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Nello scarno dibattito che il 25 Aprile dedica alla ‘Liberazione dal colonialismo’ si affrontano due convinzioni stereotipate e contrapposte.
Numero uno: gli italiani erano brava gente che hanno portato la civiltà e le strade in Africa ma non hanno potuto compiere l’opera perché hanno perso la seconda mondiale.
Numero due: gli italiani hanno compiuto solo crimini di guerra trucidando e seviziando i civili senza pietà durante tutto il loro dominio.
Forse non ha senso rispondere alla domanda se gli italiani siano stati ‘brava gente’ o se abbiano compiuto solo nefandezze. Sarebbe più opportuno chiedersi cosa sia rimasto nella memoria delle popolazioni africane colonizzate dagli italiani o se, dove e come, l’atteggiamento coloniale e razzista si presenti e manifesti ancora e tutt’ora nella nostra società.

“La Francia si è spaccata intorno all’Algeria, nel Regno Unito c’è stato un enorme dibattito intorno all’indipendenza dell’India nel 1947”, sostiene Nicola Labanca, autore del libro Oltremare: Storia dell’espansione coloniale italiana (Il Mulino, 2007):”Non si può paragonare il colonialismo francese e britannico con quello italiano. Il nostro è stato una piccola cosa rispetto anche ai grandi imperi spagnoli e portoghesi. Una piccola cosa che produceva piccoli guadagni che interessava una piccola parte del Paese e quindi come una piccola cosa è anche ragionevole che se ne parli meno”.
L’aspetto quantitativo del problema che ridurrebbe l’Italia a sotto-potenza coloniale se posta a confronto con le grandi potenze coloniali europee, non collima con l’aspetto qualitativo, dal momento che la forma di colonialismo interpretata dall’ideologia fascista può vantare primati assoluti e metodologie criminali di eccellenza che hanno tristemente fatto scuola e che continuano ad essere tragicamente attuali.
Proprio per queste ragioni, il colonialismo italiano dovrebbe essere studiato e analizzato come una vera e propria sindrome da porre all’origine di una serie di fatti  difficili da giudicare mancando informazioni e approfondimenti sia nel dibattito pubblico, che in quello politico, che in quello scolastico-universitario dove si è iniziato a parlarne solo negli ultimi anni grazie a una giovane generazione di scrittori che hanno affrontato il tema come Gabriella Ghermandi, Francesca Melandri, Antar Marincola, il collettivo Wu Ming 2 e Igiaba Scego, una delle più importanti scrittrici italiane di origine somala, che nella presentazione del suo romanzo La linea del colore: Il gran tour di Lafanu Brown (Bompiani, 2020) ha ricordato : “Da piccola e adolescente ero molto consapevole di cosa fosse il colonialismo. Me lo raccontava mio padre, che oggi non c’è più. Sognava di fare l’astronomo e a scuola in Somalia, vestito da Balilla, cantava le canzoni coloniali, ma dopo la quarta elementare gli è stato impedito di studiare. Ostacolare l’apprendimento di intere generazioni è stato uno dei crimini peggiori del colonialismo”.

Delle quattro colonie, quella che gli italiani conoscono di più è l’Etiopia, anche solo per il fatto che la sua conquista, che si svolse tra il 3 ottobre 1935 e il 5 maggio 1936 – che fu incompleta e che durò solamente cinque anni- rappresenta l’apogeo del fascismo ed è solo così che viene presentata, in un’unica paginetta, nei manuali scolastici.
Nonostante il ruolo minore dell’Italia come potenza coloniale, fu un’impresa gigantesca dal punto di vista umano, ideologico e logistico e fu una guerra tragicamente all’avanguardia per essere il 1935, perché il regime fascista usò tutta la tecnologia bellica, oltre che mediatica, più avanzata dell’epoca: carri armati, aviazione militare, bombardamenti con gas nervini. Scrive Nicola Labanca “Nessuna invasione britannica, francese o portoghese in Africa ha mai visto mezzo milione di soldati impiegati contemporaneamente come nel caso dell’invasione dell’Etiopia, dove c’erano 500.000 italiani al fronte”.

Per poter dispiegare una tale potenza di fuoco era necessario anche costruire infrastrutture, strade, ponti, cioè quell’insieme di grandi opere proclamate pubbliche e civili che in realtà servirono per far marciare le truppe e mantenere il dominio militare.
Per questo il regime fece trasferire in Africa Orientale Italiana (Eritrea-Etiopia-Somalia) tra il 1935 e il 1941 circa 200.000 operai italiani.
In gran parte erano braccianti disoccupati delle regioni del Meridione e del Nord Est  o borghesi arruolatisi spontaneamente nella Milizia Volontaria che decisero di far fortuna nel nuovo impero. Tutti però si tennero ben lontano dal pericoloso entroterra. Si stanziarono nei centri urbani principali, dove si trovava il 90% della comunità italiana svolgendo mestieri tipici al servizio degli altri italiani: negozianti, albergatori, ristoratori, locandieri, meccanici, camionisti.

Torino, targa di piazza Adua, trasformata in “piazza vittime del colonialismo italiano”

Anche la repressione della resistenza in Abissinia condotta dal Maresciallo Rodolfo Graziani, dopo aver ottenuto fama e onore in seguito alle gesta di ‘pacificazione’ della Libia, presenta aspetti di avanguardia che culminarono nel maggior eccidio di religiosi cristiani mai avvenuto in terra africana e ricordato come “l’olocausto nero”.
E’ da rispettare nei ricordi altrui e da iscrivere nella nostra memoria, il significato che continua ad assumere la data del calendario etiope Yekatit 12 corrispondente al 19 Febbraio, Giornata di Lutto Nazionale celebrata nella Repubblica Federale Democratica di Etiopia in memoria delle vittime dei massari compiuti dal colonialismo italiano nel 1936, come altra metà e faccia oscura del 25 Aprile 1945 italiano.
(continua)

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Franco Ferioli, l’inviato di Ferraraitalia nel tempo e nello spazio, è autore e curatore di Controinformazione, una nuova rubrica. C’è un’altra storia e un’altra geografia, i fatti e misfatti dell’Occidente che i media preferiscono tacere, che non conosciamo o che preferiamo dimenticare. CONTROINFORMAZIONE  ci racconta senza censure l’altra faccia della luna: per leggere tutti gli articoli della rubrica clicca [Qui]

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Franco Ferioli

Ai lettori di Ferraraitalia va subito detto che mi chiamo, mi chiamano e rispondo in vari modi selezionabili o interscambiabili a piacimento o per necessità: Franco Ferioli Mirandola. In virtù ad una vecchia pratica anagrafica in uso negli anni Sessanta, ho altri due nomi in più e in forza ad una usanza della mia terra ho in più anche un nomignolo e un soprannome. Ma tranquilli: anche in questi casi sono sempre io con qualche io in più: Enk Frenki Franco Paolo Duilio Ferioli Mirandola. Ecco fatto, mi sono presentato. Ciao a tutti, questo sono io, quindi quanti io ci sono in me? tanti quanti i mondi dell’autore che trova spazio in questo spazio? Se nelle ultime tre righe dovessi descrivere come mi sento a essere quello che sono quando vivo, viaggio, scrivo o leggo…direi così, sempre senza smettere di esagerare: “Io sono questo eterno assente da sé stesso che procede sempre accanto al suo proprio cammino…e che reclama il diritto all’orgogliosa esaltazione di sé stesso”.

Ogni giorno politici, sociologi economisti citano un fantomatico “Paese Reale”. Per loro è una cosa che conta poco o niente, che corrisponde al “piano terra”, alla massa, alla gente comune. Così il Paese Reale è solo nebbia mediatica, un’entità demografica a cui rivolgersi in tempo di elezioni.
Ma di cosa e di chi è fatto veramente il Paese Reale? Se ci pensi un attimo, il Paese Reale siamo Noi, siamo Noi presi Uno a Uno.  L’artista polesano Piermaria Romani  si è messo in strada e ha pensato a una specie di censimento. Ha incontrato di persona e illustrato il Paese Reale. Centinaia di ritratti e centinaia di storie.
(Cliccare sul ritratto e ingrandire l’immagine per leggere il testo)

PAESE REALE

di Piermaria Romani

 

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