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Parole a capo
Cristiano Mazzoni: “Dal Batiguàza al Bronx” e altre poesie

“Vivere senza poesia è come navigare senza timone”
(Michele Gentile)

L’UBRIACO

Il fumo rendeva di ovatta l’aria umida della notte,
il porfido lucido, sembrava riflettere i pensieri intrappolati nelle luci dei lampioni,
rumore calpestato di crudi ricordi.
L’uomo barcollava ubriaco,
nel silenzio della città,
l’odore di tabacco, si mescolava ai vapori dell’alcool,
in un gorgo di solitudine, senza speranza.
La luna, da qualche parte nel cielo,
provava a riflettere in basso,
la luce del sole agli antipodi,
mentre l’ombra dell’uomo spariva,
ingoiata dalla nebbia.

 

NEGLI OCCHI L’AURORA

Negli occhi, il rosso dell’aurora,
il sole chiuso nel pugno,
come mantello l’arcobaleno,
e ai piedi ?
Scarpe rotte.
Camminiamo in montagna, di fianco ad un fiore,
fischia il vento e le idee di rivolta?
Non sono mai morte.
Immagina di vivere un sogno,
ma non sei l’unico,
lo condividi con i matti,
gli ottusi e gli ubriachi.
Sventola bandiera,
di rossa primavera.

 

DAL BATIGUÀZA AL BRONX

Case popolari a perdita d’occhio,
vecchie sedute a conversare sui gradini delle scale,
cortili chiusi da quattro mura,
pieni di indiani e cow-boy,
cerbottane, come gli aborigeni,
urla e strepitii infiniti rincorrendo il sogno di un pallone.
Poi la terra di nessuno, dietro al cinema,
un grande prato, mille compagnie a contendersi il territorio,
un sottopasso per l’inferno,
dove improbabili graffitari citavano Dante sui muri.
Il quartiere dormitorio, giovani distrutti,
regalavano la loro vita, appoggiati al nulla,
aria stantia, anticorpi contro la malavita;
eppure, siamo diventati adulti,
sempre grati alla borgata,
che ci ha insegnato a camminare.

 

MEDIOCRITÀ

Una vita vissuta tra il cinque e il sei
come a scuola,
i numeri delle mie maglie.

Perennemente sotto media,
nessuna arte, anche se di parte,
sussurri gridati,
urla silenziose.
Sassi che rotolano,
acqua che evapora,
un peso medio,
contro montagne di giganti.

(Poesie tratte da “I pensieri del comandante” di Cristiano Mazzoni  – Freccia D’oro edizioni, 2019)

Figlio unico di madre impiegata e padre sindacalista, Cristiano Mazzoni nasce a Ferrara, nell’autunno caldo del 1969, nelle case popolari a due chilometri dal centro cittadino. Ha pubblicato Batiguàza. Resoconto di una adolescenza (Este Edition 2011), Parole dissociate. Memorie e pensieri (Este Edition 2012). Nel 2014, in occasione dei mondiali di calcio, un suo racconto “Speriamo di non cadere”, viene inserito in una raccolta dal titolo Racconti Mondiali, edito da Autodafé Edizioni di Milano. Nel 2015 un suo racconto dal Titolo “Petrolchimico” è inserito in una raccolta pubblicata sempre da Autodafé. Con Autodafé pubblica il suo primo romanzo “Il Bar dei Giostrai” nel 2017, nel 2019 pubblica “I pensieri del comandante” raccolta di parole in colonna con Freccia d’Oro edizioni.
Gestisce una rubrica su Ferraraitalia.com “Gli spari sopra”.
E’ in redazione a “Lo Spallino” dove scrive di un grande amore.
Scrive, come autoanalisi, per raccontare, soprattutto a se stesso, che non è mai troppo tardi per autodeterminarsi.

La rubrica di poesia Parole a capo curata da Gian Paolo Benini e Pier Luigi Guerrini esce regolarmente ogni giovedì mattina su Ferraraitalia. Per leggere i numeri precedenti clicca [Qui]

 

M’AMA NON M’AMA …
Riconoscere le radici della violenza e scegliere la libertà

 

Si definisce ‘femminicidio’ o ‘omicidio di genere’ un omicidio doloso o preterintenzionale, in cui una donna viene uccisa da un individuo di sesso maschile per motivi basati sul genere.

Si allunga ogni settimana la lista delle donne vittime di questo tipo di omicidio. Nei primi tre mesi del 2021 sono state ammazzate da compagni e fidanzati quindici donne e la lista continua a salire ogni giorno che passa. Un fenomeno che non si arresta, che non tende a diminuire. Più se ne parla, più se ne scrive, e più la situazione peggiora, come se un minimo di rilevanza mediatica desse a questi assassini un po’ di voglia in più di ammazzare.

Nel 2020 sono stati commessi novantuno femminicidi, di questi ottantuno sono stati commessi nel contesto familiare, cioè l’89% del totale (Rapporto Eures 2020). C’è poco da fare, i mostri li abbiamo in casa. Sono i nostri compagni o ex-compagni, che ci sfigurano con l’acido, provano ad ammazzarci, ci calpestano, ci prendono a schiaffi e calci, ci rapiscono i figli (non tutti, s’intende!). Mi chiedo sempre da dove arrivi un odio del genere. Per quanto la psicanalisi provi a spiegarne le motivazioni profonde, le modalità, le giustificazioni e i mezzi, io continuo a stupirmi e addolorarmi ogni giorno.

Mi tornano così alla memoria storie di soprusi che ho sentito raccontare, storie di umiliazioni perpetrate all’infinito, che tolgono qualunque tipo di dignità, che lavorano in maniera silente e costante come tante stalagmiti che crescono grazie al lavorio delle gocce d’acqua. Conformazioni calcaree che ci mettono molto tempo a diventare visibili, una vita a calcificare e a diventare punte acuminate che perforano l’aria. A un certo punto le vedi, piantate nella grotta nella quale si trovano, pronte ad acuire il senso di pericolo, pronte a fare male senza esitazione. Una sberla un giorno, poi una dopo una settimana, poi due dopo un mese e poi più in là ancora altre.

Non c’è sempre la possibilità di ribellarsi a questo mostro che cresce dentro casa, a questa modalità lenta, silente e progressiva che si nutre di quotidianità, di impossibilità di rompere legami sbilanciati, dal punto di vista della relazione e/o delle necessità economiche. C’entra l’indipendenza come arma a doppio taglio: si può odiare una donna perché è indipendente, così come la si può odiare perché è dipendente. La dipendenza crea umiltà, paura, sottomissione. Ma il mostro è spesso un vile e gli piace molto, in quanto vile, prendersela con chi non sa difendersi. Allo stesso tempo il vile ama a sua volta i rapporti sbilanciati. Adora chi è prepotente con lui, detesta chi è sottomesso, chi è ridotto a una passività imposta dal logorio di un’umiliazione costante. È questo logorio che riduce una donna al suo livello, quello che proprio lui detesta. Un vile odia se stesso e adora i prepotenti. Per questo odia sua moglie, che è una sua pari, una che conosce i suoi difetti che lui non sopporta, le sue paranoie dalle quali tenta sempre di sfuggire, ma dalle quali è riacciuffato.

Un uomo violento è un uomo pieno di malessere e rancore. In una donna piena di malessere riconosce se stesso e per questo l’odio si moltiplica. È un odio che si nutre di odio per se stessi. È un odio che consuma l’altro per ridefinire le caratteristiche di un mondo interiore che non lascia spazi di libertà a nessuno. Una donna sottomessa, privata della sua volontà e della sua indipendenza è la vittima preferita di questo tipo di maschio violento. Vile coi vili e decisamente servizievole con gli arroganti e prepotenti. I vili non hanno mai saputo trovare un equilibrio giusto, una autostima accettabile, un senso del perdono e della pietà eticamente fondato.

Un secondo tipo di maschio violento è il prepotente per antonomasia. Quello che non tollera la donna indipendente che sa ribellarsi. Qui però non c’è un gran logorio giornaliero. Se mai c’è la ribellione e subito dopo la ripercussione. L’atto aggressivo e violento è una ripercussione, una reazione esagerata a un atto contrario alla propria volontà, al proprio desiderato e alle proprie aspettative. Spesso l’aspettativa di un prepotente non è reale. Il maschio in questione non è empatico e non riconosce i segni di disagio femminile, fino a quando emergono come un fiume in piena che nessuno sa più contenere e frenare. Un fiume che corre e se ne andrà lontano.

La prepotenza si nutre di confronti aggressivi, di necessità di umiliare l’altro e di ricondurlo a una via conosciuta, a un percorso controllabile e prevedibile, che permette l’aggressione come atto liberatorio, come conferma di un potere effimero. Un’illusione come quella di controllare una relazione, le sue conseguenze, i suoi possibili sviluppi e anche la sua fine. Il maschio aggressivo sa quando e come finirà una relazione, ma non lo deve e non lo può sapere la donna con la quale si relaziona. E così, nel gioco di potere tra viltà, sottomissione, mancanza di indipendenza e atti di rivendicazione di una dignità mai trovata, si consuma la violenza e la persecuzione nei confronti delle persone per le quali questo è possibile, è nascondibile, occultabile.

Poi c’è il degrado della mancanza di spazio familiare, della mancanza di evasione culturale, di sostegno economico, che permette un po’ di trasgressione, quella buona che riduce la conflittualità, che ridimensiona il senso di angoscia, che rischiara i rapporti. E poi c’è l’uso di alcol e di sostanze stupefacenti, che scatenano l’aggressività anche in chi non è aggressivo, anche chi in condizioni normali sa mantenere una mitezza esagerata, che mai farebbe pensare che presto quel ‘dipendente’ ti sfigurerà coll’acido. L’uso di droghe altera la percezione che una persona ha di se stessa. Altera la sua autostima e il suo bisogno di successo, ridimensiona la sua dignità rendendolo schiavo e succube. Le esplosioni di rabbia sono impreviste, legate all’uso dell’alcol che annienta i freni inibitori e fa sì che la selvaggia e primordiale voglia d’uccidere attraversi le menti di individui un po’ strani e molto eccitabili, dal comportamento dannoso.

Ma il danno più grosso succede prima. Durante il processo di annientamento. In quella fase a volte lunga (può durare anni) e a volte cortissima (può durare qualche minuto), in cui la dignità di una donna viene distrutta. È la mancanza di dignità che fa uscire dalla tana il mostro. Una mancanza di dignità causata dal mostro stesso e dai suoi comportamenti reiterati, dai suoi malumori. La psicologia insegna che i comportamenti più radicati non sono quelli che hanno rinforzi continui, ma quelli che hanno rinforzi occasionali. L’imprevedibilità del cambio d’umore accompagna spesso gli atti denigratori. Gli abbassamenti di status e di ruolo si configurano come un rinforzo occasionale, come un risucchio verso il basso, come una voragine che si apre all’improvviso e non è possibile arginare. La voragine imprevista risucchia chi sta camminando sopra di lei. Lo trascina verso il basso, lo copre col fango, lo deteriora un po’ alla volta, lo ricopre di terra, lo sotterra e lo dimentica.

La violenza si scatena sopra tutto questo, dentro tutto questo, lo sovrasta, lo ricopre e lo abbandona. Poi ricomincia, si crea un’altra voragine che inghiotte qualcuno, anche in maniera quasi casuale, lo mastica e lo consuma. I comportamenti violenti tendono a reiterarsi, perché sono lo sfogo di una personalità fatta così, di un dramma interiore che si manifesta così, di una incapacità di essere riflessivi, corretti, altruisti e anche giusti. Tutto ciò che si vede è così, senza possibilità di fraintendimenti.

Non fermatevi donne davanti alla prima sberla, lasciate quella casa e quella famiglia, portatevi via i vostri figli, se li avete. Non c’è ragione per sopportare la situazione, non c’è giustificazione da portare a se stessi, non patria per il pensiero, non c’è rimedio al dolore. A volte aprire una porta è un grande segnale di coraggio, la prova di un orgoglio che non è stato annientato, di una speranza che non è stata disintegrata del tutto, che riscopre qualcosa, che ricorda la luce.

Dentro ogni donna c’è la possibilità di sperare, credere e camminare con decisione e fiducia, ma ogni donna è anche una possibile vittima della situazione, delle circostanze, del dolore dell’abbandono e della malattia. Una donna fragile attira i fragili che cercano una vittima sacrificale per la loro necessità catartica volta a immolare loro stessi insieme alla vittima. Maschi che tentano di uccidere la sottomissione che riguarda entrambi, che annientano, attraverso l’aggressione, quella vergogna perpetrata di non essere mai all’altezza di niente. Sicuramente non all’altezza del proprio orgoglio smodato e invece degni di una bassezza da rasentare la terra marcia.

Spero che in ogni donna ferita e oppressa nasca la voglia di uscire dal guscio, di dire la verità, di rischiare la vita per una nuova possibilità, di abbandonare una vecchia vita per una nuova prospettiva.

Andatevene voi uomini aggressivi e senza dignità.

FANTASMI
Fondi di caffè e alberi magici

Fondi di caffè e alberi magici

Stamattina mi sono alzato molto presto. Ho trascorso la notte in un penoso dormiveglia, senza riuscire a prendere sonno, una consuetudine ormai da mesi. Dopo una veloce colazione ho raccolto le idee e sono uscito per la solita passeggiata: dovrò fare anche la spesa, mia moglie si è raccomandata. Con passo stanco sono andato al parco, come faccio nei giorni di sole, anche se oggi è nuvoloso: ci portavamo i bambini quando erano piccoli, ogni tanto ci torno per rivivere momenti lontani.
Comincio a camminare, da solo: la mascherina posso toglierla, non c’è nessuno. Lì davanti a me, un cane randagio va annusando, frugando vicino a un cassonetto ribaltato.
Tra me penso che questo mondo alla rovescia e contraddittorio, strabordante di cattiveria e di ipocrisia, è proprio come quel cassonetto.
Su una panchina poco distante un ragazzo sta seduto assorto nei suoi pensieri, giocando con un bastoncino di legno. Disegna sul terreno qualcosa.

Il cane – ha un collare… mi sa che non è un randagio, l’ho giudicato troppo presto – si avvicina al giovane e gli deposita davanti un sacchetto mezzo rotto, rovesciandone il materiale contenuto: bucce d’arancia e poco altro.

Ero uscito per fare due passi e cercare qualcosa che riaccendesse in me l’interesse verso l’umanità, dopo una notte insonne vuoto come una bottiglia di birra a testa in giù in una duna sabbiosa del deserto, cercando qualcosa a cui appassionarmi per dimenticare questa pandemia. Mi siedo all’altra estremità di quella panchina, consapevole che avrei trascorso un’altra mattinata grigia alla ricerca, inevasa, di un motivo per non pensare ai miei figli lontani.
Guardo quel giovane a 2 metri da me: distanza di sicurezza. Il mio coinquilino di panchina avrà trent’anni circa, è un ragazzo alto. Penso che alla sua età sarei stato in giro a inseguire sogni, chitarra a tracolla e sigaretta sempre accesa, per fare serenate a due-tre ragazze e decidere come cambiare il mondo.
“Ecco, questo tipo è una delle cause del mondo capovolto di cui sopra” rifletto tra me.

Il bastoncino tra le mani del ragazzo attira non solo la mia attenzione, ma anche quella del suo cane, che cerca di strappargliela addentandola per coinvolgerlo nel gioco del lancio e recupero, quello che fa sempre felice un cane, cucciolo o attempato che sia. Ma non riesce a distogliere il giovane dal suo muto vagabondo tracciamento di ghirigori. Stufo il cane si allontana inseguendo una foglia, attività infinitamente più interessante.
Anche io guardo quei ghirigori: con la punta del bastoncino il ragazzo disegna, spiana, poi ritraccia altri segni, gli occhi bassi.
“Ciao” gli dico. Senza alzare lo sguardo, lui, a voce bassa: “Ciao”.
“Cosa fai di bello?”. E lui: “Cerco una risposta”.
Gli chiedo allora quale risposta si possa trovare rigando un po’ di terra.
“Non è terra: è un fondo di caffè”.

Avrei potuto alzarmi e tornare sui miei soliti, annoiati passi, ma qualcosa mi fa restare.
Tento di farlo parlare: la mia indole di professore in pensione, abituato a cacciar fuori con le pinze una parola dagli studenti pur di fargli dire qualcosa e non dar loro un “impreparato”, mi spinge a chiedergli quale verità ci sia in un po’ di posa di caffè caduta da una busta di un cassonetto.
Risponde: “Mio nonno mi raccontò che dalle sue parti, al Sud, le donne per interpellare gli spiriti usavano il fondo di caffè, mentre gli antichi leggevano le viscere e i comportamenti degli animali”.
Gli chiedo: “Ma tu cosa cerchi in quel fondo di caffè?”.
Spostando appena un po’ lo sguardo, dice: “Vorrei trovarci dei fantasmi, per poterli seguire, anzi inseguire… chiedergli tante cose. Ma non funziona. Forse è decaffeinato, perciò non funziona”.

Il cane torna a chiedere una carezza, alla ricerca di affetto e di un compagno di giochi: la ruvida leggerezza con cui il suo muso sfiora la gamba del ragazzo mi ricorda vagamente la carezza di un padre. “Joker, va’ a giocare…” sbotta lui.
“Davvero credi ai fantasmi?” gli chiedo.
Iniziamo così a parlare: a raffica gli racconto della mia famiglia, dei miei figli, di cui uno ha circa la sua età, lontani per colpa del COVID e del lavoro inesistente. Gli parlo di un nipotino che non vedo da molti mesi: io non ho avuto i nonni, ma quel bambino un nonno ce l’ha, perché non posso stare con lui, portarlo al parco, al cinema? Raccontargli tante cose, articoli di giornali, favole, teorie, testi di canzoni, romanzi, trame di fumetti…?
Luca, così si chiama il ragazzo, alza gli occhi e mi guarda. Un leggero sorriso incurva appena le sue labbra notando i capelli bianchi sfuggenti sotto il mio cappello. E così mi parla di suo nonno: un ex-professore di latino e greco che gli aveva insegnato tante cose, come scrivere l’alfabeto greco e storie di mitologie e leggende… storie bellissime.
“Perché non vai a trovarlo, tuo nonno, ogni tanto?” gli chiedo, burbero.

Ricomincia con quel bastoncino a interrogare il fondo di caffè, non vuole parlarne, ma poi alla fine, risponde:
“Ero al battaglione in quel periodo. Sapevo che nonno stava male e che forse dovevano ricoverarlo, ma mia madre non mi aveva detto nulla di più. Poi quel giorno di marzo accadde tutto: ci chiamarono dal comando. Ci dissero che servivano i camion, bisognava trasportare i morti del COVID perché erano troppi in città e non c’era più posto. A me sembrava tutto assurdo, incredibile, avevo solo voglia di guardare lo sport sullo smartphone per non pensarci, ma poi mi telefonò mia madre e disse che nonno non ce l’aveva fatta. Nessuno sapeva dove era stato ricoverato, né dove ora l’avrebbero portato. Nulla”.

Joker si era accucciato ai suoi piedi, ad ascoltare: anche lui voleva finalmente capire perché Luca fosse così da giorni, anzi mesi.
“Io chiesi al capitano di poter essere uno degli autisti: ma come me ce n’erano altri che avevano perso qualcuno allo stesso modo. Tutti volevamo … non so… magari trovare un nome su una cassa. Ma il capitano rispose che noi eravamo troppo coinvolti, perciò avrebbe scelto altri come autisti. Allora mi sono ricordato del cavallo di Troia e di Ulisse, quello che con una bugia faceva fare ciò che voleva a chiunque: ho seguito il capitano e gli ho detto che l’ultima volta che avevo visto mio nonno avevamo litigato. Così il capitano mi ha inserito nel gruppo degli autisti” ha concluso Luca.
Comincio a capire: mi ritornano in mente quelle lunghe file di camion nella notte di Bergamo, viste in televisione da miliardi di persone attonite e sconvolte. Ma non avevo mai pensato agli uomini che guidavano quei camion. Luca aveva pochi altri ricordi, e tanta rabbia e dolore. Poi ha continuato, a voce bassa: “Quando abbiamo chiuso quel cancello dietro al quale avevamo ammassato le casse, siamo rimasti lì fuori, in attesa. Di che cosa poi? Boh.
Uno di noi autisti disse: ci vorrebbe una preghiera.
Un altro disse: ci vorrebbero dei fiori. Ma non avevamo nulla.
Un sergente magrolino andò allora nel suo mezzo, e tornò con due Arbre Magique, uno azzurro un po’ usato e uno rosso nuovo che tolse dalla bustina, e fece cenno a tutti di fare altrettanto. Li andammo a prendere e li mettemmo tutti insieme: erano di tanti colori diversi, c’era un profumo intenso. Ma non sapevamo come legarli tra loro. Io mi sono strappato il braccialetto di cotone colorato, il portafortuna, e ho detto agli altri di fare lo stesso. Quel sergente mi ha guardato, li ha intrecciati velocemente in modo ordinato: così, nonostante la mascherina, mi sono accorto che era una sergente. Lei mi ha guardato con due occhi … quegli occhi che non riesco più a dimenticare. E così sul cancello abbiamo legato quella piccola corona di alberi profumati variopinti: è stata come la celebrazione del Milite Ignoto. Non so nemmeno di quale brigata fosse quel sergente, né il suo nome, non so nulla. Certe volte non so neppure se ho sognato tutto. Per questo ora cerco di capire qualcosa negli oscuri segni del destino o nei fondi del caffè: vorrei trovare almeno una risposta”.

Joker ha infilato la sua testa sotto la mano di Luca, e questa volta Luca lo accarezza, poi afferra il bastoncino e lo lancia lontano. Joker come un fulmine schizza a riprenderlo e glielo riporta, felice di aver ritrovato l’amico fraterno di giochi.
Sono rimasto lì, confuso: ribaltato come il cassonetto di prima.

Ho salutato Luca e distrattamente gli ho teso la mano, ma l’abbiamo ritratta entrambi, memori delle regole sul distanziamento, così ho scorto sul suo polso un braccialetto portafortuna.
“Sì” dice Luca” il giorno dopo ne ho comprato un altro: questo servirà per ricordarmi mio nonno. Ho deciso che lo terrò per tutta la vita, o almeno fino al giorno in cui non ritroverò gli occhi di quel sergente”.
“Li ritroverai, ne sono certo” gli ho detto. ”Come fai ad esserne così sicuro?” mi ha ribattuto Luca.
“Lo so. Studiavo i greci come tuo nonno: io però guardo le nuvole per indovinare i venti e cercare di capire gli eventi. E poi scrivo racconti, da leggere forse un giorno a mio nipote: se vuoi posso raccontare la tua storia, magari ritrovo quel sergente…”.
Luca ha annuito e ha sorriso, finalmente. Poi mi ha salutato con il gomito e un gesto della mano.

Sono tornato di corsa a casa, dimenticando di fare la spesa, l’animo in subbuglio ma vivo: e ho subito iniziato a scrivere.

Per leggere tutti gli interventi di Fantasmi, la rubrica curata da Sergio Kraisky e Francesco Monini, clicca [Qui] 

La drammatica attualità della paura

 

Fiorenzo Baratelli e Maura Franchi

 In questi mesi ognuno di noi ha messo in atto un grande sforzo per dare continuità alla vita di sempre, mentre il virus immerge tutti noi in un perenne stato di precarietà e paura. Paura di qualunque forma di contaminazione che sperimentiamo in ogni momento della vita. Paura del vicino in treno, benché munito di mascherina e collocato a debita distanza. Paura dell’estraneo, ma anche del noto. Ogni comportamento si accompagna ad un inconsapevole sentimento di pericolo. Il nemico potenziale è nell’amico che non vediamo da tempo e può essere persino identificato nel medico, quando scrutiamo l’attenzione con cui si sta sanificando le mani, prima di porle sul nostro corpo.

Nessuno è immune dalla paura, così la nostra vita ‘sanificata’, rischia ormai l’implosione. È una paura particolare quella generata dalla pandemia. Qualcosa di simile avevamo sperimentato con il terribile episodio delle torri gemelle quando, per ragioni sconosciute, da parte di sconosciuti, si era sgretolato il simbolo del nostro mondo sviluppato e solido.

La ripresa è stata lunga. Intanto l’episodio aveva dato vita ad una ricca serie di dispositivi di sicurezza che avevano, in una stagione, riempito le nostre case e i nostri giardini: monitor delle effrazioni, dispositivi per fronteggiare un estraneo malvagio e non prevedibile. I dispositivi ci seguivano al mare con i trilli involontari dei gatti, che segnalavano la falsa minaccia di estranei sul terrazzo. Abbiamo capito brevemente che tornare dalla Corsica era più costoso dei danni provocati dai ladri estivi.

La nostra paura è finita nel fascino di una eterna protezione, mediata da un’ampia proposta di dispositivi, pubblicizzati addirittura all’uscita del supermercato. Sembra che siano trascorsi secoli da quando una gran parte di noi trovava ragionevole interrompere le vacanze al mare per un innocuo gatto sul tetto.

La pandemia è oggi una paura più vera e più forte, testimoniata dalle migliaia di morti poste alla nostra attenzione, ogni giorno in ogni canale televisivo. La paura in questa esperienza del virus è incomparabilmente più grave, innanzitutto per gli esiti proposti. Si tratta di una paura in cui non esiste un colpevole che possa essere individuato, ma ogni esperienza che ci metta a contatto dei nostri simili rappresenta un rischio. Da qui scaturisce la qualità particolare della paura che stiamo vivendo. Da questa radicale paura del contagio scaturisce un’universale condizione di solitudine.

La distanza tra gli individui non è solo proposta da una necessità sanitaria, ma è anche l’esito di una particolare e nuova paura da contatto: tema di cui sappiamo in realtà molto poco. È difficile convivere con la contraddizione tra la domanda di un colpevole e l’impossibilità di individuarlo.

Molte opere di letteratura ci hanno indicato vicende reali simili a quelle sperimentate in questi mesi. Il primo effetto emotivo è la crescita di una domanda di capro espiatorio che ad esempio nell’episodio della peste, Manzoni individua nella figura dell’untore. Una traccia di un approccio simile lo ritroviamo nella presenza in rete di una ricca produzione di tesi complottiste. Il complottismo diventa una rassicurazione perché scarica su un colpevole vagamente identificato una rabbia impotente.

Alcuni esiti prevedibili della paura generata dall’esperienza collettiva in corso, sembrano confermare i due caratteri che il sociologo Rainer Koselleck considerava distintivi della modernità.

Il primo carattere è il fatto che durante il dispiegamento della modernità, si riduce la base dell’esperienza degli individui, cioè le tradizioni forniscono sempre meno senso e significato al presente. Si passa dall’illusione che la storia sia maestra di vita, alla constatazione che ogni evento non appartiene ad una sequenza lineare. È la fine di un certo storicismo deterministico che funziona come una garanzia di rapporto lineare tra passato-presente-futuro. È come se si fosse prosciugato un filone aureo che forniva significati e senso alle esistenze ed era in grado di orientarle verso un futuro percepito come migliore.

Il secondo carattere distintivo della modernità individuato da Koselleck, è l’abbassamento dell’orizzonte delle aspettative e delle attese. In parole semplici ciò significa sempre meno fiducia in un futuro migliore. Viviamo appiattiti nel momento puntuale del presente senza un sostegno che ci viene dal passato, né una speranza rivolta al futuro. È da meditare seriamente cosa può causare il diffondersi di ‘un comune sentire all’insegna della paura, sia in termini di perdita di energia creativa nell’immaginare una società migliore, sia in relazione ad un possibile uso che ne può fare il potere. La paura ha molte applicazioni, ma è certo uno dei piani utilizzabili per la costruzione del consenso.

Per leggere tutti gli articoli di Elogio del presente, la rubrica di Maura Franchi, clicca [Qui]

Aprile 2060 – Pit-x

 

Quando la zia Costanza compì cinquantun anni, la sua amica Teresa le regalò un canarino olandese interamente bianco. Teresa aveva saputo da Albertino Canali che la zia desiderava un canarino. Albertino le disse che Costanza glielo aveva confidato una sera d’estate mentre parlavano delle stelle cadenti. Così Terry aveva aspettato il compleanno della zia e, il 20 Aprile 2021, era arrivata con Nuvola. Nuvola fu il nome della prima canarina olandese di casa. In realtà la zia voleva chiamarla Perla, ma io e Enrico, che allora eravamo piccoli (io avevo appena compiuto tredici anni e Enrico cinque), insistemmo per chiamarla Nuvola e così fu. Nuvola visse un paio d’anni da sola e poi la zia, per trovarle una compagnia, comprò un secondo canarino olandese, questa volta maschio e color giallo intenso. Il secondo canarino fu chiamato Cirro. In quell’occasione io e Enrico non potemmo interferire con la scelta del nome perché, quando tornammo da scuola, la zia aveva già deciso e fu irremovibile. Si chiamano cirri le nubi bianche d’alta quota. Quelle esili e quasi trasparenti con una struttura fibrosa. Letteralmente ‘cirro’ significa ‘ricciolo’, ‘ciocca di capelli inanellata’. Un nome sicuramente adatto ad un canarino olandese che ha un aspetto esile e le penne arricciate.

Nuvola e Cirro vissero per dieci anni molto felici. Avevano una bella voliera banca, dove potevano volare, giocare e cantare. Avevano a disposizione una vaschetta d’acqua per fare il bagno, delle mangiatoie con semi di prima qualità, radicchio fresco appena raccolto nell’orto e ossi di seppia per grattarsi il becco. Una buona sistemazione sicuramente. Inoltre la zia era stata attenta a posizionare la gabbia in un punto della casa dove la temperatura era pressoché costante durante tutto l’anno e non c’erano spifferi d’aria pericolosi per quei piccoli e delicati volatili. Per questo Nuvola e Cirro restarono per molti  inverni nella grande cucina della casa di via Santoni Rosa, sopra un vecchio mobile che proveniva dalla casa della bisnonna Adelina. D’estate la zia spostava la voliera sotto il portico e i canarini potevano godersi la bella stagione protetti e accuditi.

La zia palava sempre con Nuvola e Cirro. “Pit” diceva lei, “Pit pit” ripetevano in coro i canarini e andavano avanti così, comunicando a modo loro per decine di minuti.
Da allora la zia Costanza ha sempre avuto canarini che discendono da quella prima coppia di “olandesi volanti”. Anche adesso che siamo a Marzo 2060, ne possiede due che, per rispettare le origini e la tradizione, si chiamano Nuvola e Nembo. Anche ‘nembo’ è il nome di una nuvola, quella scura e minacciosa che annuncia i temporali estivi e che affascina la zia. Quando sta per arrivare un temporale, si ferma sempre in mezzo al cortile con la faccia all’insù ad osservare le nuvole finchè scendono i primi goccioloni di pioggia e lei è costretta a spostarsi sotto il portico o addirittura a rincasare.

Oltre a Nuvola e Nembo nella voliera della zia abita un canarino-robot che si chiama Pit-x.
Pit-x ha delle penne artificiali gialle e verde scuro, delle ali meccatroniche che gli permettono di volare e delle piccole zampe con le quali saltella, si aggrappa ai supporti della gabbia e si gratta la testa. Ha due occhietti piccoli e neri che contengono le telecamere che usa per guardare il mondo e imparare dai suoi simili come comportarsi, un un piccolo becco arancione con il quale tritura i semi, toglie la parte interna e la ingurgita, trasformando gli alimenti in calore e poi in energia che gli serve per funzionare. Anche lui apprende per imitazione e i suoi comportamenti sono molto simili a quelli di Nuvola e Nembo.

Prima di regalare Pit-x alla zia Costanza ci abbiamo pensato un bel po’. Non sapevamo come l’avrebbe presa, né se le sarebbe piaciuto avere un robot-canarino nella sua voliera. Ci sarebbero stati degli indubbi vantaggi. Pit-x sa segnalare se le mangiatoie devono essere riempiete di semi, se manca l’acqua, se fa troppo freddo o troppo caldo, se serve riparare la voliera dal sole. Inoltre sa segnalare se Nuvola e Nembo hanno parassiti o non si sentono bene. Allo stesso modo sa registrare se ci sono pericoli esterni alla gabbia, quali un gatto in avvicinamento o delle api che ronzano nelle vicinanze. Se un canarino viene punto da un’ape muore. I pungiglioni di questi meravigliosi insetti, che tanto fanno per il benessere della terra, sono fatali per i canarini. Bisogna tenere le api lontane dalla voliera, così come tutti gli altri insetti col pungiglione. Inoltre Pit-x si accorge se ci sono bambini che tentano di infilare la mani nella voliera e cani aggressivi in avvicinamento. Si mette sempre a svolazzare e a chiamare la zia quando si avvicinano alla gabbia i due gatti arancioni di casa. Il richiamo consiste in tre Pit successivi: “Pit, pit, pit”. Il numero dei pit dipende dal tipo di problema. Un solo Pit: serve qualcosa nella gabbia. Due Pit: Nuvola e Nembo non stanno bene. Tre Pit: Ci sono problemi esterni alla gabbia. E così via.

All’inizio la zia era perplessa, ma poi l’idea di poter proteggere e accudire meglio i suoi canarini ha avuto il sopravvento e Pit-x è stato inserito nella gabbia, direttamente dagli ingegneri del Centro- Trescia-111. Per alcuni giorni abbiamo dovuto lasciare la gabbia con i suoi inquilini al centro di assistenza, in osservazione. Il piccolo robot è stato quindi settato, caricato di energia e ha cominciato la sua attività. All’inizio ha osservato i suoi due coinquilini senza fare praticamente nulla. Un po’ perché stava apprendendo e un po’ per fare in modo che Nuvola e Nembo si abituassero alla sua presenza, senza viverla come una fastidiosa interferenza nella loro soddisfacente quotidianità. Poi, un po’ alla volta, Pit-x ha cominciato a muoversi, cantare, mangiare e mandare tutti i segnali di pericolo per cui è stato programmato.

Adesso sono tre anni che Pit-x abita nella voliera della zia e si comporta molto bene. Gli altri due canarini lo hanno accolto tra loro senza problemi e se si entra nella cucina della zia li si sente cantare tutti e tre soddisfatti “pit pit pit”.La zia Costanza li guarda sempre con molto orgoglio e lo sguardo abbraccia tutti e tre i canarini allo stesso modo. Anche lei si è affezionata a Pit-x.
Purtroppo Nuvola e Nembo non hanno mai fatto piccoli. Nonostante ci sia il nido nella gabbia, Nuvola non ha mai deposto nemmeno un uovo. A volte ci chiediamo se è la presenza di Pit-x che ha interferito con l’attività riproduttiva. Potrebbe essere, ma non sappiamo in che modo. A Trescia-111 ci hanno detto che in altri casi i canarini-robot sono stati ben accolti dalle nuove nidiate, anzi che sono diventati dei bravissimi Pit-sitter per i neonati. Da noi questo non è successo.

Un giorno Pit-x è svenuto. L’abbiamo visto disteso sul fondo della gabbia col le zampette all’insù e gli occhi chiusi. Sembrava morto. Ce ne siamo accorti perché Nuvola e Nembo si sono messi a fare dei cinguettii molto strani. “Pi Pi Piii Piiiii” Una specie di gorgheggio sincopato del tutto inusuale. Anche loro pensavano che Pit-x fosse morto. Invece era un problema elettronico che è stato risolto velocemente. Quando l’abbiamo rimesso nella gabbia aggiustato, abbiamo visto che Nuvola e Nembo erano molto contenti. Saltellavano di qua e di là cantando e poi si sono messi a strappare un po’ di radicchio e l’hanno offerto a Pit-x. Lui ha mangiato il radicchio e poi dai suoi occhi sono scese due lacrime. Questa cosa ci ha impressionato. Da chi ha imparato Pit-x a piangere? I canarini olandesi non piangono mai. Ha imparato da noi umani? Ha visto qualcuno di noi piangere e ha associato questo stato d’animo ad un’emozione forte? Non sappiamo. Sappiamo solo che Pit-x sa piangere.

I processi di apprendimento di un robot avvengono per imitazione e per ricostruzione di catene neuronali che associano quel che le telecamere registrano. La spiegazione più semplice sembra quindi quella che Pit-x sappia osservare e registrare i comportamenti, non solo dei canarini, ma anche quelli di altri esseri viventi che può osservare da vicino. Questa costatazione fa riflettere. Cosa può imparare davvero un canarino-robot, fin dove può arrivare la sua modalità di apprendimento per imitazione? Un dilemma che non vale solo per i canarini ma per tutti i robot di nuova generazione. Le frontiere dell’apprendimento per imitazione sono la scommessa delle scommesse ma, per fortuna, centrano poco con la tranquilla vita che si svolge ogni giorno nell’allegra gabbia della zia Costanza. “Pit” dice la zia, “Pit Pit Pit” gli rispondono in coro i nostri tre canarini.

Avvertenza:
Costanza e il suo mondo sono solo apparentemente diversi e distanti dal mondo che usiamo definire “reale”, e quasi sovrapponibili ad ogni mondo interiore. Chi fosse interessata/o a visitare gli articoli-racconti di Costanza Del Re, può farlo cliccando [Qui]

Eataly: cosa c’è sulla punta della forchetta

 

Eataly chiude definitivamente gli store di Bari e Forlì. I due negozi, che hanno complessivamente 80 dipendenti, non riapriranno neppure quando l’emergenza sanitaria sarà finita. “La decisione è maturata su fattori di contingenza locale aggravati dalla pandemia. I piani di sviluppo di Eataly restano confermati. Bari e Forlì sono gli unici negozi che non verranno riaperti, e la priorità oggi riguarda la situazione del personale e lavorare con le organizzazioni sindacali in modo fattivo e collaborativo per ridurre gli impatti di stabilità reddituale sul personale dei due negozi”, spiega l’azienda in una breve nota.
Il punto vendita di Bari era stato aperto nel 2013 nell’area della Fiera del Levante, quello di Forlì nel 2014 in un palazzo storico della città come una costola dell’azienda principale, Romagna Eataly, proprietà al 50% di Farinetti e il restante della famiglia Silvestrini, fondatori di Unieuro.
La Filcams Cgil parla di “doccia fredda” e chiede che sia tutelata l’occupazione.

Quella sopra riportata è la nota stampa dell’ANSA. Mi viene in mente, leggendo la fredda descrizione dei fatti, quel che William Burroughs scrisse a proposito del significato del titolo “Il pasto nudo”, uno dei suoi più celebri romanzi: “Il pasto nudo è l’attimo congelato quando ognuno vede cosa c’è sulla punta della sua forchetta”. Le forchette a Eataly si muovono al ritmo delle canzoni pop trasmesse alla Leopolda, tra un brainstorming e l’altro foderati di imprenditori moderni, illuminati, che disegnano visioni di un’impresa attenta ai bisogni dei propri dipendenti. Tutto questo racconto, la cui trama è formata dalle storie di cavalieri del lavoro senza macchia e senza paura, pronti ad affrontare con piglio progressista le sfide del futuro, prodigiosi e filantropici “creatori di posti di lavoro” come se questo fosse il loro vero scopo ultimo (qualcosa di filosofico, di umanistico), si accartoccia come le pagine di un racconto gettato frettolosamente tra i pellet di una stufa, non appena i fatturati calano.

Ma come. Eppure, a gennaio 2020 sul Corriere della Sera Oscar Farinetti, fondatore e proprietario di Eataly, raccontava le magnifiche e progressive sorti della sua creatura, mentre annunciava la ascesa del figlio (che sarà bravissimo, come tutti i figli d’arte) al ruolo di amministratore delegato:

“E così il 35enne Nicola, il figlio “americano” di Oscar, si appresta a prendere i pieni poteri dell’azienda come amministratore delegato. Andrea Guerra non lascerà immediatamente. Andrea Guerra resterà presidente di Eataly almeno per tutto il 2020. Il diretto interessato conferma: «Si è completato un percorso di cinque anni, oggi Eataly ha una sua struttura manageriale e può gestire il ricambio. Quanto a me riposerò per un po’ e poi valuterò nuove opportunità nel business». Ma il cambio di governance che cosa comporta per l’itinerario della società? Addio Borsa, penseranno i più. «Assolutamente no — replica il fondatore Oscar Farinetti — Eataly non ha bisogno di rastrellare quattrini sul mercato, è in grado di finanziare la crescita tranquillamente con il suo cash flow. E comunque siamo pronti per la Borsa e quando un giorno decideremo magari ci quoteremo direttamente a New York».
Ci dà però i numeri di Eataly ad oggi?
«Oggi Eataly ha un perimetro di ricavi, compreso il franchising, di 620 milioni. Ha un Ebitda vicino al 5% e un utile netto che si colloca tra i 5 e i 10 milioni. Nell’ultimo anno siamo cresciuti del 10%, il 3% con i negozi già esistenti e il resto con le nuove aperture. Toronto è stato uno spettacolo, c’era la fila per tre isolati. Ma non ci fermiamo qui, vogliamo aprire in altre 100 città del mondo. E possiamo farlo proprio in virtù del gran lavoro che Andrea Guerra ha fatto in questi cinque anni con noi»“.

Con un utile del genere, ricavi stramilionari e aperture previste in tutto il mondo, tuttavia, se un punto vendita funziona peggio del previsto si tagliano i posti di lavoro. Licenziamenti collettivi, senza tante discussioni. Del resto, la legge lo consente. I sindacati in questi casi sono costretti a giocare di rimessa, a limitare i danni, a cercare soluzioni alternative che l’imprenditore illuminato non ritiene di dover cercare da solo, nonostante la filantropia e l’umanesimo. Del resto, la legge lo consente.

Come spesso accade, la cruda verità non trapela dai numeri dei bilanci o dalle storie ammantate di leggenda di questi “capitani coraggiosi”, ma appare nelle parole di un visionario delirante e tossicodipendente, quale Burroughs indubbiamente era quando scrisse “Il pasto nudo”. Nessuno, tantomeno il sottoscritto, ha titoli per mettere in discussione le capacità di intrapresa di un signore che (peraltro con una buona base familiare) ha creato un’azienda coi numeri che lui stesso ha entusiasticamente sciorinato solo un anno fa. Quella che infastidisce è la narrativa di gloria che accompagna le gesta di questi capitani d’industria, cui però non corrisponde uguale e contraria censura quando le loro scelte d’impresa (perchè sono loro e del loro amministratore delegato, non di un’entità aliena e malvagia) portano un colosso dai flussi di cassa che si autofinanziano a cancellare con un tratto di penna posti di lavoro perchè alcuni store vanno male. Se vanno bene, l’imprenditore assurge a moltiplicatore dei pani e dei pesci, se vanno male pazienza, chi ci rimette sono “i suoi ragazzi”.

Ci sono alcune parole che sono state cancellate dal vocabolario d’impresa, perchè troppo brutte da pronunciare, perchè evocano lo scontro, il conflitto di classe. Che non esiste più, è roba obsoleta, ottocentesca. Una di queste è la parola “padrone”. Cosa c’è di innominabile in questa parola, tale da non poterla più dire? Il padrone è quello che della sua roba fa quello che vuole: questa è la sostanza quando le cose vanno male, o anche semplicemente meno bene del previsto. Chiamare le cose con il loro nome aiuterebbe almeno a fare pulizia mentale.

PER CERTI VERSI
Infanzia

Ogni domenica Ferraraitalia ospita ‘Per certi versi’, angolo di poesia che presenta le liriche del professor Roberto Dall’Olio.
Per leggere tutte le altre poesie dell’autore, clicca
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INFANZIA

Quella volta
il temporale…
I fulmini
Mettevano trecce alla luna
La nostra palla magica
Te la ricordi
Saltare
Sempre più in alto
Ci chiedevamo fino dove
Forse ce lo chiediamo ancora
Il mappamondo
Dei sogni
Quella sfera
Che portavamo
In petto
Medaglia d’oro
Dopo una corsa
Il temporale
Rovesciava straventi
Ululati
Pensavamo ci fossero
I lupi
Di là dal giardino
La pioggia liberava
I profumi
L’odore acre
Del calore
Ci imprigionava
Tra le sue sbarre
Allora ci buttammo
Saltellando
Tutti fradici
Di acqua e felicità

Al cantón fraréś
Nino Tagliani: “Via Campofranco”

 

La denominazione della Via deriva dalla concessione data, nel XIV secolo dagli Estensi, ai duellanti per potersi battere in un campo franco. Nel vicolo si trova la chiesetta del Corpus Domini. Vi sono sepolti personaggi della famiglia d’Este, fra cui Lucrezia Borgia. Vi è annesso l’antico monastero di clausura delle Clarisse, dove operò S. Caterina de’ Vegri, celebrata anche per il miracolo della cottura del pane. Nella poesia, Nino Tagliani immagina la piccola strada, appartata e silenziosa, come luogo d’incontro tra innamorati, tratteggia le peculiarità del luogo di culto, ricorda l’episodio della santa.
(Ciarìn)

Via Campofranco

L’è na stradéta aηcora coi giarùη,
stricàda fra du mur, već, scalzinà,
na stradéta ch’aη pasa quaś nisùn,
al dì, mo iηvéz ad sira, tut stricà
spiplànd al scur, na ciòpa d’ambruśìn
i zérca al paradìś int uη baśìη.

Uη sitìη quiét, coη sol una ciśìna
dill vòlt avèrta mo più spés saràda
che pochi i tgnós dal tant ch’l’è piculìna,
e da chi mur, a dśéη, quasi lugàda
mo chi ‘g va déntar par curiosità
al sent ch’l’è la più granda dla zità.

Briśa parché là déntar j’à suplì
Lucrezia Borgia, e źént tuta impurtànta
dla storia ad Frara, mo parché uη bel dì
int al cuηvént, da suóra, è dvantà santa
faśénd al paη col Sgnór, ogni matìna,
na ragaza di Vegri: Catarina.

Via Campofranco

È una stradina ancora coi ciottoli, / stretta fra due muri, vecchi, scalcinati, / una stradina dove non passa quasi nessuno, / di giorno, ma invece di sera, tutti stretti / bisbigliando al buio, una coppia di fidanzatini / cerca il paradiso in un bacino. /

Un luogo quieto, con solo una chiesetta / a volte aperta ma più spesso chiusa / che pochi conoscono tanto è piccolina, / e da quei muri, diciamo, quasi nascosta / ma chi vi entra per curiosità / sente che è la più grande della città. /

Non perché là dentro hanno sepolto / Lucrezia Borgia, e altra gente importante / della storia di Ferrara, ma perché un bel giorno / nel convento, da suora, è diventata santa / facendo il pane col Signore, ogni mattina, / una ragazza dei Vegri: Caterina.

Tratto da:
Nino Tagliani (Faηghét), Spulgadur fraresi : da lèzar intànt c’as brustèla la pulenta, Ferrara, SATE, 1968.

Nino Tagliani (Ravalle 1905 – 1998)
Generale dell’Arma dei Carabinieri. Conosciuto nell’ambito dialettale con lo scutmai (soprannome) di Faηghét, ha pubblicato varie raccolte di poesie, tutte in sestine endecasillabi: Spulgadùr fraréśi (1968), Bidùη, urtìg e campanèli (1969), Al marafóη śligà (1971), Sfuracèli (1976), La fiéra di śdaz con Luigi Vincenzi (1977), La pèrdga dal lóv (1978), Stupiùη (1982), Al granadèl (1983).

 

Al cantóη fraréś: testi di ieri e di oggi in dialetto ferrarese, la rubrica curata da Ciarin per Ferraraitalia, esce ogni 15 giorni al venerdì mattina. Per leggere le puntate precedenti clicca [Qui] 

In copertina:  Ferrara, via Campofranco – foto di Marco Chiarini

Mo-LESS-tie

 

È un giovedì mattina come tanti altri: mi alzo, faccio colazione, prendo il mio cellulare e spreco il poco tempo libero che mi rimane, prima di mettermi a studiare, scorrendo il dito sullo schermo. Sono gesti automatici a cui non presto attenzione, tocco dopo tocco sono diventati parte della mia routine.
E così l’Evergreen che blocca il canale di Suez, la nascita di Vittoria Lucia-Ferragni e il pittore impazzito che si diverte a colorare le regioni italiane accompagnano il mio risveglio ogni giorno.
Altre informazioni indistinte allungano il mio caffè, scambio qualche messaggio e rimango fedele alla mia appendice digitale.

Una notizia in particolare però coglie la mia attenzione più delle altre. Leggo articoli, vedo Instagram Stories, post e commenti aventi un solo soggetto, Damiano Coccia alias Er Faina. Lo sgomento provocato da questo personaggio, noto per avere opinioni irriverenti e mancanza di filtri, inizialmente mi incuriosisce: è possibile che tra commenti anarchici e trasgressione, a cui ha abituato il suo pubblico, riesca ancora stupire? A malincuore scopro che la risposta è positiva.

Prima di concentrarmi sulla frivolezza delle parole utilizzate da Coccia, mi permetto di introdurre il tema con la delicatezza che merita. A meno di un mese dall’aver promesso rispetto ed uguaglianza alle donne l’8 marzo, il primo Aprile 2021 si parla di CatCalling sminuendolo e facendolo passare per un complimento desiderato ed altamente formativo per l’autostima femminile. Purtroppo, nonostante la data potesse far pensare ad uno scherzo, di divertente non c’è nulla.

Il Catcalling, o molestie di strada, oltre ad includere azioni come avance sessuali persistenti, palpeggiamenti da parte di estranei ed inseguimenti, include anche le tanto discusse molestie verbali, quali fischi, gesti o commenti indesiderati, che possano mettere altamente a disagio chi li riceve. La sopracitata polemica di Coccia, il quale dopo essersi messo in ridicolo davanti a tutta Italia, ha avuto almeno la decenza di chiedere scusa, pretendeva che frasi puramente oggettificanti, gridate a squarciagola in luoghi pubblici, senza alcun consenso da parte di chi le riceve, dovessero passare come meri complimenti.

Ora, non voglio soffermarmi sulle intenzioni dell’influencer, personalmente sono lieta che si sia reso conto dei suoi errori e che si sia scusato pubblicamente. Mi interessa ancora meno della natura di queste scuse, certo non deve essere difficile capire di aver sbagliato se tutto il Web ti ripete che non devi fare altro che vergognarti.
È l’ignoranza che vorrei mettere al centro dell’attenzione e vorrei puntare i riflettori su questa parola dal suono straniero che tanti non conoscono.

Nel 2021 è ora che si capisca che la violenza, di qualsiasi natura e in qualsiasi contesto, nasce quando qualcuno insiste dopo aver ricevuto un no come risposta. Il consenso deve diventare la nuova chiave di lettura di ogni comportamento e di ogni azione. Ogni individuo, di qualunque genere, etnia ed orientamento sessuale deve avere il diritto di sentirsi al sicuro. Abbiamo il dovere di creare una società che rispetti la libertà altrui e che sia libera da quella limitazione culturale, a cui ci ha da sempre abituato il patriarcato. Il sessismo, così come il razzismo e la xenofobia, sono costrutti mentali e culturali che vanno sdoganati ora e per sempre: il nostro mondo è cambiato e si è evoluto, non abbiamo più né tempo né voglia per dei limiti impostici a priori.

È tempo che, quando una donna esce di casa da sola, giorno o notte che sia, si senta al sicuro quanto un uomo. È tempo che il nostro genere, il colore della nostra pelle e il nostro dio non mettano a rischio la nostra incolumità. È tempo che l’uguaglianza evolva dalla sua connotazione statica di utopia e condanni a morte l’ignoranza.

Parole a capo
Rita Bonetti: “Come il primo bacio” ed altre poesie

Ringrazio tanto gli amici Gigi Guerrini e Giampo Benini per aver ridato voce a Monica Vitti. Lei, indimenticata, da tanti anni, come Daniele Del Giudice, vive nel silenzio della mente. Forse, invece, abitano già, in anticipo, in un Altromondo, fatto di persone gentili, di cose belle, di immagini e scritture. A noi rimangono i racconti di Daniele Del Giudice e i film di Monica. Quelli non li abbiamo scordati.
(Francesco Monini)

“La poesia è una grazia, una possibilità di staccarsi per un po’ dalla terra e sognare, volare, usare le parole come speranze, come occhi nuovi per reinventare quello che vediamo”
(Monica Vitti)

COME IL PRIMO BACIO

Scivoli e riappari
tra i fili del gelo
guerriera son chiusa
nella rigida maschera

L’anima inciampa
trema di stupore
mi urla in testa

Il cuore mi accarezzi
non più tempio sacro
di silenzio immane

E il tocco lo percuote
come il primo bacio
quella volta

 

COME IO  FOSSI

Di questo tuo amarmi
fatto di silenzi e di poesia
non posso più fare a meno

Come io non fossi carne
ma fragile involucro
che  puoi solo vegliare
oltre le parole

Se io ti cercassi
non saprei dove andare
sei nel mormorio del fiume
nello squarcio di cielo dopo la pioggia
nel ritornello che conosco

Eccomi qui
a bere calici di solitudine
ad aspettare
che tutto accada un’altra volta

Ora che l’amara notte cala
parlami d’amore sottovoce
come io fossi spiaggia
come tu fossi mare

 

CIO’ CHE RIMANE

Se tu me lo avessi chiesto
avresti visto i miei occhi spalancarsi
immensi come  prato o bosco
e attendere il tuo volto
per dare un senso al mio

Se tu me lo avessi chiesto
t’avrei donato il sogno
e alle radici di quell’albero
l’ombra di erba schiacciata
e i nostri nomi sulla via

Se tu mi avessi amata
avresti visto in me una donna migliore
che scriveva poesie su di noi
per restituire a dio
alcuni frammenti del creato

Un ricordo senza dolore
è ciò che rimane
di tutto quello che è stato

 

VIVO

Vivo giorni scalzi
racchiusa nel nido
a comporre parole di schiuma
posate sul confine dei sogni
Dolce inquietudine
racchiusa in un vaso di coccio
frantumato alla sera
nello  stupore trasparente del pianto
L’arpeggio lieve del vento
lambisce i cirri
in attesa di  nuove albe

Rita Bonetti nasce e vive a Bologna. Da sempre innamorata di romanzi e letteratura.
Dopo la laurea in Archeologia presso l’Università di Ferrara, inizia una stretta collaborazione di scrittura creativa con due amiche storiche e nel 2017 pubblica la prima opera narrativa, una raccolta di racconti scritti a tre mani Le Regine di Quadri. Contemporaneamente, l’autrice approfondisce la passione per la poesia e nel mese di Febbraio 2019 esce la sua prima raccolta di liriche “Persiane Blu”, Armando Siciliano Editore. Nel settembre 2019, questa raccolta di poesie si classifica al secondo posto al Concorso Internazionale POETIKA LAB. Il 18 Maggio 2019 la sua poesia Dettagli e l’11 Gennaio 2020 la sua Poesia “Scrivi per me” vengono pubblicate nella rubrica La bottega della Poesia del quotidiano Repubblica di Bologna. La sua poesia Il bacio si classifica sesta tra i dieci vincitori del PREMIO WILDE Concorso Letterario Europeo sezione POESIA D’AMORE. Nel 2020 l’autrice inizia la sua collaborazione con il sito web Lo Scrigno di Pandora, per la pagina della poesia.

La rubrica di poesia Parole a capo curata da Gian Paolo Benini e Pier Luigi Guerrini esce regolarmente ogni giovedì mattina su Ferraraitalia. Per leggere i numeri precedenti clicca [Qui]

FANTASMI
Chi guarda Chi

 

Hanno chiuso i Musei di nuovo. E io soffro. Soffro molto. Ma poi la mia mente, incapace di sostenere tutto questo, comincia a tracciare dei percorsi e a pescare quadri rimasti imbrigliati nella rete succosa di sinapsi che hanno ancora da dirmi qualcosa. E allora cammino su e giù per la cucina, l’ingresso il salotto e poi l’ingresso e il corridoio lo studio e la camera da letto e poi di nuovo l’ingresso con gli occhi assetati di sgranchirsi e allungarsi oltre le limitanti pareti, oltre la finestra con i palazzi di fronte, oltre… fino a salire quelle scale abbaglianti tra guardiane fiere dormienti varcare l’ingresso ed entrare. Guardo tutto quel che è lì apposta per lasciarsi guardare, sala dopo sala; quando a un tratto qualcosa cambia, il ritmo cambia, il suono dei miei passi rallenta. Non sono più io a guidare il gioco. Abbasso lo sguardo e ascolto. Ascolto e avverto qualcosa, un calore alle mie spalle. Una figura serena e determinata seduta sulla panchina mi guarda. Una figura dipinta mi guarda. Sono guardata. Lei è all’aperto seduta sulla panchina e sembra avere tutto il tempo di questo mondo per guardare me chiusa in una scatola. Sono io l’oggetto immobile. E allora socchiudo gli occhi e ascolto la vita raccontata da quelle pennellate.

Era con le mani in mano, nessuna commissione. Chiese a mio padre se poteva farmi un ritratto. Lui gli rispose “Chiedi a lei… se le va”. Si volse e io ero già lì. Non servì parlarne. Andai subito a prendere dei libri a caso. Non avevo mai avuto questa esperienza e immaginavo fosse piuttosto noiosa. E non sapevo quanto tempo ci avrebbe messo. Avevo sentito parlare di reggimento in metallo, imbracature per tenere il busto fermo, o roba simile. Tutta roba “invisibile” che non è mai comparsa dipinta nei quadri ovviamente, ma che permette al soggetto di stare lunghe ore immobile. Perciò ero ancora più curiosa dei retroscena. Curiosa di vedere e toccare gli “arnesi segreti” del mestiere. Presi anche l’ombrellino, visto che il pittore si stava dirigendo con il cavalletto all’esterno, per evitare di bruciare la pelle al sole.
E invece accadde qualcosa che mai mi sarei aspettata. Quel suo scrutare ogni mio dettaglio da riprodurre su tela, era più interessante di qualsiasi altra cosa. Il tempo mi volò contemplandolo. Chi guarda chi. Mai ci rivolgemmo parola ognuno protetto nella propria bolla di sogno. Il mio sguardo esagerò e lui lo riprodusse fedelmente. Ciò mi condannò allo scandalo. Sparì ogni mio pretendente ritenendo che quei miei occhi, velati da lune insonni, rivelassero una certa intimità con Corcos, il pittore amico di mio padre. Mai i miei pensieri furono rivolti a lui come uomo ma alle sue mani d’artista, al suo occhio agitato, al sopracciglio fremente. Fu il mio stupore per lo spettacolo pirotecnico di un uomo immerso nella sua passione. Nulla di più. Avevo ventitré anni e lui trentasette con una giovane raffinata colta sensibile moglie; e con figli. Io scalpitavo una vita emancipata e imprevista che voleva decollare anzi “librarsi” da una vita già scritta e racchiusa in mere e antiquate pagine di inchiostro. Lui era al culmine della sua carriera mentre io rimasi inchiodata a quello sguardo. Il mio volo si schiantò dentro quella tela.

Note
• Tela di Vittorio Matteo Corcos “Sogni”, 1896. Esposta oggi alla Galleria Nazionale di Arte Moderna e Contemporanea a Roma. La ragazza ritratta è Elena Vecchi, figlia di Jack La Bolina. un amico del pittore.
• Questo Scritto è a metà tra sogno dell’autrice e realtà.

Per leggere tutti gli interventi di Fantasmi, la rubrica curata da Sergio Kraisky e Francesco Monini, clicca [Qui] 

Vite di carta /
Giovani scrittrici del disagio

Vite di carta. Giovani scrittrici del disagio

Quanto disagio nella loro scrittura. Penso che potrebbero essere mie figlie, penso che sono giovani  e hanno il privilegio di scrivere. Di pubblicare quello che scrivono, romanzi per lo più. Eppure raccontano come per seguire una sorta di terapia e nel raccontare esplorano il loro disagio. Mi riferisco a due autrici pressoché coetanee di cui ho letto in questi giorni. Ho letto un libro per ciascuna: Come il mare in un bicchiere di Chiara Gamberale e La più amata di Teresa Ciabatti.

Come sono arrivata a Chiara Gamberale? L’ho vista in tv, proprio mentre finiva la sua intervista e la presentatrice ricordava il titolo del suo ultimo libro uscito qualche mese fa. Ho controllato nella mia libreria ritrovando di lei solo la fiaba Qualcosa e Le luci nelle case degli altri e ho pensato che vorrei rileggerli, soprattutto il secondo col suo titolo bellissimo. Sono sicura di avere letto almeno altri due suoi libri, ma non li ho rintracciati, forse provenivano dalla biblioteca scolastica e là sono ritornati.

Come sono approdata a Teresa Ciabatti. Ho letto una recente recensione sul suo Sembrava bellezza, uscito da pochissimo e finalista al premio Strega 2021. A parlarne bene sulle pagine di Repubblica Michela Marzano, che ho conosciuto di persona un paio di anni fa: una scrittrice profonda, generosa nell’incontrare i ragazzi dei Licei cittadini che gremivano la Sala Estense e molto aperta, sia alla conversazione che al dialogo. Poi, sedute davanti a un piatto di cappellacci ferraresi a uno dei tavolini del Brindisi, così piccolo da non farle sentire la mancanza dei locali parigini, ci siamo confrontate sul nostro mestiere di insegnanti. Lei professoressa ordinaria di filosofia morale all’Université Paris Descartes, io docente di lettere al Liceo Classico cittadino. Era presente anche Nadia Terranova, che ci ascoltava e ci incalzava con nomi e titoli di autrici italiane da leggere assolutamente, perché andavamo mescolando al resto i discorsi sul nostro ruolo di lettrici, sempre.

Dunque Marzano consiglia di leggere l’ultimo libro di Ciabatti. Dopo, succede tutto molto in fretta: non posso uscire dal mio paese perché la nostra regione è zona rossa e alla biblioteca di Poggio Renatico trovo il romanzo precedente, La più amata, che è uscito nel 2017.
Trovo invece il “quaderno”, lei lo definisce così, di Gamberale: Come il mare in un bicchiere. Porto a casa entrambi e comincio da quest’ultimo. Strano libro. Senza filtri che separino la scrittura dalla biografia minuta; un quaderno che diventa anche diario delle lunghe settimane vissute in lockdown lo scorso inverno. Alcune pagine sono davvero intense, sono piene di spunti per guardare la vita dentro le nostre case e dentro le persone. Per fare un bilancio su quello che sta cambiando, sulla fragilità di tutti. Sulla forza di tutti, che si fa strada nell’autrice come donna e come madre. Mi ricorda l’urgenza di racconto che ha ispirato tanta narrativa della Resistenza alla metà del secolo scorso. Siamo di nuovo in guerra e la scrittura tende a ricalcare la vita vissuta con le parole. Come durante la Resistenza l’esperienza individuale si pone come paradigmatica, rivelando la vita di tutti.

Quando passo al romanzo di Ciabatti bastano le prime pagine a farmi sospirare “Ecco un’altra autobiografia”, con la storia personale e della famiglia. Eppure un passo dopo l’altro vengo  inglobata nello spessore delle pagine, dove i ricordi della autrice scorrono talmente vivi da essere dentro il suo presente, dentro il garbuglio della sua psicologia. Ne parla in modo così scoperto. Ecco la cifra del Novecento, la biografia di sé che ricalca l’impianto della psicanalisi: Teresa e il suo rapporto col padre, adorato. Teresa e la difficile convivenza con la madre. La distanza che aumenta tra lei e il fratello gemello mentre diventano adulti.
Rispetto al “quaderno di Gamberale la storia di questa bambina privilegiata, nata in una famiglia ricchissima, che i genitori hanno amato, ma senza darle sicurezza, è la storia di un isolamento. Che a tratti scade in solipsismo. La bambina diventa adulta senza vivere il proprio romanzo di formazione, senza fasi di crescita che disegnino per lei una identità dotata di una qualche armonia, di un equilibrio. Il suo raccontare si muove su piani temporali che variano continuamente e il cursore del tempo passa dall’infanzia al presente e alla adolescenza per ritrovare sempre le stesse inquietudini e la donna che a quarantaquattro anni ancora si sente incompiuta, “qualcosa meno di un adulto”.

Cosa hanno in comune le due scrittrici, mi chiedo. Ho in mente  una  risposta ma mi occorre rivedere il genere letterario della autobiografia a cui i due libri fanno riferimento.

E’ un volume  ponderoso, il numero cinque della Letteratura Italiana Einaudi che staziona dal 1986 sulla mensola a sinistra della mia scrivania; il titolo è Questioni e fa al caso mio. Trovo il saggio di Marziano Guglielminetti dedicato a Biografia e Autobiografia e ripercorro, paragrafo dopo paragrafo, lo sviluppo tutto al maschile che la scrittura di sé ha disegnato nei secoli, dalla agiografia medievale alla letteratura di consumo del XX secolo, dove spesso parlano della propria vita non solo letterati e artisti, ma anche attori, sportivi e politici.

Mi confermo che il primo tratto in comune, banalmente ma non troppo, è che sono davanti a una scrittura di genere: a parlare di sé e del proprio paesaggio interiore sono due donne. Entrambe  mettono a nudo con determinazione l’osmosi difficile tra l’io e il mondo. Sono donne che affrontano i dilemmi della complessità di cui è fatto il nostro tempo, sorrette da un uso raffinato del linguaggio, che usano come strumento di chiarificazione interiore.
Un secondo elemento comune è che sono figlie della tradizione del romanzo psicologico e questa loro radice le spinge a scardinare dall’interno almeno un aspetto costitutivo del genere autobiografico, ovvero la concezione del tempo. Entrambe selezionano con nettezza i fatti e i momenti salienti da raccontare, ma rinunciano a collocarli in ordine cronologico secondo la sequenza codificata di infanzia, adolescenza, età matura. I nodi emotivi, le gioie e le sofferenze del passato sono recuperate attraverso frequenti flash back e riesplodono vivi nel presente della narrazione, contaminando tra loro i diversi piani temporali. Sono figlie del paradigma instaurato all’inizio del Novecento dalla narrativa di giganti come Svevo e Pirandello, i cui protagonisti ci mostrano il loro io che si frantuma perplesso e smarrito in un mondo senza riferimenti assoluti, figli a loro volta della nuova epistemologia del relativismo.

Infatti nelle due autrici non rilevo alcuna nota agiografica, nessuna esaltazione di sé; semmai qualche spunto di ironico abbassamento verso “l’inettitudine”, come è stata immortalata da Svevo nella Coscienza di Zeno. Nel libro di Gamberale, ogni volta che il vivere quotidiano sembra sopraffarla con la complessità dei compiti e dei doveri. Nella narrazione di Ciabatti quando il resoconto di sé assume un vago sapore scandalistico, si direbbe per la voglia di punirsi per i vizi e gli errori commessi.

Eppure c’è qualcos’altro che le determina. Non sono solo figlie ma anche madri. E’ passato un  secolo dall’ “involontario soggiorno sulla terra” di Pirandello e l’istanza narrativa degli autori e delle autrici che sono venuti dopo ha attraversato altre stagioni. Passata la fase pigra e sfiduciata della letteratura postmoderna, in questi primi vent’anni del nuovo millennio pare tornata la voglia di racconto. Anche del racconto di sé, andando oltre la disgregazione della identità del personaggio, oltre anche la sopraffazione del “Là fuori”, come lo definisce Gamberale. Più marcati in lei, ma soffusi anche nelle pagine finali di Ciabatti, trovo i tratti di una resilienza, che credo caratterizzi l’eroe degli anni Duemila. Come accettazione dei capricci della Fortuna, direbbe Machiavelli, passata attraverso i capricci anche del modello consumistico e le montagne russe della nostra vita globalizzata. Una sorta di pars construens del nostro io, che sa di non poter modellare il mondo, ma gli resiste e può riprogrammare il suo percorso dopo che un ostacolo lo ha fatto deviare. Ne è un campione Marco Carrera, il protagonista del libro che ha vinto l’ultimo Strega: Il colibrì di Sandro Veronesi.
Uno scrittore doveva esserci, no?

Nel testo faccio riferimento ai seguenti libri:

  • Chiara Gamberale, Come il mare in un bicchiere, Feltrinelli, 2020
  • Teresa Ciabatti, La più amata, Mondadori, 2017
  • Sandro Veronesi, Il colibrì, La nave di Teseo, 2019

Per leggere gli altri articoli e indizi letterari della rubrica di Roberta Barbieri clicca [Qui]

Come bombe atomiche

 

ehi, mi ricordo di te? che ci fai lì, perché te ne stai rintanato nella poltrona? so chi sei, è da un po’ che ti contempli gli alluci, lo trovi divertente? io non direi che sia il massimo, e tu? quando ci siamo incontrati sei stato molto gentile, penetrante, hai cercato di catturare la mia attenzione con ironia e intelligenza ci provavi in continuazione, ora cosa fai qui? non ti interessa più abbagliarmi con la tua saggezza da sciocco di strada, non c’è motivo che tu lo dimentichi, oppure sì? ebbene sì, io sono ancora qui, non mi vedi? pendo dalle tue labbra, anche se ho sempre fatto finta di nulla, sono sempre stato un buon fingitore, non sei l’unico sai? mi ricordo delle tue parole, tutte, anche se credevi pensassi solo alla birra che il barista stava spillando, anche se pensavi che stessi ascoltando l’ultimo singolo di quel gruppo folk, ero qui, ricordi? la memoria ci fa ricordare solo quello che ci interessa, strano vero? immagazzinare spazio nel cervello, conservarne un pezzetto per questa cosa, ma non è meno importante che fare spazio nel cuore, e io ti ricordo, sai, la ram non è infinita, non è espandibile, quella del cervello è limitata e preziosa, non trovi sia fantastico? oh, ma guarda che non voglio rubarti il posto, non mi credo un poeta, è solo che vederti lì, mi fa pena, mi fa sentire solo, nel frastuono del mondo.

non immagino proprio cosa ti sia accaduto, quella poltrona sa di sudore e lacrime, un misto insopportabile ma necessario, perché non fai qualcosa? su alzati da lì, aspetti di diventare il prossimo lazzaro? e sai, posso capire che ti faccia gola il personaggio, la scena e tutti i dialoghi, senza pensare poi della storia che resterà per millenni, raccontata, di bocca in bocca, di libro in libro, ma non sei lazzaro, anche se la metafora ti garba, guarda che ti conosco bene io, pur non sapendo chi sei nella vita, io ho conosciuto la parte migliore di te, quella che non ti vergognavi a far trapelare, quella che non volevi proprio nascondere, io sì che ti conosco, non vuoi? anche se pensavi che nulla potesse scalfire la mia noiosissima routine, ora voglio dirti come la penso finalmente, ascoltami bene, tu la mia routine l’avevi spezzata in due, sembrava che io facessi solo un break da lavoro, ma ehi, mi ascolti? quel giorno normalissimo, evidentemente noiosissimo, hai spaccato il tempo e lo spazio, e anche se a te sembrerà sciocco dirtelo ora, che sei bloccato su quella sedia, tu hai spalancato la mia immaginazione, mi hai insegnato a vivere, per un breve istante, prima che tornassi a vivere per gli altri, per chi mi ruba tempo e spazio e me lo ripaga con milleduecento euro al mese, eh, sì, io sì che mi ricordo chi eri? e tu pensi di poterci riuscire? pensi di capire, quanto sono amareggiato.

l’amarezza, anche questa cosa qua, che prima riservavo solo ai capi ufficio, ora ti confesso che non fa più male come prima, potrei essere invidioso, vero? guardami! invidioso del tuo modo di fare, del tuo parlare senza tabù, e si lo ammetto lo sono stato, perciò sono scappato, la maggior parte delle volte, anche ora che fai finta di non sentirmi, lo so che invece non è così, come ho provato io a lasciarti fuori dalla mia coscienza, è inutile che cerchi di coprirti con la coperta e cerchi con lo sguardo stanco fuori la finestra, aspettando che la verità possa arrivare dagli alberi, giù in fondo alla strada, non funziona così! credi di essere diverso da quello che pensavi? solo perché un paio di persone ti hanno visto distratto, annoiato, disinteressato? credi che sia vero? le persone molte volte non sono uno specchio, sono solo altre persone, diverse da te, completamente, le persone sono bombe atomiche, ti irradiano il loro malessere e ti lasciano ferite indelebili sulla pelle, tu prova a farla ricrescere, lo farai per me? non sei quel male che ci hanno cucito addosso, le persone non sono degli specchi, sono emittenti letali, irradiale tu, più forte sempre più forte, ci provi per me? non immaginavo che ne saresti rimasto così scottato, frastornato da tutto quel rumore, da tutto quel fumo, non puoi pensare solo ad incassare e resistere, prova a brillare anche tu.

come una bomba atomica, capito? ma veramente pensi di essere il solo? sarò alla mia centesima esplosione, e se non ne ho ricavato molto, almeno sono riuscito a brillare, come una stella prima di diventare un buco nero, provaci, è liberatorio, lo sai? mancano ancora tante settimane, ore e minuti alla tua esplosione? quanto tempo, quanto tempo vorrai far passare ancora? dovrò aspettare molto prima di riconoscerti? su, non avere paura, è naturale, concedersi uno sfogo, purifica l’aria, ascoltami una buona volta, te ne stai ancora lì, seduto sulla poltrona a ricordare chi eri, e fare i conti con quello che sei ora, ridicolo, vigliacco, pezzetto di vita immaginario, hai sognato di diventare un bambino vero, e invece hai fatto la fine di un burattino, non credere che i fili si spezzeranno solo perché tu lo vorrai, ehi, mi senti? devi brillare sugli altri, voltati e fammi un sorriso, prendi quel foglio e ricomincia daccapo, una volta imparato ad andare in bici non si dimentica, anche dopo anni, si riparte per una nuova avventura, non sei mai stato così silenzioso, quelle parole? dove le hai nascoste? anche se sembrava che parlottassi con chicchessia, io ero lì, e per me, anche quando prendevo e camminavo dritto, non curandomi di te e di tutti voi, ti avevo notato, tanto che mi dirai di essere pazzo e bugiardo… “ma come non eri andato via?” mi dirai… e invece no, ti avevo visto con la coda dell’occhio e ti avevo rifiutato, tirando dritto con le mie patatine in mano, ero solo scappato via, ma questo non può averti portato ad odiarmi, non sei affossato in quella poltrona per colpa mia? perché darmi tutta quell’importanza, per poi scappare a tua volta? ehi, ma ti ricordi cosa volevi? devo pensarci io? e non accampare scuse, io c’ero anche quando infine disperato postavi poesie e racconti su siti intelligenti, non mi vedevi il più delle volte, non lasciavo commenti e neppure un like, ma c’ero, leggevo, notavo, e tu… tu c’eri? ci sei?

LA MIGLIORE SICUREZZA:
rispondere ai bisogni di tutti, a partire dai più deboli

 

La pandemia ha messo in evidenza tutte le fragilità delle nostre società diseguali, dissipatrici, e senza regole. Molti sono i pericoli ai quali ci siamo assuefatti: dai morti per incidenti stradali, alle guerre che hanno andamento endemico in ampie aree del mondo. Tuttavia, l’improvvisa e rapida comparsa di un nemico sconosciuto, come il coronavirus, nei confronti del quale non ci sono ancora sufficienti difese, ci trova impotenti.

Questo virus scuote profondamente i miti del progresso e della crescita illimitata, la fiducia nella possibilità di controllo e di dominio da parte della tecno-scienza, mettendo in discussione alcune fondamentali certezze e ribaltandone il significato.

Il primo concetto che perde di significato è quello di difesa: siamo abituati a pensare che ci si difenda alzando muri, chiudendo porti e confini con eserciti militari. Ma di fronte a questo nemico invisibile le armi non servono. Anzi, proprio l’aver destinato grandi risorse alle spese militari, sottraendole ad esempio alla sanità e alla ricerca, ci rende più indifesi. Il nostro sistema sanitario universalistico, che pure è uno dei migliori al mondo, vacilla e lamenta la mancanza di attrezzature e di medici.

Il COVID19 ci insegna dunque che il modo migliore di creare sicurezza è avere una società organizzata in modo tale da rispondere ai bisogni di tutti, a partire dalle fasce più deboli. Una società di questo tipo saprà garantire anche le proprie ‘difese immunitarie’ contro i pericoli, interni ed esterni, che possono minacciarla, sviluppando l’uso corretto del potere da parte di ciascuno, le capacità di autogoverno e di resilienza, nonché forme organizzate di difesa popolare nonviolenta che i movimenti per la pace da tempo propongono.

Un altro importante ribaltamento di significato è quello del concetto di isolamento. Da Trump a Salvini a Orban, le destre sovraniste di tutti i continenti hanno rispolverato un nazionalismo pericoloso e fondato sulla cultura individualista imperante, legittimata dal pensiero unico neo-liberista. Espressioni come ‘Prima gli Italiani’ o ‘America first’, creano un isolamento, una barriera tra noi e gli altri, visti come nemici e dai quali distinguerci e separarci. È un isolamento che chiude agli altri, teso a difendere i propri privilegi, e interessi, a scapito della propria umanità.

L’isolamento al quale ci costringe il COVID19 ha invece una diversa connotazione. Serve sì a proteggere noi stessi, ma allo stesso tempo, protegge anche gli altri, perché nessuno sa se potrebbe essere un veicolo di diffusione dell’epidemia. Il COVID19 non risparmia nessuno, colpisce poveri e ricchi, giovani e anziani, al Nord come al Sud, non fa differenze di sorta. Anche chi pensa di essere più forte, potente, attrezzato, in realtà è fragile come tutti: non c’è ricchezza, potere, posizione che tenga.

Tutti hanno bisogno dell’aiuto degli altri, perché NESSUNO SI SALVA DA SOLO.

È la rivincita della solidarietà contro l’individualismo. Riusciremo a realizzare, dopo questa emergenza, un diverso rapporto tra noi e con l’ambiente che ci ospita?
Queste emergenze, climatica, sanitaria, migratoria, ci obbligano a cambiare passo, recuperando valori di solidarietà e sobrietà, che aprono una possibilità di futuro sostenibile per tutti. Proprio come è avvenuto dopo la seconda guerra mondiale, quando si è avvertita l’esigenza di creare istituzioni, come le Nazioni Unite, che si ponessero come strumenti alternativi per la risoluzione delle controversie internazionali. In realtà l’ONU oggi è una istituzione troppo debole e priva di reale potere nel gestire le relazioni internazionali.

Oggi il vaccino ci porterà forse fuori dall’emergenza, ma non ci risolverà il problema di una diversa consapevolezza che richiede un ambiente inclusivo.

Per leggere tutti gli articoli di Elogio del presente, la rubrica di Maura Franchi, clicca [Qui]

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Piovono pietre su Fornero e Jobs Act:
il lavoratore non è una merce

 

L’ultimo decennio ha segnato un arretramento secco sul fronte dei diritti dei lavoratori. Abbiamo assistito alla traduzione in leggi (prima la Fornero, nel 2012, poi il Jobs Act, nel 2015) di un’idea secondo la quale il lavoro è una pura merce, priva di un valore in sè che incorpori la realizzazione attraverso di esso dei valori di dignità e personalità umana. Una merce come tante altre, che si paga ad un prezzo di mercato: più quella merce è sostituibile, più il suo valore si deprezza. Più persone sono disposte a fornire la stessa merce, meno costa procedere alla sostituzione della singola persona, pura fornitrice di forza-lavoro.
Attenzione: l’obiezione secondo la quale i contratti di somministrazione, i negozi a termine, i finti contratti di collaborazione “autonoma” realizzavano già, in abbondanza, questa idea restituisce il clima di progressiva precarizzazione del lavoro incorporato nella pletora delle diverse forme contrattuali.
Ma le operazioni compiute con la Fornero e il Jobs Act hanno fatto compiere alla legislazione un salto di qualità negativo, rendendo in un certo senso precario ab origine anche il rapporto a tempo indeterminato. Non mi soffermo più di un attimo sull’inganno di senso costruito sul termine “flessibilità”, usato per conferire un velo di cosmesi al reale concetto sotteso, che è “precarietà”. Quando la precarietà diventa, come nella Fornero e nel Jobs Act, elemento costitutivo del rapporto di lavoro a tempo indeterminato, la derubricazione del lavoro a pura merce non è più una variazione sul tema giustificabile, di volta in volta, con le necessità di inserimento graduale nel mondo del lavoro o con le caratteristiche di impieghi che comunque non saranno svolti per tutta la vita. No: la precarietà diventa elemento ontologico del lavoro, deprivando di garanzie e sicurezze un intero percorso professionale, che diventa così soggetto, dall’inizio alla fine, al potere di ricatto della controparte datoriale.
Chi è assunto dal marzo 2015 con il cosiddetto “contratto a tutele crescenti” sa fin dall’inizio che potrà essere licenziato senza una giusta causa, e che il prezzo che potrà incassare se un giudice riconoscerà l’ingiustizia (e intanto bisogna andarci, da un giudice) sarà un puro indennizzo, sganciato del tutto dalla gravità dell’ingiustizia subita e commisurato solo alla sua anzianità di servizio: una specie di liquidazione impropria (e di importo modesto) per liberarsi di uno scomodo/a. Ciò implica che un datore di lavoro può calcolare in anticipo il prezzo del suo arbitrio, come un qualunque altro costo aziendale. Lo può mettere a budget.

La progressiva traslazione da “prestazione lavorativa” a “performance” è anch’essa un inganno, funzionale ad una sottrazione di tutele.
Se la prestazione sul lavoro di ognuno dei 24 milioni di individui (all’incirca la popolazione occupata in Italia) dovesse essere misurata come si misura una prestazione sportiva professionistica, allora tre quarti dei lavoratori italiani  meriterebbero il licenziamento, e tra essi ci saremmo anche noi. Sfortunatamente, questa riduzione a competizione parasportiva di ogni elemento attinente al lavoro finisce per inficiare anche quella parte di valutazione (e di extra-retribuzione) legata al raggiungimento di obiettivi, che si concentra esclusivamente sulla quantità di cose fatte o vendute: se sei un poliziotto, quanti arresti hai compiuto; se sei un assicuratore, quante polizze hai venduto; se sei un primario, quanti posti letto hai liberato.
Non importa realmente in quale modo è stato ottenuto questo risultato: il quanto è oggetto di premio, il come non lo è. Ricordo un solo esempio tra gli innumerevoli che si potrebbero fare: la caserma dei carabinieri Levante di Piacenza (che poi una procura scoprì essere una minicupola dedita allo spaccio e al ricatto) poco prima ricevette un encomio solenne dal comandante della Legione Emilia-Romagna per i risultati conseguiti nel contrasto allo spaccio di stupefacenti. Sapete perché? Per il numero di arresti compiuti. Peccato che molti di essi fossero arresti abusivi, funzionali alle minacce, ai pestaggi, alle torture.

Lo “scarso rendimento” che può giustificare addirittura un licenziamento esiste nel nostro ordinamento, ed è costruito dalla giurisprudenza di merito. Ma se non si considera come elemento costitutivo della nozione di “scarso rendimento” una responsabilità soggettiva del lavoratore, allora anche un lavoratore malato assente spesso a causa delle cure da sostenere, o una madre assente per gravidanza possono essere imputati di “scarso rendimento”, come dato oggettivo.
Per non parlare poi dei licenziamenti per “giustificato motivo oggettivo” legati alle condizioni economiche, o alle scelte organizzative dell’azienda, che comportano la soppressione di quel posto, o la esternalizzazione di quella funzione.

In tutti questi casi, la legge ordinaria in materia di lavoro degli ultimi vent’ anni, spiace dirlo, sembra scritta spesso da emissari delle aziende. Per questo, non saremo mai abbastanza grati ai padri costituenti per avere scritto la Costituzione e alla Corte Costituzionale per la capacità, tuttora integra, di censurare le nostre leggi quando non sono conformi ai principi costituzionali.
L’ultimo esempio è la sentenza 59 del 2021, con la quale la Corte ha decretato che l’art.18 Statuto lavoratori, così come modificato dalla legge Fornero nel 2012, è incostituzionale laddove, in caso di licenziamento per motivi economici di cui sia accertata la manifesta insussistenza della causa, preveda che il giudice può scegliere se indennizzare o reintegrare il lavoratore.
Il principio costituzionale violato è quello di uguaglianza (art.3): infatti, quando in un licenziamento per giusta causa il fatto posto a base del provvedimento è inesistente, la reintegra del licenziato è obbligatoria, non facoltativa. Dal momento che il presupposto dell’insussistenza del fatto ha meritato la tutela della reintegra, la Corte afferma che la stessa non può essere facoltativa quando l’insussistenza è legata ad un licenziamento dichiarato come economico. Fuori dai tecnicismi, significa questo: se vengo licenziato senza un motivo, il giudice deve disporre la mia reintegra.
Che poi il lavoratore (non il giudice) possa decidere di far convertire in denaro questo diritto, è quello che fa la differenza tra una somma a titolo di risarcimento (come quella che sostituisce una reintegra nel posto di lavoro) e un indennizzo (come quello del Jobs Act).
Nel primo caso (risarcimento), la cifra deve corrispondere alla ricompensa per un danno ingiusto subito.
Nel secondo (indennizzo), la cifra è un contentino a fronte di un atto che l’ordinamento non considera nemmeno antigiuridico.

Il che rende ancora più evidente (e odiosa) la disciplina puramente indennitaria del Jobs Act, che presuppone che un licenziamento ingiustificato non sia fonte di danno ingiusto verso il lavoratore. Danno sì, ma non ingiusto. Che questa bella impostazione sia stata propugnata non da Margaret Thatcher, ma dall’allora segretario del PD, trascinandosi dietro una buona fetta del partito, restituisce la misura dello smottamento che una parte della sinistra ha compiuto verso il più scellerato dei liberismi, se applicato bovinamente a quella che loro considerano la ‘merce’ lavoro.

La sentenza della Corte purtroppo non risolve automaticamente i problemi di coloro che sono stati assunti dopo il marzo 2015, con un contratto redatto ai sensi di un corpus normativo (Jobs Act) che, appunto, non considera nemmeno il licenziamento ingiustificato come un atto antigiuridico. Tuttavia è un grande passo nella direzione della riconquista del significato costituzionale del lavoro, come strumento di affermazione della personalità e dignità umana: perché una Repubblica che si dichiara “fondata sul lavoro” non può essere fondata su una merce.

DIARIO IN PUBBLICO
Questione d’orecchio

 

Sempre attratto dalla fisiognomica mi affiggo a riconoscere le più straordinarie orecchie esibite da personaggi pubblici in questo tempo di pandemia. Ecco che senza ombra di dubbio quelle che eccellono per la loro curva e la loro preponderanza sono quelle di Francesco Paolo Figliuolo, Commissario dell’emergenza Covid e di Pietro Senaldi direttore di Libero. Scendendo poi al livello metaforico si riconosce, a chi è competente in campo musicale, quelli che ‘hanno orecchio’ e a quelli che ne difettano il non averne. Salta immediatamente all’orecchio, dunque, che chi non stona è sicuramente il Figliuolo, mentre a mio parere chi prende terribili stecche è il giornalista.

Rientra poi nell’accezione positiva – sempre se si parla di fisiognomica – anche l’imponenza con cui il militare si presenta: dalla penna sul cappello alla divisa corazzata di mostrine che, mi comunica un finissimo intellettuale come Fernando Rigon, hanno in gergo militare un nome strepitoso. Cito: “Gianpavese  hai superato te stesso nell’articolo su Figliuolo, pelosi e Letta al plurale. Un’integrazione linguistica: le onorificenze pettorali e le medaglie in gergo militare si chiamano ‘banane’. Vezzeggiativo o spregiativo?…”.

Un‘altra non secondaria qualità, che rende umana la figura del nostro Commissario dell’emergenza Covid, è l’esporre il proprio corpo alla curiosità del pubblico, quando decide di vaccinarsi con quello ‘maledetto’, di cui è ormai difficile pronunciare il nome che ora è Vaxzevria, provocando l’analisi satirica strepitosa di Luciana Littizzetto in Che tempo che fa, interessatissima al seno del Commissario. Quello che invece risulta stonato nelle frequentissime apparizioni del Senaldi è la sua vocazione alla pedagogia della critica e del rifiuto. All’aprirsi della bocca le orecchie sembrano mettersi in movimento autonomamente e siglare con imperio le affermazioni pronunciate con tono sempre asseverativo. È logico che queste note vogliono alleviare, se fosse possibile, il difficile momento che stiamo passando.

Circondato da amici straordinari  attenti alle conseguenze linguistiche spaventose che da ormai troppo tempo imperversano sulla nostra infelice cultura riporto, con il suo permesso, una mail che il professor Claudio Cazzola, docente di latino a Unife, ma prima di tutto uno dei miei più cari e amati ‘allievi’ mi ha spedito:
“Mi permetto di cambiare argomento, essendo stato io deliziato dalla pronuncia ‘règime’ adottata dal generale Figliuolo come da te sapientemente segnalato. Proprio in nome di questa delizia, vorrei sottoporti, al rovescio, alcune prelibatezze offerte dai messaggi che sono apparsi in sovraimpressione ieri sera su Telestense durante il commento alla partita della Spal:SPAL, voglio che sei vincente oggi!

  1. Ragazzi, mettiamolaci tutta!
  2. Era gol, non ce la tecnologia in B!
  3. Servon soldi per vincere, altrimenti si va in defolt!
  4. NN vedono CKE Missiroli cammina in campo!

E mi fermo qui. Non mi straccio le vesti, ma è amaro constatare il livello di padronanza della lingua (anche il vocabolo straniero è storpiato…).”

Frattanto mi adopero a rendere meno impervio il cammino dantesco della mia amatissima pro-nipote Isabella, con la quale e con la sua amica Pally in video conferenza passiamo momenti per me confortanti nello spiegare i temi, la storia, le parole di LUI. Mi sembra di tornare indietro nel tempo, quando per 15 anni il mio impegno totale è stato quello di rendere storicamente comprensibile la lezione del Sommo e in questo aiutato, e non lo ringrazierò mai abbastanza, dalla straordinaria qualità delle recite di Roberto Benigni.

Stavamo tranquillamente leggendo (seppure non come Paolo e Francesca), ma come per loro ‘solo un punto fu quel che ci vinse’, quando incontrammo la figura di Farinata degli Uberti. Manente degli Uberti detto Farinata; con aria assorta interloquisce Isabella “perché Farinata?”. Certo tutti noi sappiamo cos’è la farinata tratta dal grano macinato per cui farina, ma perché il terribile condottiero viene così soprannominato?
Febbrilmente mi metto a sfogliare ben 16 commenti all’Inferno dantesco. Tutti imperturbabilmente riferiscono che così era chiamato, ma il perché nessuno lo spiega. Consulto l’Enciclopedia dantesca: nulla. Telefono in Svizzera all’amico Stefano Prandi illustre dantista, ma la risposta è ancora negativa. Quasi vergognandomi telefono a colui che considero il maggior dantista italiano e non solo: l’amico carissimo Marco Ariani. Scoppia in una delle sue inimitabili e fragorose risate, confessandomi che qualche sera prima, sentendo Benigni al Dantedì recitare il poeta, si era posto la stessa domanda ma…anche lui, Marco, non lo sapeva. Mi ha detto che quello sarà l’impegno più stringente che curerà in questi giorni.

Frattanto il mio amatissimo nipote Ludovico fa una ricerca su Google e riporta la notizia che il soprannome deriva probabilmente dal colore dei capelli di Manente ‘biondo platino’ assimilabile al colore della farinata. Mah! sembra una spiegazione applicabile a qualche film storico girato sulle rive del Tevere negli anni Cinquanta. Comunque sia la straordinaria creatività di Durante-Dante, che passa dall’avverbio del suo nome intero a quello verbale del diminutivo, mi rende contento.

E spero anche voi.

Per leggere gli altri interventi di Gianni Venturi nella sua rubrica Diario in pubblico clicca  [Qui]

PRESTO DI MATTINA
Il dono dell’aquila

 

La Pasqua non è qui; il sepolcro è vuoto, nessuno dentro; la pietra è ribaltata, le fasce sciolte, il sudario ripiegato in un angolo, quasi lo si fosse riordinato prima di partire per un viaggio. Tanto che viene da chiedersi se la Pasqua, anziché una meta da raggiungere, sia piuttosto l’inizio di un cammino.
Credo proprio di sì.
Come il vangelo è una via, quella di Gesù, così la Pasqua è mettersi in via con Gesù. È lei che detta l’agenda ai discepoli, li incrocia per un momento, per poi sfuggire loro, precedendoli altrove e lasciando solo indizi del suo passaggio, affinché possano di nuovo mettersi sulle sue tracce.
Ma dove cercarla? In quale direzione? Quali avvisaglie ce la rivelano?

Per rispondere basterebbe riflettere sul fatto che la Pasqua altro non è che l’epilogo di quella storia che Gesù scelse per descrivere l’essenza della sua vita: quella del chicco di grano caduto in terra, che se non muore rimane solo, ma se muore porta molto frutto. Per questo sarebbe inutile cercare a Pasqua Gesù nel sepolcro. Come il chicco di grano, la sua vita non è più nella terra, ma è migrata nella spiga e da qui è passata oltre, attraverso la farina e l’acqua e le mani che hanno impastato, entrando nella fornace ardente che l’ha cotta per diventare un fragrante pane. Di più: un pane spezzato che di nuovo continua, di mano in mano, a consegnarsi ad altre mani, dividendosi in frammenti ma restando un solo pane, come una moltiplicazione incontenibile, un fiume di pane come quella prima volta sul monte con tanta gente seduta sull’erba; un dono per tutti, tanto che quella volta ne avanzarono dodici cesti pieni.
È questa la memoria della Pasqua: una consegna che si custodisce disperdendola moltiplicandola, un dono per chi vuole imitare il maestro continuando a frangere pane.

“Per tutti è Pasqua!”, nel suo avanzare audace verso tutti e sorride don Primo Mazzolari sentendosi citato: «Per tutti, anche per i molti che non partecipano al sacramento, il mistero della Pasqua, è una consegna. In tempi neghittosi ci sprona all’audacia: in tempi disamorati ci suggerisce la pietà: in tempi di odio ci inclina al perdono: in tempi folli e disperati ci restituisce al buon senso e ci guida verso la speranza. […] Quando sentono parlare di pace, i cristiani sanno bene di che cosa si parla, poiché il desiderio che è nel cuore di tutti è il dono che è nell’incontro pasquale» (La Pasqua, Vicenza 1964, 54 e 69).
Lo spirito del Risorto è come il vento: soffia dove vuole e ne senti la voce, ma non sai di dove viene e dove va. Così è di chiunque è nato dalla Pasqua, (Cf. Gv 3,8).

Pasqua non è più qui, perché vive e testimonia della ridondanza del dono, dell’eccedenza di un evento che non si è concluso, di un gesto di donazione che non ha mai cessato di essere praticato; continua a riversarsi da quella prima Pasqua in ogni altra pasqua in cui la vita si offre. Come le acque che scaturiscono da una sorgente, e all’inizio sono poca cosa, tanto che ad attraversarle ci si bagna appena i piedi, ma poi diventano, di onda in onda, un fiume che attraversi solo navigandolo, così la Pasqua è là dove scorre e arriva il fiume: è là dove giungono le sue acque per risanare e portare nuova vita.

«Egli non è qui ‒ disse l’angelo alle donne ‒ presto andate a dire ai suoi discepoli: “È risorto dai morti, ed ecco, vi precede in Galilea; là lo vedrete”. Ecco, io ve l’ho detto”», (Mt 28,6-7): Pasqua è là.
«Yhwh Sâmmâh/ Là è il Signore», (Ez 48,36) è questa l’ultima parola del libro di Ezechiele, profeta e sacerdote del popolo deportato in esilio. Il cuore del suo annuncio, la visione di un ritorno a Gerusalemme, sta tutto in quel “Là è il Signore”, parola chiave per dire tutto il senso del suo messaggio, in cui descrive una nuova dimora per Dio, non più tra le mura ristrette nell’antico tempio, ma in una dimora ampia quanto l’universo e quanto ogni cuore umano: una nuova creazione, là sarà il luogo della sua dimora. Nella sua ultima visione Ezechiele racconta di una fonte simile a quella di Siloe nella città di Gerusalemme, ma non umile e modesta come quella. Simbolo della potenza vivificante di Dio della sua gloria, egli vede una nuova fonte le cui acque, filtrando da sotto la porta del tempio, vanno crescendo enormemente e da rigagnolo diventano fiumana, portando beneficio non solo alla città santa ma così da rendere fertile anche la parte desertica, le regioni dell’Arabia portando vita e pesca nel Mar Morto. Un’acqua così abbondante da far germogliare e crescere e fruttificare alberi da frutta ogni mese e le cui foglie verranno usate come medicine. La Pasqua trova in questa visione la sua forma fluida, il suo dinamismo, lo stesso dell’acqua e dello spirito, dono che è pure un effluvio che discende a generare un cuore nuovo: «vi darò un cuore nuovo, metterò dentro di voi uno spirito nuovo, toglierò da voi il cuore di pietra e vi darò un cuore di carne. Porrò il mio spirito dentro di voi e vi farò vivere» (Ez 36, 26-27).

Come l’acqua in quelle terre mediorientali è preziosissimo dono e non va negata a nessuno, così la Pasqua è dono libero, gratuito per tutti, non privatizzabile, perché la Pasqua generata dallo Spirito del Risorto è un bene pubblico, non finalizzabile a strategie e obiettivi umani. Essa non va nemmeno incanalata, perché più la costringi, più essa esonda dai confini, attraversa i limiti che le gerarchie sociali e anche religiose le vorrebbero imporre. Pasqua dono di grazia manifesta se stessa come gratuità di un amore generativo di una esperienza di reciprocità.

Non è allora difficile intuire quali indizi ci segnalino oggi la presenza della Pasqua. Essa è là dove Cristo sfama ed è sfamato, disseta ed è dissetato, visita ed è visitato in carcere, in ospedale, accoglie ed è accolto ai confini e alle frontiere di terra e di mare. Pasqua è una conversione, un’interruzione del cammino conosciuto verso quello che non so; è un abbandonare il proprio posto, ancorché buono (Jon Sobrino), per lasciarsi condurre dal vangelo, dove Dio vuole essere incontrato “là dove è”; con la sola certezza che stiamo sempre iniziando un nuovo cammino, non da soli ma nella compagnia mite e silenziosa del Risorto.

Vi è una chiesa in uscita perché vi è una Pasqua in uscita.
In questo tempo, chiamiamolo pure di secolarizzazione in cui sembra di stare in balia di un fenomeno regressivo di riduzione dello spirito, di umiliazione della creazione in favore dell’economico, dell’impersonale, di relazioni a bassa intensità di presenza; in questa situazione di una nuova secolarizzazione, dove è in atto una mutazione del processo che ora avviene più in profondità, passa dall’esterno all’interno del vivere, dalle idee alle affezioni più intime sfiduciandole, transita dalle istituzioni sociali alla vita interiore sempre più erosa di tessuto spirituale, di memoria delle origini e quindi della stessa capacità di immaginare un futuro degno e umano; in questo scenario esistenziale la via percorribile per ribaltare le sorti è quella del dono: lo stile dell’umano perdersi e risorgere a Pasqua.

Credo che la strada per far tornare il vento nelle vele, anzi nello spinnaker di poppa del credere e del vivere nello spirito di Gesù, per ritrovare anche una chiesa e il suo dono, chiesa ferita nella sua capacità di immaginazione, di affezione, di pervasività narrativa, educativa e ministeriale, sia la via mistica, un immergersi di nuovo nel mistero pasquale per ricevere e praticare la sua forma.
«Solo recuperando una visione mistica penso che avremo delle energie ecclesiali. Sono stato affascinato dall’idea che la Chiesa possa rifondarsi nella ridondanza del dono. Il problema della Chiesa in uscita è: cosa esce? C’è qualcosa che può uscire? Altrimenti cadiamo nell’ennesima forma retorica ecclesiastica e teologica. La carità che la Chiesa esercita all’esterno non può che essere l’effluvio di una carità esercitata all’interno… La Chiesa media l’ospitalità in Cristo ma chiede accoglienza. Sempre di più penso che mettersi nella condizione dell’ultimo di tutti è ciò che permette che non ci sia solo quel popolo ma tutti i popoli» (Roberto Repole, Chiesa e teologia, https://www.agensir.it/ quotidiano/2021/3/13/). È guardando alla Pasqua sorgente di inesauribile creatività che le nostre comunità cristiane potranno guarire di quella «ferita dell’immaginazione» (Michael Paul Gallagher) e partecipare agli altri il sogno di Dio realizzatosi a Pasqua nella gratuità di un dono.

Nel racconto di Nathan Zach, La grande aquila si narra di un’aquila impagliata, imbalsamata e appesa al muro, come un trofeo. Ma che con l’andare del tempo fu sempre più ignorata da tutti quelli della famiglia in cui era entrata: era ormai come una vecchia e ingiallita stampa alla parete e sentita come qualcosa di ingombrante da disfarsene prima o poi. Tutti tranne che per uno, Yotam, il figlio più piccolo: «Era rimasta fissa al muro della veranda fra la stanza da letto e la cucina le ali spiegate di qua e di là il piumaggio ben teso sul corpo, gli artigli estratti pronti a conficcarsi nella carne del nemico ormai vicino. E invece no. Nessuno pensava più a lei come a un’aquila tutti la consideravano ormai soltanto una specie di arazzo». Pure la domestica aveva paura di toccarla anche soltanto con il piumino. La decisione alla fine venne con le pulizie di Pasqua, imbiancare le stanze, rinnovare gli arredi, togliere ingorbi e le cose che avevano fatto il loro tempo. Così anche il destino dell’aquila fu segnato, ma nessuno per un motivo o per un altro si decideva a prendere l’iniziativa (per i particolari vi rimando al libro: L’omino nel pane ed altre storie, Donzelli, Roma 2003).

Solo Yotam pensava al modo di salvarla dalla rottamazione. Perché una volta si accorse che, guardando all’aquila impolverata, questa guardava lui «tremendamente». Così dapprima prese il piumino per togliere la polvere, ma al vederla così rinsecchita pensò a una doccia «Senza pensarci su due volte, prende uno dei tanti secchi che si ritrova intorno, lo riempie di acqua del rubinetto, dal bagno, e butta addosso all’aquila tutta l’acqua del secchio». Subito, non accadde niente ma all’improvviso: «“improvvisamentissimamente” l’aquila abbassa la sua testa e la affonda dentro il secchio con l’acqua pulita. Questa vecchia aquila beve. Beve un sacco. Beve come non ha mai bevuto in vita sua. Beve come se non sapesse che cosa significa bere». Sentiva sempre più che i suoi occhi lo guardavano. Ma come aiutare un’aquila inchiodata al muro?

Avvicinandosi si accorse però che i chiodi erano con il tempo caduti, solo un poco di colla la tratteneva ancora alla parete. Così la staccò dal muro e lentamente l’aquila cominciò a respirare ed ad ogni respiro il petto si allargava sempre più come un palloncino quando lo gonfi. «Adesso l’aquila muove un po’ la testa, poco poco. Muove la testa verso la finestra chiusa. Di nuovo, senza pensarci su, Yotam va a spalancare la finestra. L’aquila è ormai sul davanzale. Guarda Yotam. Yotam la guarda. Occhi gialli di fronte a occhi castani, scuri scuri, quasi neri. Allora improvvisamente l’aquila dispiega le ali. Ehi, che grandi ali ha quest’aquila, quando non è appiccicata o inchiodata al muro. Un piccolo slancio, e quelle gigantesche ali portano il corpo dell’aquila fuori dalla finestra, ormai. Un colpo d’ali soltanto, ed eccola sopra gli alberi, ormai. Di laggiù, rivolge ancora una volta a Yotam i suoi occhi gialli. Poi, su su là in alto, quasi come un pallone che si è liberato del filo, scompare». Abbassando lo sguardo verso terra Yotam scorse una pozzanghera con all’interno una grande piuma, una piuma d’aquila, una piuma normale, grossa, fantastica. L’aveva lasciata l’aquila, forse come un dono, un grazie, ma anche come traccia di un incontro da non dimenticare, la compagnia di un ricordo che avrebbe reso lieve i passi del suo cammino, come fosse sollevato su ali d’aquila.

Per leggere gli altri articoli di Presto di mattina, la rubrica di Andrea Zerbini, clicca [Qui]

 

CONTRO VERSO
Filastrocca che stringe alla gola

 

Nicola, un bimbo di 6 anni. Entra in un negozio di abbigliamento insieme all’affidataria e si mette a tremare davanti a un mazzo di cinture appese. Ne indica una borchiata: “Pensa se papà mi picchiava con quella”. Questa filastrocca è per lui, ed è stata scritta canticchiando. Forse per quietare la paura la rabbia che non lo lasciavano in pace, neppure dopo.

Filastrocca che stringe alla gola

Laccio, cintola, cinghia,
m’hanno chiuso il cuore dentro una conchiglia.

La cinghia mi stringe alla gola
si fa buio intorno e niente mi consola

Cinghia, cintola, laccio
mi porto dentro il male, nel male che mi faccio.

Il laccio è un filo d’argento
mi affossa in un istante, ritrovo il mio tormento.

Cintura, di stoffa, di pelle
solca la mia schiena, e io conto le stelle

È solo una frusta di cuoio
tremo di paura e penso: “Adesso muoio”.

Ma è cinghia, di borchie, di sabbia,
mi scuote la tempesta, esplode la mia rabbia

Tempesta, di sabbia, di schegge
di vetro che mi taglia, di fiato che non regge

È un laccio di cuoio e catrame
non ci voglio stare dentro quel letame

Mi stringe, restringe, costringe,
e penso che l’amore si dà e non si finge

La cintola è un nastro di seta
voglio arrampicarmi sopra una cometa

Mi fionda in un cielo cobalto
prego che sia vero e punto ancora in alto

Il cielo è cintura di ghiaccio
cerco di allentarla dentro al vostro abbraccio

Gingillo con quella cintura
finché potrò scoprire che non ho più paura.

Cintura, di cuoio, più dura
non è mai finita, vedi, la paura
Resta, la ferita, senza una sutura

La questione delle botte è controversa. Cambia con le latitudini, i secoli, le culture. In Italia è reato l’abuso di mezzi di correzione, cioè l’eccesso di sberle, mentre darne una ogni tanto si può. È molto difficile quantificare quanti bambini le prendono sistematicamente dal momento che i dati non vengono rilevati. Esiste una sola ricerca nazionale ormai un po’ invecchiata (registra i dati al 31.12.2013). Impostata con basi scientifiche da Autorità Garante dell’Infanzia e dell’Adolescenza, Cismai e Terres des Hommes con la collaborazione di Istat, riporta che in Italia, su 1000 minorenni, 9,5 sono in carico ai Servizi sociali per una qualche forma di maltrattamento e, tra questi, il 6,9% proprio per maltrattamento fisico.
Sono pochi, sono tanti?
Non ha importanza.
L’importante è che siano riconosciuti, aiutati, protetti.

CONTRO VERSO, la rubrica di Elena Buccoliero con le filastrocche all’incontrario, le rime bambine destinate agli adulti, torna su Ferraraitalia  il venerdì. Per leggere i numeri precedenti clicca [Qui]

Enrico Vaime
lo spettacolo continuerà anche lassù

 

Il grande autore e pensatore istrionico Enrico Vaime ci ha lasciato, ha raggiunto il caro compagno di una vita di battaglie artistiche scomparso nel 2008 con cui aveva formato la famosa ditta artistica Terzoli & Vaime.
Vaime è stato uno dei più grandi autori radiofonici e televisivi, nonché autore di circa una trentina di libri. Fra i tanti successi radiofonici, da ricordare “Black Out”, che ci ha accompagnati ogni sabato e domenica mattina dal lontano 1979.
Eccezionale come conduttore, mai sopra le righe, mai volgare. Un signore mai noioso e sempre brillante, simpatico e con una buona dose di pungente ironia:

Io sono uno che dice sempre la verità. Anche a costo di mentire.

In questo paese di ignoranti uno che riesce a distinguere un condizionale da un congiuntivo rischia di passare per intellettuale.

Anni fa, durante un’intervista, alla domanda sul suo orientamento politico, rispose: “A sinistra, anche se la sinistra non sa ridere, è permalosa, è sempre stata così. Andreotti invece, se lo prendi in giro, ride”
Poi, alla domanda se era comunista, rispose: “Dipende. Se me lo chiede Berlusconi rispondo di sì. Se me lo chiede Bertinotti rispondo che ci devo pensare”.
Il pensiero di Vaime sulla morte lo portava a riflettere sulla poesia di Fernando Pessoa La morte è la curva della strada.

La morte è la curva della strada,
morire è solo non essere visto.
Se ascolto, sento i passi
esistere come io esisto.
La terra è fatta di cielo.
Non ha nido la menzogna.
Mai nessuno s’è smarrito.
Tutto è verità e passaggio.

La morte non è che l’ombra della vita stessa. Non si può, infatti, scindere la vita dalla morte e non si può, come scrive Pessoa, trascurare il fatto che la morte sia la curva della strada.
Italo e Enrico continueranno anche lassù a fare spettacolo!

FANTASMI
PERCHÉ I FANTASMI CI PERSEGUITANO

PERCHÉ I FANTASMI CI PERSEGUITANO

Inizia oggi, e vi terrà compagnia ogni settimana, una nuova rubrica del giornale.
Se i FANTASMI  muovono la vostra curiosità, in questa rubrica ne farete conoscenza ed esperienza. A patto che siate disposti ad aderire alle regole di ingaggio della rubrica, che sono poi gli ingredienti base della ricetta di
Periscopio: miscelare (si spera con intelligenza e un quid di arguzia) intenzioni, lingue, linguaggi, stili e generi letterari diversi, Nel caso di FANTASMI: l’Alto e il Basso, Il vicinissimo e il remoto, Il credibile e l’incredibile. il dramma e il comico, l’incubo e il risveglio. Quindi Il racconto, ma anche la notizia, la recensione, il catalogo (di spettri naturalmente), il saggio breve, Insieme alle figure: il disegno, la mappa, la foto, il fumetto. 
(I curatori della rubrica: Sergio Kraisky e Francesco Monini)

I fantasmi ci perseguitano. Le nostre ambizioni segrete, le illusioni, i fallimenti temuti e quelli vissuti, la percezione di non essere capiti e, a volte, neppure visti, la coscienza di essere scambiati per quello che non siamo, le aspettative tradite, gli amori finiti e quelli infiniti, gli amori mai dichiarati e quelli bruciati in un secondo, l’esaltazione per i  progetti futuri, quelli realizzabili come quelli del tutto velleitari, le gelosie e gli equivoci, le nostre personalità nascoste e certi vecchi ricordi, a volte più vividi della realtà presente, la nostalgia per mondi e paradisi perduti che forse non sono mai esistiti, stanno lì accanto a noi, nascosti e impalpabili, e popolano come fantasmi le nostre vite. Alla fine condizionano la nostra esistenza, le nostre scelte e i nostri comportamenti, più delle convenzioni e delle regole che governano quella che comunemente consideriamo realtà.

E poi ci sono le centinaia di miliardi di esseri umani, tutti coloro che ci hanno preceduto, che hanno abitato e forse amato questa terra più di noi. I nostri antenati, di cui si tramandano le gesta e le infamie, quelli che non abbiamo mai conosciuto, ma anche quelli che abbiamo conosciuto prima della loro morte e che probabilmente non sappiamo chi fossero davvero, il perché di tante loro gesta, vili o eroiche che fossero. Tutti costoro forse ci guardano da lontano, come le stelle che a noi sembrano brillare ogni notte e che invece sono solo il ricordo di milioni e milioni di anni fa. Senza contare gli invisibili, quegli uomini e quelle donne di cui nessuno ha registrato l’esistenza, senza data di nascita né di morte, sepolti tra le montagne, nelle periferie metropolitane, nei deserti, in fondo ai mari. Uomini in fuga o uomini in trappola, che sono e sono stati sempre e solo fantasmi, anche se rappresentano la materia prima, grezza, con la quale è stata forgiata quella che comunemente viene chiamata Storia.

Ma alla fine qualcuno, giustamente, si chiederà: che senso ha evocare tutti questi fantasmi? Forse è solo un innocuo gioco di società, piacevolmente inutile. O forse, chissà, dietro queste storie, dietro questa voglia di raccontarsi e di raccontare, si celano delle riflessioni, delle esperienze interessanti. Forse, potremmo azzardare, perfino delle lezioni di vita. Tanto alla fine importa ‘cosa’ si racconta e ‘come’ lo si racconta. Accade sempre nella vita come nella letteratura: ci sono fantasmi che lasciano il segno e altri che evaporano nel nulla. Chi prima e chi dopo. In ogni caso la conclusione è una sola: i fantasmi ci perseguitano per la semplice ragione che esistono. E perché sono tanti, molti più di noi.
(Sergio Kraisky)

Cover: Senza titolo, acquarello di Enrica Prosperi

Racconto:
La partita

 

“Francesca è bellissima.
Io ne sono innamorato dal primo giorno della prima media.
Adesso faccio la seconda, sezione E, e penso proprio di amarla. Lei ancora non lo sa, ma un giorno ci sposeremo “.
Giulio appoggiò la penna per terra, chiuse il suo diario e si consegnò sfinito ai suoi sogni
Giulio era un ragazzino che un tempo si sarebbe definito solo ‘timido’. Oggi si parlerebbe di difficoltà relazionali, bassa autostima, ansia da prestazione…

Nella classe 2E della scuola Media Tasso c’era la ragazzina più bella che avesse mai visto.
Un archetipo: capelli fluenti biondi, occhi celesti, alta e magra.
Lui invece era un poco sovrappeso, non troppo alto, ma per il resto tutto in ordine, fuorché l’interno.
Era molto, troppo… ‘sensibile’.
Tutto da Giulio era vissuto in modo molto coinvolgente. Per l’appunto… troppo.

La sua materia preferita era Italiano. Eccelleva nello scritto.
Francesca, quando si trattava di svolgere una verifica, gli chiedeva sempre di fare anche la sua traccia e Giulio in una ora riusciva a terminare entrambe le prove.
Per Francesca riusciva a fare tutto.
Anche ingannare la sua amatissima prof. di Italiano.
Andava meno bene nelle materie scientifiche, ma era in ginnastica che evidenziava le difficoltà maggiori.
Si muoveva in modo impacciato. Sempre fuori posto.
E poi si sentiva perennemente addosso gli occhi ipercritici di tutte le ragazze della scuola e in modo particolare quelli di Francesca.
Inutile aggiungere che era sistematicamente escluso da tutti i tornei a squadre organizzati dall’Istituto.
Quello che di più piaceva a Francesca era il mini torneo di palla a volo e quindi anche lui, anche Giulio, lo seguiva con grande, grandissimo interesse.
Oramai si avvicinava la finale.
Bisognava solo eliminare la 3A.
Cosa più facile a dirsi che a farsi. Infatti in quella squadra c’erano tutti giocatori delle team più blasonate della provincia.
Ma la classe 2E poteva contare su un vero e proprio campione: Sandro.
Sandro sembrava più grande della sua età. Giocava in modo formidabile. Insomna una vera promessa della palla a volo cittadina.
Sandro per Giulio era bello come un discobolo greco, forte come Ercole, astuto più di Ulisse.
Ah, Ulisse e l’Odissea!
La prof. di Italiano quindici minuti prima del termine delle lezioni leggeva sempre un capitolo di Omero.
Giulio si può dire che viveva per quel quarto d’ora.
Appena la prof. Rizzoni cominciava a leggere, ecco che l’aula si trasformava immediatamente e comparivano nella sua mente i personaggi mitici del poema.
Lui stesso si sentiva addosso la stessa frenesia dell’eroe greco di andare a svelare l’identità  del misterioso abitante dell’isola dei ciclopi, o di avvicinare la sensuale bellezza di Calipso e quella eterea di Nausicaa, o sentire sulla pelle la irrefrenabile curiosità di ascoltare il canto delle Sirene…

La partita della vita stava per iniziare.
Il prof. Lenzi aveva voluto tutti i ragazzi presenti in panchina, in tuta e pronti, se non a giocare, almeno ad incoraggiare i compagni.
Giulio era la prima volta che si trovava ad essere seduto su quella panchina.
Quando c’era l’ora di educazione fisica un malessere strano e subdolo cominciava a prendergli lo stomaco e arrivava fino alla gola, impedendogli di fare qualsiasi cosa.
Il prof. aveva compreso le difficoltà di Giulio a farsi vedere in pantaloncini corti e maglietta e aveva inventato una soluzione vincente: il fischietto.
Sì, lo aveva solennemente investito del ruolo fondamentale di arbitro in seconda.
E gli arbitri, lo sanno tutti, non scendono in campo in pantaloncini, ma in una impeccabile tuta nera.
Quel giorno, quello della partita, il prof. gli aveva chiesto un piacere personale. La epidemia influenzale aveva ridotto la presenza maschile a soli sette elementi.
Il prof. insomma aveva bisogno di lui.
E Giulio non poteva lasciare il suo prof. in mezzo ai guai.
E con grande senso del dovere si era convinto della necessità della sua presenza in panchina.
In campo mai.
Quello infatti non sarebbe stato necessario.
I compagni del sestetto base avrebbero giocato quella partita anche senza una gamba.
C’era infatti la possibilità di entrare nella storia dell’Istituto e soprattutto negli sguardi e nel cuore delle ragazze.

La partita inizia ed è un duello entusiasmante.
I compagni di Giulio, guidati da un Sandro in forma strepitosa, ribattono colpo su colpo i gesti atletici dei ragazzi più grandi della terza.
Un set per uno.
Inizia quello decisivo.
Si lotta su ogni punto e Giulio dispensa sorrisi rassicuranti alle ragazze, che dalla piccola tribuna osservano in piedi l’andamento della partita.
Undici pari. Si arriva ai quindici punti.
Batte Sandro.
L’unico a riuscire a fare la battuta come i professionisti: in corsa e dall’alto.
La mano colpisce con inaudita forza il pallone in aria, il suo corpo, dopo essersi elevato fino al cielo per la battuta, scende sulla terra e… il piede destro, appoggiandosi malamente al suolo, si piega all’interno.
Sandro cade per terra e tutta la 2E scatta in piedi, coprendosi il viso con le mani, quasi a non voler vedere il dramma che si stava consumando sotto i loro occhi.
Non c’era tempo da perdere.
Il prof. corre verso Giulio per dargli le istruzioni sulla posizione da prendere in campo

Giulio non sente assolutamente niente.
Vede solo mani alzate e visi concitati e imprecanti contro la cattiva sorte
Tutti sono intorno a lui.
Tutti sono con lui
Si toglie in fretta la tuta.
Tutta la classe scandisce il suo nome.
Giulio entra in campo come Ulisse nella sala da pranzo della sua casa contro Proci.
Giulio è Ulisse.
La battuta è  ancora della 2E.
Tocca a lui.
Giulio tende il suo braccio come fosse l’arco dell’eroe greco e colpisce la palla da sotto, con un movimento a pendolo, mentre il prof. gli urla: “Aperta Giulio!…la mano tienila aperta!”
E Giulio lo fa.
La palla si alza altissima, fino a sfiorare il soffitto.Tutto il pubblico segue con occhi sbarrati e la bocca aperta la traiettoria assolutamente eretica del pallone.
Eccola adesso arrivata nel campo avversario.
Tutti si aspettano, alta come è, che prosegua la traiettoria fino ad andare fuori campo.
E invece succede l’imponderabile.
Come guidata dalla dea Atena, la palla ferma la sua traiettoria ascendente sopra circa la metà del campo avversario e improvvisamente scende giù!
Il sestetto avversario colto di sorpresa non riesce ad intercettarla.
La palla tocca per terra.
Punto per la 2E!
Un boato liberatorio esplode nella palestra della Tasso.
Giulio, investito del favore degli dei, non si scompone e chiama la palla per la nuova battuta.
Il prof. Lenzi osserva incredulo: la 2E è in vantaggio!
Mancano solo due punti.
Adesso un silenzio assoluto e innaturale accompagna Giulio alla sua seconda battuta.
Stessa dinamica della precedente.
Gli avversari osservano il pallone salire in modo così innaturale e poi scendere improvvisamente.
Altro punto per la 2E.
Sembra che venga giù la scuola dal fracasso gioioso dei ragazzi festanti sulla tribuna.
Manca solo un punto.
Sandro si alza dalla panchina e zoppicante si avvicina a Giulio, bisbigliandogli qualcosa nell’orecchio.
Giulio fa un cenno di assenso e sorride.
Tutti si attendono il terzo pendolo.
Ma Giulio, invece di tenere la palla bassa e batterla da sotto, con un gesto fulmineo la alza in alto e la colpisce con tutta la forza in suo possesso.
La palla viaggia velocissima come la freccia dell’arco di Ulisse.
La squadra avversaria, che si era posizionata tutta nella parte centrale del loro campo di gioco, osserva la nuova traiettoria del pallone, che radente passa la rete e finisce proprio in fondo, a lambire l’angolo destro del campo.
Tutti girano la testa in direzione dell’arbitro.
Buona. La palla è dentro. Punto valido.
La 2E è in finale!
Giulio adesso vede tutti i suoi compagni correre verso di lui, sollevarlo e portarlo in mezzo al campo.
Lo fanno volare tre volte, come si fa con un campione.
Mentre è in aria cerca gli occhi di Francesca.
Li incrocia.
La vede che sorridente alza la mano per salutare il suo campione.
Giulio alza anche lui la mano e mentre è ancora in cielo restituisce felice il sorriso.

Parole a capo
X_Galli: “Sette haiku”

“L’eco è lo specchio dei suoni come lo specchio è l’eco delle immagini.”
(Andrea Emo Capodilista)

Sette haiku

1.

L’acqua si ferma
tra il viottolo e il fossato:
Crescono i giorni.

2.

Verso la mura
il susino è fiorito,
qui è ancora inverno.

3.

Il sole in casa,
questa cosa che è il corpo,
luce che trema.

4.

La fioritura assedia
i giardini del Barco:
io, qui, che aspetto.

5.

Dentro il bicchiere
l’oro della mimosa,
il tempo e l’acqua.

6.

Acqua e pioppi,
la punta di San Giorgio,
qui è il mio cuore.

7.

L’usignolo
in via Vigne, di notte
sa che non dormo.

X_Galli è una parte del suo nome. Ha trent’anni, sta in provincia di Ferrara ed è la prima volta che scrive a una rivista. Queste sono le sue prime prove poetiche in forma di haiku.

La rubrica di poesia Parole a capo curata da Gian Paolo Benini e Pier Luigi Guerrini esce regolarmente ogni giovedì mattina su Ferraraitalia. Per leggere i numeri precedenti clicca [Qui]

Se in tutto il mondo la Scuola facesse la Rivoluzione

 

Pare che per i discendenti di Asterix i numeri romani siano di difficile comprensione, tanto da aver indotto madame Noémie Giard, curatrice del Museo Carnavalet dedicato alla storia della città di Parigi, a trasformare Luigi XIV in Luigi 14 e Luigi XVI in Luigi 16.
Massimo Gramellini nel suo Caffè si è divertito ad ironizzarci sopra, mentre Donato Speroni, dell’ASviS, ci ha confezionato un editoriale per il Corriere della Sera in cui infodemia, crisi della scuola e della democrazia, compiono il solito auto da fè, come quando non si sa cosa dire.

Di fronte ad un’idiozia gallica subito parte il grido di allarme verso una scuola che non educa, contro l’inflazione dei social media, la denuncia dei giovani allo sbando per incapacità degli insegnanti e della scuola. Insomma, mentre la nostra vita sul pianeta si fa sempre più complessa, come ci ha spiegato l’Agenda Onu 2030, pare invece che ci si muova più facilmente nella direzione opposta, dando spazio alla semplificazione, al riduzionismo, al codice ristretto, poiché difettiamo non solo di competenze ma anche di comprendonio, passi per l’analfabetismo funzionale degli adulti, ma non può essere che i nostri giovani crescano privi degli strumenti per vivere nella complessità, per costruirsi una visione informata del futuro.

Tutto bene. Salvo che alla denuncia del problema continuano a non seguire, non dico i fatti, ma almeno le idee. Il repertorio è sempre il solito: la scuola come sfida più difficile. È un refrain che mi accompagna da quando decine di anni fa mi affacciai alla vita sociale, politica e lavorativa, per non parlare delle illusioni perdute di un militante sul campo di battaglia della scuola.
La nostra scarsa educazione civica riguardo ai problemi dell’istruzione ci accomuna al resto del mondo. I sistemi scolastici del pianeta funzionano tutti grosso modo alla stessa maniera, salvo per le diverse visioni dell’esistenza che sono ad essi sottese.

Mai però come oggi abbiamo bisogno di studiare, di combattere la povertà educativa, di rivendicare il diritto allo studio, studiare, studiare e ancora studiare. Impegnare cervello, intelligenza e fatica nello studio, non come coercizione ma come passione, come liberazione, piacere e avventura, come diritto a percorrere i curricula con la soddisfazione di ricostruire il sapere, di ripercorrere i percorsi che hanno portato l’umanità alla loro conquista, come orizzonti e prospettive su cui gettare lo sguardo. Godere della sorpresa, della scoperta, delle intuizioni e delle immaginazioni, delle emozioni che possono dare senso al nostro progetto di vita, alla nostra realizzazione, al nostro star bene con noi e tra noi.

L’ho scritto altre volte la felicità non fa parte dei nostri programmi scolastici, ma gli economisti, quelli umanisti, hanno scoperto che ciò che conta non è il PIL, ma la felicità. Parola terribile per le sette di flagellanti, la felicità non è di questa terra, eccetera, eccetera. Tranquilli, non felicità come piacere alla Epicuro o alla Bentham. No, più semplicemente come la felicitas dei latini, con la radice feo-, che a sua volta deriva dal greco phyo-, che significa ‘generare’, ‘far crescere’. Ecco il senso della felicità, e chi dovrebbe ‘generare’ e ‘far crescere’ se non tutti i sistemi formativi del mondo? A partire dai nidi e dalle scuole d’infanzia per bambine e bambini, diffusi ovunque perché è da zero a sei anni che si impara ad apprendere, che si può familiarizzare con il desiderio di sapere, che si può nutrire il piacere della curiosità per ciò che ancora non si conosce.

Non è che ci vogliono tante cose per essere felici, ma una di queste, imprescindibile, è il sapere.
Se i sistemi scolastici di tutto il mondo dovessero fare una rivoluzione tutti assieme, dovrebbero iniziare con il chiudere i loro silos scolastici, dove hanno ammassato generazioni di bambine e bambini, di ragazze e di ragazzi per formare cittadini di cittadinanze che non esistono più, per preparare forza lavoro per mercati di lavoro che non ci sono. Servire invece il compito di far crescere generazioni che respirino a ‘piena mente’ l’apprendimento come il loro principale nutrimento fin dalla nascita, per se stesse e per i loro futuri.

Ethos, pathos e logos tornino ad invadere i luoghi dove si studia, si insegna, si impara e si apprende, c’è l’ha insegnato Aristotele che senza ethos, pathos e logos gli apprendimenti non sostano, non si aggrappano alle nostre vite. Chiudiamo gli obitori del sapere e apriamo la scuola al mondo, all’emozione di apprendere, alla passione per la ricerca, all’infaticabile rincorsa di competenze e saperi, di comprensioni e dilemmi, quesiti e problemi, alla gioiosa fatica che comporta studiare.

Poco più di dieci anni fa Zygmunt Bauman, nelle sue 44 lettere dal mondo liquido, scriveva: “Ciò di cui invece c’è bisogno sono idee insolite diverse da tutte le altre, progetti eccezionali che nessuno ha mai suggerito prima…”
Questa è la sfida, non ce ne sono altre, resta ancora in attesa di essere colta, sempre che l’analfabetismo funzionale non riguardi anche il futuro dell’istruzione e delle nostre scuole.

Per leggere gli altri articoli di La città della conoscenza, la rubrica di Giovanni Fioravanti, clicca [Qui]

Incontro intervista con Hazal Koyuncuer e le donne del villaggio curdo Jinwar

 

Avevamo già preso ii biglietti, deciso l’itinerario, valutato i punti critici alle varie frontiere. Dovevo partire anch’io per il Rojava e raggiungere il villaggio autogestito di Jinwar. Hazal Koyuncuer, la nostra guida, era moderatamente ottimista: “la guerra adesso sembra essere in pausa, riprenderà verso l’estate”. Poi è arrivata la pandemia e tutto quello che sapete. Ma del popolo curdo, della gloriosa lotta contro l’Isis (perché sono i Curdi, da soli, ad averlo sconfitto sul campo), della sua esperienza rivoluzionaria di una democrazia governata dal basso e di una radicale uguaglianza di genere, non possiamo dimenticarci. Il webinar partecipato organizzato da Macondo è un appuntamento da non perdere. E il viaggio? Beh, quello è soltanto rimandato. Deve passare la nottata.
(Francesco Monini)

Macondo incontra

Martedì 30 marzo 2021 – dalle ore 20:30 alle 22:00
Webinar – Incontro partecipato: per collegarsi all’evento in diretta su Zoom clicca [Qui]

«Jinwar, nella regione del Rojava (nord della Siria): un villaggio di donne curde che è punto di aggregazione sociale e politica di donne e bambini, per un cammino di libertà, uguaglianza e giustizia»
Introduzione:             Donatella Ianelli – avvocato penalista, Bologna
Relatrice:                   Hazal Koyuncuer – portavoce della comunità curda di Milano
Interventi:                  In collegamento dal Rojava testimonianze di donne curde
Moderatrice:              Monica Lazzaretto Miola – componente la segreteria nazionale di Macondo
Al termine:                interventi dei partecipanti

Hazal Koyuncer – portavoce della comunità curda di Milano

Dalla introduzione di Donatella Iannelli

Ho conosciuto Hazal Koyuncuer a Bologna, era arrivata per una manifestazione a sostegno del popolo curdo. Era il 2019, allora  ci si poteva ancora incontrare…Macondo* mi aveva chiesto di prendere contatti con lei in previsione della festa nazionale dell’associazione Macondo appunto, la festa dell’anno successivo, intorno a maggio 2020 si era detto. Avrebbe potuto partecipare e portarci l’esperienza curda del Rojava.

Hazal, insieme ad Ylmaz Orkan, sono i portavoci della comunità del Rojava in Italia. Nel primo incontro abbiamo fatto una chiacchierata di una mezz’ora.
Intanto avevo bisogno di collocare geograficamente il Rojava. Si tratta di  una regione del nord est della Siria, abitata da varie etnie – curdi, turcomanni, arabi, ebrei, armeni, caldei, ceceni, assiri ed altri – che, nel pieno dell’insurrezione siriana e immediatamente dopo, in lotta contro l’invasione delle truppe del Daeshl’ISIS–  sottoscrivono un patto di autogoverno denominato ‘Contratto Sociale del Rojava’:

La resistenza curda del Rojava e della Siria del Nord

“Con  l’intento  di  perseguire  libertà,  giustizia,  dignità  e  democrazia,  nel  rispetto  del  principio  di  uguaglianza  e  nella ricerca di un equilibrio ecologico (…)  un  nuovo  contratto  sociale,  basato  sulla  reciproca  comprensione  e  la  pacifica  convivenza fra  tutti  gli  strati  della  società, nel rispetto dei diritti umani e delle libertà fondamentali,  riaffermando  il  principio  di  autodeterminazione  dei popoli (…) in uno spirito di riconciliazione, pluralismo e partecipazione democratica, per garantire a tutti di esercitare  la  propria  libertà  di  espressione (…) costruendo  una  società  libera dall’autoritarismo, dal  militarismo, dal  centralismo (…) si  proclama  un  sistema  politico  e  un’amministrazione  civile  fondata  su  un  contratto  sociale  che possa riconciliare il ricco mosaico di popoli della Siria attraverso  una  fase  di  transizione  che  consenta  di  uscire  da  dittatura,  guerra  civile  e  distruzione,  verso  una  nuova  società democratica in cui siano protette la convivenza e la giustizia sociale.”

Questo primo incontro mi ha fatto venire voglia di conoscere ancora di più questa realtà. Si è aperto un dialogo ed una conoscenza. Sino a parlare di Jinwar un  nome  che è un gioco di parole tra “JIN”, che in curdo vuol dire sia donna che vita, e “WAR”, che invece indica il doppio concetto di luogo e di casa.

Jinwar è un villaggio di donne e bambini centrato sulla liberazione delle donne. Dall’inizio del processo di costruzione iniziato il 25 novembre 2016 – nella giornata internazionale contro la violenza sulle donne – quando è stata messa la prima pietra, fino ad oggi siamo stati in grado di costruire il villaggio con la forza e la creatività di molte donne” – mi dice Hazal
“Come parte del villaggio abbiamo costruito 30 case, una scuola per bambini, una università, una panetteria, un negozio, luoghi per animali, un giardino e intorno al villaggio ci sono dei campi. Viviamo in comunità, in sintonia con i concetti di società ecologica e democratica”.

Mi spiega che un punto importante di Jinwar è che le donne si auto organizzano e sviluppano in autonomia tutti i campi della vita. In quel momento stavano aprendo la loro unica clinica che si chiama Şîfa Jin, su quello stanno concentrando le loro forze.

Cosa significa Şîfajin? Le chiedo

“La cura della donna” mi dice “integriamo la medicina convenzionale e naturale. I nostri obiettivi sono dedicare attenzione sanitaria alle donne di Jinwar e dei 50 villaggi circostanti, preparare le nostre medicine naturali, educare le donne alla salute attraverso seminari e formazioni più a lungo termine e fare ricerche sulla medicina locale e anche sulla condizione sanitaria delle donne nella zona”

Qual è la situazione attuale di Şîfajin?

“Abbiamo aperto la clinica il 4 marzo del 2019 con poche risorse, ma nonostante le carenze e le limitazivillaggiooni stabilite a causa del CoronaVirus, la nostra clinica rimane aperta giornalmente erogando servizi a molte donne e bambini. La cosa più importante del nostro lavoro è prendersi cura delle donne e dei bambini poiché la situazione della loro salute è critica.  Stiamo prestando assistenza medica e supporto mentre prendiamo le misure appropriate contro CoronaVirus e realizziamo informazione su questo problema. Vogliamo dotare la clinica di un ambulatorio per il medico, uno per l’ostetrica, uno per il ricevimento e un altro  per la medicina naturale. Non possono mancare  un laboratorio, una farmacia e un’ambulanza. Per questo abbiamo bisogno di una decina di persone che ci lavorino. In questo momento abbiamo una medico, un’infermiera, un’addetta alla reception, una specialista in medicina naturale con assistente e una addetta alle pulizie, e tutte lavorano senza ricevere alcun compenso”.

Tutto questo, il villaggio Jinwar, la clinica Şîfajin, sono parte del Rojava, questa nuova esperienza di autonomia governativa che il popolo curdo, tra mille difficoltà, ha costruito e realizzato anche durante il riacutizzarsi degli attacchi ISIS.
L’ Associazione Macondo ha appoggiato questa nuova esperienza di vita, dove tane persone diverse si raccolgono con un obiettivo comune, di pace libertà e democrazia

Mi colpivano molto le foto delle donne militarizzate e combattenti contro l’ISIS: nonostante la durezza e la difficoltà che le aveva visto protagoniste sembravano serene nella loro difesa quotidiana del territorio e del progetto di vita, non solo del loro. Non si può dimenticare che nessuno si salva da solo e il benessere del mondo è il benessere di noi tutti.

Se non sei riuscito a partecipare alla diretta, guarda e ascolta la registrazione dell’incontro con Hazal Koyuncuer e le donne curde del villaggio Jinwar sul sito dell’Associazione Macondo: clicca [Qui]

RUBENS GIOCAVA A PALLONE
In anteprima alcune pagine del primo romanzo di Stefano Muroni

 

Arriva oggi in tutte le librerie (reali e virtuali) il primo romanzo del nostro Stefano Muroni, fresco di stampa per i tipi di Pendragon. E’ un grande piacere anticipare per i lettori di Ferraraitalia alcune pagine del volume. Un  grazie a Stefano per aver pensato a noi.
(La redazione)

II

Pensare che di lui non ci sia rimasto più niente, questo fa male.

Né una camicia, un paio di pantaloni, o il barattolo della brillantina che adoperava ogni mattina per prepararsi. Né una lettera scritta prima della fine di tutto. Anche una foto in più – a parte quelle in posa, di rito, prima di ogni battaglia – per vederlo in altre situazioni: che so, quando era in campagna da bambino, o la prima comunione, oppure quando divenne operaio alla Ceretti, o una foto con gli amici, quando già guadagnava bene. Non una cintura, una pacchetto di sigarette. Neanche la casacca del Tresigallo Calcio che usava durante gli ultimi allenamenti in bonifica, nei freddi mesi del 1944, quando era ritornato al Cimabue per scampare dai bombardamenti su Milano.

Un suo pensiero di vita, un suo concetto, un suo modo di dire.

Nemmeno una registrazione della sua voce è rimasta.

È scomparso tutto – di lui non resta niente – e nemmeno ce ne siamo accorti. Forse un parente da qualche parte nel Nord Italia ancora c’è rimasto.

D’altronde aveva una sorella e molti fratelli. Questi certamente avranno vissuto più a lungo, avranno portato più avanti il loro filò su questa terra, magari innamorandosi di qualche brava ragazza o giovane signorino, dando vita a qualche figlio, tirando su famiglia e lavorando sodo in qualche fabbrichetta di Milano – perché alla fine i Fadini hanno sempre bazzicato Milano e dintorni, mai Torino. E chissà se a quei figli – i nipoti di quel sognatore – avranno raccontato tutta la storia, da cima a fondo.

Dal paese di origine al tesoro scoperto dal nonno. Da quella ricchezza improvvisa fino alla miseria più nera, che costrinse il vecchio Angelo, suo padre, a trasferirsi in bonifica, per cercare un posto qua e là, fra una corte e l’altra, a qualsiasi prezzo e a qualsiasi condizione, pur di racimolare qualcosa a fine giornata, e garantire un pasto caldo alla moglie, alla sorella, e a quei sei figli che, fra il 1918 e il 1927, avevano fatto la loro comparsa in questo mondo marcio. Senza contare Nelly.

Certamente in bonifica non c’è rimasto più nessuno. Non solo di loro, dei Fadini, ma anche di tutti gli oltre mille e cinquecento indigeni che lì avevano fatto la ricchezza della Società bonifiche terreni ferraresi, la sBTF, che da fine Ottocento, in queste zone dimenticate dell’universo, aveva prodotto sviluppo e prosperità, sulle spalle dei contadini e su quelle delle donne, che qui restavano per quasi tutto l’anno disoccupate.

Eravamo agli inizi del secolo, eppure da quelle parti c’era la schiavitù più nera, quella seria, quella dei faraoni, nemmeno quella del caporalato. E dai primi giorni in cui la famiglia dal Veneto si trasferì nel Basso Ferrarese, zona di bonifica, non è passata notte in cui zia Jole non avesse versato qualche lacrima nella stanzetta che stava sopra, al primo piano dalla parte che si affacciava sulla campagna, dove i tecnici avrebbero poi speri- mentato le prime risaie. E anche la moglie di Angelo, che aveva smesso di parlare – rimase in silenzio per quaranta giorni – non riusciva a crederci, a darsi pace.

«Questo è l’inferno» mugugnava la notte, a bassissima voce, ripensando a quanto stavano bene lassù, oltre Po, a Casa Leone, tra la loro gente.

Ma le cose non sono fatte per restare. Di questi sentimenti, di questi spostamenti tra un villaggio e un altro, a oggi non resta altro che qualche carta ingiallita in qualche Comune o anagrafe della Bassa Padana. E quando vai a fare ricerca verso Arcore – perché lì il ragazzo è sepolto – trovi degli omonimi, gente che ha il suo cognome, ma che non c’entra nulla con la sua razza. Sono tutti milanesi da generazioni, mentre lui era ferrarese, di padre veneto e di nonno mantovano. Pure

sua mamma, l’Annetta, era veneta, di Melara, provincia di Rovigo.

Se è vero che di lui nessuna cosa è restata – nemmeno i suoi calzoncini, o uno straccio di cravatta che aveva iniziato a mettersi per le foto dei giornali – è pur vero che, anche se è morto da settant’anni, di lui ancora si parla.

Anteprima da: Stefano Muroni, Rubens giocava a pallone, Pendragon, 2021, Capitolo II, pp. 19/21