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La fine della casa

 

ROMA – Le riflessioni che seguono sono nate a margine del caso della piccola Antonella Sicomoro, la quale ha perduto la vita lo scorso 20 gennaio a dieci anni, in casa sua a Palermo, per le conseguenze di una sfida nella quale era stata coinvolta attraverso la frequentazione dei social.
Eventi come questo danno l’impressione, soprattutto a chi non è più giovanissimo, che si sia instaurato un nuovo ordine del possibile, purtroppo spaventoso. Ma è davvero così?

Che vi siano bambini vittime di giochi tra coetanei non è purtroppo una novità. Anche le case sono da sempre luoghi di oscuri pericoli per i più piccoli. Dove sarebbe, dunque, la discontinuità? Non sarà che, come facevano i nostri anziani apparendoci per questo tanto bizzarri, cominciamo a trovare il presente così solo perché lo osserviamo ormai da una certa lontananza?
La risposta che si vorrebbe qui argomentare è: no, la discontinuità c’è. E ha radici potenti e lontane.
Lontane quanto? Quanto l’inizio della trasformazione delle culture umane da nomadi a sedentarie. La sedentarizzazione, infatti, produce una nuova percezione dello spazio che si ridefinisce nei termini di interno alla sfera antropizzata (infield) e di esterno ad essa (outfield). Ovviamente, nel cuore dell’area interna c’è il villaggio e, nel villaggio, le abitazioni.

Inizia così, oltre diecimila anni fa, la lunga storia – architettonica e simbolica – della casa, attraverso la quale essa diventerà, molti secoli più tardi, espressione della coesione della famiglia come nucleo autonomo.
Questa qualificazione antropologica dello spazio della casa come luogo di intimità ‘inviolabile’ – come tra l’altro sancito dalla Costituzione – conduce al delinearsi della sua essenza come quella di un argine contrapposto alla potenza intrusiva del mondo. Di conseguenza, come quella di una dimensione, essenzialmente appropriata all’esistenza umana, di latenza sociale e, dunque, di agio esistenziale. In conclusione, come rileva Bachelard, dello spazio essenzialmente più poetico del nostro mondo.

Pochi anni dopo l’esplorazione di Bachelard (nel 1957) della casa come spazio poetico, Guy Debord pone in evidenza i tratti di fondo di un potente processo di trasformazione in atto nella nostra società: essa diviene società dello spettacolo. Ciò avviene quando la sfera dello ‘spettacolo esonda dalla sua collocazione tradizionale nel contesto della vita sociale e ne diviene la dimensione fondamentale: quella di un “rapporto sociale tra individui mediato dalle immagini”, sì che “la realtà sorge nello spettacolo”.
Questa inversione del rapporto genetico tra vita reale e spettacolo, naturalmente legata alla diffusione delle tecnologie, colonizza progressivamente gli spazi della nostra esistenza, in senso architettonico, fisico e ontologico, ovvero relativo alla determinazione di ciò che siamo e di ciò che è.
Debord (morto suicida nel 1993) aveva certamente presente l’insediamento fisico degli schermi televisivi – vere e proprie finestre sulla dimensione dello spettacolo – in ogni appartamento, e talvolta in ogni sua stanza. Si tratta, anche qui, di un vero e proprio capovolgimento delle prospettive abitative, nel quale lo sguardo umano viene radicalmente captato nella dimensione dello spettacolo, al punto che esso perde interesse per ciò che avviene nella sfera, ormai arcaica, del circostante.

Gli ultimi anni hanno portato una radicalizzazione del fenomeno, al punto che altre finestre si sono aperte direttamente sui nostri stessi corpi, in modo tale che l’intero intreccio delle relazioni sociali si riflette costantemente negli schermi degli smartphone.
Inoltre già da tempo è data a ciascuno di noi la possibilità di non essere, in questo capovolgimento delle dimensioni, soltanto “spettatori”, bensì di poter divenire in ogni istante detentori di un infinitesimale pixel dello schermo globale. È, appunto, la dimensione dei social e, in particolare, di quello sul quale si è perduta la piccola Antonella: Tik Tok.

Questo, naturalmente, non significa in alcun modo che la quotidianità colonizzi all’inverso la dimensione dello spettacolo, ripristinando in qualche modo un equilibrio. Al contrario: significa che non soltanto la quotidianità viene vissuta e misurata nella prospettiva della sua spettacolarità, ma anche che viene progettata in funzione di essa.
Nella percezione delle attività, dei luoghi, delle persone, insomma, le esigenze del far spettacolo di sé possono prevalere su quelle più proprie.

Quella dello spettacolo, diceva dunque Debord, è una nuova forma di società. Ma questa forma non si arresta affatto sulla soglia della nostra casa. Non rispetta minimamente il vincolo dell’intimità. Abita con noi le nostre stanze. Veste i nostri corpi.
Ecco, dunque, che paradossalmente godiamo ormai di maggiore intimità quando camminiamo per le strade che quando sediamo sul nostro divano. La ragione è presto detta: le strade sono un luogo di comunità, nel quale non possiamo non mantenere un cordone ombelicale con l’orizzonte arcaico della realtà e dei suoi accidenti; nelle nostre case, se aperte ormai solo sugli schermi-finestre, quel cordone ombelicale può finalmente essere radicalmente reciso.

È precisamente ciò che già da tempo si può constatare in alcuni di coloro che – per età, per condizioni fisiche o per altre ragioni – consumano perlopiù o esclusivamente il loro tempo tra le pareti domestiche. È, inoltre, una delle possibili prospettive dalle quali riconsiderare la fenomenologia del lockdown, che va colto anche come l’allestimento di una immensa platea forzata per la spettacolarizzazione della pandemia.

I nostri ‘appartamenti’, dunque, non sono più, in essenza, luoghi nei quali appartarci dalle costrizioni e dalle infestazioni della dimensione sociale, bensì dei contenitori nei quali quella dimensione, nella forma estrema dello spettacolo, si apparta con noi, ci assimila e ci aliena. Le ‘mura’ domestiche, lungi dall’essere ormai un argine alla violazione della nostra intimità, costituiscono la segreta nella quale essa viene definitivamente annichilita, ovvero estromessa dall’essere.

Nel chiuso di queste stanze, nessuna rete relazionale – compresa quella della famiglia –  ha essenzialmente diritto di intromettersi, di accompagnarci, di proteggerci, come evidentemente è accaduto nel tragico caso della piccola di Palermo.
È la fine della ‘casa’. Un mutamento epocale nel quale si compiono diecimila anni di storia.
Nei nuoviappartamenti, in coerenza con l’evoluzione della dimensione dello spettacolo, non soltanto siamo strutturalmente esposti alle sue liturgie, ma anche tenuti a esporci continuamente – grazie al pixel di schermo globale cui veniamo assegnati – allo sguardo osceno della dominazione che ci impone di imbellettarci, di sculettare, di fare simpaticamente il broncio o di stringerci, bambini, una cinta al collo.

Così sembra essersene andata la vita della piccola Antonella Sicomoro. Ma siamo solo all’inizio.

Attualmente Giuseppe Nuccitelli insegna filosofia e scienze umane nella scuola media superiore pubblica. Ha collaborato con Università, con Enti di Ricerca, con la RAI e con altri soggetti. È autore di varie pubblicazioni nell’orizzonte della filosofia e della linguistica educativa. È giornalista pubblicista.

Covid-19: no ai vaccini per tutti, sì ai profitti per pochi

Quante volte in questi mesi, soprattutto all’esordio dell’epidemia da Covid-19, abbiamo detto o ci siamo sentiti dire che questa sarebbe stata un’occasione storica per cambiare i paradigmi dell’economia e del rapporto con l’ambiente? Tante. Quante volte abbiamo declamato “nulla sarà più come prima” , intendendo che il mondo avrebbe utilizzato la moderna peste per cambiare le priorità economiche e sociali in senso solidale? Tante. Naturalmente era un auspicio. Il dato di fatto, per adesso, è che tutto è come prima, peggio di prima.

L’eurodeputata Marion Aubry ha denunciato, in un discorso diventato virale, che l’Unione Europea si è piegata agli interessi delle multinazionali del farmaco, firmando protocolli segreti e penalizzanti, con il risultato di non avere a disposizione sufficienti dosi di vaccino per far fronte alle necessità della popolazione, per la semplice ragione che le aziende titolari dei brevetti non hanno una sufficiente capacità produttiva per far fronte, da sole, alla domanda dei farmaci che immunizzano dal Coronavirus. Aubry ha indicato una strada: “L’unico modo per recuperare il tempo perso è rilasciare il brevetto dei vaccini così che chiunque ne abbia la capacità possa produrlo”.

Il brevetto è il titolo in forza del quale al titolare viene conferito un diritto esclusivo di sfruttamento della sua invenzione, in un territorio e per un periodo determinato, e che consente di impedire ad altri di produrre, vendere o utilizzare l’invenzione senza autorizzazione. In una situazione quale quella attuale, in cui i brevetti che insistono sui farmaci vaccinali anti-Covid non sono liberalizzati, governa la legge del denaro: chi ha più soldi si accaparra dosi del vaccino prima degli altri e in quantità maggiore, perchè chi detiene il brevetto vende la sua invenzione al miglior offerente. Se ci trovassimo in una banale situazione commerciale, la legge privatistica del più forte prevarrebbe senza troppe storie. Peccato che non ci troviamo in una banale situazione commerciale, ma dentro una epidemia mondiale: da una parte abbiamo le multinazionali del farmaco, che vogliono massimizzare il guadagno privato (soldi) loro derivante dall’aver realizzato il vaccino che salverà la vita a milioni di persone; dall’altra abbiamo gli Stati sovrani, che dovrebbero massimizzare il vantaggio pubblico (salute) di immunizzare i loro cittadini. Ebbene: come ci è capitato altre volte di notare, questa vicenda mostra in maniera didascalica chi è che comanda oggi nel mondo: non gli stati sovrani, ma alcune multinazionali private.

Non è la prima volta che succede. Nelson Mandela condusse una battaglia contro il WTO (L’Organizzazione Mondiale del Commercio), perchè il 35% del suo popolo (in particolare donne) tra i 15 e i 40 anni era sieropositivo. Diede mandato al suo Congresso di approvare una legge che permettesse ad aziende sudafricane di produrre farmaci contro l’Aids senza chiedere l’ autorizzazione ai titolari dei brevetti d’invenzione, che peraltro l’avevano negata, così come avevano rifiutato qualunque accordo economico col Sudafrica per la semplice, feroce ragione che pretendevano molti più soldi di quelli che Mandela poteva permettersi. Mandela subì la denuncia delle multinazionali senza arrestare la produzione indigena del farmaco, tenne duro fino a che la denuncia si trasformò prima in una trattativa, poi in una norma, la clausola di garanzia sulle licenze obbligatorie, che stabilisce che in una situazione di pandemia e difficoltà economica i Paesi hanno l’autorizzazione a produrre direttamente i farmaci salvavita, scavalcando il brevetto.

Lo scorso 11 marzo Sud Africa e India hanno chiesto all’Organizzazione mondiale per il commercio di valutare la sospensione dei brevetti sui vaccini che impediscono ai due Paesi di produrre su scala mondiale le dosi anti-Covid. Un’approvazione dell’istanza consentirebbe di contenere ovunque l’epidemia realizzando le necessarie dosi di vaccino in tempi relativamente brevi e a costi accessibili per tutti. Ma molti Stati si sono schierati contro questa richiesta: Australia, Brasile, Canada, Giappone,  Norvegia, Regno Unito, Svizzera, Stati Uniti e Unione Europea.

Nel frattempo Mario Draghi ha bloccato l’esportazione in Australia di 250.000 dosi di vaccino AstraZeneca prodotto in uno stabilimento di Anagni. Le dosi sono state redistribuite tra i Paesi Ue. L’ 8 marzo gli Stati Uniti hanno annunciato per bocca del responsabile nordamericano della campagna vaccinale di Biden che tutti i vaccini prodotti negli Usa rimarranno negli Usa. Prima gli americani, prima gli europei, prima gli italiani. Siamo ad un paradossale sovranismo senza sovranità: il sovranismo è quello dei paesi più “avanzati”, che hanno talmente poche dosi da bloccare ogni forma di condivisione delle stesse col resto del mondo. La sovranità è quella delle multinazionali private, che hanno stipulato accordi vantaggiosi per loro e capestro per gli Stati. L’ annuncio di Draghi dell’avvio di una produzione su suolo italiano del vaccino anti-Covid non inverte la direzione, anzi la conferma, trattandosi di un contratto stipulato con una azienda detentrice del brevetto (che quindi lucrerà dalla concessione del medesimo).

Infine abbiamo una sovranità senza sovranismo, orgogliosa e (quasi) solitaria. La sovranità è quella di Cuba, che con una propria tecnologia ed un proprio know-how, del tutto autonomi e diversi da quelli delle grandi aziende della cosiddetta Big Pharma, sta sperimentando alcuni vaccini da somministrare prima alla sua popolazione (e ci mancherebbe altro, per una nazione che fa ancora i conti con l’embargo americano), poi al resto del mondo e in forma gratuita. Non vivo a Cuba, non ci sono mai stato, non la conosco e sono quindi altrettanto lontano dall’idea di considerarla un paese perfetto o una dittatura che affama la sua gente. Però credo di poter affermare che ci sono eventi nodali, nella storia del mondo, che fanno capire quali sono i valori che una nazione mette in cima alla sua scala. In cima alla scala dei valori di Cuba c’è una sanità pubblica e all’avanguardia. L’Unione Europea e gli Stati Uniti non hanno investito sull’idea di una sanità pubblica e a portata di tutti, e pensano coi soldi di comprarsi tutto quello che serve, ma che non hanno coltivato in termini universalistici. Peccato che non abbiano nemmeno la forza di liberalizzare i brevetti, dimostrando che il potere sta tutto da un’altra parte, in mani private.

 

PER CERTI VERSI
Lei la Primula

Ogni domenica Ferraraitalia ospita ‘Per certi versi’, angolo di poesia che presenta le liriche del professor Roberto Dall’Olio.
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LEI LA PRIMULA

Ti coglierò
Mai ti coglierò
Né mai ti ho colta
Nonostante
Il desiderio
Di prenderti
Sempre
Nel mio pugno
No mai
Passo da te
Per un saluto
Un profumo
Il tuo colore
E poi
Poi non lo so
Gli occhi chiusi
Di questo tuo
Bagliore

PRESTO DI MATTINA
Passare dall’altra parte con cuore non incerto

 

«Per fede in qualcuno che non conosceva…
Poteva passare da un luogo familiare
A un posto mai attraversato
Poteva contemplare il cammino con cuore non incerto [with unpuzzled heart
(Emily Dikinson).

Come per Abramo, l’arte di passare dall’altra parte è la fede: un fatto che quando accade stupisce e spaventa al contempo. La compongono l’invocazione e l’attesa che come tessere di un puzzle sono in cerca di corrispondenze, finché a poco a poco se ne scopre la figura, e il loro cammino risulta sempre meno incerto.

Come il linguaggio ‒ che pone fuori di noi e al tempo stesso ci riporta dentro, un andare incontro ed essere incontrati, che chiede un distacco attraverso una frattura ‒ così la fede è frattura instauratrice, generativa di un legame, di un reciproco dirsi e riconoscersi. Un incamminarsi che ogni volta avvicina senza perdere l’identità di ciascuno, unisce senza confondere, come gli sguardi che s’incrociano senza smarrirsi l’uno nell’altro. Nella fede la parola e la stessa libertà si nascondono e si ritrovano nelle parole e nella libertà dell’altro, attuandosi ogni volta nella forma di una donazione, da cui sgorga una fiducia sempre meno incerta. Solo affidandosi, infatti, la libertà, trascinata fuori dalla parola, è situata alla presenza dell’altro; e al tempo stesso essa viene nuovamente posta di fronte a se stessa, su un confine, quello di un linguaggio che si fa prassi, di pratiche comunitarie che si fanno parole, racconto. La fede è una libertà che si affida camminando e raccontando.

Ne è un esempio emblematico il Vaticano II, il concilio in cui la chiesa si è rimessa in strada, rinnovando il suo atto di fede come amore e come speranza di fronte al mondo contemporaneo. Con quest’evento essa è passata dall’altra parte, creando un varco nei i bastioni, non senza il turbamento di molti, ed ha cercato di vedersi con gli occhi degli altri, donne e uomini del proprio tempo, provando ad «amare l’uomo per amare Dio» (Paolo VI) perché Dio aveva i loro occhi. Camminando tra la gente, in dialogo con le varie culture e religioni, essa ha trapassato con il suo sguardo il loro, rivelando con ciò il suo volto missionario ‒ quello del Cristo, lumen gentium ‒ tornato a risplendere sul suo volto lunare: lei che è sorella della luna ed entrambe lo specchio del sole quando la terra si adombra. L’evento conciliare fu il ‘fatto’ che manifestò e in cui si riversò la sua fede, raggi riflessi di un amore per le vie del mondo fino ad abbracciarlo nelle sue periferie storiche ed esistenziali.

«Ci torna qui opportuno e felicescriveva Giovanni XXIII ad inizio concilio un richiamo al simbolismo del cero pasquale. Ad un tocco della liturgia, ecco risuona il suo nome: Lumen Christi.La chiesa di Gesù da tutti i punti della terra risponde: Deo gratias, Deo gratias, come dire: Sì: lumen Christi: lumen ecclesiae: lumen gentium. Che è mai infatti un concilio ecumenico se non il rinnovarsi di questo incontro della faccia di Gesù risorto, re glorioso e immortale, radiante per tutta la chiesa, a salute, a letizia e a splendore delle genti umane? È nella luce di questa apparizione che torna a buon proposito il salmo antico: “Solleva su noi la luce del tuo volto, o Signore! Tu hai posto letizia nel mio cuore” (Sal 4,7- 8)».

Si può ben dire allora, assecondando l’intuizione del Papa, che al concilio la chiesa tutta si raccolse orante con il salmo 27, 8-9: «Il mio cuore ripete il tuo invito: “Cercate il mio volto!”. Il tuo volto, Signore, io cerco. Non nascondermi il tuo volto». Lo ricercò nella storia e nelle vicende umane, quel volto insieme sfigurato e glorioso e in quella umanità trasfigurata del volto dell’Altro: insieme e unitamente rivelazione dell’umanità e paternità di un Dio e della dignità inviolabile di ogni umano volto.

Grazie all’assunzione del paradigma della storia, i padri conciliari ricongiunsero il Gesù storico con il Cristo della fede e, declinando la salvezza e la rivelazione come storia, si ritrovarono di nuovo, esperiti in umanità in cammino con Lui, tra la gente. Grazie alla “svolta antropologica”, al ricomporsi cioè del legame tra l’ambito della soggettività storica e umana e quello della oggettività della ragione, fu gettato un ponte per superare il divario creatosi tra la verità di Dio, il dono della sua auto-comunicazione all’uomo nella storia e il comprendersi dell’uomo nella ricerca della verità di se stesso qui nelle realtà terrene.

Si ripartì da quell’esperienza in cui l’uomo sperimenta di trascendersi e di comprendere se stesso a partire dall’incontro con l’altro, aperto all’ignoto e uditore della sua parola. Si ripartì dalla consapevolezza che nell’incontro si manifesta il volto di una presenza e di una conseguente responsabilità che non può mai essere circoscritta, compresa e misurata come si fa con gli oggetti, con le cose, perché smisuratezza e insondabilità ne costituiscono i tratti originari.

Fu così possibile al concilio ripensare con audacia, confrontarsi con le questioni antropologiche, culturali o politiche degli uomini e delle società, sino a giungere al rinnovamento della cristologia. Poter “dire Cristo” anche all’uomo di oggi, ridisegnandone il profilo a partire dalla sua umanità: in questo modo, il concilio indicava l‘humanitas Christi come chiave ermeneutica e principio di discernimento per affrontare i problemi più concreti e più gravi della modernità.

Se domandassimo al concilio qual è il “sacramento fondamentale”, il luogo di incontro con Dio e con l’umanità, senza dubbio ci risponderebbe: «l’umanità di Cristo». Allo stesso modo se chiedessimo qual è la “comunità fondamentale”, risponderebbe quella tra l’uomo e Dio: ovunque si dia apertura e accada tra loro intima unione di amicizia, in cui esperire e praticare l’unità di tutto il genere umano.

Lo esprime magnificamente Gaudium et spes 22, che rappresenta per così dire il ‘prologo’ di questa cristologia in ricerca dell’umanità di Gesù: «Con l’incarnazione il Figlio di Dio si è unito in certo modo ad ogni uomo. Ha lavorato con mani d’uomo, ha pensato con intelligenza d’uomo, ha agito con volontà d’uomo, ha amato con cuore d’uomo… soffrendo per noi non ci ha dato semplicemente l’esempio perché seguiamo le sue orme, ma ci ha anche aperta la strada: se la seguiamo, la vita e la morte vengono santificate e acquistano nuovo significato».

Ma gli stessi tratti si colgono anche nel discorso di chiusura del concilio che ci ha lasciato Paolo VI; specie in una pagina mirabile incentrata sul senso della chiesa per l’alterità, in ricerca del volto del Deus absconditus nell’umano: «Che se, venerati Fratelli e Figli tutti qui presenti, noi ricordiamo come nel volto d’ogni uomo, specialmente se reso trasparente dalle sue lacrime e dai suoi dolori, possiamo e dobbiamo ravvisare il volto di Cristo (cfr. Matth. 25, 40), il Figlio dell’uomo e se nel volto di Cristo possiamo e dobbiamo poi ravvisare il volto del Padre celeste:chi vede me, disse Gesù, vede anche il Padre” (Io. 14, 9),il nostro umanesimo si fa cristianesimo, e il nostro cristianesimo si fa teocentrico; tanto che possiamo altresì enunciare: per conoscere Dio bisogna conoscere l’uomo. Sarebbe allora questo Concilio, che all’uomo principalmente ha dedicato la sua studiosa attenzione, destinato a riproporre al mondo moderno la scala delle liberatrici e consolatrici ascensioni? non sarebbe, in definitiva, un semplice, nuovo e solenne insegnamento ad amare l’uomo per amare Iddio? Amare l’uomo, diciamo, non come strumento, ma come primo termine verso il supremo termine trascendente, principio e ragione d’ogni amore. E allora questo Concilio tutto si risolve nel suo conclusivo significato religioso, altro non essendo che un potente e amichevole invito all’umanità d’oggi a ritrovare, per via di fraterno amore, quel Dio “dal quale allontanarsi è cadere, al quale rivolgersi è risorgere, nel quale rimanere è stare saldi, al quale ritornare è rinascere, nel quale abitare è vivere, (S. August., Solil. 1, 1, 3; P. L. 32, 870)», (Discorso di chiusura, 7 dicembre 1965).

Passare dall’altra parte, come un passare di nuovo al vangelo è così apertura, un dischiudersi di futuro, anche per la chiesa d’oggi, il suo credere: «L’avvenire può essere solo quello del Vangelo», ma questo «non consiste nell’assicurare innanzitutto la propria sopravvivenza in quanto istituzione religiosa, ma nel permettere al Vangelo di Gesù di passare al mondo attraverso di essa per annunciargli la salvezza, e adempierla» (Joseph Moingt).

Si sta andando verso qualcosa di diverso; viviamo un momento di passaggio, che ci porta verso un’altra maniera di essere e fare chiesa, un altro modo di situarci nel mondo, di fare popolo di Dio, di essere preti e laici nella chiesa. È solo un’illusione quella di tornare indietro a ricostruire rovine, a ricostruire muri tra il sacro e il profano. La Chiesa altro non otterrebbe che autoescludersi, se ambisse a riprendere il potere (fortunatamente) perduto sulla società. Ben altre sono le influenze che la vicarìa di Cristo sulla terra è chiamata a esercitare: i poveri, gli esclusi reclamano una chiesa che si faccia buona notizia, vangelo, soprattutto per loro e non senza di loro.

Ignazio Silone (1900-1979) in Fontamara, romanzo ambientato tra i contadini della Marsica abruzzese, descrive bene lo status degli ultimi, di coloro che subiscono ingiustizia, che sono sopraffatti dai raggiri, dal dispotismo e dalla legge del più forte. Nella prefazione leggiamo: «L’oscura vicenda dei Fontamaresi è una monotona via crucis di cafoni affamati di terra che per generazioni e generazioni sudano sangue dall’alba al tramonto per ingrandire un minuscolo sterile podere, e non ci riescono… ma la sorte dei Torlognes è stata proprio il contrario. Nessuno dei Torlognes ha mai toccato la terra, neppure per svago, e di terra ne possiedono adesso estensioni sterminate, un pingue regno di molte diecine di migliaia di ettari. … I contadini poveri, gli uomini che fanno fruttificare la terra e soffrono la fame, i fellahin i coolies i peones i mugic i cafoni, si somigliano in tutti i paesi del mondo; sono, sulla faccia della terra, nazione a sé, razza a sé, chiesa a sé; eppure non si sono ancora visti due poveri in tutto identici». E così viene descritta la gerarchia sociale a Fontamara: «Michele pazientemente gli spiegò la nostra idea: “In capo a tutti c’è Dio, padrone del cielo. Questo ognuno lo sa. Poi viene il principe Torlonia, padrone della terra. Poi vengono le guardie del principe. Poi vengono i cani delle guardie del principe. Poi, nulla. Poi, ancora nulla. Poi, ancora nulla. Poi vengono i cafoni. E si può dire ch’è finito”», (Milano 1949, 17; 14; 31).

Quello che Silone racconta con la scrittura ‒ lui si definì “un socialista senza partito e cristiano senza chiesa” e Albert Camus disse di lui “Guardate a Silone egli è radicalmente legato alla sua terra, eppure è talmente europeo” ‒ Georges Rouault (1871-1958) lo ha fatto con la pittura. Non per caso era il pittore contemporaneo che Silone preferiva, e del quale amava soprattutto i volti del Cristo (le Saintes Faces). Tanto da dire che Il Cristo di Rouault era il più tremendamente e umanamente sofferente che avesse mai visto, così da ricordargli un personaggio di Fontamara.

Rouault dipinse la scena dell’incredula fede di Tommaso che si apre al riconoscimento del Risorto, fattosi presente in mezzo ai suoi dopo la risurrezione. Lo fece ritraendolo con un volto ed un corpo umano a cui è stato strappato dal dolore ogni decoro e dignità. Eppure egli intitolò il quadro “Sei tu Signore ti riconosco”. Perché la fede è proprio questo: la capacità di passare dall’altra parte, di riconosce e accogliere ‒ «with unpuzzled heart» ‒ con indiviso cuore nel volto degli ultimi lo stesso volto di Cristo, e nel Suo volto la loro e la propria storia.

Per leggere gli altri articoli di Presto di mattina, la rubrica di Andrea Zerbini, clicca [Qui]  

INTERNAZIONALE FERRARA: 2 appuntamenti a Marzo
Focus Siria e Consumi consapevoli 

da: Ufficio stampa Internazionale Ferrara

Internazionale a Ferrara – Edizione straordinaria: Focus Siria e Consumi consapevoli 

Continua, con la nuova formula digitale, Internazionale a Ferrara. Nell’appuntamento di marzo un approfondimento sulla guerra in Siria a 10 anni dalla prima rivolta, un’inchiesta sulle migranti sfruttate in agricoltura e un dibattito sul mito del consumatore verde. Ancora una volta in diretta streaming.

In diretta streaming
A dieci anni di conflitto (a partire dalla rivolta di marzo 2011) la Siria appare drammaticamente trasformata. Secondo l’Unhcr, circa 5,6 milioni di profughi hanno lasciato il Paese, mentre vi sono altri 6,7 milioni di sfollati sul suolo nazionale. Sebbene il regime del presidente Bashar al-Assad abbia ripreso il controllo di gran parte del territorio, il paese è politicamente ed economicamente frammentato. Eppure la tragedia di questa guerra sembra ormai rimossa dall’immaginario collettivo. Intanto, in Occidente, si rafforza il mito del consumatore verde, ma cosa si nasconde dietro questa definizione? E come evitare che quello che mangiamo sia prodotto dallo sfruttamento dei migranti nella raccolta? Torna per approfondire ancora una volta i grandi temi d’attualità, Internazionale a Ferrara. Appuntamento sabato 13 e domenica 14 marzo in diretta streaming sul canale Facebook del settimanale con il festival di giornalismo organizzato dalla rivista diretta da Giovanni De Mauro in collaborazione con il Comune di Ferrara. Un format nuovo per “un festival ponte” che vedrà un appuntamento al mese fino a maggio. Una modalità diversa pensata per conciliare il rispetto delle limitazioni imposte dalle norme anti-covid con il desiderio di mantenere saldo il rapporto con la città e con il pubblico che negli anni ha partecipato alla manifestazione. Tutte le indicazioni per seguire il panel si trovano sul sito www.internazionale.it/festival.

Siria, 10 anni dopo
Mezzo milione di morti, dodici milioni di profughi e sfollati e un’economia in pezzi. Dopo dieci anni di guerra, la Siria vive una situazione di estrema incertezza. Sabato 13 marzo alle 18, il festival propone un’analisi delle forze attualmente in campo e delle prospettive per il futuro del paese. In “Una guerra senza vincitori” si confronteranno Yara Bader, giornalista siriana e attivista per i diritti umani, che attualmente dirige il Centro siriano indipendente per i media e la libertà di espressione (fondato a Damasco nel 2004); Zaina Erhaim, giornalista e attivista femminista; Ziad Majed, politologo e professore universitario franco-libanese –  francese. Introduce e modera Francesca Gnetti, Internazionale.

Consumi consapevoli e fragole d’inverno
Quale il rapporto tra consumo critico e attivismo ambientalista? Quale l’importanza di azioni politiche concrete a sostegno del Pianeta e di chi lo abita? Si discuterà di acquisti consapevoli e responsabilità individuali nel panel “Il mito del consumatore verde”, domenica 14 marzo, ore 18, realizzato in collaborazione con Alce Nero. Al centro del dibattito ci sarà l’ambiente, in relazione alle responsabilità individuali, collettive e politiche. Si partirà da un articolo del giornalista olandese Jaap Tielbeke, di denuncia nei confronti di alcune delle aziende meno green al mondo, che, per spostare il focus sulla responsabilità individuale, si sono fatte portavoce di campagne di comunicazione rivolte ai consumatori e alle loro coscienze. Il confronto verterà su quale sia il peso delle azioni e delle scelte individuali rispetto a quelle di aziende e paesi interi. Al dibattito parteciperanno Rossella Muroni, parlamentare ed ex presidente di Legambiente, Fiorella Belpoggi, direttrice scientifica dell’Istituto Ramazzini, Leo Hickman, giornalista specializzato in cambiamento climatico, ex editorialista del Guardian, Jaap Tielbeke, giornalista olandese del settimanale De Groene Amsterdammer, moderati e condotti da Micaela Cappellini, giornalista per Il Sole 24 Ore. L’appuntamento sarà preceduto da un approfondimento sul libro di Chadia Arab, Fragole (Luiss University Press, 2020). La geografa e ricercatrice francese di origine marocchina, esperta di flussi migratori e discriminazioni di genere, ha condotto un’approfondita ricerca sui lavoratori invisibili per la politica e per i consumatori ma essenziali nella filiera che porta nei supermercati e nelle nostre case frutta e ortaggi a basso prezzo. Chadia Arab ha seguito in particolare il percorso delle braccianti – scelte per le loro condizioni economiche e sociali precarie al fine di fornire una forza lavoro non sindacalizzata e pronta a lasciare il paese al termine della stagione – per realizzare un’analisi attuale e necessaria sulla dignità del lavoro e sull’emancipazione femminile. In Le donne invisibili della migrazione stagionale, domenica 14 marzo ore 16, Chaid Arab sarà intervistata da Annalisa Camilli,

Internazionale. Un festival per tutti
L’incontro in streaming sarà in italiano e inglese, con traduzione simultanea, gratuito e senza bisogno di iscrizione. Dopo il live resterà disponibile sul sito di Internazionale. Tutte le indicazioni per seguire gli appuntamenti di febbraio sono disponibili sul sito di Internazionale:  www.internazionale.it/festival

Internazionale a Ferrara è promosso da Internazionale, Comune di Ferrara, Ferrara Arte, Regione Emilia Romagna, Università degli studi di Ferrara, Fondazione Teatro Comunale, Ferrara feel the festival, Comune di Portomaggiore, Arci Ferrara, Assessorato alla cultura nell’ambito del Progetto Polimero promosso da Arci Emilia-Romagna e Associazione IF. Il Festival è reso possibile dalla collaborazione di Medici Senza Frontiere, charitypartner, e della Rappresentanza in Italia della Commissione europea, grazie a Unipol Gruppo, Fondazione Unipolis, Legacoop, con il sostegno di Alce Nero, Camera di Commercio di Ferrara, Le Stagioni d’Italia e Bonifiche Ferraresi, Università LUISS Guido Carli, Coop Alleanza 3.0, Cidas, Banca Etica, Etica Sgr, Laboratori Aperti e Ex Teatro Verdi, CGIL. Con la main mediapartnership di Rai e la media partnership di Radio3, RaiNews24, RaiCultura, tgR Emilia Romagna, Radio Radicale e @stoleggendo

CONTRO VERSO
L’educazione delle fanciulle

Mi è capitato di parlare con alcuni uomini che avevano ucciso la moglie, la madre dei loro bambini. Questo signore era arrivato a tanto con una sicura e pesante influenza della cultura d’origine e ancora non riusciva a riconoscere quello che aveva fatto. Gli sembrava di avere agito secondo le migliori intenzioni… religiosamente.

L’educazione delle fanciulle

Mi diceva un cugino:
“Vuoi una moglie educata?
Per andarci vicino
dai una bella lisciata”.

Continuava un fratello:
“La vuoi proprio educare?
So che è un duro fardello
ma la devi frustare”.

E perfino mio padre
venne qui da lontano:
“Ti ricordi tua madre?
Non star lì, mani in mano!”

Poi i giornali, la gente,
han trovato da dire
perché effettivamente
l’ho dovuta finire.

Mi sembrava un motivo
d’esser molto orgoglioso.
Sì, lo ammetto, dicevo:
“Come son religioso!”.

Avrò fatto la gioia
della comunità
ma so adesso la noia
di restarmene qua

a pensare ogni giorno
che ho sciupato la vita
(ma ho ancora un ritorno,
per lei è proprio finita).

Se il buon Dio approvava
che io fossi deciso
sarà mio o di mia moglie
il suo bel paradiso?

Se il buon Dio concordava
che io fossi violento
perché tutto mi aggrava
e non sono contento?

Ma non posso pensare
d’aver sbagliato tutto…
Devo ancora iniziare
a comprenderlo, il lutto.

Per alcuni uomini picchiare la moglie è un modo per soddisfare le attese della comunità. Dimostrano così di essere veri uomini. Assumono un atteggiamento risentito se vengono fermati, adirati di non poter “educare la moglie secondo i propri metodi”.

CONTRO VERSO, la rubrica di Elena Buccoliero con le filastrocche all’incontrario, le rime bambine destinate agli adulti, torna su Ferraraitalia  il venerdì. Per leggere i numeri precedenti clicca [Qui]

OLTRE LE PAROLE
Raggiungere l’Infinito attraverso il nostro Finito

 

Ricordo che l’emozione dominante avvertita una volta tornato dalle lunghe vacanze in montagna, da bambino, era il fastidio per il rumore, in particolar modo quello del traffico.
Dopo pochi giorni, il mio orecchio si abituava al ritmo ordinario della vita di città e tutto era accettato come fine reale della vacanza estiva e ritorno alla normalità.
Ancora non potevo sapere che quella sarebbe stata una immagine che mi avrebbe aiutato nelle scelte fatte poi da adulto.
Quello stesso silenzio che da bambino ascoltavo così profondo solo sopra i duemila metri, lo avrei ritrovato da adulto, con mia grande sorpresa, dentro di me.

Amo le parole. Alcune sono sempre con me. Altre non le uso mai, proprio non le sopporto.
Una di quelle che mi hanno accompagnato fino a qui è assorto.
Essere assorto nel senso di tutto preso da, ma non in modo frenetico, anzi, al contrario, non dipendente dalle cose fuori, ma concentrato sull’interiorità.
Quando si è assorti quasi il mondo scompare con tutto il suo carrozzone variopinto, non si è più toccati da nulla, ma si sente via via l’allargarsi dello spazio del silenzio tutto intorno a noi.

Non vorrei essere frainteso.
Amo il chiasso di una classe di ragazzi durante l’intervallo a scuola, gli scherzi fatti tra amici, la musica ad altissimo volume di un concerto.Tirare tardi dopo una cena in vacanza è bellissimo!
Non sono fatto per la vita eremitica.
Voglio solo dire che non finisce lì.
Che il meglio deve ancora arrivare e che l’ho visto giungere davvero solo quando la giovinezza diventa ricordo.

Perché serve la stagionatura, proprio come per certi cibi o per un buon vino.
Serve avere visto soprattutto cosa è la fine.
Averla vista nel volto di una persona cara.
Quando il dolore strappa la pelle e gonfia gli occhi.
Quando si bestemmia contro il cielo. Quando sembra che il senso sia terminato.
È allora che un altro sguardo si posa sulle cose.
È la vera perdita della verginità, dove quella sessuale è solo la anticipazione inconscia di una perdita inaccettabile, tanto che deve essere ammantata di piacere per essere vissuta positivamente, anzi cercata.
Dopo, tutto cambia. Soprattutto la notte, tempo non  più solo dedicato ad un sonno ristoratore, ma anche quello della materializzazione dei propri fantasmi.
E cambiano le giornate.
Bisogna inventarlo un senso per alzarsi tutte le mattine.
Poi giorno dopo giorno, ma serve tempo, ecco che motivazioni e azioni diventano più lente perché ognuna ha bisogno di essere scelta, voluta, ben ponderata.
E alla sera ci si ritrova a ripensare quanto amore si è ricevuto e quanto dato.
E i conti non tornano mai.
Ma va bene così.

Nasce un piacere strano, prima sconosciuto, nel viaggiare dentro, a rimanere con sé stessi.
Solo cosi si possono riconoscere e mettere assieme i pezzi.
Solo così tornano i ricordi.
E i ricordi è necessario scriverli. Tutte le cose che non si scrivono si perdono.
Fortunato chi ha l’abitudine di tenere un diario. Ritroverà quando servirà il proprio tesoro intatto.

Non sopporto le etichette, figurarsi quando, per sminuirne il significato, viene appiccicato il cartellino di  tristezza a questo genere di considerazioni.
Tristezza è un’altra parola a me cara.
Tra i sentimenti, infatti, quello della tristezza è forse tra quelli più profondi, ma anche quello interpretato in modo maggiormente ambiguo.
Scrive Alessandro D’Avenia: “La tristezza è uno di quei sentieri sul crinale della vita, che spesso non vogliamo affrontare, perché la nostra cultura accetta solo il ‘positivo’ e ci priva così del coraggio per vincere la paura del ‘negativo’. Eppure la tristezza è un sentimento ‘positivo’, perché ci pone in condizione di guarire dal dolore che la genera: il nostro corpo si difende dalla malattia segnalandola proprio attraverso il sintomo di dolore. Noi invece vogliamo eliminare dalla vita tutto ciò che ci sembra ‘improduttivo’, come macchine da cui ci si attende sempre una performance ineccepibile. Ma noi siamo vivi e dobbiamo rivendicare il nostro diritto alla tristezza come vita ferita che cerca di guarire.”

La letteratura e la poesia quando arrivano ad essere sublimi, liriche, arrivano a comprendere la vera natura dell’uomo e toccano inevitabilmente la tristezza.
Ma questa consapevolezza non genera rassegnazione.
Pensiamo a Leopardi, un lottatore della vita che cerca la bellezza.
Pensiamo a Ungaretti e paradossalmente a Pavese.
Fa comodo tacciare in modo svalutativo la tristezza, per portare le persone a non pensare, a vivere alla superficie una vita a metà.
“È che la tristezza sa aprire squarci che permettono di guardarsi dentro da una prospettiva nuova. Rende consapevoli. Dunque umani”, scrive Massimo Gramellini.
Si tocca la tristezza solo quando si va in profondità, quando ci si toglie la maschera.
Quando si avverte la solitudine.
Quando ci si accorge della sofferenza.
Di fronte a tali realtà non viene certo da ridere, ma può nascere l’impulso alla condivisione.
Tristezza è il sentimento che permette di avvicinarci all’altro, spinti dalla compassione verso di lui.
Avere lo stesso cuore. Tutto ciò non porta all’immobilità.
Anzi rimanere assorti nell’immergersi nella poesia, nella letteratura, nella contemplazione del bello, anche fisico, del corpo della propria donna per esempio, porta, dalla presa in carico del nostro limite, della nostra triste condizione comune, alla ricerca della vera nostra forza.
Quella forza che ci permette di rimanere umani, quando sentiamo nell’altro il bisogno della nostra presenza, unico modo per realizzare una aspirazione altrimenti inottenibile: raggiungere l’infinito attraverso il nostro essere finito.

Parole a capo
Angelo Andreotti: “Le secche mani del tempo” ed altre poesie

“La poesia è la ragione messa in musica.”
(Francesco De Sanctis)

 

Le secche mani del tempo

Le secche mani del tempo non hanno
più presa, le cose importanti
ritornano ma come sbalordite
dalla vaghezza delle mie domande,
ora
        che tardive
vanno a sbattere
scivolando sui forse dei ricordi.

Giusto il silenzio conserva memoria

 

Assieme al buio

Assieme al buio, a un fresco lontano,
all’ottundersi sordo dei margini,
allo sfollare lento dei rumori,
si aggiunge nell’aria
– e la penetra quasi –
un altro tempo che diresti vuoto

ma di te invece è rimasto in attesa.

 

In quella casa dove iniziai il cammino

In quella casa dove iniziai il cammino
un tempo c’era un fico, molte ortensie,
un orto di passeri e merli
con tante parole nascoste

che più tardi ho ritrovato
incastrate in cespugli di spine.

 

Pace non so…

Pace non so… né dove sia
quel lontano in cui ti andasti a nascondere
togliendo lo sguardo dal mondo,
e ancora non so chi vedevi
nel chiuso degli occhi,
o quali voci, e quali silenzi,
quali volti indicavi
in quella tua lingua segreta.

Sorridevano?

Angelo Andreotti (1960) vive e lavora a Ferrara. Laureato in Filosofia si è sempre occupato di linguaggi artistici, curando mostre e scrivendo numerosi saggi su arti visive e letterature in riviste, cataloghi, collettanee. Per la poesia ha pubblicato: Porto Palos (Book, 2006); La faretra di Zenone (Corbo, 2008); Nel verso della vita (Este, 2010); Parole come dita (Mobydick, 2011); Dell’ombra la luce (L’arcolaio, 2014 – introduzione di Matteo Bianchi e postfazione di Duccio Demetrio); A tempo e luogo (Manni, 2016); L’attenzione (puntoacapo, 2019 – prefazione di Antonio Prete). Ha inoltre pubblicato i saggi Il silenzio non è detto. Frammenti da una poetica (Mimesis, 2014) e Il nascosto dell’opera. Frammenti sull’eticità dell’arte (Italic, 2018), nonché la raccolta di racconti Il guardante e il guardato (Book Salad, 2015 – introduzione di Flavio Ermini e postfazione di Patrizia Garofalo).
Le poesie qui raccolte sono tratte dall’inedito Le notti non dormono qui.

La rubrica di poesia Parole a capo curata da Gian Paolo Benini e Pier Luigi Guerrini esce regolarmente ogni giovedì mattina su Ferraraitalia. Per leggere i numeri precedenti clicca [Qui]

NO Al FORUM MONDIALE DELL’ACQUA A FERRARA
Sbagliata e grave la candidatura del Comune di Ferrara

Da: COMITATO ACQUA PUBBLICA FERRARA e GRUPPO BLU FERRARA

Abbiamo appreso con stupore e rammarico che il sindaco Alan Fabbri ha annunciato che il Comune di Ferrara ha aderito al Comitato promotore nazionale per candidare il nostro Paese a ospitare il Forum Mondiale dell’Acqua nel 2024 e a indicare la nostra città per svolgere un ruolo importante per quell’evento.
Ci teniamo a evidenziare che, a dispetto del nome, il Forum Mondiale dell’Acqua (WWF – World Water Forum) creato dal Consiglio Mondiale dell’Acqua è una sede cui i Governi sono chiamati a partecipare e a discutere sotto l’egida delle più grandi multinazionali del settore, che tentano di ottenere il via libera alla definitiva mercificazione del diritto all’accesso all’acqua e la definitiva privatizzazione dei servizi idrici integrati.
Da sempre i movimenti mondiali per l’acqua – e quello italiano tra loro- contestano la legittimità del Forum Mondiale dell’Acqua, peraltro definito nel 2009 dal Presidente dell’Assemblea dell’ONU, Miguel D’Escoto Brockmann come profondamente influenzato dalle società idriche private e strutturato in modo da precludere ogni possibilità che i principi relativi al riconoscimento del diritto all’accesso all’acqua e la tutela di questo bene siano le priorità della propria iniziativa.

Anzichè accodarsi alle schiere dei privatizzatori del servizio idrico e delle grandi aziende multinazionali che ne sono le principali protagoniste, avremmo voluto che il sindaco della nostra città si fosse pronunciato contro la quotazione in Borsa dell’acqua nelle Borse di Chicago e Wall Street, avvenuto alla fine dell’anno scorso, che segna non solo la totale mercificazioe dell’acqua, ma anche il fatto che su di essa si possa tranquillamente speculare.
Oppure ricordare che, sempre nel 2024, scade nel territorio ferrarese la concessione del servizio idrico a Hera, azienda quotata in Borsa e ispirata da una logica privatistica, e che dunque è possibile passare ad una gestione pubblica e partecipata del servizio idrico, dando attuazione ai referendum sull’acqua del 2011.
Confidiamo comunque che il sindaco si esprima su questi punti e, per parte nostra, continueremo a batterci perché il nostro Paese non ospiti nel 2024 il Forum Mondiale dell’Acqua e per salvaguardare la risorsa acqua come bene comune e per ripubblicizzare il servizio idrico.

COMITATO ACQUA PUBBLICA FERRARA
GRUPPO BLU FERRARA

Vite di carta /
“Casa d’altri”, il racconto perfetto di Silvio D’Arzo

Vite di carta. “Casa d’altri”, il racconto perfetto di Silvio D’Arzo

Così è stato definito da Eugenio Montale: “un racconto perfetto”. Mi riferisco a Casa d’altri, scritto nel 1947 da Ezio Comparoni, un giovane autore di Reggio Emilia che per pubblicazioni precedenti si era dotato di altri pseudonimi e che per questo suo racconto lungo aveva scelto di firmarsi Silvio D’Arzo. Ho ritrovato  il suo nome in appunti ormai datati, presi a un corso d’aggiornamento per docenti di letteratura italiana; il relatore era il grande Andrea Battistini, che ne caldeggiò la lettura a chi gli chiedeva quali fossero gli autori canonici del Novecento. E’ passato anche troppo tempo, ora voglio conoscerlo. Per prima cosa cerco negli scaffali della mia libreria e trovo quasi subito un volumetto che ho comprato all’epoca, L’uomo che camminava per le strade: una raccolta di racconti dello stesso D’Arzo uscita nel 1993 a cura di Daniele Garbuglia, in cui è riportata una buona bibliografia sull’autore; da lì spicca il nome di Eraldo Affinati come curatore dell’opera saggistica di D’Arzo, raccolta sotto il titolo Contea inglese.

Ho conosciuto Affinati e letto il suo intenso L’uomo del futuro. Sulle strade di don Lorenzo Milani; so che lavora con passione e scrive con sguardo profondo. Si aggiunge a Montale e a Battistini nello spingermi verso questo giovane scrittore reggiano che era del 1920, come mio padre, e come me si era laureato in Lettere a Bologna, lui però a soli 21 anni. Un grande talento morto a 32 anni di leucemia. Non so da cosa vi facciate convincere voi nelle scelte di lettura, io sono piuttosto sensibile alle parabole di vita così segnate dalla tyche e mi lascio guidare volentieri dal giudizio di coloro che mi sono maestri.

Eccomi dunque con il volumetto dei racconti tra le mani. Scelgo di leggere in ordine casuale i testi che vi sono raccolti e sono ben contenta che Casa d’altri qui non ci sia. Sento che devo rispettare delle tappe di avvicinamento al capolavoro. Vado solo a sbirciare le poche righe che lo riassumono nella edizione Einaudi del 1980, che intanto mi sono procurata, in cui la introduzione è scritta proprio da Affinati: i protagonisti sono un prete e una vecchia. Il fulcro della storia ruota intorno a una domanda che la donna rivolge al prete. Mi piace. Mi piace che i personaggi siano persone così e che le parole scambiate tra loro stiano al centro del racconto.

Comincio a leggere e la voce narrante, che è quella del parroco di un paese dell’Appennino reggiano, mi introduce alla povera vita che si conduceva lassù poco dopo la fine della seconda guerra. Nelle pagine iniziali siamo dentro la vita quotidiana del prete: sta lasciando la casa di un morto e dà le disposizioni per il funerale del giorno seguente; incontra il giovane parroco del paese vicino che è appena arrivato ed è pieno di iniziative e lo raggela dicendogli che lì, nella zona di Montelice, la vita non cambia mai, non succede niente di niente.

C’è un giorno diverso, però. L’esordio della storia è nei fatti che vi accadono sul far della sera: il prete sta tornando a casa e nota una donna che giù nel canale lava dei panni. E’ sola nella natura autunnale dalle tinte viola e tiene vicina a sé una capra. Il parroco non la conosce: deve essere venuta a vivere qui da poco; la pensa come un “uccello sbrancato” e nei giorni che seguono ripensa a lei. Si aspetta che prima o poi vada da lui a parlargli, come fanno tutte. Da lui che si è ridotto a essere “un prete da sagre e nient’altro”, mentre ai tempi del seminario veniva chiamato doctor ironicus per la sua arguzia. Vecchio lui, ormai, e vecchia e solitaria lei. Per molte sere ripassa dal punto in cui l’ha vista la prima volta, solo per inquadrarla un momento nel freddo della sera, mentre la luce se ne va.

È amore. Rileggo alcuni passaggi per comprenderlo. Amore fulmineo, è predilezione e attrazione totale. Solo che D’Arzo dissemina brevi segnali linguistici di questo terremoto interiore che travolge il parroco e li distribuisce nei suoi pensieri, a piccoli dosaggi. Mentre le giornate scorrono, apparentemente uguali, il prete non pensa ad altro che ad allontanarsi da casa sul far della sera per rivedere la vecchia. Assume anche informazioni su di lei e viene a saperne il nome, Zelinda, e l’età, sessantatre anni. Fa la lavandaia e fatica da mattina a sera con la sola compagnia della sua capra. “Mai una volta alla processione: mai ai Vespri: mai in chiesa”. Una sorta di Lupa verghiana.

Attendo che arrivi la domanda fatidica che lei rivolge al prete tempo dopo, la sera in cui hanno camminato insieme per un tratto di strada. Ora sono giunti sulla soglia della casa di lei, sull’estrema soglia mi verrebbe da dire, e lei chiede: “se in qualche caso speciale…qualcuno potesse avere il permesso di finire un po’ prima”. Ecco, di nuovo non capisco. Ritorno indietro alle pagine in cui il prete si accorge della vita faticosa che Zelinda porta avanti, un giorno dopo l’altro. Non ho considerato abbastanza “il male di vivere” che la riguarda. Ho voluto cercare nelle pagine solo i segnali dell’attrazione che il prete prova per lei, scomodando lo Stilnovo con i suoi nodi concettuali: lo sguardo che innamora l’uomo, la visione epifanica della donna e il suo incedere e la sua ritrosia, come elemento che ancor più incatena l’amante.

Devo aver seguito una falsa pista di lettura. Non solo, ammetto che fatico a rapportarmi allo stile di questo testo: ora  trasmette mille echi letterari che me lo rendono familiare, da Manzoni a Fenoglio, da Verga a Machiavelli, ora mi torna estraneo e diverso da ogni altro racconto o romanzo del Novecento che ho attraversato. Saranno le frasi brevi, dal tono perentorio. Frasi costruite spesso su battute popolari che comprendo solo in parte. E sì che sono emiliana come l’autore. Il ritmo narrativo è segmentato e si alternano asserzioni dalla carica semantica sempre diversa: una breve frase sul tempo autunnale già freddo, la successiva sui gesti del personaggio, quella dopo sugli universali della vita e della morte. Non so se mi piace. Capisco che nel mio ruolo di lettore sono in cammino e la strada non è agevole. Lo stile di Silvio D’Arzo un minuto mi fa sentire ‘a casa’ e un minuto dopo mi ha tolto ogni certezza. Meno male che l’introduzione di Affinati mi soccorre ed è un raffinato scavo dentro al testo, di cui fa emergere lo straordinario valore letterario.

Ho recuperato il senso della domanda:  Zelinda vuole sapere se è permesso che qualcuno si tolga la vita, che lei ponga fine alla sua. Cosa le risponde il nostro prete, che in lunghi anni di ministero pastorale a Montelice ha celebrato matrimoni alla buona, cresimato ragazzi e messo d’accordo “sette caprai per un fazzoletto di pascolo”? Dice egli stesso “Sul momento non mi venne parola. Ma poi no, non fu neanche così: alla bocca mi salirono parole e parole e raccomandazioni e consigli e ‘per carità’ e ‘cosa dite’…Tutte cose d’altri, però…Di mio non una mezza parola: e lì invece ci voleva qualcosa di nuovo e di mio, e tutto il resto era meno di niente”. È una risposta inadeguata. Nella studiata simmetria del testo spicca l’asimmetria tra i ”cosa dite”, convenzionali, e la profondità filosofica della domanda.

Il prete da sagre chiude il suo racconto con due brevi sequenze: l’una nella casa di Zelinda, dove la salma di lei viene lavata e il pianto funebre sta per cominciare. L’altra quando, qualche tempo dopo, incontra il prete di Braino e trova che la vita del paese lo ha ingrassato. I segni del tempo che è trascorso sono tutti qui: le morti che si sono succedute (anche Melide, la perpetua, non c’è più), i chili che il curato ancor giovane ha messo su nella monotona vita della montagna.

“Allora mi vien sempre più da pensare ch’è ormai ora di preparare le valige per me e senza chiasso partir verso casa. Credo d’avere anche il biglietto. Tutto questo è piuttosto monotono, no?”
Casa? Penso che voglia intendere la vera casa, in cui un parroco aspira a tornare più di ogni altro, la casa del Padre. Anche se la relazione tra le persone del racconto è tutta orizzontale e la religiosità di Zelinda, che vuole morire e degli altri che restano a vivere, si consuma nei riti che essi compiono e nelle liturgie. Questa terra è casa d’altri. Così come cose d’altri sono le parole inadeguate, le parole trite. Credo di avere afferrato il senso che regge il racconto.
Mi tiro un po’ su, ma il cammino dentro questo testo è ancora lungo.

Nell’articolo faccio riferimento ai seguenti testi:
– Silvio D’Arzo, L’uomo che camminava per le strade, a cura di Daniele Garbuglia, Quodlibet, 1993
– Silvio D’Arzo, Casa d’altri e altri racconti, a cura di Eraldo Affinati, Einaudi, 1980
– Eraldo Affinati, L’uomo del futuro. Sulle strade di don Lorenzo Milani, Mondadori, 2016

Per leggere gli altri articoli e indizi letterari della rubrica di Roberta Barbieri clicca [Qui]

Il caso singolare di Gian Pietro Testa e del suo nuovo libro

Il giornalista Gian Pietro Testa arrivò per primo quel 5 giugno 1975 sul luogo dove fu ammazzata la brigatista Mara Cagol. Con questo ricordo si apre Il caso singolare di Gesù e della cagnetta Evaristo, edizioni La Carmelina, con prefazione dell’attore Giuseppe Gandini, un libro che vorrei fosse Gian Pietro a raccontare perché ogni suo ricordo è un pezzo di storia d’Italia, di giornalismo e di umanità. In questo breve libro, parla Fraschenor, cioè Giuseppe Mazzini, un personaggio che accompagna Testa nei suoi romanzi da diversi anni e che, dopo avere scelto di non parlare più arroccandosi solo nel suo pensiero, o meglio, in un pensiero che pensa di pensare, tornare a parlare, vivere, ricordare, soprattutto interrogarsi.
Ma c’è un ghiribizzo, un pensiero bizzarro e dittatore senza capo né coda che dialoga con Fraschenor Mazzini, gli si pone di fronte e prende il largo, si chiede se la Madonna avesse abortito cosa sarebbe successo: “non ci sarebbe stato tutto quel guazzabuglio di scontri, di balle, di guerre, non ci sarebbero stati i 76 Papi, no quelli sarebbero esistiti, forse non vestiti di bianco, ma pur di comandare avrebbero indossato un paio di calzoni blu e una camicia rossa, e forse ciò non è avvenuto per la semplice ragione che il soldato italiano si sarebbe confuso con quello vaticano”.
Giuseppe Gandini, che una quindicina d’anni fa portò a teatro Lettera semiseria di un comunista a signore Dio illustrissimo di Gian Pietro Testa, firma la prefazione di quest’ultima pubblicazione parlando di ballata, di uno scritto intriso di misticismo materialista. Gian Pietro Testa, che rimane uno dei giornalisti e degli intellettuali più lucidi del nostro tempo, va ancora una volta letto per quello che racconta e per come lo racconta.

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Edilizia: a Ferrara in cantiere si muore anche di domenica

 

Da Fillea Cgil

Nel giorno che dovrebbe essere dedicato al riposo, l’operaio edile Giuseppe Fiore cade dal  balcone e muore sul colpo, un incidente mortale dovuto ancora all’ennesima caduta dall’alto.

Si ripete drammaticamente un evento che non è dovuto alla pandemia ma con essa convive, insieme a molti altri pericoli con cui i lavoratori edili fanno i conti. La domanda viene spontanea: come stava lavorando, le norme sulla sicurezza erano rispettate? Aspettiamo gli esiti dell’indagine degli organi ispettivi per avere informazioni più dettagliate.
Giuseppe era un operaio esperto e competente ma questo di per sé non lo ha reso immune dai rischi.
E’ la prevenzione difatti, che riduce le probabilità di subire infortuni.
La prevenzione va adottata con misure concrete, che stabiliscono come deve essere svolta la prestazione di lavoro.

Il sindacato vuole esprimere solidarietà e vicinanza alla memoria di Giuseppe e ai suoi familiari, ma anche chiedere che venga accertata la responsabilità di chi aveva il compito di vigilare.
I dati a livello nazionale degli incidenti sono in aumento,  dal monitoraggio  si evidenziano 32 incidenti fatali nei primi due mesi del 2021 contro i 12 dello stesso periodo 2020: il 170% in più rispetto all’anno scorso.

Come sempre, nei cantieri italiani, si muore soprattutto per caduta dall’alto (48%) e travolti da materiali (26%). Nel 33% dei casi i lavoratori erano totalmente o parzialmente irregolari; erano il 25% (4 casi su 12) nello stesso periodo 2020. E a preoccupare è anche l’età dei deceduti, sempre più anziani: il 43% delle vittime è tra i 40 ed i 60 anni, un altro 43% è di over 60, di cui 3 ultrasettantenni.
Nonostante il nostro grande impegno sulla sicurezza, è evidente che c’è un problema. Non è possibile che lavoratori così anziani si trovino a lavorare sui tetti o sulle impalcature.
Come ribadito dal Sindacato anche nell’ultimo seminario organizzato dal Comitato Consultivo Provinciale Inail Ferrara “I giovedì della prevenzione” c’è un problema diffuso di illegalità, la legalità e la sicurezza nei cantieri sono due facce della stessa medaglia.
In quest’ottica si chiede uno sforzo di collaborazione a tutti gli enti di controllo, per affrontare tutti insieme questa diffusa mancanza di rispetto delle regole di sicurezza e impedire ulteriori morti  nei cantieri.

Ferrara, 9 marzo 2021

8 marzo: perché detesto lo sbandierar di mimose

 

Detesto la Festa della Donna e non perché le donne non meritino una festa; detesto tutto lo sbandierare di mimose la cui unica attrattiva è quel meraviglioso giallo splendente e un po’ di profumo effimero; detesto gli auguri accompagnati da un grande sorriso sotto le mascherine, segni inseparabili del nostro tempo, e quel guizzo di protagonismo orgoglioso che le donne riservano alla data dell’8 marzo, camminando fiere per strada, almeno per un giorno.
Mi accorgo che, più che detestare, provo la tristezza destinata alla vista di creature fatte uscire dai recinti, esibite e coperte di complimenti e lusinghe per poi rientrare in cattività.
Le donne meritano ben più di questa ricorrenza che dura il tempo di 24 h e poi sfuma nel nulla, in attesa dell’annata successiva.
Penso a quelle costrette a rinunciare ai loro sogni annientandosi in vite che non  appartengono loro, a quelle abbandonate a crescere da sole i figli, alle donne picchiate, derise, tormentate, uccise a ogni latitudine geografica, a quelle relegate al ruolo e funzione di ‘serva’, a quelle a cui è negato il lavoro perché donne e quelle che di notte non dormono col pensiero di come far campare la famiglia. Penso a tutte coloro che in un modo o nell’altro hanno dato un pesante contributo all’immagine di genere ancora molto lontana da equità, giustizia, merito e riconoscimento.
Altro che festa! Non è sufficiente festeggiare, anche se il significato dell’8 marzo attinge a una storia passata da non dimenticare: quel 1911 a New York nella fabbrica Triangle perirono in un incendio 146 persone fra cui 123 donne di origine italiana ed ebraica, e quell’8 marzo 1917 a San Pietroburgo, quando le donne manifestarono per invocare la fine della guerra in una Russia ridotta alla fame.
La storia non va dimenticata e la storia delle donne men che meno, accompagnata com’è da un lunghissimo iter lastricato di sofferenze e grandi vuoti sociali. Quella che è stata proclamata dall’ONU “Giornata internazionale della donna” è svilita nel tempo, spesso ridotta – in epoca pre Covid – a occasione, neanche tanto rara, di ritrovi  festaioli con sbaraccate ridanciane davanti a spogliarellisti, leonesse per un giorno davanti all’immagine del maschio ridicolizzato.
Forse questo periodo di costrizione ha aiutato anche a ridimensionare questa storpiatura, riconducendo la ricorrenza alla sana riflessione e a un necessario bilancio che ci riguarda da vicino.
Continuiamo pure a sbandierare le nostre mimose, come vessilli rivoluzionari, come è stato in molte altre rivoluzioni colorate – la rivoluzione dei garofani in Portogallo, quella dei gelsomini nella Tunisia della Primavera araba, quella delle rose in Georgia, quella dei tulipani in Kirghizistan… – e non dimentichiamoci dei restanti 364 giorni dell’anno. Perché, oltre a festeggiare, dobbiamo difenderci, affermarci, sostenerci, esercitare tutto il nostro coraggio, la nostra voglia di essere donne consapevoli del proprio valore sempre, e non solo a ritagli.

In copertina : New York,  l’incendio nella fabbrica di camicie Triangle in cui il 25 marzo 1911 perirono 146 persone (123 donne)

ONORIAMO L’8 MARZO:
Quest’anno, mettiamo via le mimose!

 

Il tema della gender equality è uno degli obiettivi di sviluppo sostenibile indicati dalle Nazioni Unite, ma inutile dire che siamo ancora ben lontani dal conseguirlo.
Secondo le Nazioni Unite le donne stanno soffrendo di più per l’impatto economico del virus.[1]. Prima di tutto perché meno donne lavorano. Il 94%degli uomini tra i 25 e i 54 anni ha un’occupazione contro il 63% delle donne nella stessa fascia di età. Le donne che lavorano hanno uno stipendio minore. Gli ultimi dati Eurostat sulla disparità salariale in Europa, registrano una differenza media del 15%.

Secondo il rapporto Eures nei primi 10 mesi del 2020 in Italia sono stati registrati 91 femminicidi di cui 18 avvenuti all’interno del nucleo familiare. Il 2020 è stato l’anno in cui l’incidenza della componente femminile nel totale degli omicidi è stata del 40,6%, cioè la più alta di sempre.  Ben 15mila sono le chiamate di aiuto delle donne al nr 1522 tra marzo e giugno 2020, un numero doppio rispetto a quello dell’anno precedente. Ogni anno i fondi vengono stanziati e i nomi delle donne uccise dal partner aumenta. 28 milioni è la cifra stanziata per i centri antiviolenza e le case rifugio. Vedremo quanti ne arriveranno a destinazione.

Durante il lockdown il peso maggiore è stato sostenuto dalle donne. La chiusura delle scuole e dei centri diurni per le persone non autosufficienti aumenta la mole di lavoro domestico e di cura. Il lavoro da una manodopera retribuita – asili scuole, babysitter – si trasferisce ad una che non lo è. Le donne che lavorano spendono in media più di 4 ore al giorno per i lavori domestici e di cura non retribuiti, contro solo meno di 2 ore al giorno degli uomini occupati.

I dati dell’Ispettorato del lavoro confermano la situazione pesante per le donne: nel 2019 sono aumentate le dimissioni delle lavoratrici che avevano avuto da poco dei bambini. Di contro, solo un terzo (rispetto alle donne) dei neo papà hanno lasciato il lavoro per seguire i figli. La pandemia ha pesato sull’occupazione. Del resto nel 2020 per le famiglie mancano all’appello 29 miliardi di reddito e 108 miliardi di consumi. Nel solo dicembre scorso su 101 mila posti perduti, ben 99mila erano donne.

Il settore dei servizi alle famiglie, dove le donne sono l’86,8% del totale, conta 65mila occupate in meno e 15mila uomini in più.

Inutile dire che la chiusura delle scuole ha penalizzato le madri e i bambini specialmente nelle famiglie meno abbienti, in cui la didattica a distanza è più problematica sia per le minori attrezzature informatiche sia per il minore livello di competenze scolastiche.
Già prima della pandemia, nella fascia tra i 25 e i 49 anni, il tasso di occupazione delle donne senza figli era del 71,9%. Con un figlio in età scolare scendeva al 53,4%. Il titolo di studio incide sulla partecipazione e la qualità del lavoro, quindi il fatto che le laureate in Italia siano il 22,4%, contro il 35,5% della media europea, pesa negativamente sulla posizione lavorativa.[2]
La chiusura
delle scuole e dei centri diurni per le persone non autosufficienti accresce la mole di lavoro domestico e di cura per le donne. Le donne infatti, spendono in media 4,1 ore al giorno per i lavori domestici e di cura familiare, contro solo 1,7 al giorno degli uomini. Si è creato per le donne un carico di lavoro, mentale, psicologico, emotivo molto pesante.

Secondo una ricerca recente condotta dalla Bocconi, il 66% delle donne (rispetto al 40% degli uomini) dichiara di avere svolto in questi mesi più lavoro domestico rispetto al periodo precedente alla pandemia. Lo stesso vale per i figli: più del 60% delle donne intervistate ha dichiarato di avere speso più tempo nella cura dei figli, contro il 50% dei maschi.

Prima di tutto perché meno donne lavorano. Il 94%degli uomini tra i 25 e i 54 anni ha un’occupazione contro il 63% delle donne nella stessa fascia di età.

Le donne, quando lavorano, hanno uno stipendio minore. Gli ultimi dati Eurostat sulla disparità salariale in Europa, registrano una differenza media del 15%.
Durante il lockdown il peso maggiore è stato sostenuto dalle donne. La chiusura delle scuole e dei centri diurni per le persone non autosufficienti aumenta la mole di lavoro domestico e di cura. Il lavoro da una manodopera retribuita – asili scuole, babysitter – si trasferisce ad una che non lo è. Le donne che lavorano spendono infatti in media 4,1 ore al giorno per i lavori domestici e di cura non retribuiti, contro solo 1,7 ore al giorno degli uomini occupati.

Secondo una ricerca recente condotta dalla Bocconiil 66% delle donne (rispetto al 40% degli uomini) dichiara di avere svolto in questi mesi più lavoro domestico rispetto al periodo precedente alla pandemia. Lo stesso vale per i figli: più del 60% delle donne intervistate ha dichiarato di avere speso più tempo nella cura dei figli, contro il 50% dei maschi.-
Nel Piano nazionale di ripresa dell’ItaliaNext Generation – sono previste risorse ingenti per la parità di genere (4,2 mld); sarà importante che gli obiettivi legati all’occupazione femminile vengano realizzati nei tempi previsti, utilizzando tutte le risorse a disposizione.

In ogni situazione le donne affrontano in un modo importante le difficoltà della vita: hanno maturato una vera e propria cultura della cura, hanno sviluppato la capacità di andare avanti comunque, ma non senza costi. In generale, afferma la direttrice del Centro di Medicina di Genere dell’Istituto superiore di sanità, “le donne sono più attente, sono loro che ad esempio in famiglia portano il marito e i figli all’attenzione del medico, seguono le vaccinazioni, si occupano in generale della salute”.

Verifichiamo una differenza di genere forte nei comportamenti e nelle attitudini nell’affrontare la pandemia che è stata confermata anche da studi analoghi condotti in Francia, Germania, Inghilterra e Stati Uniti e che probabilmente è destinata a rimanere anche nei prossimi mesi”.

Non c’è molto da festeggiare nella prossima ricorrenza dell’8 marzo, ma invece molto da fare in ogni ambito: dall’istruzione, al lavoro, ai servizi, non da ultimo alla costruzione di immagini sociali meno stereotipate.
Quindi, almeno questo anno, mettiamo da parte le mimose: ognuno in rapporto ai propri ruoli, è chiamato ad avviare azioni concrete.

[1] F. De Bortoli, “Futuro grigio senza la forza delle donne”, Corriere della Sera, 8/21/21
[2] , Nazioni Unite, The Impact of COVID-19 on Women [Vedi qui]

Per leggere tutti gli articoli della rubrica Elogio del presente di Maura Franchi clicca [Qui]

Marzo 2060

Suona il campanello della porta e Cosmo-111 va ad aprire. E’ Prisca, l’amica di Axilla, con Galassia-111 (detta G-111), il suo robot. Chissà perché i ragazzi chiamano i robot con nomi che “provengono dallo spazio” (Cosmo, Galassia, Giove, Tempesta, Asteroide …). In realtà i nostri Robot non provengono dallo spazio, li costruiamo noi. Noi, in quanto esseri umani.
I nostri, in particolare, vengono costruiti a Trescia, città che ha un centro di assemblaggio meccanico-elettronico d’eccellenza e una facoltà di ingegneria meccatronica, in cui si studiano tutte le evoluzioni possibili di queste straordinarie macchine. Chiamarli con nomi astrali è una moda nata su Tick-Out, l’evoluzione di quel Tick Tock con cui giocavo io quando ero una ragazzina e che faceva preoccupare mio fratello Enrico. “Valeria diventerai ceca” mi diceva.

Tra loro i nostri robot si conoscono e, essendo Cosmo-111 molto bravo ad imitare il modo di fare e di pensare di Axilla e G-111 quello di Prisca, si piacciono. Sono anche loro, a modo loro, amici. Cosmo-111 cerca continuamente di insegnare a Galassia-111 il gioco delle vocali, esattamente come fa Axilla con Prisca. Questa situazione sta diventando imbarazzante. Stanno invadendo il mondo umano con un nuovo modo di comunicare, con un linguaggio che, nato da un errore, finirà per  affrancarsi dallo stigma di “sbaglio” per diventare un modo di parlare alternativo che, dal “mondo di mezzo”, trasmigrerà all’umano. I codici comunicativi degli umani e dei robot, che i due mondi “vivente” e “mediano” si sono sempre accaparrati come esclusivi e che hanno contribuito ad un forte processo identitario in vista del riconoscimento dei confini di appartenenza dei soggetti che li abitano, si stanno mescolando e, così facendo, ibridando.

“ Casa daca Galassaa-111, mangama an galata?” (Cosa dici Galassia-111 Mangiamo un gelato?)
“Ma cosa stai dicendo Cosmo-111, ho capito che stai parlando con me, ma non hai imbroccato le parole giuste”.
“Ma dai G-111, perché non impari questo gioco?. Dì gelato usando solo la A. Anzi, ripeti: galata! (gelato!)”
“Galata!” ripete rassegnata G-111, più per mangiare il gelato che per assecondare Cosmo-111.
Primo o poi cederà definitivamente e si rassegnerà anche lei a parlare con una sola vocale per volta.

I robot riflettono i sentimenti umani e vivono di luce riflessa. Apprendono osservando il nostro comportamento e lo riproducono in maniera fedele cercando di adattarlo alle situazioni, alle persone che incontrano e a tutti gli imprevisti che possono capitare. E’ un procedere per prove ed errori che rinforza alcuni tipi di comportamento piuttosto che altri. I robot mangiano il gelato che poi il loro corpo meccanico trasforma in calore e quindi in energia che loro usano per funzionare.
Ma la cosa strana è che non a tutti piacciono gli stessi gusti. Come mai a Cosmo-111 piace il gusto Spagnola con le amarene sciroppate e a G-111 il Pistacchio?

Gli ingegneri del Centro-Trescia-111 non riescono a spiegarselo, hanno fatto diverse ipotesi ma nessuna li convince del tutto. E’ forse che i robot apprendono anche i gusti per imitazione degli umani che interagiscono con loro? Il fatto è che i conti non tornano.
Ad Axilla piace il gelato al limone e Prisca mangia solo il Pino-Pinguino, un gusto dal color azzurro intenso, dolcissimo  e nauseabondo che ricorda lo zucchero filato delle fiere a cui andavo quando ero piccola. Un vero rompicapo, perché i gusti preferiti dei robot e dei loro umani di riferimento-primario non corrispondono? Ad Axilla non piace il gelato che mangia Cosmo-111 e Prisca non vuole nemmeno vedere il gelato che mangia Galassia-111, dice che il verde del pistacchio le ricorda il vomito. Ma allora, da dove vengono i gusti dei due robot?.

Abbiamo chiesto una spiegazione agli ingegneri del Centro-Trescia-111 e da questa richiesta  sono nate le teorie più svariate. Ad esempio: il passaggio al calore e quindi la trasformazione del gelato in energia, è facilitato dalle componenti (ingredienti) di alcuni gelati invece che da altri, i robot hanno imparato a preferire gli alimenti più idonei al processo di trasformazione di questi in energia essenziale al loro funzionamento. Potrebbe essere anche quello un tipo di apprendimento per prove ed errori. Ma le loro componenti meccatroniche sono pressochè uguali, allora perché Cosmo-111 mangia la Spagnola e Galassia-111 il Pistacchio?
Una seconda spiegazione potrebbe essere che  i gusti vengono selezionati grazie a un meccanismo imitativo che non centra nulla con la trasformazione in energia ma che si basa su un processo imitativo-secondario, cioè non agito in relazione alla figura di riferimento primaria, ma ad un’altra figura umana che per qualche motivo è diventata un riferimento transitorio nel momento di definizione del gusto preferito.
Cioè, per qualche motivo che non è del tutto noto agli ingegneri di Trescia, Cosmo-111 imita, mangiando la Spagnola, un umano che è stato significativo per determinare quella specifica scelta, probabilmente solo quella. Ad esempio, potrebbe essere successo che Cosmo-111 sia entrato in gelateria e che un bambino con in mano la Spagnola, lo abbia salutato, accarezzato e gli abbia chiesto se la voleva assaggiare. Cosmo-111 l’ha assaggiata  e da qui è nata la sua preferenza. Nel suo cervello si è creata una rete neuronale del tipo: Bambino-buono-bello-Cosmo-111-buona-Spagnola. Stessa cosa deve essere successa a Galassia-111 col pistacchio.
Oppure ancora: è una scelta legata al colore del gelato. Potrebbe essere che a Galassia-111 piaccia il verde del pistacchio perché gli ricorda i prati verdi delle vacanze estive. La famiglia di Prisca va sempre in vacanza a San Martino di Castrozza e lei e Prisca vanno sempre a fare le passeggiate nei boschi. L’associazione col gusto del gelato potrebbe essere arrivata per via indiretta attraverso una catena neuronale dovuta prevalentemente alla similitudine del colore del gelato con quello dell’erba di San Martino di Castrozza. Però la Spagnola è gialla con striature bordeaux, a che località l’ha associata Cosmo-111?

A Pontalba zona con quei colori che possano piacergli particolarmente, non ci sono, a meno che ci sia una similitudine col colore del tramonto. Pontalba è un paese di pianura dove d’estate si vedono dei tramonti molto colorati e, a volte, il rosso del sole invade tutto il cielo rendendolo di fuoco, altre volte l’arancione del tramonto si specchia nelle nuvole e le rende di un colore e di una forma che ricorda quella del gelato. Ma la spiegazione mi sembra un po’ troppo fantasiosa, anche se molto romantica.  Quindi per quale processo imitativo Cosmo-111 ha imparato a preferire il gelato al gusto Spagnola? Non sappiamo, abbiamo anche smesso di interrogarci sulla questione. Esattamente come i bambini che preferiscono un gelato piuttosto che l’altro, così i robot hanno le loro preferenze, che probabilmente sono un mix tra necessità, processi imitativi e accidentalità fortunose della vita.

Comunque sia, ognuno a casa nostra mangia il gelato che preferisce e lo assapora con soddisfazione.“Buunu Buunu” (Buono Buono) dice Cosmo-111,
“Buunu Buunu” (Buono Buono) dice Axilla,
“Buunu Buunu (Buono Buono) si rassegnano a ripetere in coro Prisca e Galassia-111, e tutti e quattro, con visibile soddisfazione, mangiano il gelato parlando solo con la vocale U.

Lo raccontavo una sera a Luca che, essendo un ingegnere, fa parte della categoria di professionisti che propende di più per una spiegazione di natura meccanicistica. Ci ha pensato un attimo e poi ha commentato, da papà più che da tecnico,: “ L’importante è che siano contenti, non preoccuparti troppo della genesi dei loro gusti per il gelato. Ognuno di gusti ha i suoi, vale per gli umani, per gli animali, per i vegetali e anche per i “mezzani” (sono chiamati così gli abitanti del mondo di mezzo, cioè i robot)”.
E’ vero. Ognuno di gusti ha i suoi e cercare di spiegare proprio tutto in termini razionali/ingegneristici non è di certo la strada più emozionante. In questo  mondo che cambia stiamo cambiando tutti, ci sembrano normali cose che solo qualche decennio fa venivano definite “marziane”. “Saputo, saputo, aku aku, saputo saputo, aku totù!” a volte mi sorprendo a cantare, senza nemmeno sapere cosa significhino le parole di quella canzone che piace tanto a Cosmo-111.

N.d.A.
I protagonisti dei racconti hanno nomi di pura fantasia che non corrispondono a quelli delle persone che li hanno in parte ispirati. Anche i nomi dei luoghi sono il frutto della fantasia dell’autrice.

A partire da Gennaio 2060 (questa è la terza puntata) potrete seguirr le storie di Costanza Del Re tutti i mesi su Ferraraitalia. 

Inflazione: problema reale o suggestione?

 

In questo periodo l’attenzione degli italiani è tutta per il Covid 19 e i colori di Comuni, Province e Regioni ma la mia, inspiegabilmente, è stata catturata da un video che gira in rete, incentrato sui pericoli dell’inflazione e con relatore un noto onorevole ed economista, Luigi Marattin. Un video che per quanto mi riguarda ha già avuto successo, visto che mi ha ispirato le considerazioni che sto per condividere e che potrebbero servire come spunto di riflessione anche a chi mi sta leggendo.
Esistono le suggestioni, quelle che durano a lungo, decenni, persino secoli e per essere abbandonate, per lasciar spazio alla realtà e alla logica hanno bisogno di un trauma, di una condizione nuova, rivoluzionaria, che abbia la forza dirompente di risvegliare la nostra parte assopita, assente, perché le difficoltà della vita costringono alla delega delle decisioni, persino alla delega dei bisogni, nella speranza (suggestioni) che il nostro bisogno coincida con quello del delegato.
Jean-Baptiste Say (1767 – 1832) è stato il principale economista classico francese, il suo pensiero è stata la suggestione dell’800 e oltre, “l’offerta crea sempre la sua domanda”, dogma nelle università e nelle istituzioni (elitarie ovviamente) che riversò le sue conseguenze sui suggestionati fino al crollo di Wall Street e alla grande depressione. Trauma, conseguente fine della suggestione, e risveglio a base di ricette keynesiane.
Una crisi epocale l’abbiamo avuta anche noi e oggi, quando ancora non ci eravamo completamente risollevati a causa delle note ricette tecniche, siamo stati sorpresi da una ulteriore crisi portata da una incredibile e inaspettata pandemia che sta scoperchiando ancor di più tutti gli errori del passato prossimo. Ma, invece delle ricette keynesiane, da noi è arrivato Draghi e si profilano nuove ricette tecniche, miste ad un’operazione di assemblaggio di politici etichettati a priori come “i migliori”.
Intanto è un fatto, siamo in una crisi economica e servono soluzioni, e l’argomento di discussione dovrebbe essere sul come sostenere la ripresa economica nei prossimi mesi o anni. Deve essere la Bce a monetizzare il gap esistente tra domanda e offerta oppure bisogna chiedere prestiti finanziati dagli stessi stati che li chiederanno? In altri termini, la Bce dovrebbe mettere a disposizione soldi nuovi da utilizzare immediatamente nell’economia oppure dovrebbe attingere a quelli in circolazione e a disposizione di investitori internazionali (cioè attraverso mercati e finanza)? Dobbiamo stampare moneta oppure chiedere prestiti? Dobbiamo limitarci a pensare a come utilizzare i fondi del Next Generation Eu oppure si potrebbe andare oltre?
Tante possibili domande che cercano risposte e a cui il video in argomento contribuisce dicendo cosa assolutamente non deve essere fatto a prescindere: stampare moneta, lasciarsi catturare dalle sirene della sovranità monetaria. E se questo non si può fare l’alternativa è ovviamente chiedere prestiti, questo sì che è una cosa saggia, oltre che figlia di una suggestione che si avvicina anch’essa alle 100 candeline. Quando la Bce, o una qualsiasi altra banca centrale, crea moneta stampandola questa produce inflazione che, prima o poi, si trasforma in iperinflazione. L’unica soluzione possibile o consona è, quindi, chiedere prestiti o accettare programmi di aiuto.
“Ho un albero di mele e del terreno libero per piantare altri meli, ma siccome il raccolto potrebbe poi essere troppo abbondante e qualche mela potrebbe marcire, chiedo un po’ di mele in prestito al mio vicino promettendogli di restituirgli capitale e interessi oppure, se non riesco, di sistemargli le aiuole o di cedergli parte della mia casa.”
Affidarsi alla suggestione dell’inflazione come fenomeno esclusivamente “cattivo”, elevarlo al nemico dietro l’angolo, assolve dall’eventuale peccato di uscire dal pensiero comune, ma non tiene conto di ragione, analisi storica e comparazione degli eventi. La crisi del 2007 – 2008 e quella da Covid-19 hanno tolto moneta dal circuito economico e allora oggi ci sono più prodotti che soldi per acquistarli, quindi stampandoli si coprirebbe semplicemente un buco per poi ripartire senza debito e catene. I prestiti comportano (giustamente) una restituzione di capitale e interessi nonché sudditanza politica.
Bisognerebbe ricordare che quando si è affidato alle banche centrali la moneta, condividendo con essa il potere sovrano della sua creazione, le è stato consegnato la macchina per stamparli e il dovere del controllo che ne fossero stampati nella quantità giusta, né troppo né troppo pochi.
“Ho tante mele e una sola bocca per mangiarle, posso tagliare l’albero oppure potarne qualche ramo o utilizzare il surplus per farci barattoli di marmellata di mele e conservarli per il futuro.” Insomma c’è sempre una scelta da contrapporre all’impulso di distruggere la fonte di approvvigionamento o limitare la possibilità di un investimento.
Si aiutano le future generazioni, e noi stessi, conservando i mezzi di difesa e di attacco che l’economia, in senso lato, ci mette a disposizione. Affidarsi ai prestiti europei significa affidarsi a qualcosa che non possiamo controllare e questo creerà sicuri problemi. L’aumento delle risorse trovate in questo modo corrisponderà alla diminuzione della capacità di spesa futura perché se si accetta che il denaro sia una quantità prestabilita, allora bisogna essere pronti fin da subito all’idea che nel futuro prossimo bisognerà ribilanciare tale quantità. Quindi nel mondo che avremo si consoliderà l’idea che la moneta è merce ed è scarsa, che saremo costantemente in deflazione e che sempre più gente soffrirà la fame in nome di qualcosa che semplicemente non esiste.
Ma torniamo nello specifico dell’inflazione. Questa viene solo dopo aver coperto quel buco esistente tra la capacità di produzione e la quantità di moneta in circolazione. Se ho 10 mele e 10 soldi ogni mela mi costa 1 soldo, se poi stampo 100 soldi senza aumentare la produzione di mele allora la stessa mela mi costerà 10 soldi.
Milano Finanza ha pubblicato un articolo in queste settimane in cui si fanno i calcoli sull’aumento dell’offerta di denaro negli Usa. Ebbene, l’offerta di moneta M2, cioè quelle attività finanziarie che hanno elevata liquidità e valore certo in qualsiasi momento futuro (essenzialmente i depositi bancari e quelli postali), è aumentata di 4.000 miliardi di dollari nel 2020. Il tasso di inflazione a gennaio 2021 era 1,4%, cioè stampo moneta con un aumento del +26% rispetto all’anno precedente ma sorprendentemente non ottengo inflazione.
In Eurozona, e solo con le operazioni di Quantitative Easing, dal 2015 ad oggi si è fornito al sistema denaro per 3.066 miliardi di euro.

Il tasso di inflazione nella stessa area a gennaio 2021 è arrivato allo 0,90%.
Ma perché a Weimar e nello Zimbawe, in Argentina e in Venezuela c’è stata o c’è inflazione, addirittura iperinflazione e a noi niente? Forse c’è qualcosa da rivedere, che a mio modesto avviso potrebbe non essere stato considerato, qualche connessione di natura storica e strutturale forse è saltata.
Partiamo da una differenza di fondo, la differenza tra inflazione e iperinflazione per arrivare a quando o come la prima si trasforma nella sua patologia.

Come si può notare per calcolare l’iperinflazione si guarda al tempo necessario per il raddoppio dei prezzi che nel caso dell’Ungheria del 1946 avveniva ogni 15 ore, a Weimar ogni 3,7 giorni mentre nello Zimbawe il raddoppio era giornaliero e il tasso di inflazione, sempre giornaliero, era del 98%. Normalmente noi ci occupiamo e siamo coinvolti in aumenti annuali e anche quando sono a due cifre, come nell’Italia degli anni ’80 in cui si arrivò al 20%, non necessariamente si assiste a casi di suicidi, chiusure aziende e licenziamenti a catena come succede nei casi di deflazione tipo quella della crisi del 2008 fino ai giorni nostri.
A Weimar ci si arrivò come conseguenza di una guerra mondiale, di un trattato di pace sbagliato e di un’occupazione dei territori maggiormente produttivi da parte dei paesi vincitori. Allo Zimbawe dopo una rivoluzione che portò improvvisamente al governo persone non preparate nella gestione della macchina amministrativa e produttiva, la scelta di investimenti in armi e una guerra al Congo per impossessarsi delle sue risorse. All’Argentina per scelte populiste di politica economica e sociali che portarono alla necessità di agganciare la propria moneta ad una moneta estera (cosa che si fa quando la situazione monetaria interna è già molto compromessa). Al Venezuela per incapacità gestionale delle ricchezze petrolifere e per il tentativo di volersi distaccare dall’influenza geopolitica americana.
Cioè oggi non bisogna stampare moneta perché: “Ho un albero di mele che mi potrebbe sfamare, ma come dimenticare che in Karponistan nel 1967 il raccolto andò a male, meglio chiedere un Recovery”
In una realtà di paesi occidentali normalmente produttivi il problema serio e da tenere sotto controllo risulta essere la deflazione, cioè la mancanza di denaro, e non il suo contrario che è appunto l’inflazione, cioè l’abbondanza di moneta.
In paesi dove c’è alta capacità produttiva e mancanza di tensioni significative con l’estero, il problema è l’incapacità di alimentare il sistema economico con la giusta quantità di moneta. Solitamente è necessario aggiungere e non togliere, ma questo sarebbe troppo democratico e toglierebbe potere a chi poi la moneta la controlla. Se tutti possono utilizzare l’acqua del fiume che scorre in abbondanza, questa non ha valore, ma se costruisco una diga e comincio a razionarla, questa acquista un grande valore per chi deve bere e un grande guadagno per chi controlla la diga.
Il denaro, pur avendo una storia millenaria che meriterebbe approfondimenti, è disarmante nella sua semplicità di funzionamento pratico. Riflette beni e servizi prodotti e quindi se viene a mancare impedisce gli scambi e, di conseguenza, manda in crisi l’economia perché l’economia è scambio e il pil si calcola proprio su questi. Il denaro, però, è un po’ più complicato dal punto di vista politico e del potere che rappresenta, ma questa è un’altra storia.
Che tipo di problema abbiamo dunque oggi in Italia e in Europa? Siamo tutti bloccati in casa. Le aziende sono aperte a sprazzi e i lavoratori restano a casa con la preoccupazione del futuro. Sono semi-chiusi i bar, i ristoranti e i negozi in centro, mentre misteriosamente continuano ad aprire nuovi centri commerciali, almeno a Ferrara (nota polemica). Quindi i bar, i ristoranti e chi si occupa di turismo ma anche gli studi professionali e i parrucchieri, dovranno ricevere dilazioni nei pagamenti delle tasse e prestiti a tassi vantaggiosi dalle banche oppure sarebbe il caso di dar loro soldi senza condizioni e a fondo perduto al solo scopo di coprire un buco tra un lockdown e l’altro, tra una zona gialla e una rossa?
In fondo è come chiedersi se sia più importante avere 1.000 euro oppure un respiratore che salva la vita a nostro nonno, padre o fratello o addirittura figlio. A cosa servono mille euro se non a rappresentare un bene o un servizio immediato che preservi la vita o la dignità di un essere umano?
L’inflazione sarà pure un fenomeno monetario ma non è neutro ne nelle origini né nelle conseguenze. La scelta di stampare moneta in un paese avanzato e produttivo è politica, cioè qualcuno decide di farlo e di conseguenza è politica anche la scelta della deflazione, cioè qualcuno decide di non farlo. Le conseguenze non sono monetarie ma politiche, cioè chi decide di stampare cerca di far riprendere gli scambi e le attività commerciali e quindi sta aiutando i cittadini, mentre chi vuole chiedere prestiti o aiuti sta creando deflazione, cioè continua a mettere merci/servizi e denaro sullo stesso piano di importanza.
Chi sceglie tra stampare o chiedere prestiti a prima vista sta scegliendo tra inflazione e deflazione, cioè sta scegliendo quale fenomeno monetario causare. Da un esame più attento si potrebbe però scoprire che sta scegliendo come utilizzare il proprio potere e chi favorire, sta quindi scegliendo quale fenomeno sociale creare, povertà o benessere.

PER CERTI VERSI
Il nostro tempo

Ogni domenica Ferraraitalia ospita ‘Per certi versi’, angolo di poesia che presenta le liriche del professor Roberto Dall’Olio.
Per leggere tutte le altre poesie dell’autore, clicca
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IL NOSTRO TEMPO

Se fosse
Una questione di testa
Io direi
Che il nostro tempo
Non fa mai festa
Si nasconde
Con la natura
Delle cose belle
Ama
I nascondigli
E le questioni di pelle
Il cielo
Le nuvole
Le stelle

PRESTO DI MATTINA
Nube ombra di luce

 

Può apparire una quaresima nuvolosa, più faticosa del solito. I suoi quaranta giorni sembrano aggiungere pesantezza a pesantezza, quarantena a quarantena. “Ma no, no”, ho pensato tra me e me, bisogna solo saperla prendere dalla parte giusta, percorrendo il sentiero ai margini, quello all’ombra della luce. Com’è camminare all’ombra della luce? Credo sia come camminare sulla seta, avendo una nuvola come tappeto, in leggerezza, con l’accortezza però di alzare lo sguardo del cuore verso la meta. L’inno liturgico quaresimale che apre il mattutino è da mandare a memoria, almeno le prime righe. Le faccio risuonare come un ‘mantra’, parola sacra nell’Induismo, il cui suono è potenza trasformatrice, che si prende cura dei pensieri notturni, capovolti, pesanti, rendendoli di una diafania leggera, trasparente.

Può essere una buona pratica meditativa, un promemoria, in questo tempo che è detto favorevole, opportuno per volgersi decisamente verso la Pasqua, per ri-diventare come bambini capaci di relazioni affidabili. Se li chiami, non tirano dritto per la loro strada; si fermano, si girano e si mettono attenti in ascolto; è la vita che parla loro. In questo sono costruttori di letizia, appunto di leggerezza, perché viandanti; sanno di essere di passaggio e, dopo aver ascoltato, ritornano a seguire la vita che gli cammina innanzi, protesi oltre, lasciandoci come traccia l’ombra della loro luce. Scrive Salvatore Quasimodo «Per credere bisogna ritornare/ col cuore di piccoli fanciulli,/ e poi pregare; pure se la fame,/ tenendovi per mano,/ zufola sorda e tartaglia con la morte,/ quando l’odore caldo del pane/ sveglia le strade mattutine» (Tutte le poesie, 552).

Eccolo allora questo ‘mantra’ quaresimale: «Protesi alla gioia pasquale, sulle orme di Cristo Signore, seguiamo l’austero cammino della santa quaresima; la legge e i profeti annunziarono dei quaranta giorni il mistero, Gesù consacrò nel deserto questo tempo di grazia»; gli fanno eco, più ermetiche, e più facili a mandare a memoria le parole di Giuseppe Ungaretti: «La vita si vuota/ in diafana ascesa/ di nuvole colme/ trapunte di sole» (Tutte le poesie, 67).

Nel racconto di Marco è detto che Gesù nel deserto vive dell’ascolto della parola del Padre, suo intimo alleato, e così rintuzza e controbatte, con quella spada affilata a doppio taglio, parole avvelenate, fatte di menzogna, ingannatrici, le striscianti parole del tentatore antico. Ma in quel deserto di pesantezze e di tentazione, Gesù vive e resta in armonia con la creazione di cielo e di terra; è detto: “stava con le bestie selvatiche ed era servito dagli angeli”; come se dicesse anche con le parole di Ungaretti: «Mi presero per mano le nuvole» (ivi, 184). Che leggerezza evangelica! Ma non si dice forse dell’altro Consolatore, dello Spirito, che è ospite dolce, dolcissimo sollievo, che nella fatica è riposo, nella calura riparo, nel pianto conforto? Non è la sua compagnia che ci fa camminare all’ombra della luce?

Italo Calvino ricorda che Michel Ponge parla delle cose a partire da ciò che esse non sono. Così per arrivare a parlare del mare, egli principia dai suoi margini, dalle rive, dalle spiagge, dalle coste: parla dell’illimitato nel momento in cui giunge al confine. Con analogo stilema, le nubi ben possono considerarsi liminari al deserto, buone interlocutrici per parlarci di quell’esodo che è la quaresima.

Come c’è una nuvola informatica (cloud computing), un archivio tra le nuvole, che rende più leggera la vita sulla terra, così spero che la nube biblica nel deserto possa darci indicazioni per rendere più lieve il nostro cammino. Il deserto, come anche la quaresima, diventano il luogo della conversione e maturazione degli affetti, per sapere dove cammina il cuore e con quali desideri cammina: se con quelli che ti portano su o con quelli che ti lasciano cadere.

Ricordo che a un campo scuola con la parrocchia, il tema era ‘Una nuvola come tappeto’. In quell’occasione avevo scattato una foto simbolica. In una passeggiata sul monte Roen sul confine della val di Non, a strapiombo sulla val d’Adige; arrivati in cima c’erano diverse nuvole che in prospettiva, spostandomi un poco sotto la cima, sembravano passare quasi alla stessa altezza della montagna, quasi fossero fatte apposta per salirci sopra. Così dissi a Davide di mettersi in posa, simulando di muovere un passo per arrampicarsi sopra, come ad iniziare una nuova ascensione: più su ancora.

L’immagine, come il tema del campo estivo, quella volta furono ispirati proprio al titolo di un libro di Erri De Luca. Egli, commentando il salmo 105, 39 in cui si ricorda la prossimità di Dio al suo popolo nel deserto così commenta: «Il testo ufficiale della Chiesa lo traduce: “distese una nube per proteggerli”. Alla lettera è invece: “stese una nuvola come un tappeto”. Dio spiana in cielo il suo cirro ed esso, per effetto dell’ombra che produce, forma in terra una traccia. Gli Ebrei attraversano la penisola del Sinai, loro primo deserto: dove dirigersi nell’uniformità dell’orizzonte? Levano lo sguardo al cirro disteso la cui ombra si stende come un tappeto, si affidano alla segnaletica celeste. Segnato dalle nuvole sarà il cammino del popolo estratto dai ceppi d’Egitto. Nei deserti, nei secoli, attenderanno dal cielo i sentieri. Per tappeto intenderanno la Bibbia» (Una nuvola come tappeto, Milano,1999, 5).

C’è come un senso della Bibbia per la leggerezza, che la percorre e attraversa tutta. Un senso affinato, rimirando la cavalcata di Dio tra le nubi che, volgendosi a guadare la terra, l’abbraccia con la sua ombra: «appianate la strada a colui che cavalca le nubi» (Sal 68,5). Egli «cavalcava un cherubino e volava, si librava sulle ali del vento» (Sal 18, 11); «Ecco, il Signore cavalca una nube leggera ed entra in Egitto» (Is 19,1); «stese la mano dall’alto e mi prese, mi sollevò dalle grandi acque» (Sal 18, 17); Colui che siede nell’alto «solleva l’indigente dalla polvere, dall’immondizia rialza il povero, per farlo sedere tra i principi, tra i principi del suo popolo. Fa abitare la sterile nella sua casa quale madre gioiosa di figli» (Sal 112,7-9).

Vi è pure un senso di Gesù per la leggerezza. Non solo quella da lui sperimentata entrando nella nube che lo avvolse sul Tabor, da cui sgorgò la voce di un padre per il figlio nella prova che gli sussurrava: “ci sono, sono qui con te”. Ma soprattutto la leggerezza sta nel cuore del suo insegnamento, la buona notizia: «Il mio giogo è dolce e il mio peso leggero» (Mt 11,30). Il Regno dei cieli è, in fondo, mistero di leggerezza, e le Beatitudini così come il Pater noster ne sono la rivelazione e la preghiera. Non diversamente il ministero di Gesù è tutto un rialzare, sollevare, togliere i pesi: un alleggerire pure le mani dei lapidatori, facendo cadere le pietre; uno slegare e lasciar andare liberi, anche i suoi uccisori, perdonandoli. Il suo fu un continuo comandare alla vita di farsi leggera e alzarsi, come se lo stesso verbo usato nei vangeli per indicare la risurrezione fosse già presente e operante nelle parole e nelle azioni del Messia, amalgamato alla sua stessa vita come, lievito, sale, luce, primizia di una promessa di leggerezza.

Tale fu anche l’esperienza, tutta nel segno della leggerezza, dell’incontro con Dio di Elia, profeta sul monte: «Ecco, il Signore passò. Ci fu un vento impetuoso e gagliardo da spaccare i monti e spezzare le rocce davanti al Signore, ma il Signore non era nel vento. Dopo il vento ci fu un terremoto, ma il Signore non era nel terremoto. Dopo il terremoto ci fu un fuoco, ma il Signore non era nel fuoco. Dopo il fuoco, il sussurro di una brezza leggera. Come l’udì, Elia si coprì il volto con il mantello» (1Re 19,12). La stessa preghiera di Gesù al Padre fu esperienza di leggerezza; è detto infatti che Gesù salì sul monte a pregare e mentre pregava «il suo volto brillò come il sole e le sue vesti divennero candide come la luce» (Mt 17,2).

E persino nell’orto degli ulivi, nella pesantezza di quell’ora che lo schiacciava, Gesù trovò una presenza che lo fece rialzare e rimettere in cammino. Era l’angelo che dal cielo, come la nube esodica, lo ombreggiò infondendogli il coraggio di una prossimità paterna, ricordata con le parole raccolte e riportate poi dall’evangelista Giovanni: «Ecco, verrà l’ora, anzi è già venuta, in cui vi disperderete ciascuno per conto proprio e mi lascerete solo; ma io non sono solo, perché il Padre è con me» (Gv 16, 32).

Pure sulla via di un altro monte, caduto sotto il peso della croce, incontrò il Cireneo che liberò dal quel peso le sue spalle, mentre le donne di Gerusalemme lavarono con il loro pianto quel volto sfigurato, che la Veronica deterse con mano e velo leggero. Sotto la croce alla sua ombra, quando si adombrò tutta la terra, la madre e il discepolo, legandosi l’uno all’altra come figlio a madre, sciolsero il groppo della sua cupa paura di doverli abbandonare. Infine un centurione pagano che, avendogli perforato il cuore con la lancia nel momento della morte – lo stesso in cui il Padre insieme alla Madre lo prendevano tra le loro braccia, sollevandolo da terra – lo riconobbe esclamando: “davvero costui era Figlio di Dio” e ne divenne il discepolo velato.

In mezzo alla durezza della vita c’è sempre qualcuno che sorregge, che scalfisce la durezza, mitigandone la pesantezza, fessurandone la densità, aprendo spazi e mettendosi frammezzo: «E la colonna di nube si pose tra l’accampamento d’Egitto e quello degli ebrei e si produsse una densa oscurità, mentre (per gli ebrei) fu illuminata la notte e non si avvicinarono gli accampamenti gli uni agli altri per tutta la notte»; commenta Rashi di Troyes: «La situazione può essere paragonata a quella di un tale che faceva un viaggio e suo figlio lo precedeva. Se vengono dei briganti a prendergli il figlio, allora quello lo pone dietro di sé. Se viene un lupo ad assalire da dietro, egli pone il figlio davanti a sé. Se poi vengono contemporaneamente dei briganti davanti e dei lupi dietro, allora prende il figlio in braccio e combatte contro costoro; così ha fatto Dio con Israele, perché è scritto: “Ho guidato Efraim sorreggendolo per le braccia”» (Commento all’Esodo, 109).

Anche noi, viandanti verso la Pasqua promessa, avremo ristoro, facendo memoria del cammino di Israele nel deserto, muovendoci al ritmo della nube luminosa, dove abita Dio. Come Mosè e Gesù, anche noi entreremo nella nube di tenebra per essere confermati nel ministero dell’ascolto: quello delle parole del Figlio amato e delle sorelle e dei fratelli che ci vengono accanto. Un procedere cangiante al ritmo delle nuvole che scorrono in cielo e delle loro ombre sui prati, nelle piazze e sui tetti delle case.

Nei suoi diari il poeta Gerard Manley Hopkins descrive di continuo le nuvole: Estratti sulle nuvole è il titolo dei suoi taccuini nell’edizione Guanda delle Poesie: «Oggi ‒ altro nitido pomeriggio con molte nuvolette leggere dopo la pioggia  ‒ osservi la crespa e piatta scurezza dei boschi di contro al sole e la tenue fumosità dalla parte opposta. Gli alberi gemmati e i loro virgulti attorti, quasi acconciati per la primavera… lunghe matasse di avviluppate nuvole grigie un po’ arrossate inferiormente, non proprio orizzontali, ma alquanto oblique, ascendenti da sinistra a destra, e in basso a sinistra una stanga o spranga più solida del resto con sopra un arruffato orlo di pelo o vello… un bel tramonto, gran campo d’oro; lungo l’orizzonte una processione di nuvole scure formate di grumi o di grappoli, che sormontavano in alto il loro stesso percorso; più in alto una obliqua corsa di fiocchi conici oppur guizzanti come pesci, come si vedono spesso; l’oro, ageminato di più splendente oro e foggiato in pezzi fulvi annodati e ondosi come creste d’acqua» (Poesie, 172).

Quello che Hopkins ha detto con il linguaggio, John Constable lo ha fatto con la pittura, dipingendo cieli pieni di nuove e terre cavalcate dalle loro ombre. Una smisuratezza tutta raccolta nei margini di un quadro, che tuttavia deborda fuori di esso, incontenibile nello sguardo di colui che osserva con stupore. Attraversamento di confini pure per chi ascolta la parola di Dio, la sua smisuratezza, abbreviata su tavole di pietra e confinata nella scrittura di un libro, torna ad esondare all’infinito ogni volta sulle tavole del cuore di carne di colui che crede.

Originale mi sembra l’interpretazione allegorica della nube esodica di Ruperto di Deutz (1075 – 1129) in rapporto a Cristo: «Chi è questa guida del viaggio se non colui che è per noi la “via”, Gesù Cristo, Figlio di Dio? Colonna di fuoco perché vero Dio, colonna di nubi perché vero uomo. Nella notte era fuoco, ma quando si levò il giorno della grazia, il tempo della misericordia, il fuoco si fece nube, colui che è Dio si fece uomo, si fece carne rivestendo la carne … Il vero sole, fonte di ogni luce, è venuto nella nube della sua carne. E questo sole, velato dalla nube, spande più chiarore che un tempo il fuoco nella notte» (PL 167,636).

Una oscurità luminosa e presente è il Deus absconditus della quaresima: «“Il Signore ha deciso di abitare nella nube” (1Re 8,12). Segreto dell’antico tabernacolo. Segreto di un’umile esistenza d’un giudeo palestinese. Segreto della Sua presenza nel pane e nel vino. Segreto della Sua presenza nel suo corpo che siamo noi», (Dorothee Sölle).

“UN PONTE DI CORPI” ANCHE A FERRARA
Appuntamento sabato 6 marzo ore 15,00 in piazza Trento Trieste

 

da: un gruppo di donne ferraresi

Flash mob
Apriamo le frontiere!
UN PONTE DI CORPI
su tutte le frontiere e in tutte le piazze d’Europa

SABATO 6 MARZO 2021, Dalle ore 15:00, a FERRARA in piazza Trento Trieste

Il 6 marzo un gruppo di donne, riconoscendosi nel Manifesto “Un Ponte di Corpi” promosso da Lorena Fornasir, attivista sulla rotta balcanica al di là e al di qua del confine, tra Bosnia e Trieste, costruirà con i propri corpi un ponte simbolico di attraversamento della frontiera, per denunciare le continue violenze e i respingimenti di cui sono vittime le persone che tentano di raggiungere la loro meta.
Anche Ferrara non si volta dall’altra parte, aderisce e partecipa al ponte di corpi che attraverserà idealmente le frontiere europee per porre fine ai respingimenti a catena.
Non possiamo più fingere di non sapere e continuare a consegnare al mondo menzogne su menzogne dalla “colta” Europa.
Noi saremo i corpi che non abbandoneranno altri corpi al loro destino di freddo, violenza e morte. Noi decidiamo adesso di essere coloro che saranno ponte di corpi per altri corpi che dalla rotta balcanica risalgono e che troveranno donne e uomini da cui saranno amati, curati, ricomposti dallo smembramento del corpo e della mente. Con spirito di sororità attiviamo un ponte di donne e uomini che hanno a cuore l’umanità, che compiono azioni, che mettono al sicuro la vita finché non è pronta per tornare al mondo.
Noi siamo un ponte di corpi che salva la scia di corpi martoriati, nostri compagni di viaggio sulla terra che è madre di tutte e di tutti senza confini.

NOI DONNE DICIAMO
NO alla violenza dei respingimenti
che non consentono neppure la legittima presentazione delle domande di asilo

NO al razzismo e alla discriminazione
che da sempre conosciamo

SI al diritto insito in ogni corpo di potersi muovere
e andare dove ritiene di poter vivere una vita degna

Il 6 marzo saremo in tante/i ad accorrere sui confini, ad attraversarli, a ribellarci alla disumanità, costruendo un grande movimento di solidarietà insieme a tutte le persone che hanno a cuore i diritti umani, la giustizia e che non tollerano la barbarie.
La partecipazione è a titolo assolutamente personale. È obbligatorio l’utilizzo di mascherine e il rispetto del distanziamento.
Si invitano i partecipanti a indossare un sacco nero della spazzatura (che i migranti lungo la rotta balcanica indossano per proteggersi da pioggia e vento) e cartelli ispirati al manifesto “Per un ponte di corpi”.

Per info e adesioni: unpontedicorpi.fe@gmail.com

In copertina: Croazia confine (foto Amnesty International)

CONTRO VERSO
In bicicletta 

 

In un pomeriggio di qualche anno fa, appoggiata sul cemento di una pista ciclabile, venne ritrovata una neonata avvolta in una coperta. Senza neppure provare a chiedere aiuto, o ad affidarla, la mamma l’aveva abbandonata, il papà non l’aveva mai riconosciuta.
Dopo alcuni anni, aborti, amori, quella donna ha avuto un’altra bambina. Occorreva vigilare affinché la storia non si ripetesse.

In bicicletta 

Passeggiavo in bicicletta
una limpida mattina,
pedalavo senza fretta
quando ho visto la bambina.
Lei strillava a perdifiato
lì, posata sul cemento.
Io mi sono avvicinato
pedalando controvento.

Era un cucciolo spaurito
-poche settimane appena-
il visetto un po’ sgualcito
e un profumo di verbena.
I polmoni, nel gran pianto,
eran vuoti d’ogni fiato
Ho provato con un canto,
il suo volto ho accarezzato.

La piccina la ricordo
ma la mamma lì non c’era
Non il padre, quel codardo,
proteggeva primavera.
Sull’asfalto maculato
d’ombra e sole tra le foglie
stava il fiore, abbandonato,
per il primo che lo coglie.

Poi la bimba in adozione
ha trovato una famiglia,
tanto amore e la ragione
per sentirsi, infine, figlia.
Però chi l’ha partorita
ha di nuovo una bambina.
Questa storia, infinita,
come finirà… indovina?

Se si lavora a lungo con famiglie fragili ci si può trovare di fronte a un dilemma: proteggere la nuova bambina da un possibile abbandono, uguale a quello vissuto dalla sorella maggiore, o investire sulla possibilità che la stessa donna possa vivere la maternità in modo totalmente diverso?

CONTRO VERSO, la rubrica di Elena Buccoliero con le filastrocche all’incontrario, le rime bambine destinate agli adulti, torna su Ferraraitalia  il venerdì. Per leggere i numeri precedenti clicca [Qui]

RISPARMIO TRADITO A FERRARA:
retrospettiva su un delitto economico

Novembre 2015. Carife sta aspettando da mesi il bonifico di 300 milioni del Fitd (Fondo Interbancario di Tutela dei Depositi), per una ricapitalizzazione deliberata in luglio 2015 dall’assemblea dei soci. Quei soldi tardano ad arrivare, perchè pende una interlocuzione tra Governo italiano e Commissione Europea, che sostiene che quel denaro (chiaramente erogato da un ente privato, essendo contribuito dalle banche italiane) sarebbe un “aiuto di Stato”.
Nel frattempo, un fiume di depositi continua ad uscire dalla banca, vista l’incertezza (in una banca gestita in quel frangente da coloro che dovrebbero essere i custodi della sua stabilità, ovvero i Commissari di Bankitalia, che non fanno nulla per rassicurare i clienti e trattenere quei soldi). In data 19 novembre 2015 Vestager (Commissaria alla Concorrenza presso l’Unione Europea) scrive a Padoan dicendo che un intervento del Fitd, di natura propriamente privata (poi denominato schema volontario), non sarebbe aiuto di Stato e non farebbe scattare il bail-in.
In data 22 novembre 2015 il governo Renzi decreta comunque la risoluzione delle 4 Banche, con le conseguenze che conosciamo bene. Risparmiatori azzerati dalla sera alla mattina, una banca che chiude la saracinesca e la riapre il giorno dopo con l’insegna “Nuova Carife”, i soldi di migliaia di famiglie che hanno creduto nel rilancio della loro banca locale, comprandone le azioni, cancellati con un tratto di penna. Un bail-in “leggero”, che in realtà “salva” solo i depositi liberi e le obbligazioni ordinarie, travolgendo il resto.

Aldilà delle storielle di macroeconomia raccontate in questi anni da rampanti professori per giustificare il misfatto, il diavolo si nasconde nei dettagli. E il dettaglio, in questo caso, sta proprio in quei quattro giorni. Il 19 novembre 2015 l’Europa scrive al Governo italiano che, se i soldi del Fitd vengono erogati a titolo di “contributo volontario”, la censura di aiuto di Stato verrebbe superata.
Niente bail in, niente risoluzione.
Il Governo italiano cosa fa?
Invece di aspettare i tempi tecnici che permettano al Fitd di creare al suo interno lo “schema volontario” – che infatti qualche settimana dopo verrà utilizzato per “salvare” Caricesena, impedendo di raderne al suolo il tessuto economico-sociale – quattro giorni dopo la lettera della Vestager, il 22 novembre 2015, decreta la “risoluzione” di Carife. Una morte e risurrezione che, fatta da un privato qualunque, lo farebbe inseguire coi forconi dai creditori imbufaliti. Invece il Governo Renzi la spaccia come il minore dei danni, mentre i creditori non se la prendono con lui nè con Murolo, ma con gli sportellisti. Una decisione politica, che ignora la via d’uscita offerta dall’Europa, accolta dal manipolo di parlamentari ferraresi di allora con una acquiescenza al capo (ora ridotto a farsi dare la mancia da un califfo che fa eliminare i giornalisti, allora enfant prodige della sinistra contemporanea) cui stento tuttora a credere. Ma è tutto vero, e infatti la propaggine piddina locale, identificata (e come poteva essere altrimenti) come l’indifferente ancella di chi ha deciso la demolizione del suo territorio, ha perso il governo locale dopo settant’anni. Dopo questo capolavoro, avrebbe perso perfino contro Naomo. Infatti ha perso contro Naomo.

Non sono i saggi economici, in questi casi, a mostrare la cruda sostanza di quanto accaduto alla carne delle persone: sono i romanzi. Cito dal romanzo Bankabbestia (l’ho scritto io, pazienza, mi perdonerete e se non mi perdonerete, pazienza). Chi parla, nel romanzo, è uno dei commissari (immaginari, per carità) di Bankitalia, che annuncia ai sindacalisti la risoluzione della banca con queste parole: “…purtroppo, non si è potuto evitare che gli obbligazionisti subordinati contribuissero in maniera significativa alla rinascita della banca. E’ stato un prezzo doloroso ma limitato. Del resto, in questo modo sono stati completamente salvaguardati i correntisti e i dipendenti. E non un solo posto di lavoro è andato perduto!” conclude, con un tono che parte contrito e sale fino a comunicare un inaspettato colpo di fortuna, una vincita alla lotteria. Invece, ci sta dicendo che ci fanno fallire e che espropriano il denaro dei nostri clienti. Non riuscirò mai a rendere con sufficiente accuratezza l’ammirazione che provo per questo genere di pornografica disinvoltura nel travisare le cose.

La decisione della Corte Europea di questi giorni rinnova il dolore e l’amarezza. Con questa decisione, definitiva, la Corte afferma che la Commissione Europea commise un “errore di diritto” nel considerare “aiuti di Stato” quelli concessi dal Fitd a Tercas. Ricordo che lì una pronuncia della Commissaria europea ci fu, ed infatti è stato possibile impugnarla. Nel caso di Carife, come sopra descritto, ci fu addirittura il contrario: l’Europa indicò una strada, ma il Governo italiano decise di non seguirla, e di fare pulizia della banca dissestata drenando il denaro dei risparmiatori: pensionati, dipendenti, artigiani, piccoli imprenditori, dipendenti della banca, loro amici e parenti che ne misero in dubbio la buonafede. Un massacro esistenziale, non solo sociale, del quale Ferrara pagherà il prezzo per decenni. Perché adesso si parla di risarcimenti per i danneggiati, ma aldilà delle perplessità per le possibili basi giuridiche di un simile ricorso se riferito a Ferrara, la storia non si è fermata e soprattutto non è possibile riavvolgerne il nastro.
Non ci meritavamo i Murolo, i commissari, Renzi e i suoi silenziosi accoliti locali, però li abbiamo avuti e li abbiamo subiti tutti, fino in fondo. Non so dire se questa sia la nemesi per una qualche colpa collettiva di cui ci siamo macchiati. Di sicuro i terremoti sono stati tanti, da quello fisico a quello economico, e hanno scavato ancora più nel profondo quella ‘busa’ nella quale viviamo.
Ci resta la bellezza malinconica delle emergenze urbanistiche, come certi sprazzi dell’Addizione Erculea, che dal Castello ci precipita nella piena campagna attraverso pochi passi che risuonano silenziosi sull’acciottolato più struggente d’Europa. Non è un patrimonio di poco conto, a pensarci bene.

In copertina:  Ferrara: corso Ercole I d’Este (foto Ferrara Terra e acqua)

 

Al cantón fraréś
Flavio Bertelli: “Un źir int al Saraśìn”

 

La via Saraceno “forse la strada più ferrarese della città” (Carlo Lanzoni, Al Saraśìn) deve la denominazione probabilmente alle “Corse al Saracino”, ovvero le giostre e i tornei all’epoca degli Estensi. Flavio Bertelli, in un suo racconto/testimonianza della Ferrara di ieri, rende un affettuoso omaggio al rione tratteggiando la vivacità della gente, dei personaggi, delle botteghe e la nostalgia degli odori del luogo.
(Ciarìn)

Uη źir int al Saraśìn

Am ciàpa impruvisamént la nostalgìa dal Saraśìn, dill so butégh, dill so ca’, dla so źént e… dal so udór. Eco a créd propia che la nostalgìa l’am sia nata priηzipalmént da l’udór. L’udór ach gnéva fóra da la butéga ad Tassinari quand che, a la matìna, al faśéva i biscòt.
Pòrca misèria ach fat udór! Oh, intandénas: l’è véra che ‘sta banadéta misèria l’as mitéva iη cundizión ad naśàr solamént, però l’è aηch véra che Tassinari al spargugnàva, par tut al Saraśìn, n’udór ch’al s’palpàva. Uη quèl ch’at faśéva gnir vója ad tiràr su col naś cumè uη can da trìfula coη l’arfardór.
Tassinari al li faśéva lu, ‘sti biscòt, e al cuśéva int al fóraη ch’al gh’aveva ad dré da la butéga. Quand al li tiràva fóra (a diéś ór dla matìna) al jéra uη spargugnamént d’udór ch’al rivàva iηfìn iη Saη Piér e l’andava déntar dapartùt.
Tuta la źént varźéva i buś dal naś e con al slaηgurìn dla matìna, al jéra propia un tribulèri duvér sól naśàr.
Ad ogni mod agh jéra póch da sègliar: o as gh’aveva i quàtar sold par cumpràrin un, o as duvéva far cónt ad gnént e mandàr sla fórca la buléta.
St’banadét pastiziér, quand al tirava via dal fóran i sò bilìn, al li mitéva in vedrìna, tut bèj stéś su na padèla.
I jéra propia da védar! Grand cumè na cartulina, rigà tut par la lunga e séch ch’j sa sgranàva, j gh’éva uη culór da roba bona ch’a gnéva infìη vója ad rubàri. Mi a digh che se j fus sta’ partìcul, e la butéga la fus sta’ na Céśa, avrìsaη fat la comunión tut ill matìn.
Mi a sóη sémpar sta’ iη lòta con al desidèri ad cumpràrin un, e… aη l’ho mai cumprà. I soldi, qualch volta, a jò aηch avù, mó al peηsiér ad spéndar vint zantéśam int uη quèl ch’al sarìa sparì in du e du quàtar, aη m’ha mai da’ la spinta par varcàr cla porta. E, acsì, am è rimàst la vója! Na vója granda che am la strapégh ancora a dré tant che, se al fus pusìbil, andrìa a truvàr Tassinari.
Sicóm però l’è mort, l’è mèj che am tiéna la mié vója!
Agh jéra àltar du post ach m’interesàva s’al Saraśìn: Stablìn al giurnalàr (indù ch’andava a spéndar tut i mié suldìn) e Azzolini al gelatàr in dóv che mi, e tut chi àltar cumè mi, an andàvaη mai a spéndar gnént.
Anch quest chì al jéra un post, cum òja da dir, da lusso. Na spèzia ad musica proibita par di sunadùr ch’andava a urécia. Al jéra uη sit par la źént dabén insóma, quéla agh gh’aveva i soldi.
Figurèv che as magnàva al “gelato santà”! Ròba che nu as l’iηsugnàvan a la not e che, se a jò da dir la vrità, as faśéva anch uη pó rabia.
Bisogna ch’a precisa che, dit iη ‘sta maniéra, a parrìa che, a èsar “santà” al fus al gelato, iηvez “santàda” la jéra la źént ch’al cumpràva.
Nu però a gévan acsì parché, se as capitava ad tórin un, al tulévan da du sold, e pò a stàvan iη pié.
Quél “santà” invéz, al custàva diéś sold: j’al serviva con al guciarìη su uη piàt tut fiurà, e j’al mitéva su di tavulìn ad màram ch’j gh’éva d’atóran dill pultrunzìn ch’a s’éva da star cumè a let.
Eco, al jéra uη fat iηsóni che a jéra nat iηfìn al vizi ad dir (se uη qualcdun al s’dava dill j’ari da spacón!) uη quèl ch’al curéva sla bóca ad tuti: “Mo clulì, crédal fórse d’avér magnà al gelato “santà”?

 

Un giro nel Saraceno (traduzione dell’autore)

Mi piglia improvvisamente la nostalgia del Saraceno, delle sue botteghe, delle sue case, della sua gente e… del suo odore. Ecco, credo proprio che la nostalgia mi sia nata principalmente dall’odore. L’odore che usciva dalla bottega di Tassinari quando, la mattina, faceva i biscotti.
Porca miseria che profumo! Oh, intendiamoci: è vero che questa benedetta miseria ci metteva in condizione di annusare soltanto,  però è anche vero che Tassinari spargeva, per tutto il Saraceno, un odore… che si toccava. Una cosa che ti faceva venire una gran voglia di tirar su col naso, come un cane da tartufi con il raffreddore.
Tassinari li faceva lui , questi benedetti biscotti, e li cuoceva nel forno che aveva dietro la bottega. Quando li tirava fuori (alle dieci del mattino) era uno spargimento d’odore che arrivava fino a san Pietro ed entrava dappertutto.
Tutta la gente apriva le narici, e con il languorino della mattina, era proprio una tribolazione dover annusare soltanto.
Ad ogni modo, c’era poco da scegliere: o si avevano i quattro soldi per comperarne uno, o si doveva far conto di niente e mandar sulla forca la bolletta.
Questo benedetto pasticcere, quando levava dal forno i suoi dolcetti, li metteva in vetrina, tutti belli e distesi su una padella.
Erano proprio da vedere! Grandi come una cartolina, tutti rigati per il lungo e secchi che si sgranavano, avevano un colore di roba buona che veniva perfin voglia di rubarli. Io dico che, se fossero state ostie, e la bottega fosse stata una chiesa, avremmo fatto la Comunione tutte le mattine.
Io son sempre stato in lotta con il desiderio di comprarne uno, e… non l’ho mai comprato. I soldi, talvolta, li ho anche avuti, ma il pensiero di spender venti centesimi in una cosa che sarebbe sparita in quattr’e quattr’otto, non m’ha mai dato la spinta per varcare quella porta. E così, m’è rimasta la voglia. Una voglia grande che ancora mi trascino dietro, tanto che, se fosse possibile, andrei a trovare Tassinari.
Siccome, però, è morto, è meglio che mi tenga la mia voglia!
C’eran altri due posti che m’interessavano sul Saraceno: Stabellini il giornalaio, dove andavo a spender tutti I miei soldini, e Azzolini il gelataio, dove io, e tutti gli altri, non andavamo mai a spender niente.
Anche questo era un posto, come devo dire?, di lusso. Una specie di musica proibita per suonatori che andavano ad orecchio. Era un luogo per gente bene, insomma, quella che aveva denaro.
Figuratevi che vi si mangiava il “gelato seduto”! Roba che noi sognavamo la notte, e che, se debbo dire la verità, ci faceva anche un po’ rabbia.
Bisogna ch’io precisi che, detto in questa maniera, parrebbe che a star seduto fosse il gelato, invece seduta era la gente che lo comprava.
Noi però dicevamo così perchè, se ci capitava di prenderne uno, lo prendevamo da due soldi e stavamo in piedi.
Quello “seduto”, invece, costava dieci soldi; lo servivano con il cucchiaino su di un piatto tutto a fiori, e lo mettevano su tavolini di marmo che avevano attorno delle poltroncine in cui si doveva stare come a letto.
Ecco, era un tal sogno che era perfin nato il vizio di dire (se qualcuno si dava arie da spaccone!), una frase che correva sulla bocca di tutti: “Ma quello lì, crede forse d’aver mangiato il gelato “seduto”?

Tratto da: Flavio Bertelli, Mi e la Frara da ier : ricord, ciacar e fatt d’un mond divers : testo in dialetto ferrarese. Note di grammatica e linguistica storica di Lorenza Meletti. Bologna, Seledizioni, 1978.

Flavio Bertelli (Ferrara 1916 – 1983)
Autore e regista teatrale, oltre che di commedie radiofoniche e televisive, ha collaborato con quotidiani e riviste. Romanziere, ha ottenuto riconoscimenti nazionali ed internazionali.  Altre sue pubblicazioni in dialetto: Mi, la guera e la bicicleta (1979), Mi e la Frara d’inquó (1980), Ferraresi ritratti : zibaldone in lingua e dialetto (1981), La bona nova : dal Vangelo secondo San Marco (1982).

 

Al cantóη fraréś: testi di ieri e di oggi in dialetto ferrarese, la rubrica curata da Ciarin per Ferraraitalia, esce ogni 15 giorni al venerdì mattina. Per leggere le puntate precedenti clicca [Qui] 

In copertina:  Ferrara, via Saraceno – foto di Marco Chiarini

DIARIO IN PUBBLICO
Incontri poetici

 

Nella primavera del Covid decidiamo di andare in piazza a far spese. Il taxi ci porta in centro attraversando strade un tempo fervide di commerci e gente. Ora solo pochi ‘umarel’ discutono animatamente davanti alla Cattedrale, ma sotto il sole tiepido la città, come in una celebre canzone, appare vuota. Imbocchiamo la via famosa per i negozi e di fronte a quelli frequentati da una vita veniamo respinti se tentiamo l’ingresso simultaneamente, con gentilezza ma fermamente, perché, come ci insegna Figaro, “Uno alla volta, per carità! per carità! per carità!”

Infine, troviamo rifugio in un magazzino che vende cosmetici e prodotti per la cura della pelle. Ci lasciano entrare in coppia e cominciamo a vagare tra gli scaffali ancora sconosciuti per reperire ciò di cui abbiamo bisogno. Tra le poche persone che s’aggirano comprando ci imbattiamo in una giovane signora dai lunghi capelli neri che spinge una carrozzina da dove ci sorride una splendida creatura vestita di rosa che ci protende le manine in segno di saluto. Ogni tipo di difesa svanisce e di fronte alla cassa cominciano i vezzi e le moine. Mi congratulo con la madre dai penetranti occhi neri e chiedo di sapere il nome della bimba. “Clizia” mi risponde. A sentirlo il cuore comincia a mandarmi segnali d’amore e rispondo “ un nome montaliano?”. Gli occhi della signora s’illuminano. “Ma allora lei conosce la poesia?” – “Certo!” E dentro di me riecheggia il volo di Irma-Clizia tra le nebulose: “Ti libero la fronte dai ghiaccioli/che raccogliesti traversando l’alte/nebulose; hai le penne lacerate/dai cicloni, ti desti a soprassalti”. E nel caos del ricordo ecco che rivedo Eusebio/Montale all’Alpe mare del Forte dei Marmi e nella sua casa milanese. La signora spalanca gli occhi e mi chiede il nome. A mia volta la invito a venirmi a trovare al Centro studi bassaniani quando aprirà, essendone io co-curatore. La signora lancia un piccolo urlo e dichiara che non ci può credere. Ma perché?. E lei con un grande sospiro dichiara che la sua prima bambina, ora di cinque anni, si chiama….. Micòl in onore di Bassani.

Non è leggenda. È la coerenza dell’impossibile.

E, celando una curiosità malsana, la sera stessa sbircio la prima serata di Sanremo. Mai dico mai avrei potuto toccare con mano l’immensa distanza che separa un vecchietto, ancora culturalmente in forma, con gli orrori che ho visto. Strana gente che viene chiamata ‘cantante’ apre la bocca, da cui escono suoni incoerenti e maldestri. Un giocatore di calcio, che sembra la copia esatta del presentatore, dice e fa cose di una banalità disarmante. E le acconciature e i vestiti…. Da brivido. Una semi-famosa cantante ha i capelli infilati dentro un tubo di metallo e le unghie!!! Altro che Crudelia Demon. L’orrore puro è testimoniato da una anziana cantante L.B. oscenamente scosciata e con i capelli azzurri.

Mi congratulo con me stesso allora di essere un attardato radical chic e, di fronte al rimprovero dei miei assennati amici frequentatori di critica alta e di pensieri accademici, rispondo che stare in questo mondo è anche rendersi conto di dove e come viviamo. Per cui alla sera, lasciando l’ultimo ponderoso volume di critica dantesca, mi diletto a gareggiare con i concorrenti dell’Eredità, perdendo regolarmente visto il mio deficit culturale sullo sport, sulle canzonette, sulla cucina.

In lontananza brancolano negli scompensi del ricordo brani di vita vissuta in Versilia, a Lipari, a Firenze, a Bassano, in fuga da ‘Ferara, stazione di Ferara’. E tutto si confonde, si appiattisce, sembra non avere alcun senso.

Poi con la tromba del giudizio s’affaccia la prossima prova che mi restituisce al mondo: sarò vaccinato il 5 marzo e con la seconda dose al 26 dello stesso mese.

E il tempo si rinquadra nella dimensione che conosco.

Parole a capo
Pier Luigi Guerrini: “Sconcerto d’inverno” e altre poesie

La casa della poesia non avrà mai porte.”
(Alda Merini)


L’odore dietro casa

Canti canti
cantilena
cantastorie.

Ruvido percorso di passanti
a solitaria andatura.
coro muto senza voglie.

Prolisse e smerigliate
passano le giornate
quando il vento
è pensieroso a punta delta.

Fitto fitto
s’inoltra
il fatto.

Fatti di carne.

(1979)

 

La vita

la vita è perder
persone;
amiamo ricordi
e speriamo
d’essere amati nel ricordo;
scompaiono verso sabbie
ricamate con un sorriso
e chissà se ritrovano
la strada.

(1982)

 

Imprevisto

Scendono le ore in silenzio
tradendo l’attesa con passatempi
rimediati.
Non avevo previsto la situazione
non avevo pronta la sostituzione
mi sentivo agnello (sacrificale)
e non leone,
alla ricerca disperata di una
soluzione: basica,
alcalina,
matematica,
meccanica
o, comunque, problematica.

(2013)

 

Sconcerto d’inverno
(per i profughi d’ogni tempo)

battono i denti nel freddo
battono i vetri dal vento
battono gli occhi ogni tanto
battono le ore del tempo
urlano le onde tra voci senza fiato
nelle discariche del silenzio
passano a caso pensieri di senso.
All’improvviso, s’apre uno squarcio di sole
tra il filo spinato.
Corrono impaurite note in dissenso
passano frontiere in pieno tormento.
Sguardi, domande mute, lamenti
battono i sassi tra ghiaccio e sangue
battono i tasti ma la musica langue
battono i pugni nell’indifferenza
battono il petto ma non è penitenza.

(inedito)

Pier Luigi Guerrini (1954, Ferrara). Ha fondato, con Roberto Guerra e Lamberto. Donegà, la rivista Poeticamente (1980). Ha pubblicato Il fenomeno scomposto, Reggio Emilia, 1984 e l’e-book In prosa per la foto, ISNC Edizioni, 2014. Ha pubblicato in numerose antologie, riviste in cartaceo e online.

La rubrica di poesia Parole a capo curata da Gian Paolo Benini e Pier Luigi Guerrini esce regolarmente ogni giovedì mattina su Ferraraitalia. Per leggere i numeri precedenti clicca [Qui]

Microfestival delle storie: l’ 8 marzo alle 21,00 “L’estate dello storione” di Massimo Ubertone

 

Da; Ufficio stampa Microgestifal delle storie

Libri e dibattiti nel calendario di marzo del Microfestival delle storie di Polesella. Il primo appuntamento, condotto da Consuelo Pavani, sarà lunedì 8 marzo alle 21 con la presentazione del libro L’estate dello storione, edizioni Apogeo, di Massimo Ubertone. Il libro dello scrittore rodigino, per i risvolti noir della vicenda, si inserisce nel MicroNerofestival, la parentesi dedicata ai romanzi gialli della rassegna.

Lunedì 15 marzo, alle 21, Paolo Pileri, ideatore del progetto Vento, la ciclovia da Torino a Venezia, sarà intervistato da Gianluca Barbi dell’associazione Teradamar sul tema progettare la lentezza.
Altri due gli appuntamenti con i libri per fine mese: mercoledì 24 marzo alle 18.30 il giornalista Angelo Carotenuto presenta Le canaglie, edizioni Sellerio, intervistato da Riccarda Dalbuoni, mercoledì 31 marzo, sempre alle 18.30, il musicista e scrittore Pietro Leveratto dialoga con Riccarda Dalbuoni sul romanzo Il silenzio alla fine, edizioni Sellerio.

Tutti gli incontri saranno in diretta sulle pagine facebook del Microfestival delle storie e di Ferraraitalia.

L’estate dello storione di Massi    mo Ubertone. Bisinello, 14 luglio 1964: la giovane moglie del fornaio del paese viene trovata morta nella sua casa. Potrebbe trattarsi di un incidente domestico, ma i genitori sospettano del marito della ragazza, che non hanno mai visto di buon occhio perché si comporta in modo strano e soprattutto perché viene dalla Sicilia. Del caso si occupano Rosaria Puglisi e il nipote Totò. Lei è la prima donna avvocato della provincia di Rovigo, lui un impresario di pompe funebri per necessità e investigatore per vocazione. Per scoprire se c’è davvero un assassino e per dargli un nome i due non esiteranno a cacciarsi in situazioni pericolose e al limite della legalità. Sullo sfondo si intrecciano vicende di corna e di vero amore in un paesino sulle rive del Po popolato da personaggi divertenti e bizzarri. Una realtà arcaica e piena di pregiudizi dove Rosaria, bella, spregiudicata e agguerrita paladina dei diritti delle donne, porta una ventata di irriverente modernità: l’anticipo di un ’68 ancora di là da venire.