i contratti sottoscritti, negati persino ai parlamentari europei, oltre a quello con CureVac e la stessa AstraZeneca, che peraltro sono pieni di molti omissis? Ci sono forse clausole, come adombrato da diversi organi di stampa, per cui le aziende sono tutelate in caso di mancato rispetto del cronoprogramma e addirittura nel caso di eventuali reazioni avverse prodotte alle persone vaccinate, nel qual caso dovrebbero intervenire i singoli Stati?

3) E’ possibile capire meglio quali sono i costi previsti per i cittadini europei, visto che anche questi non sono chiari e che parliamo di risorse pubbliche stanziate dall’Europa, per affrontare la campagna vaccinale? E anche approfondire i prezzi riconosciuti alle varie aziende per la produzione del vaccino?
A quest’ultimo proposito, siamo addirittura in presenza di una sorta di giallo: a metà dicembre la sottosegretaria UE al Bilancio del Belgio Eva De Bleeker ha postato ‘per errore’ sui social uno screenshot in cui erano riportate tutte le cifre, cancellandolo subito dopo. “Volevo essere trasparente, ma forse lo sono stata un po’ troppo”, ha dichiarato poi la De Bleeker.
Ancora più sconcertante la replica del portavoce della Commissaria UE alla Salute  Stefan de Keersmaecker, nel momento in cui ha affermato che “non possiamo pronunciarci, i prezzi dei vaccini sono coperti da clausole di confidenzialità per buone ragioni”, tra le quali il fatto che la Commissione “sta tuttora negoziando con altri produttori”. Sta di fatto che, secondo indiscrezioni, il prezzo dei vari vaccini sarebbe di circa 15 € a dose per Moderna, 12 € per Biontech/Pfizer, 7,56 € per Sanofi/GSK, 10 € per CureVac, circa 7 € per Johnson & Johnson e 1,78 € per AstraZeneca. Come si giustificano tali differenze di prezzo, che variano in un intervallo quasi da 1 a 10?
Sempre per stare in tema di prezzi, desta una certa preoccupazione sentire la risposta dell’amministratore delegato di Pfizer Italia Kerkola che, a fronte del rilievo dell’intervistatore che chiede la ragione per cui lo stesso vaccino sarebbe venduto a 15 € all’Ue, a 19,5 $ agli USA, a 28 $ a Israele e a 10 $ al Sudafrica. Dice Kerkola laconicamente: “I nostri prezzi rimangono riservati”.

Insomma, mi pare ci siano tanti buoni motivi perché trasparenza e informazione corretta siano dovute ai cittadini e soddisfatti i legittimi interrogativi che si stanno addensando su questa vicenda. Ma c’è qualcosa di più che non torna e attiene proprio al modello di fondo, cioè nel sistema di relazione e decisione nel rapporto tra entità statali e aziende.
Provo ad avanzare un’ipotesi: alla base, a me pare ci stia un intreccio perverso tra ricerca del profitto da parte delle imprese e acquisizione del consenso dei cittadini da parte dei singoli governi, dimostrando di fare presto e bene per uscire dalla pandemia (oltre che far ripartire l’economia). Parlo di intreccio perverso, perché questi sono interessi potenzialmente confliggenti, in cui più forti comunque sono quelli delle grandi aziende farmaceutiche (i dati dei profitti di Pfizer pubblicati dal Sole 24ore fanno strabuzzare gli occhi), che sembra dar luogo a scontri anche pesanti, ma che in realtà stanno dentro un quadro per cui ciascuno di questi soggetti riconosce le ‘ragioni’ dell’altro, determinano regole del gioco comunque alla fine condivise e che provocano una contrattazione continua solo tra di essi, ma, proprio per questo, dovendo escludere le persone destinatarie di tali interventi.
Da qui la riservatezza, meglio dire la segretezza degli accordi e la loro rinegoziazione senza alcuna trasparenza. Siamo dentro un connubio negativo tra potere semimonopolistico delle grandi aziende farmaceutiche e ‘nazionalismo vaccinale’ – di cui è esempio anche il provvedimento dell’Ue di controllo delle esportazioni dei vaccini, giustamente bacchettato dall’OMS, praticato in primo luogo dai Paesi ricchi,

come giustamente denunciato dal presidente del Sudafrica Ramaphosa, le aziende multinazionali realizzano grandi profitti, gli Stati contrattano con le stesse sulla base del loro potere e ricchezza e la salute delle persone arriva come buona ultima e risultante di questi rapporti.
Eppure, un’altra strada ci sarebbe, quella indicata sempre dal Sudafrica e dall’india, sostenuta da un centinaio di Paesi all’interno dell’Organizzazione Mondiale del Commercio. Ovvero quella di considerare il vaccino bene comune globale, introducendo una deroga sui brevetti e agli altri diritti di proprietà intellettuale in relazione a farmaci, vaccini, diagnostici, dispositivi di protezione personale e le altre tecnologie medicali per tutta la durata della pandemia.
Si tratta di un provvedimento possibile e praticabile, previsto dall’art. IX comma 3 e 4 dell’Accordo di Marrakesh che ha costituito l’Organizzazione Mondiale del Commercio e che consentirebbe la produzione di massa in tutti i Paesi di trattamenti e vaccinazioni contro la pandemia e potrebbe ridurre significativamente la durata della stessa. Una proposta più che ragionevole, che, ahimè, ha il difetto di tagliare i profitti di Big Pharma e che trova l’opposizione di Regno Unito, Stati Uniti, Canada, Australia e UE.

A maggior ragione, allora, è utile sostenere ICE( Iniziativa dei Cittadini Europei), promossa da un nutrito gruppo di movimenti e soggetti europei e italiani, che va nella medesima direzione: per leggerla clicca [Qui] e per firmarla clicca su sostieni questa iniziativa. Con 1 milione di firme raccolte in tutt’Europa, da raggiungere entro la fine del gennaio 2022, si obbliga la Commissione Europea a discuterla, visto che l’ICE è strumento istituzionale previsto dalla stessa normativa europea.
Forse non sarà sufficiente, ma intanto può essere un segnale importante quello di far scendere in campo movimenti sociali, associazioni, persone, soggetti politici che guardano ad un’alternativa di sistema. Perché, in ogni caso, senza il loro ritorno ad essere protagonisti non riusciremo certo ad evitare di essere prigionieri tra la Scilla del mercato e il Cariddi di una governabilità statuale subalterna e senza progetto, anche quando parliamo della vita e della salute dell’umanità intera.

GLI SPARI SOPRA
L’invenzione della Sanità Privata e il suo fottuto fallimento

 

Era il secolo scorso, un millennio fa, il lontano 1992, quando il terzo governo nella storia della repubblica non a guida democristiana, con a capo Giuliano Amato e una squadra di quadripartito composto dai morituri DC-PSI-PSDI-PLI emanava il D.lgs 30 dicembre 1992, n. 502. Con quel decreto le USL. vennero trasformate in aziende sanitarie locali, con propria autonomia e svincolate da un’organizzazione centrale a livello nazionale, con responsabilità diretta da parte delle regioni.
No, non ho una così grande memoria, basta cercare minimamente in rete e al primo click appare l’inizio dello sfacelo. I primi importanti sintomi di una repubblica che abbandona la mutualità, la volontà di giustizia, la dignità di tutte le persone nei confronti della malattia per cedere all’idea ultra liberista del privato è bello, a discapito dell’orda di fannulloni che tiene bloccata la Giovine Italia che si annida nell’ ‘orrido’ pubblico. «in funzione del perseguimento dei loro fini istituzionali, le Unità Sanitarie Locali si costituiscono in Aziende con personalità giuridica pubblica e autonomia imprenditoriale» cita bellamente l’articolo 3 del succitato decreto.

Dall’ultimo governo della buonanima Giulio Andreotti decaduto, il 28/06/1992, si susseguono gli esecutivi di Amato-Ciampi-Berlusconi-Dini-Prodi-D’Alema.
Da li ha inizio la fine. Non sono un fine analista, anzi, sono spesso ripetitivo e monotematico, ma dallo sgretolamento dei partiti tradizionali, giustamente indagati e perseguiti a causa di un sistema di tangenti e corruzioni divenuto legge e Stato, non è nato niente. La ‘politica delle somiglianze’ ha portato uno sconvolgimento sociologico, che ad oggi dopo trent’anni ancora non ha fine. La volontà di perseguire un sistema privatistico, ma basato fondamentalmente su finanziamenti pubblici, ha creato finti imprenditori e finti manager a capo di aziende, che ovviamente perseguono lo scopo di lucro, che gestiscono un bene primario, come la salute pubblica a colpi di marketing.
Meglio creare una sanità d’élite, fondata sui soldi, importanti e costose analisi cliniche, interventi chirurgici all’avanguardia dove il paziente vive o muore ma occupa il letto per il minor tempo possibile, smantellamento della sanità di comunità a discapito di grandi strutture dai costi esorbitanti e magari già vecchie al termine dei lavori di costruzione.
Solidarietà, parola abbandonata, divenuta straccio e spesso associata a termini aberranti, come buonismo. Eppure non sono passati secoli dagli anni ’70, dove la medicina democratica in tante regioni (stranamente rosse) aveva messo al centro la persona umana, la sua dignità, il paziente non era più un numero o uno scarabocchio su una cartella clinica. Poi, in meno di due decenni, l’ondata di luce e di vita è stata spenta dai codici pin delle carte di credito. Ben inteso che questo è avvenuto cavalcando la volontà popolare, non con decreti ferragostani o nascosti nei meandri delle finanziarie, anzi, queste privatizzazioni sono state sventolate da governi di centro destra e di centro sinistra. Ecco che ritorna il male assoluto del moderatismo, altro termine coniato negli ultimi decenni e che nasconde al suo interno un blob di violenza incredibile, nascosta tra le pieghe del neoliberismo e negli slogan de “si vince al centro”.

Oggi, nel primo anno del secondo decennio del XXI secolo, nel bel mezzo di una crisi globale causata da una pandemia mondiale, che non accenna ad abbandonarci, continuando a renderci schiavi di noi stessi, con la morte che ci appare ad ogni telegiornale, ci accorgiamo che il ‘Sistema Lombardia’ e buona parte del sistema Italia, non funzionano.
Nel 2020 abbiamo capito che esistono bisogni fondamentali, che devono essere gratuiti, devono perseguire fini mutualistici, devono curare giovani e vecchi, ricchi e poveri (no Sanremo non c’entra). Ottima lungimiranza direi.
Ma come, Non decantavate che era bello e funzionale il privato, pieno di lustrini, efficiente, in mano a manager illuminati che, con soldi altrui, facevano girare l’economia?
Io mi ricordo di voi, mi ricordo i vostri pensieri appoggiati ai banconi dei bar, secoli prima delle vostre ribellioni omologate sui social. Una volta ci si odiava faccia a faccia, esisteva una sorta di equilibrio e di rispetto dato dalla carne viva e dal respiro, ora le vostre tastiere non respirano, sputano solo. Lasciate stare quelli come me, non datemi ragione, non me ne faccio un cazzo, tanto il mio pensiero non è minoritario: è praticamente estinto.
Non piangete sul “latte macchiato” (cit.), non indignatevi coi tanti Fontana che si strozzano indossando una mascherina, ricordatevi dove eravate voi quando tutto questo bel sistema privato vi ha privato di tutto. Forse eravate a festeggiare la messa al bando e la sconfitta dei fottuti comunisti.
Certo che in Italia esiste ancora, e per fortuna, una sanità pubblica, ma il sistema azienda ha fallito, non ha tolto la corruzione, non ha reso più funzionale il sistema. Il lucro, gli schifosi budget e target, con la salute pubblica non centrano nulla: ai bisogni primari non si accede dallo sportello di un bancomat.

UN ILLUMINISTA IN SICILIA
Attualità di Leonardo Sciascia a 100 anni dalla nascita

Non so se in questo 2021, in occasione del centenario della nascita (8 gennaio 1921), Leonardo Sciascia, le sue opere e il suo pensiero libero, verranno celebrati come meriterebbero. Del resto, se Sciascia non è diventato un evergreen, un classico come Italo Calvino, la ‘colpa’ è in buona parte dello stesso Sciascia: protagonista della scena letteraria e politica dell’Italia degli anni Settanta e Ottanta, ma sempre all’opposizione, inorganico a qualsiasi parte o partito. Un personaggio che non si accomodava a nulla, seguendo solo due stelle interiori: l’acutezza del suo pensiero e della sua lingua, e insieme, il suo grande e sconsolato amore per la sua terra. Per queste ragioni Ferraraitalia ospita con piacere – confidando sia solo il primo di altri contributi – l’intervento di Sergio Reyes, einaudiano e siciliano come Leonardo Sciascia.
(Francesco Monini)

“La Rivoluzione francese ha dimostrato che restano sconfitti coloro che perdono la testa”. Questo aforisma di Stanislav Jerzy Lec descrive in modo sintetico una delle differenze che distinguono la nostra cultura da quella francese.
La ghigliottina, a parte la sua spietatezza, propone una irreversibile cesura fra il ‘prima’ e il ‘dopo’: è infatti problematico rimettere al suo posto la testa del condannato dopo che la lama del boia l’ha staccata dal resto del corpo. Nel nostro cattolicissimo paese, fra gli altri, esiste un sacramento che viene elargito con grande generosità: la confessione. Il successivo pentimento e il perdono conseguente tornano a rendere immacolato il peccatore.
Come dice la Lucia manzoniana “Dio perdona tante cose, per un’opera di misericordia!”.

Questo percorso un po’ tortuoso ha permesso a tanti politici, sia della Prima che della Seconda Repubblica, ma anche a tanti mafiosi o delinquenti comuni di ritornare vergini nelle braccia amorevoli della Chiesa cattolica. Forse anche per questo, e non solo per la loro inattendibilità, Leonardo Sciascia ha sempre guardato con diffidenza e forte pregiudizio al fenomeno dei pentiti.
Lo scrittore siciliano ha sempre avuto un rapporto molto intenso con la letteratura francese e in particolare con Parigi e non ha mai fatto mistero della sua discendenza culturale dall’Illuminismo.
Io non sono né un critico letterario né un esperto di politica o di sociologia, ma da privato cittadino sento il bisogno di manifestare una mia inquietudine.
Oggi, basta ascoltare un telegiornale, vedere un qualunque talk-show o aprire le pagine di un giornale e perfino sentire parlare le persone per strada o al bar per rendersi conto che viviamo in un mondo di verità preconfezionate e date per scontate e come queste vengano scandite quasi sempre sotto forma di slogan.
In particolare il linguaggio della politica, e soprattutto dei politici di professione, utilizza un vocabolario di poche centinaia di parole e queste, combinandosi fra loro in poche unità, vanno a costituire un puzzle che potrebbe avere come titolo “il non pensiero”.

Una voce come quella di Sciascia sarebbe oggi preziosa non solamente per la sua dirittura morale, ma anche per il suo approccio laico alla ricerca della verità, in quanto non viziato da pregiudizi di qualunque natura. Ha ragione Vittorio Alberti quando, nel suo recente libro Non è un paese per laici, afferma che Sciascia è sempre stato all’opposizione.
Lo è stato nel senso che si è sempre posto di fronte a qualunque enunciato indagando sul suo contrario e cercando una verità terza. Questo è stato un suo metodo di lavoro e, prima ancora, un suo modo di pensare. Lo si riscontra nelle sue opere di narrativa e, ancor più, in quelle di saggistica.
In questa prospettiva il suo libro più rappresentativo è forse L’affaire MoroLa sua indagine, svolta con la puntigliosità dello storico che esamina le fonti, si arricchisce di una pietas e di una passione che sono proprie del letterato e il suo approccio, oltre che laico, è prima di tutto ricco di umanità.
A margine del suo libro Sciascia diceva che la peggiore condanna che Moro avrebbe potuto avere dopo la sua morte sarebbe stata quella del silenzio. Pensiero questo già espresso qualche anno prima da Pier Paolo Pasolini, che vedeva nella ‘indifferenza’ uno dei mali peggiori della nostra società.
A questo proposito Sciascia sottolineava che questo allarme egli lo aveva già dato, “più sommessamente”, mentre Pasolini era in vita ed ora sentiva il bisogno di esprimerlo ad alta voce.

Dal punto di vista del lettore è importante quanto uno scrittore riesce a dire anche dopo la sua morte e quali interrogativi riesce a  sollecitare.
Forse non è un caso che nel 1964 Jean Paul Sartre non abbia accettato il premio Nobel motivando il rifiuto col fatto che solo a posteriori, dopo la morte, fosse possibile esprimere un giudizio sull’effettivo valore di un letterato.
Le indagini svolte da Sciascia  nei suoi romanzi polizieschi, sono sempre svolte all’insegna del dubbio e, non raramente, al contrario di quanto di solito avviene nei gialli, il dubbio rimane non risolto fino alla fine del racconto.
Rivelatore a questo proposito quanto Sciascia scrive di se stesso a proposito del  Consiglio d’Egitto: “volevo, insomma, assumere quel fatto del senno di poi; conferirgli – con sufficiente ambiguità e leggerezza – una forza allusiva, ma un significato sull’attualità, sul presente: sul nostro presente. È un modo per non pacificare il lettore, per lasciarlo con una sorta di inquietudine.
Esemplare in questo senso il finale di Todo Modo. Già l’ambientazione della storia è emblematica, tipica del “detto e del non detto”. La vicenda si svolge all’interno dell’eremo di Zafer, ma sembra di poter riconoscere in esso l’Hotel Emmaus, il mostro edilizio costruito dalla Chiesa e che, dopo avere deturpato irrimediabilmente il lato nord dell’Etna, è visibile da decine di chilometri.
Durante gli Esercizi spirituali che si svolgono al suo interno accadono una serie di omicidi e per gli investigatori la matassa della vicenda pare insolubile; in chiusura non viene rivelato chi ha commesso i vari omicidi e l’eremo-albergo viene sgomberato. Lo stesso narratore fra l’altro, paradossalmente, si “dichiara colpevole” del delitto.
La verità è sotto gli occhi di tutti, ma proprio per questo nessuno la vede. Un’attenta lettura delle ultime pagine permette al lettore di avanzare ipotesi sulla soluzione dell’enigma.

La cultura popolare è una delle strade maestre percorse da Sciascia nella costruzione dei suoi romanzi e soprattutto dei suoi saggi. Ad essa lo scrittore guarda non solo con l’interesse dello studioso del folklore e del demologo, ma anche con umorismo e ironia. Una ironia sempre sotto traccia, mai esposta, affinché il sorriso non sconfini mai in aperta e scomposta risata.
Nel suo breve elzeviro L’ordine delle somiglianze scrive: “… C’è in proposito, in ogni paese siciliano, una ricca tradizione: e quasi sempre riferisce del Cristo che, padre della ragazza che fa la Madonna o la Maddalena, vede dall’alto della croce l’apostolo Giovanni stringersi un po’ troppo a confortare la dolente; e dapprima ammonisce, poi si stacca dalla croce e scende bestemmiando alle cosiddette vie di fatto.”

Leonardo Sciascia con amici a Racalmuto (Wikimedia Commons)

In questo sguardo semiserio Sciascia si serve anche della penna di altri.
In  Feste religiose in Sicilia scrive “Tra il Cinquecento e il Settecento … le popolazioni andavano per le spicce nei riguardi dei patroni. Scrive il Pitrèé: “codesti patroni non sono stati sempre gli stessi. Una occasione qualunque, un infortunio, una pubblica calamità, bastarono per soppiantare con un nuovo il vecchio patrono; e devoti, con armi e bagagli, passarono sotto la protezione di esso. Così vediamo come in un caleidoscopio Santa Rosalia sostituire Santa Cristina, e alla sua volta essere sostituita in Vittoria da San Giovanni Battista… messo da parte in  Gioiosa per San Nicolò di Bari e in Butera per San Rocco, che in Pietraperzia viene dimenticato per la Madonna della Cava. San Nicolò vince in Nicosia, però perde in Noto… Santa Caterina, nel Comune omonimo in provincia di Caltanissetta, scalza San Giulio, ma cede alla Madonna delle Grazie …”. A me par di vedere Leonardo Sciascia che, attraverso le pagine di Giuseppe Pitré, ascolta divertito, ma anche molto interessato, la radiocronaca dell’arrivo di una tappa del giro d’Italia.
E  per dare maggior credito ad una affermazione a lui cara cita un altro scrittore “allora di una città correvo a vedere i musei; ora credo avesse ragione Gide , che bisogna cominciare dai mercati, dai giardini pubblici, dai cimiteri e dai palazzi di giustizia”.

La sua costante ricerca della verità si percepisce anche dallo stile della sua scrittura. In essa ogni aggettivo, avverbio o parola appaiono come un distillato di pensiero. Praticamente tutta l’opera di Leonardo Sciascia è stata scritta prima della pubblicazione delle Lezioni americane di Italo Calvino, ma è come se ne avesse subito l’influenza, in particolare di quella intitolata Esattezza.
La sua sobrietà, la sua riservatezza e discrezione fanno sì che egli appaia come un uomo vagamente “misterioso”, come misteriosa appare la sua sconfinata conoscenza delle letterature e il modo in cui al loro interno egli si muove con naturalezza, con una disinvoltura mai ostentata.

Sebbene tutto il suo cammino sia improntato alla verifica di ipotesi diverse, secondo un solido principio di laicità, quasi sempre, quando egli ha acquisito una verità, l’ha subito messa in discussione considerandola come provvisoria, passibile di ulteriori approfondimenti.
Questa che a volte può apparire come ambiguità, a me sembra la più autentica caratteristica di un figlio dell’Illuminismo, di uno scienziato del pensiero.
Non è un caso che sulla bara di Sciascia, ateo ma religiosamente credente nei valori dell’etica, sia stato posto un crocifisso, anche perché egli aveva un profondo rispetto verso questo simbolo.

In copertina: foto scattata a Leonardo Sciascia nell’estate del 1979 al gruppo parlamentare radicale alla Camera dei deputati (Wikimedia Commons)

SCUOLA:
DAI NATIVI DIGITALI ALLA NEXT GENERATION

 

È trascorso un quarto di secolo dalla nascita di Windows 95. Da allora è stato un continuo avvicendarsi di novità nel campo tecnologico, che hanno fatto da contrappunto alle generazioni che in questo lasso di tempo si sono succedute, dai digital natives, ai millennials, alla generazione Z. Ora siamo alla Generazione Alfa. Generazioni avvezze fin da subito a un diffuso uso di internet, di Google e Wikipedia, dei social media e di ogni altro ritrovato tecnologico. Le generazioni sono mutate, le scuole che hanno frequentato no. Così erano prima, così pressoché sono rimaste dopo.

Per misurare la cesura tra mondi opposti e l’ottusità del secondo, la scuola, basta rileggersi la circolare che nel marzo del 2007 l’allora ministro Fioroni inviava alle istituzioni scolastiche per proibire l’uso dei cellulari in classe, con conseguenti sanzioni disciplinari. Ironia della sorte, non è mancato chi tale ottusità ha pensato bene di ribadirla all’avvio dell’anno scolastico 2019/2020, alla vigilia della pandemia, che avrebbe sfidato le nostre scuole sulle loro potenzialità tecnologiche e digitali.

Mi è capitato in questi giorni tra le mani un volumetto pubblicato da il Mulino nel 2010 dal titolo quanto mai accattivante Un giorno di scuola nel 2020. Un cambiamento è possibile?
Raccoglie gli atti del convegno organizzato nel marzo del 2009 a Torino dalla Fondazione per la Scuola della Compagnia di san Paolo. Un’occasione per guardare oltre e immaginare una scuola ‘più digitale’, a misura di studente, in cui le tecnologie dell’informazione e della comunicazione non rappresentino soltanto un’appendice a una impostazione tradizionale della didattica, ma ricoprano un ruolo specifico e costante nel tempo.

Il 2020 veniva traguardato come orizzonte, come anno limite, entro il quale le istituzioni scolastiche avrebbero dovuto portare a compimento il processo di rinnovamento degli ambienti di apprendimento e delle modalità di trasmissione del sapere a fronte delle mutate esigenze educative di ragazze e ragazzi cresciuti ‘in rete’.
Tutti i sistemi scolastici in giro per il mondo sembrano essere resistenti al cambiamento, ma le relazioni al convegno testimoniano di tante esperienze che già allora aprivano nuove prospettive dando centralità alla personalizzazione, all’apprendimento autorganizzato, alle modalità e al contesto in cui l’insegnamento avviene.

Dieci anni dopo dobbiamo parlare di speranze infrante, con la drammaticità di una pandemia che ha reso sempre più paradossale l’esperienza scolastica delle nostre ragazze e dei nostri ragazzi. Norberto Bottani, ricercatore e alto funzionario dell’Ocse, a conclusione di quel convegno avvisava, già allora, che il problema non sono le nuove tecnologie, ma gli insegnanti e gli studenti.
Le nuove tecnologie evolvono a grande velocità e i bambini se ne impossessano con una facilità estrema, non hanno bisogno né di insegnanti né di educatori per farlo.

La questione degli insegnanti è invece davvero complessa e non si è fatto nulla per esplorarla in tutte le sue componenti, ritardando nel tempo la possibilità di individuare soluzioni valide. Una categoria preoccupata di vedere sempre più svilito il proprio ruolo, di perdere autorevolezza agli occhi degli allievi. Così disciplina e mantenimento dell’ordine sono le ancore di salvezza a cui aggrapparsi, mentre crescono le forme di resistenza a mutare l’organizzazione dell’apprendimento (ci saranno ancora le aule, le classi, i voti?), pertanto l’adozione delle nuove tecnologie avviene in un contesto identico a quello tradizionale. Come muterà il profilo professionale, come cambieranno le modalità di selezione e di formazione?

Resta il tema dell’universo studentesco. C’è un abisso tra il modo di pensare degli studenti e il modo di pensare degli insegnanti. La scuola è incapace di trasmettere ciò di cui gli studenti hanno bisogno nelle forme che più convengono loro. Le ricerche condotte da fondazioni come la MacArthur negli Stati Uniti hanno da tempo evidenziato che ragazze e ragazzi delle generazioni in rete possiedono una visione precisa di quel che si aspettano dalla scuola. Migliaia di interviste fatte a studenti di tutti i ceti, di tutte le età e di tutte le nazionalità fanno emergere risposte assai nette. Non tollerano più le lezioni cattedratiche, vogliono essere rispettati, vogliono che si abbia fiducia in loro, vogliono che si tenga conto delle loro opinioni e che li si apprezzi. Chiedono di coltivare le proprie passioni e i propri interessi, di creare utilizzando gli strumenti del loro tempo. Chiedono un’istruzione che abbia le radici nella realtà, chiedono di cooperare, di lavorare in gruppi per realizzare progetti e controllarne l’esecuzione, chiedono di avere un ruolo in classe e al di fuori della scuola.

Siamo arrivati al 2020 con tutto fermo a come era prima. Se non fosse che il virus ha scompigliato tutte le carte. L’emergenza ancora una volta ha impedito di vedere i problemi veri, rinviando a data da destinarsi la risposta alla domanda che oltre dieci anni fa il convegno si poneva e cioè se un cambiamento fosse possibile. Ora i fondi della Next Generation EU ci offrono un’occasione unica e irripetibile, il pericolo vero è che la scuola e la politica si facciano cogliere impreparati con il rischio di non spendere quelle risorse o di spenderle male.

Per leggere gli altri articoli di Giovanni Fioravanti della sua rubrica La città della conoscenza clicca [Qui]

Helgoland: l’isola che c’è ma non si vede

Ho da poco finito di leggere Helgoland di Carlo Rovelli.  Le sue prime pagine mi hanno aperto il cuore. In questi giorni in cui tutti si riempiono la bocca della parola scienza come fosse una fede e una verità assoluta lui scrive: “Ma questo è la scienza: un’esplorazione di nuovi modi di pensare il mondo. È la capacità che abbiamo di rimettere costantemente in discussione i nostri concetti. È la forza visionaria di un pensiero ribelle e critico capace di modificare le sue stesse basi concettuali, capace di ridisegnare il mondo da zero”.
E mi sono detta: iniziamo bene. Potente e coinvolgente l’idea di Rovelli di partire dalla storia del giovane Heisenberg, della sua ricerca della solitudine in un paesaggio nordico, duro, della sua scalata su una roccia per vedere l’alba la notte in cui riesce a far tornare i conti che gli permetteranno di comunicare la sua idea sui quanti. Potente  per introdurre la spinosa e controversa teoria dei quanti.  Affascinante la sua disanima su tanti filosofi, di cui i nomi sono sconosciuti ai più, che hanno animato le discussioni nel 900. Però la teoria resta controversa.
Perché è controversa? Perché da più di 100 anni la teoria dei quanti crea accese discussioni tra gli scienziati e oggi, questo Rovelli lo  sa, anche tra la gente comune come me, proprio sull’uso delle parole che servono a illustrarla. Mentre i numeri tornano, almeno, quelli di Heisenberg continuano a funzionare e sono alla base della meccanica quantistica su cui si fonda la tecnologia odierna, non tornano le parole che danno concretezza alla realtà descritta dalla teoria.
È una teoria aperta a diverse interpretazioni, con il rischio che se ne possa anche fare scempio ‘filosofico’. È come se le parole, in questa teoria, si comportassero come i quanti: corrispondono a significanti molti diversi e costruiscono immaginari diversi in chi prova a leggerla e immaginarla. Rovelli lo ha capito bene e tenta di indirizzare i possibili significati dei significanti, perché ama troppo la sua fisica teorica per vederla strapazzata dalla gente comune.
In un certo senso crea una tabella delle parole possibili, come Heisenberg crea la tabella dei numeri possibili. È onesto Rovelli, nel suo secondo capitolo descrive tre modi diversi di raccontarla, quelli su cui gli scienziati si confrontano e litigano, tre modi che comunque presuppongono a monte un dogma e l’autore si posiziona su quella che gli corrisponde di più, ma non dice il dogma che la caratterizza.

E qui vengo al punto di rottura con  l’autore. Rovelli, a mio modo di vedere fa un errore: fatica a riconoscere che ogni tentativo di descrizione della teoria, anche la mia,  e dunque anche la realtà, è per forza legata a una idea dogmatica interna che abbiamo del mondo. Ed è qui che io sento la mia strada divergere dalla sua. Io non ho alcuna resistenza a riconoscere che le mie teorie partano da un dogma, cioè da una verità che sento dentro  di me, ma che non è spiegabile a parole, da una esperienza mistica, mentre Rovelli si arrovella scusate il gioco di parole, sul modo possibile di eludere il dogma perché se no tutto il castello della scienza illuminista fondata su logos, razionalità e dimostrazione, crollerebbe.
Mi viene da aggiungere che, da buon maschio, vuole disegnare la mappa che porta al tesoro, quella unica possibile, anche se, a me,  la teoria dei quanti  dice proprio che ognuno potrà trovare il tesoro seguendo la sua di mappa. So bene che questa mia definizione farà arrabbiare l’universo maschile, ma da buona femminista interpreto la realtà proprio sotto una lente radicale. La teoria dei quanti a livello filosofico ammette senza se e senza ma che l’osservatore modifica la realtà, e dunque fa rientrare dalla porta quello che la storia ha sempre fatto uscire dalla finestra, e cioè che di un dato fatto storico ci possono essere versioni molto differenti.
Le donne lo sanno bene: troppa storia manca della loro interpretazione. Rovelli  sa che la filosofia,  la scienza e la storia devono dialogare, che le une senza l’altra perdono di senso,  si smaterializzano , diventano solo speculazioni astratte che poi di fatto non cambiano veramente il mondo,  o lo cambiano polarizzando le ideologie al punto da creare scontri violenti, ma resta nel solco della storia lineare. L’uomo (maschio, bianco possibilmente) deve potere trovare l’elemento ultimo per spiegare le leggi che governano la natura così da assicurare il tanto bramato ‘bene comune’.
So bene che la mia accusa di maschilismo a Rovelli suonerà cattiva e ingiusta. In realtà io non credo che lui lo sia in modo consapevole, ma in due frasi del suo libro proprio mi ha fatto arrabbiare: una a pagina 55, quando nella lista  delle cose che vuole indagare e studiare ci mette anche tutte le ragazze: “quando volevo provare tutto, leggere, sapere, vedere, andare: tutti i luoghi, tutti gli ambienti, tutte le ragazze, tutti i libri, tutte le musiche…” e una alla fine del libro quando scrive “sapere che la mia ragazza obbedisce alle leggi di Maxwell non mi aiuta a farla contenta” .
So bene che estrapolare le frasi dal  loro contesto  è operazione discutibile ma  la radice del mio disaccordo con Rovelli sta proprio lì, nello sguardo sul reale, così  differente che caratterizza il mio essere donna e il suo essere uomo.

Gli esseri umani da tempo immemore cercano di trovare il loro modo di stare al mondo in armonia con il cosmo, lo fanno cercando di comunicare le leggi che governano la natura, ma in occidente, da ormai troppo tempo, lo fanno per potere sottrarre alla natura il suo potere. Le leggi cambiano e si fanno rarefatte  nei momenti di grande cambiamento, proprio come in quello che stiamo vivendo,  e la natura, sapiente, le tiene costantemente in movimento vanificando il sogno onnipotente dell’uomo, quello di governare tutto.  Antigone insegna,  tra la legge e lo stare al mondo c’è uno spazio inalienabile, lo spazio della nostra coscienza. E’ ora che la fisica, la scienza e la filosofia   riconosca quello spazio, gli dia un nome, e accetti che è uno spazio concreto e invisibile allo stesso tempo,  con un potere incorruttibile e inaccessibile a livello generale.

PER CERTI VERSI
Il bosco

Ogni domenica Ferraraitalia ospita ‘Per certi versi’, angolo di poesia che presenta le liriche del professor Roberto Dall’Olio.
Per leggere tutte le altre poesie dell’autore, clicca
[Qui]

IL BOSCO

Quando la radura
In mezzo
Alle alte mura
Dei fusti alberati
Diventa un chiosco
Di luce
Il bosco
Tra fogli di neve
Mantiene le forme
Della notte gelata
Le orme dei rari ungulati
In cerca di calore
Di stretto contatto
Affetto loro
Le cerbiatte
I cervi i caprioli
E i nervi della luce che imbianca di latte
Il nostro sogno illeso
Dell’innocenza

In copertina: foto di Antonio Gardenghi

L’ACQUA IN BORSA? NO GRAZIE
firma l’appello contro la speculazione sull’acqua bene comune

APPELLO
Quotazione in Borsa dell’acqua: NO grazie

Noi sottoscritte/i ci uniamo alla denuncia del Relatore Speciale dell’ONU sul diritto all’acqua Pedro Arrojo-Agudo che l’11 dicembre scorso ha espresso grave preoccupazione alla notizia che l’acqua, come una qualsiasi altra merce, verrà scambiata nel mercato dei “futures” della Borsa di Wall Street. L’inizio della quotazione dell’acqua segna un prima e un dopo per questo bene indispensabile per la vita sulla Terra.
Si tratta di un passaggio epocale che apre alla speculazione dei grandi capitali e alla emarginazione di territori, popolazioni, piccoli agricoltori e piccole imprese ed è una grave minaccia ai diritti umani fondamentali.
L’acqua è già minacciata dall’incremento demografico, dal crescente consumo ed inquinamento dell’agricoltura su larga scala e della grande industria, dal surriscaldamento globale e dai relativi cambiamenti climatici. E’ una notizia scioccante per noi, criminale perché ucciderà soprattutto gli impoveriti nel mondo.
Secondo l’ONU già oggi un miliardo di persone non ha accesso all’acqua potabile e dai tre ai quattro miliardi ne dispongono in quantità insufficiente. Per questo già oggi ben otto milioni di esseri umani all’anno muoiono per malattie legate alla carenza di questo bene così prezioso.
Questa operazione speculativa renderà vana, nei fatti, la fondamentale risoluzione dell’Assemblea Generale dell’ONU del 2010 sul diritto universale all’acqua e, nel nostro paese, rappresenterà un ulteriore schiaffo al voto di 27 milioni di cittadine/i italiane/i che nel 2011 si espressero nel referendum dicendo che l’acqua doveva uscire dal mercato e che non si poteva fare profitto su questo bene.
Se oggi l’acqua può essere quotata in Borsa è perché da tempo è stata considerata merce, sottoposta ad una logica di profitto e la sua gestione privatizzata. Per invertire una volta per tutte la rotta, per mettere in sicurezza la risorsa acqua e difendere i diritti fondamentali delle cittadine/i
CHIEDIAMO al Governo italiano di:
• prendere posizione ufficialmente contro la quotazione dell’acqua in borsa;
• approvare la proposta di legge “Disposizioni in materia di gestione pubblica e partecipativa del ciclo integrale delle acque” (A. C. n. 52) in discussione presso la Commissione Ambiente, Territorio e Lavori Pubblici della Camera dei Deputati;
• sottrarre ad ARERA le competenze sul Servizio Idrico e di riportarle al Ministero dell’Ambiente;
• di investire per la riduzione drastica delle perdite nelle reti idriche;
• di salvaguardare il territorio attraverso investimenti contro il dissesto idrogeologico;
• impedire l’accaparramento delle fonti attraverso l’approvazione di concessioni di derivazione che garantiscano il principio di solidarietà e la tutela degli equilibri degli ecosistemi fluviali.
#acquainborsaNOgrazie

Per firmare l’appello, clicca a questo link [Qui]

CONTATORE: alle ore 23,00 del 7 febbraio avevano firmato in 8.703

FORUM ITALIANO MOVIMENTI PER L’ACQUA

CONTRO VERSO
L’uomo polipo

La segnalazione della ragazzina era arrivata dal padre ai servizi sociali e da questi alla procura e poi al tribunale per i minorenni. Il padre, unico genitore presente, ha chiesto aiuto preoccupato. 13 anni, incinta nella relazione con un maggiorenne che l’assorbiva completamente, la ragazzina aveva rinunciato gradualmente a tutta la sua vita – dalla scuola agli svaghi – per aderire al suo “amore”.

L’uomo polipo

Con tante braccia
mi fa felice.
Vuole che taccia
quando mi dice
che la sua vita
senza di me
è ormai finita.
Ecco chi è:

È l’uomo polipo
sempre romantico
nato a Posillipo.
È telepatico.
Svelto mi anticipa
nei desideri
e mi addomestica
anche i pensieri.

Lui mi guarisce
dal raffreddore.
Non mi ferisce.
È il mio signore.
Sa soddisfare
i miei bisogni
sa interpretare
tutti i miei sogni.

Non ho più sete
fame o fatica.
Nella sua rete
in men che si dica
sono caduta,
caduta in pieno.
Sono perduta
ma soffro meno.

Lui mi aderisce,
sì, come un guanto
e m’impedisce
di chiedermi tanto.

Ho 13 anni
lui più di venti
non faccio danni
e odio i commenti.

Niente più amici
niente lavoro
siamo felici
senza denaro.
Tanto alla spesa
pensa papà
che ormai alla resa
mi lascia qua

Non vado a scuola
ma faccio finta.
Il tempo vola.
Io resto incinta.

È l’uomo polipo
mi si aggroviglia.
Vivo a sproposito.
Nasce una figlia

Ho 13 anni
già tanti affanni
di questa figlia
cosa sarà?
E questo amore
non se ne va.
Ci penso ancora
in comunità.
È l’uomo polipo.
Soffoco già.

La paura del vuoto può ben essere attutita da una relazione d’amore. A un qualche livello probabilmente tutti lo sappiamo. Se questo accade nella forma appena vista, però, si capisce che l’amore è piuttosto dipendenza, rinuncia, blocco nella crescita personale anziché stimolo a diventare se stessi. Non era facile, per la ragazzina, riconoscere la trappola nella quale gongolava contenta.

CONTRO VERSO, la rubrica di Elena Buccoliero con le filastrocche all’incontrario, le rime bambine destinate agli adulti, torna su Ferraraitalia  il venerdì. Per leggere i numeri precedenti clicca [Qui]

PAROLE A CAPO / Francesco D’Angiò:
“Posso guardare dove semina il buio” e altre poesie

“La lettura della poesia non è mai un atto razionale, ma un incontro quasi mistico col suo ritmo segreto, con la sua vita rarefatta.”
(Giorgio Barberi-Squarotti)

I ballerini

Una solitudine a buon prezzo
ci lascia scorrere come falene
accecate dai fari,
conoscendo pressappoco
la distanza tra la luce e la sorte.
Così elargiamo malinconie
che rigano dritte fino alla chiusura
del bandoneón,
con la piaga della carezza
abbarbicata al bacio d’addio
che tornerà a trovarci.

 

Un pezzo alla volta 

Uno sull’altro,
facendo caparbie capriole
sulle sabbie mobili di un volo saturo.
Pennellate di vissuto
e dozzine di vite rastrellate
il giorno che ci ostinammo a pensare
che un pezzo alla volta,
non saremmo mai morti.
L’ambizione ci ha baciato in fronte,
fino a farci espandere tra un parco giochi
ed un terrapieno di santi annunciati,
malmenati per i pochi posti a sedere,
e da chi ci spiega che non ce n’è
per nessuno,
che sono finite le scorte di zolfo
e l’odore che sentiamo non è più
di nessun corpo.
Marginale resta quella storia sull’anima
che pare non avesse nessuna intenzione
di essere così importante.

 

Posso guardare dove semina il buio

Mi faccio di fianco
a ciò che vorrei essere,
e nella pelle dei precipizi
osservo tentato dal vortice
che mi assorbe,
d’improvviso scompare
l’equilibrio della fine.
A ciocche di giorni
si fanno cadute di sole
mentre mi allungo nel corpo
che già sconfina,
so stare male così bene
che mi affitto per i giorni
di festa mancati
per chi li cerca e per chi li ha donati,
faccio gli ultimi bagagli e non vado.
Ho disfatto la schiena consumata
di muro.

Francesco D’Angiò è nato a San Vitaliano (Na) nel 1968, è sposato e risiede a Matera.
Ha pubblicato recentemente, nel mese di ottobre, un romanzo dal titolo “Lo sconosciuto” edito dalla Planet Book. In precedenza aveva esordito nel 1997 con la pubblicazione del racconto “Siamo tutti normali”. E’ presente in alcune antologie poetiche.

La rubrica di poesia Parole a capo curata da Gian Paolo Benini e Pier Luigi Guerrini esce regolarmente ogni giovedì mattina su Ferraraitalia. Per leggere i numeri precedenti clicca [Qui]

Gino Ravenna: un olimpionico ad Auschwitz

di Mirko Rimessi

Sono tante, troppe per essere ricordate un solo giorno all’anno, le storie che i testimoni della Shoah ci hanno raccontato sugli orrori dell’olocausto. Storie di persone che avevano, prima del viaggio della morte, vite di ogni tipo, inserite nella società ad ogni livello. Non sono stati quindi immuni da questi viaggi illustri sportivi, coinvolti per religione o convinzioni politiche, iniziati in maniera più massiccia per il nostro paese dopo l’8 settembre 1943.

Anche la nostra Associazione Sportiva, nel suo piccolo ma grazie alla sua lunga storia, ha dovuto fare i conti con questo nero capitolo della Storia dell’Uomo e per celebrare il Giorno della Memoria, ricorrenza internazionale celebrata il 27 gennaio di ogni anno come giornata per commemorare le vittime dell’Olocausto, vogliamo raccontarvi una di queste storie. Non quella più famosa, ma a buon fine, che coinvolse Orlando Polmonari, deportato in Germania come punizione per aver dato uno schiaffo a un ufficiale tedesco, ma quella più triste che coinvolge un altro Olimpionico della Palestra Ginnastica Ferrara: Gino Ravenna.

Gino Ravenna (Ferrara 1889-Auschwitz 1944) è stato uno dei 29 campioni della Palestra Ginnastica Ferrara incaricati di rappresentare l’Italia nel concorso generale di ginnastica artistica a squadre di Londra 1908. La PGF infatti, dopo aver vinto le selezioni nazionali, aveva ricevuto dalla FGI questo prestigioso compito, cogliendo nella città britannica un lusinghiero 6° posto con lodi per il metodo dimostrato, e gli atleti furono riabbracciati dalla Città di Ferrara con ogni onore al loro rientro in patria.

La passione sportiva caratterizzò tutta la vita di Gino che, rientrato dalla I Guerra Mondiale, si dedicò al commercio. Tutta la famiglia Ravenna era conosciuta a Ferrara e uno dei 5 fratelli di Gino, Renzo (anche lui, da giovane, Palestrino), fu Podestà di Ferrara dal ’26 al ’38, uno dei due soli podestà fascisti di origini ebraiche in Italia prima dell’introduzione delle leggi razziali. A parte la rinuncia alla carica del fratello, le leggi razziali non causarono troppi problemi per l’attività commerciale e nemmeno nei rapporti sociali, benché anche Gino fosse stato escluso, come tutti, da associazioni, circoli e, naturalmente, dal partito fascista. La svolta fu invece rappresentata, come per la quasi totalità degli Ebrei italiani, con l’8 settembre 1943. Dapprima Gino si rifugiò ad Albarea per continuare a dirigere da lì l’attività, ma l’arresto del figlio Gegio l’8 ottobre fece precipitare gli eventi. Dopo aver provato invano di farlo scarcerare, la famiglia tentò la fuga in Svizzera ma, arrestati a Domodossola, finirono prima nel carcere di via Piangipane, per poi essere condotti, l’11 febbraio 1944, al Tempio di via Mazzini 95, trasformato in campo di concentramento provvisorio per pochi giorni, in attesa che il nuovo rastrellamento degli ebrei ferraresi si tramutasse nel trasferimento a Fossoli. La permanenza nel campo modenese fu breve e la storia diventa tristemente uguale a quella di altre migliaia di persone: il viaggio, durato quattro giorni (dal 22 al 26 febbraio), per Auschwitz e gli eventi che portarono alla morte di quasi tutta la famiglia di Gino: si salvò infatti solo il figlio Gegio, liberato dai russi il 27 gennaio 1945.

È da Gegio quindi che si apprendono i fatti successi in Polonia, pochi per la verità, dove, quello che fu un Olimpionico acclamato per la gloria portata al nostro paese, fu trasformato in un numero, il 174.541. Gino si era salvato dalla prima “selezione” ed era riuscito a rimanere accanto al figlio, aveva lavorato per un mese e mezzo circa, fino a quando le forze lo avevano assistito. Per alcuni giorni rimase nella baracca ma al terzo giorno Gegio non lo trovò più. Un deportato che parlava italiano gli riferì che da poco Gino era stato prelevato. Prima di lasciare la baracca gli aveva raccomandato di dire al figlio che lo salutava e “di tener duro”. Solo che in quel terzo giorno il camino aveva ricominciato a fumare.

Nella foto in copertina la cartolina del “Trionfale ritorno da Londa 1908 della Palestra Ginnastica Ferrara” . Sopra, l’ingresso della Sinagoga di Via Mazzini con la lapide commemorativa di quanti non fecero ritorno, con Gino e gli altri membri della famiglia Ravenna.

Questo breve racconto è stato reso possibile grazie alla documentazione fornita dal nipote Michele Ravenna, ricostruito da varie fonti ed in particolar modo il libro La Famiglia Ravenna: 1943-1945 di Paolo Ravenna, Ferrara, Corbo Editore.

“Son Ebreo ed ebreo rimarrò…”, una poesia scritta da František Bass, piccolo-grande poeta, quando aveva 11 anni, nel campo di Terezin

di Maria Cristina Nascosi

Son Ebreo… è una poesia scritta da František Bass, piccolo-grande poeta, quando aveva 11 anni, in campo di concentramento.

Era nato il 4 settembre 1930, a Brno, oggi seconda città dopo Praga, della Repubblica Ceca e capitale storica dell’antica e cólta regione della Moravia.
Fu veramente un picco-grande poeta: le sue liriche, tradotte in inglese da Edith Pargeretova, son opere di spessore incredibile; il dolore, la sofferenza, specie in un bambino, son esperienze che maturano, rendono adulti anzitempo e Franta – questo vezzeggiativo fu il suo pseudonimo autoriale – le fermò, per sempre, sulla pagina scritta, piccoli capolavori di umanità negata da una delle più atroci prove che l’uomo abbia fatto subire ad un ‘altro’ uomo.
Franta fu condotto a Terezin, (Theresienstadt), il campo di concentramento dei bambini, il 2 dicembre 1941.
Quel campo, il ‘fiore all’occhiello’ di Hitler, fu il gioiello della sua mostruosa e sapiente propaganda: vi si giraron filmati, venivano fatte regolarmente visite da personaggi di spicco, per mostrare loro che il nazismo creava talenti, esprimeva cultura, non morte: in realtà i bimbi venivano poi uccisi – ne furono internati 15.000, si salvarono in 100 !! – prima del compimento del quattordicesimo anno di età.
Ecco perché il piccolo Franta, che ormai aveva oltrepassato, seppur da poco quell’età fatidica, venne condotto ad Auschwitz il 28 ottobre 1944 dove morì dopo soli 2 giorni, otto mesi prima della fine del Secondo conflitto mondiale.
La sua poesia è conservata in una bacheca di vetro nella Sinagoga vecchia di Praga, una delle culle della civiltà mitteleuropea, la capitale della Repubblica Ceca che qualche tempo fa, durante un viaggio, ebbi modo di leggere, per caso.
Mi colpii tanto e volli tradurla per proporla proprio per il Giorno della Memoria di quest’anno.
Grande è il potere di quelle parole, che si potrebbero trasporre in ogni lingua e dialetto del mondo: dietro ognuna di esse, frutto di orgogliosa identità da difendere dalla criminale damnatio memoriae, ci sono un significante ed un significato dal sapore universale.

 

František Franta Bass

Son Ebreo

Son Ebreo ed Ebreo rimarrò.
Anche se morissi di fame,
mai mi sottometterei ad alcuna nazione,
combatterò sempre
per la mia nazione, sul mio onore.
Non mi vergognerò mai
della mia nazione, sul mio onore.
Son fiero della mia nazione,
una nazione più che mai degna d’onore.
Sempre sarò oppresso,
e ancora rivivrò, per sempre.