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C’è un posto che pullula davvero di fantasmi, ma non è un maniero spettrale in una landa mitteleuropea. Non è neanche Al-Qarafa, nel cuore del Cairo. È Facebook.
Infatti, molti milioni di profili attivi nella sfera virtuale di Facebook corrispondono ormai a persone defunte in quella reale. Si tratta, evidentemente, di un effetto indesiderato della combinazione di due fattori: l’enormità del numero dei fruitori del network e la persistenza della sua popolarità, ragguardevole se rapportata alla volubilità dell’epoca.

A oltre quindici anni dalla sua nascita, e benché ormai démodé soprattutto tra i più giovani, Facebook conta infatti circa due miliardi e mezzo di utenti in tutto il mondo. I dati quantitativi più attendibili sull’ordine di grandezza percentuale del fenomeno dei profili fantasma sono stati elaborati già alcuni anni fa in una ricerca promossa dall’Università di Oxford, il che già di per sé sottolinea il rilievo del fenomeno.
Tale ricerca aveva dimostrato che il numero dei defunti su Facebook cresceva al ritmo di circa ottomila al giorno, ma ormai questa stima è da considerarsi insufficiente. In ogni caso, prima della fine del XXI secolo i fantasmi su Facebook saranno miliardi e il loro numero avrà superato quello dei viventi.

Di fronte alle insidie di questa prospettiva, il social ha tentato di mettere in campo delle specifiche strategie. Sono nate, infatti, le ‘pagine commemorative’, e da tempo agli utenti è data – anzi: suggerita – la possibilità di nominare un curatore che possa, a suo tempo, occuparsi della trasformazione del profilo del caro estinto in quella direzione.
Al momento, tuttavia, questa possibilità non sembra incontrare particolarmente il gradimento degli utenti. È ancora molto difficile, girovagando per Facebook, imbattersi in una qualsiasi di queste pagine.
Potrebbe certo trattarsi di un disinteresse provvisorio, dovuto al fatto che la pratica non si è ancora diffusa e non è entrata nella consapevolezza dei fruitori.

Tuttavia, vogliamo qui prendere in considerazione un’ipotesi diversa, secondo la quale tale renitenza potrebbe derivare da qualcosa di più essenziale, qualcosa di connaturato all’essenza stessa di Facebook.
Bisogna, intanto, cominciare a notare che il tentativo di demarcazione dei vivi dai morti nel milieu di Facebook appare piuttosto debole: non vi è infatti, almeno per il momento, alcuna separazione rigida – come quella fondativa dello spazio urbano contemporaneo stabilita a Saint Cloud – tra lo spazio dei vivi e quello dei trapassati.
Profili normali e pagine commemorative non sono, infatti, divisi da alcun confine virtuale, sì che i morti – anche quando distinti dall’etichetta ‘in memoria’ – popolano la stessa sfera dei vivi e circolano lungo le medesime arterie virtuali.

È ampiamente dimostrato dall’esperienza che gli architetti di Facebook sanno quel che fanno, sì che dietro una scelta come questa si presume vi siano ragioni pregnanti.
Ma quali? L’ipotesi che qui tentiamo di argomentare è la seguente: la pagina di Facebook è, per essenza, un luogo nel quale la differenza reale tra vivo e defunto tende a livellarsi, non certo a strutturarsi.
Una prima indicazione in questa direzione, forse, ce la può fornire quel che succede sui profili dei nostri contatti purtroppo non più in vita.

Per quanto riguarda i miei, nessun profilo è stato ‘volturato’ in commemorativo (e io stesso non ho nemmeno considerato questa possibilità). In alcuni, la situazione si è di fatto congelata con la scomparsa dell’intestatario, ma è interessante che, in tale blocco, siano rimaste attive tutte le ‘amicizie’, come se la rete social alimentasse i suoi nodi a prescindere dal predicato dell’esistenza in vita.
Negli altri, questo alimentazione si manifesta in modo ancora più pregnante: i profili continuano, nell’ovvio silenzio dell’intestatario, a essere frequentati negli anni. Oltre agli auguri di compleanno (una funzione di Facebook sulla quale torneremo tra non molto), gli amici usano la bacheca del defunto per inviargli delle comunicazioni colloquiali, in genere ovviamente affettuose, come se il post fosse una finestra medianica – priva tuttavia di qualunque risvolto parapsicologico – attraverso la quale contattare ordinariamente chi non c’è più.
Infatti, se si capita per caso su una delle pagine di cui poco sopra, il più delle volte non è affatto immediato rendersi conto che l’intestatario è trapassato, e anzi bisogna farsi strada verso questa verità decifrando il senso dei vari post.
Insomma, nello spazio abitativo di Facebook, la discriminazione del vivo dal defunto non è affatto un’operazione intuitiva; al contrario, essa richiede un’attivazione ermeneutica che trova degli analoghi solo nella dimensione letteraria e cinematografica, ad esempio in pellicole come Sixth Sense e Una pura formalità.

Ed eccoci alla domanda decisiva: perché accade questo? Perché nella dimensione di Facebook la differenza di vivente e defunto tende, essenzialmente, a livellarsi?
C’è una risposta abbastanza scontata, ma non per questo superficiale: proprio perché siamo in un mondo nel quale la morte viene il più possibile occultata, si procede alla sua abolizione là dove possibile, ovvero nella sfera disincarnata della rete.
Tuttavia, vorremmo qui avanzare un’ulteriore e diversa ipotesi: e se il problema fosse rovesciato? Se la matrice immaginativa di Facebook non fosse la polis dei vivi, ma il cimitero? Se, in essenza, non fossero i defunti gli intrusi, bensì i vivi accorsi ad abitare una dimensione strutturalmente funebre?

Non credo si possa qui dare una risposta definitiva alla questione, ma se ne può senz’altro saggiare la consistenza attraverso una collezione di indizi.
Facebook è un libro di facce: un’impaginazione di fotografie di volti con sottostante il relativo nome (anche se poi è lecito divagare). Da qualche anno, poi, si è sentita l’esigenza di aggiungere una ‘immagine di copertina’, ovvero uno sfondo orizzontale rettangolare che incornicia e dà risalto alla foto. Tutto questo non riflette esattamente il canone formale della lapide? Provate a guardare un qualsiasi profilo alla luce di questa analogia e poi ditemi se non è inquietante.
D’altra parte, l’invenzione del dagherrotipo è di pochi anni successiva proprio all’editto di Saint Cloud. Non sarà che da questo incontro predestinato è nata una nuova matrice identitaria della quale oggi vediamo dispiegarsi gli effetti planetari?

Continuando nelle analogie, Facebook offre poi l’opzione ‘Aggiungi una biografia‘. Chi la utilizza, crea una finestra di testo che s’impagina proprio sotto il nome, ai piedi del blocco immagine di copertina-foto. Ora, personalmente non ho mai visto questa funzione utilizzata davvero in chiave biografica. Perlopiù, le persone inseriscono una frase evocativa, o allusiva, o anche una citazione, in calce alla lapide. Insomma, “Aggiungi un epitaffio”.

E cosa dire di quando fai una ricerca per nome e cognome, magari nel tentativo di ritrovare qualcuno del quale non hai notizie da tempo? Ecco che tutti gli omonimi ti appaiono con la rispettiva foto e il nome uno sopra l’altro, proprio come in una delle file verticali di loculi sovrapposti caratteristiche dei contemporanei condomini cimiteriali.

Parliamo infine, come anticipato, dei compleanni. Per chi abita un po’ su Facebook, è prassi considerare le notifiche quotidiane dei compleanni dei propri contatti, decidendo di volta in volta presso quali manifestarsi con formule augurali. È anche prassi dedicare una certa parte del proprio compleanno a considerare gli auguri ricevuti e ad articolare una qualche risposta.
Ebbene, in questa seconda incombenza l’insieme degli auguranti appare sempre un po’ incongruo: arrivano auguri, a volte anche pensati, da contatti dai quali mai ce li saremmo aspettati, e al contrario fanno difetto quelli attesi da altri in teoria più ravvicinati.
In breve, la compagine augurante che si raduna su Facebook lo fa in risposta a un annuncio pubblico – la notifica – e in base a una serie di variabili piuttosto eterogenee: gli impegni di giornata, la propensione a presenziare, il tempo libero, la permeabilità alle informazioni, e così via.

Queste, però, non sono le variabili in base alle quali si partecipa a una riunione di compleanno nella vita reale. Sembrano, piuttosto, quelle che regolano l’affluenza ai funerali, nei quali le frasi certamente più bisbigliate sono: “Certo che X sarebbe dovuto venire…”; “Ma che ci fa qui Y? Si conoscevano?”.

Ecco, dunque, che le analogie paiono molteplici e, soprattutto, dense quasi come le omologie.
Facebook si avvia a diventare, se sopravviverà abbastanza a lungo, il più grande cimitero della storia, e questo è un fatto. Ma è solo un’ipotesi che quel fatto non farebbe altro che amplificare la forma, l’eidos, che lo ha caratterizzato fin dall’origine?
Se non lo è, sarà allora il caso di domandarsi: A egregie cose il forte animo accendono i libri di facce? Peccato solo che Pindemonte non sia online.

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Giuseppe Nuccitelli

Giuseppe Nuccitelli insegna filosofia e scienze umane nella scuola media superiore pubblica.  Ha collaborato con Università, Enti di Ricerca, la RAI e altri soggetti. È autore di varie pubblicazioni nell’orizzonte della filosofia e della linguistica educativa. È giornalista pubblicista. In libreria, il suo esordio narrativo: “Parola di Pilsops. Le circostanze della passione”, Roma, Gangemi Editore, 2022.

Ogni giorno politici, sociologi economisti citano un fantomatico “Paese Reale”. Per loro è una cosa che conta poco o niente, che corrisponde al “piano terra”, alla massa, alla gente comune. Così il Paese Reale è solo nebbia mediatica, un’entità demografica a cui rivolgersi in tempo di elezioni.
Ma di cosa e di chi è fatto veramente il Paese Reale? Se ci pensi un attimo, il Paese Reale siamo Noi, siamo Noi presi Uno a Uno. L’artista polesano Piermaria Romani si è messo in strada e ha pensato a una specie di censimento. Ha incontrato di persona e illustrato il Paese Reale. Centinaia di ritratti e centinaia di storie.
(Cliccare sul ritratto e ingrandire l’immagine per leggere il testo)

PAESE REALE
di Piermaria Romani


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