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CAMPIONE PER SEMPRE
Nel romanzo di Stefano Muroni, la storia del giovane Rubens Fadini, vittima a Superga

 

La maglia granata numero sei. I polpacci muscolosi, più imponenti delle spalle. Lontano sullo sfondo, quasi fosse una visione, appare Superga: il sogno di un bambino, la sua meta, la sua morte; ma al tempo stesso la sua immortalità. L’istante eterno della vita.

Illustrata dall’arte di Rosanna Mezzanotte[1], la copertina di Rubens giocava a pallone, edizioni Pendragon, è sintesi limpida del romanzo che Stefano Muroni ha dedicato alla «vittima più giovane della più grande tragedia sportiva italiana»: Rubens Fadini, nato nel 1927 a Jolanda di Savoia, in provincia di Ferrara, e morto in un tragico volo. «Il 4 maggio del 1949, il Grande Torino, la squadra di calcio più forte del mondo, tornava da Lisbona dopo aver partecipato ad un’amichevole contro il Benfica. La nebbia, la stanchezza, forse un errore umano, portano l’aereo a schiantarsi contro la collina di Superga, alle porte di Torino».

La tragedia di Superga sconvolse tutti. Impossibile restare indifferenti; inaccettabile l’idea che quei ragazzi, nel pieno della forma fisica, potessero all’improvviso scomparire nel cielo sopra Torino, la città che li aveva appena battezzati promesse del calcio: sfracellarsi e dissolversi insieme al sogno del Grande Torino, ma soprattutto delle loro giovani vite.

Ma l’autore sa recuperare i brandelli di quello schianto crudele, restituendoci una storia personale: ci fa sentire la carne e il cuore del giovane Rubens, «la vita di un campione dimenticato, la cui breve parabola ha il respiro dell’epopea e la magia di una leggenda».
Ventuno capitoli, uno per ciascuno degli anni del giovane Rubens. Per raccontare un’infanzia sofferta sulla pelle, la caparbietà di un giovane uomo che resiste alla violenza per difendere il suo sogno: «Da grande avrebbe voluto fare il calciatore». E l’autore si specchia in quel sentimento tenace, in «quella straordinaria sensazione di sentirsi alla pari con se stessi, in una vita che ti voleva sempre in debito».

Un pallone di cuoio, il campo di calcio dietro la scuola, la vita spietata nei territori della Grande Bonifica; e sullo sfondo la storia maiuscola: il Fascismo, la guerra. Radici e cielo.
Da una stella cadente intravista in una notte di dolore, alla realizzazione del sogno che consacra Fadini astro nascente del calcio. Il settimo capitolo – cruciale nella narrazione – commuove e fa rabbrividire. Uno stile diretto, tinte forti, un espressionismo della parola che suscita emozioni profonde. E non manca mai il tocco poetico dell’autore, il segno che sa restituire un senso, che sublima anche la sofferenza. Tutto torna: nella rotondità di quel pallone di cuoio, la vita di Rubens si compie come un cerchio, affermandolo «campione per sempre».

Una storia unica. Un romanzo d’esordio avvincente per Stefano Muroni, già autore di due applauditi volumi: Tresigallo città di fondazione. Edmondo Rossoni e la storia di un sogno (Pendragon, 2015) e Dall’alto della pianura. Storie perdute di amore e di follia (Pendragon, 2017).

La copertina del romanzo

Una vicenda che, come nei libri precedenti, si nutre nella storia dei suoi nonni e dei suoi bisnonni, dai racconti tramandati di generazione in generazione. ‘Fole’ e leggende che l’autore ha ascoltato con occhi scintillanti e avidi di curiosità. Cresciuto in una realtà di Provincia, Stefano Muroni è legato visceralmente alla storia della sua Terra, alle sue meravigliose corrispondenze con l’infinito: «Dalle nostri parti si dice che per il 2 novembre i morti ritornino a dormire nei loro letti[2]».
Da qui arriva l’ispirazione di Rubens giocava a pallone: «A volte le storie stanno nel vento, nel frastuono degli uragani di giugno, nelle nebbie dense di novembre, nella leggerezza delle spighe di grano, nei canti lontani che non ci sono più, nel silenzio della campagna. Basta solo saper ascoltare».

Basta solo saper ascoltare.

Note
[1] Tra le tante collaborazioni, R. Mezzanotte è illustratrice del video Jenny è pazza di Vasco Rossi
[2] Incipit del romanzo

Qualche pagina in anteprima del romanzo di Stefano Muroni è stata pubblicata da Ferraraitalia. Per leggerla clicca [Qui]   

Cover: Formazione Torino FC, conosciuta come Grande Torino1948-49, cartolina per i tifosi (Wikimedia Commons) 

Lo spartiacque del Partito Democratico

Genealogia di una catastrofe è il titolo di un articolo che Massimo Cacciari ha scritto per L’Espresso (14 marzo 2021), sulle ultime vicende che hanno coinvolto, o travolto, il Partito democratico. La riflessione non va certo presa come oro colato, eppure non sarebbe male soffermarsi su quelle parole perché – da semplice lettore, sia chiaro – hanno il merito di andare diritto al cuore delle questioni.

Punto primo: le dimissioni del segretario nazionale Nicola Zingaretti (5 marzo, annunciate il giorno prima su Facebook). È stato detto e scritto che non è stata un’uscita di scena come tante altre, perché non era mai successo che un segretario se ne andasse, praticamente sbattendo la porta, dicendo di vergognarsi di un partito i cui dirigenti, in sostanza, s’interessano solo, o quasi, di conservare le proprie poltrone. Uno “spartiacque” l’ha definito Cacciari perché, piaccia o non piaccia, o è arrivato il momento dei titoli di coda, oppure nella palla del Pd c’è ancora aria e allora, toccato il fondo, può ancora rimbalzare.

Nel febbraio 2020 Gianni Cuperlo presentò a Ferrara il suo libro intitolato Un’anima e in quella circostanza disse: “se sbagli analisi sbagli la politica”. L’analisi sembra proprio la stessa cosa invocata dal filosofo veneziano, perché il gruppo dirigente Pd possa “ragionare con tutta l’onestà richiesta dalla catastrofica situazione sulle ragioni che a questa hanno condotto”.

La riflessione critica e autocritica, e siamo al punto due, si spinge fino a sostenere che il Pd non sia mai nato “perché nulla – scrive – può nascere da energie esaurite”. Cosa vogliano dire queste parole è spiegato nelle righe che seguono. Il mondo inaugurato dal crollo del Muro di Berlino ha finito per mettere fuori gioco le due culture politiche che s’incontrano, in una sorta di fusione a freddo (è stato detto), nel Partito democratico. È spiazzata la via del welfare socialdemocratico, del compromesso tra capitale e lavoro: spesa pubblica in cambio di consenso.

Globalizzazione, produzione, finanza e rimescolamento della composizione sociale, sentenziano che non è più praticabile la via del crescente indebitamento, perché non ha più lo sbocco keynesiano e, come previsto da Habermas già negli anni ’70, il capitalismo maturo sarebbe andato incontro a una crisi di legittimazione.

“Questo produce – scrive Cacciari – l’autentica bancarotta generazionale. La montagna del debito chiaramente inestinguibile – continua –  produce un vero e proprio asservimento delle generazioni future, una loro universale dipendenza dall’impersonale Mercato”. Il modello ‘tassa e spendi, brandito anche dalle destre non senza interessate semplificazioni, non regge più.

Ma è spiazzata anche la strada che l’ex sindaco di Venezia definisce del “moroteismo postumo”, non solo per l’esito traumatico nel 1978 della figura chiave di quel disegno, per mano di regie che pare sempre più appropriato storicamente declinare al plurale.

Si potrebbe, infatti, aggiungere che alle spalle dei Beniamino Andreatta, Leopoldo Elia, Roberto Ruffilli, Pietro Scoppola, Persanti Mattarella (per citarne alcuni), sia stata progressivamente prosciugata la sorgente del cattolicesimo democratico, ossia l’affluente pre-politico che, sulla scorta di rigorose analisi sul rapporto fede-storia, aveva intravisto un legame fecondo tra democrazia compiuta e concilio (la dico così), il cui disegno, però, non si è trovato funzionale alla Chiesa di Wojtyla, Ratzinger e Ruini.

Vero è che all’impreparazione di una parte si aggiunge, quasi aritmeticamente, quella che Cacciari chiama degli “alfieri di una prospettiva liberal-liberista, del tutto subalterna alle ideologie vincenti intorno alle meravigliose e progressive sorti della globalizzazione economico-finanziaria”. Il risultato è la detronizzazione della politica, sempre più ancella di altri poteri sottratti a ogni controllo democratico e arbitrari. Un’erosione inarrestabile e fatale della capacità di governo, che si traduce in una montante ed equivoca nostalgia di decisione.

Dunque, una generale perdita della capacità di lettura dei cambiamenti d’epoca delle culture politiche tradizionali e peraltro non solo dentro i confini nazionali, dal momento che all’orizzonte non si vedono tutti questi fenomeni. Fatto sta che nel solco progressista si continua a ondeggiare tra la riproposizione di assistenzialismi in deficit da una parte e di austerità moderate e più o meno solidali, dall’altra. Così – o per via elettorale, o più spesso per il senso di responsabilità – si consumano risorse ingenti per salvare il salvabile, in un contingente che toglie il respiro e, alla fine, il consenso.

Eppure ci sarebbero dei banchi di prova, sui quali il Pd, se c’è ancora aria, potrebbe rimbalzare.

Il primo, secondo Cacciari la riforma delle riforme, è lo Stato. Se le risorse per ripartire non possono essere quelle di continui incrementi del prelievo fiscale, allora bisogna mettere mano alla struttura istituzionale, burocratica e amministrativa. A partire da un esame di coscienza che a sinistra prima o poi occorrerà fare su riforme istituzionali, costituzionali, le Province, Aree vaste e materie concorrenti tra livelli istituzionali, che sono fonte di contenziosi e tensioni, come quelle sotto gli occhi di tutti in tempo pandemico.

La riforma della pubblica amministrazione è fra le condizioni contenute nel Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza (PNRR) e deve far riflettere che le linee guida del governo Draghi portino la firma del ministro Renato Brunetta, lo stesso che anni fa, al netto di tutte le condizioni storiche che si vuole, vedeva i dipendenti pubblici come fannulloni. Ed è singolare, pure, che quelle linee guida abbiano avuto da subito il placet della triade sindacale, compresa la Cgil di Maurizio Landini.
Da tempo, in terreno normativo, si assiste con impotenza alla diritta via smarrita dei testi unici e ad un autentico nubifragio legislativo ben oltre il limite stesso della leggibilità, come sta denunciando – mi pare inascoltato – Sabino Cassese. Non si tratta solo di sprechi – ricorda Cacciari – “ma di una situazione che impedisce, blocca e frena ogni nuova impresa, ogni investimento”.

C’è poi il tema giustizia. Per chi abbia letto il libro Il Sistema di Luca Palamara intervistato da Alessandro Sallusti, i casi sono due. O c’è qualcuno che, carte alla mano, è in grado di smentire che quel sistema esista, altrimenti è difficile che la sinistra possa chiamarsi fuori da un problema che mina dalle fondamenta il principio di indipendenza della magistratura, secondo il modello di bocca della legge.

Ci sarebbe anche il banco di prova della scuola. Basta ascoltare i racconti degli insegnanti, per rendersi conto che la scuola pubblica italiana sta regredendo rovinosamente da luogo di cultura, istruzione e apprendimento, a semplice ammortizzatore sociale. Anche in questo caso, siamo così sicuri che a sinistra nessuno arrossisca, pensando al diluvio di pedagogia, psicologia, docimologia, burocrazia e ambiti di competenze, piovuto nelle aule da troppi decenni a questa parte?

La conclusione dell’ex sindaco di Venezia è severa: “Senza una visione di riforma che abbia questa ampiezza, non può riprendersi la sinistra italiana, né il Pd”. È questa la genealogia che dovrebbe essere messa sotto i fari dell’analisi, come direbbe Cuperlo, per non continuare a sbagliare politica.

La chiamata di Enrico Letta alla guida del partito è la scelta di un galantuomo e competente, segno in netta controtendenza nel panorama politico nostrano, e il fatto che nel suo primo discorso abbia detto: “non vi serve un nuovo segretario, ma un nuovo Pd”, è sembrato un segno importante in questa direzione.
Ciò non toglie che il lavoro da fare, a occhio e croce, pare essere davvero tanto e solo il tempo dirà se nel Pd c’è ancora aria per rimbalzare.

In copertina: elaborazione grafica di Carlo Tassi

RACCONTO
Gli occhi dei sapienti

 

La nebbia ristagnava nelle strade e nei vicoli deserti. Tra le costruzioni di pietra dai tetti di tegole rosse si aggirava una giovane donna: camminava con gli occhi alzati al cielo, come se conoscesse a memoria il suo cammino, e con le mani teneva i seni sollevati verso l’alto. Dentro la veste trasparente i suoi fianchi eseguivano movenze lente e regolari descrivendo una serie di linee uniformi, senza interruzioni o angoli bruschi. Un lento snodarsi delle membra lungo il perimetro di un’armonia invisibile, una bellezza velata solo dalla nebbia. Sembrava dovesse camminare per l’eternità.

Un gatto grigio correva lungo le mura del paese e miagolava in preda a una inspiegabile eccitazione giovanile. Non aveva l’aria del felino a caccia di prede, piuttosto sembrava celebrare un rito festoso. Le sue narici aspiravano la nebbia.

Poi, in pochi minuti, la notte si dissolse.
E’ quasi l’alba e già metà del cielo si copre di chiarore, ma nell’antico palazzo le finestre sono ancora illuminate dai lampadari. Nel salone centrale sono riuniti da una settimana i più grandi sapienti della terra, vecchi dai capelli bianchi, due donne anziane e tre uomini più giovani seduti pensosi intorno a un grande tavolo di quercia. Non sono venuti a capo del Problema: nel corso di una settimana hanno proposte migliaia di nuove idee, hanno riassunto milioni di pagine, hanno enunciato migliaia di verità e altrettante opposte certezze. Adesso sono sfiniti. Manca l’uscita dal labirinto, manca il nesso tra queste infinite verità: resta il Problema.

Il tempo a disposizione è scaduto, fra poco sarà giorno e i popoli non sono più disposti ad attendere. Il Presidente, uno dei più anziani, si alza in piedi e pronuncia il tanto temuto discorso di abdicazione:
“Signori – declama con aria grave, la fronte solcata da una profonda ruga verticale – il nostro compito si è esaurito. Le parole da voi pronunciate in questi giorni di lavoro appassionante resteranno per sempre nella memoria della Storia, ammesso che in futuro si conservi questa facoltà. Ma bisogna farsi coraggio: non siamo stati all’altezza del compito, anche se ci siamo impegnati al limite delle nostre forze. Non abbiamo nulla da rimproverarci, però so bene che non sarà questo a risarcirci della delusione. Anche se il tempo a nostra disposizione fosse stato di un mese e non di una settimana il risultato non sarebbe cambiato, questo ormai è chiaro: non siamo stati e non siamo in grado di risolvere il Problema.
Le nostre conoscenze, il nostro intuito, la nostra immaginazione, per quanto vasti e vividi, hanno avuto come risultato solo frammenti di verità, ipotesi infondate e intuizioni vaghe. Tutti i tentativi di spiegazione e soluzione globale del Problema si sono rivelati fallaci. Sospettavamo che simili soluzioni non esistevano, che si trattava di chimere, ma avevamo il dovere di tentare. Non per presunzione – spero che in futuro le nostre vere intenzioni non verranno fraintese – ma perché agli uomini tutti era necessaria questa soluzione. Un solo risultato abbiamo ottenuto, un risultato che finora nessuna comunità scientifica o accademica aveva mai raggiunto: abbiamo ragionato ascoltando le idee degli altri senza mai accapigliarci o cercando di prevalere con la prepotenza o i sofismi sulle opinioni altrui. Già questo è un successo sovrumano. Ma naturalmente non basta a risolvere il Problema. Possiamo dire che abbiamo agito per il bene dell’umanità, ma abbiamo fallito: la soluzione del Problema richiedeva altri uomini, uomini che probabilmente non esistono.
Signori, con dolore rassegno le mie dimissioni e mi assumo tutte le responsabilità del fallimento. Sono pronto a pagare il prezzo dovuto e nella mia veste di Presidente darò inizio al sacrificio.”

Appena pronunciate queste parole il vecchio sollevò le mani all’altezza del viso e con un solo, debole gemito si strappò dalle orbite i grandi occhi celesti. In un silenzio solenne li depone sul grande tavolo di quercia. La dignità e la calma con cui compie il rito ultimo, l’estremo gesto di rinuncia e di umiltà, contengono un invito, un obbligo morale al quale nessuno può sottrarsi. Tutti i presenti, in ordine di età, dal più anziano al più giovane, seguono il coraggioso esempio. Alcuni, i più deboli, sono scossi da brividi e singulti di pianto, ma non le due donne: si sottopongono al sacrificio con la stessa composta dignità del Presidente.

Dal tavolo di quercia occhi attoniti, tra lacrime e rivoli di sangue, osservano le orbite vuote che un tempo li ospitavano. Alla fine del sacrificio il Presidente raccoglie gli occhi con gesti incerti da cieco e li lega intorno a un filo di nailon fino a formare una collana. Poi la solleva e se la fa passare dietro la nuca: il rito è compiuto, adesso la collana è appesa al collo del Presidente. Sui volti dei presenti si può leggere adesso un’espressione di sollievo, come se fossero felici di essersi liberati di un grande peso.

Si prendono per mano fino a formare un cerchio e barcollando scendono le scale per raggiungere il portone che si affaccia sulla strada principale del paese. Al sorgere del sole escono dal palazzo ancora illuminato – qualcuno ha dimenticato di chiudere l’interruttore della luce che ora illumina il salone deserto – gesticolando goffamente, inciampando sulle proprie gambe e su quelle altrui. Poi timidamente sorridono e poco per volta cominciano a ridere, in modo sommesso prima e poi rumorosamente, come una comitiva di ubriachi. Tenendosi sempre per mano proseguono nel loro girotondo e si allontanano per le vie deserte, seguiti dal gatto grigio che continua a scorrazzare per le strade e a miagolare.

Dall’alto un falco pellegrino comparso all’improvviso li tiene d’occhio e volteggia sulle loro teste. Forse è attratto dalla collana del Presidente. La giovane donna prosegue il suo cammino danzando nella nebbia col viso rivolto al cielo.
Ma qualcuno si aggira furtivo tra i vicoli e gli angoli delle case di pietra: è uno dei sapienti, il più giovane, l’ultimo. Nessuno poteva più vederlo e lui, più furbo degli altri, ha deciso di non sacrificare i suoi occhi. Adesso con i capelli neri scompigliati, lacero come un vagabondo fugge da tutti, sospettoso, perseguitato dal rimorso di Giuda, dal timore della vendetta e da un’idea che lui solo conosce. Un’idea che non potrà raccontare a nessuno perché nessuno gli crederà.

banche

Fusioni tra banche e “Fusione” dei bancari:
trova le differenze

In questi mesi e nei prossimi assisteremo in Italia ad un tumultuoso succedersi di fusioni e acquisizioni bancarie. Esse hanno tutte lo scopo dichiarato di rafforzare i valori patrimoniali degli istituti, di migliorare il margine operativo lordo, di ottimizzare il rapporto tra utile netto e mezzi propri. Una impresa che incrementa il proprio patrimonio, che produce un risultato operativo in utile, che accresce la propria quota di mercato è il sogno di chiunque in quella impresa ha messo soldi, ed è anche un presupposto necessario (almeno sul medio-lungo periodo) affinché quell’impresa possa essere dichiarata profittevole, visto che le imprese (quelle bancarie in particolare) hanno tra i propri scopi istituzionali la creazione di valore per i soci – nemmeno le banche “etiche” fanno eccezione, sotto questo profilo. Milton Friedman, economista divenuto consigliere di Reagan, affermò nel 1970 che “lo scopo principale di un’impresa è quello di massimizzare i profitti per i suoi azionisti” . Due anni dopo, disse testualmente: “i grandi dirigenti, all’interno della legge, hanno responsabilità nei loro affari al di fuori di fare il più possibile soldi per i loro azionisti? E la mia risposta a questa domanda è: no, non ne hanno”.

Molti economisti venuti dopo Friedman hanno criticato questa visione, affermando che i portatori di interessi di un’azienda sono molti di più, e addirittura alcuni di essi si pongono al di fuori dell’azienda stessa: da queste considerazioni ha preso le mosse l’affermazione del concetto di “responsabilità sociale” dell’impresa. Responsabilità nei confronti dei propri dipendenti, dei propri clienti, ma anche dei cittadini, dei territori, dell’ambiente. L’ Unione Europea definisce la Responsabilità Sociale d’Impresa come la “integrazione volontaria delle preoccupazioni sociali ed ecologiche delle imprese nelle loro operazioni commerciali e nei loro rapporti con le parti interessate”. E’ possibile affermare che l’impresa bancaria assolve a questa responsabilità sociale finanziando, ad esempio, qualche iniziativa economica di riconversione energetica, o di sviluppo di energie alternative? Non è forse vero che il primo agglomerato sociale direttamente correlato all’impresa è quello della sua società “interna”, costituita dai suoi dipendenti e dai suoi clienti, siano essi risparmiatori o prenditori di danaro? Non è forse vero che l’etica dei comportamenti si misura anzitutto nel rapporto che si instaura nelle proprie relazioni, con le persone care, gli affetti e gli amici, prima che con le dichiarazioni di solidarietà verso il mondo? Credo sia vero. Altrimenti si cade nell’antico vizio di predicare bene e razzolare male.

Nei fatti, le fusioni bancarie appaiono ispirate molto più alla visione di Milton Friedman che a quella dei suoi critici successori. Una visione anni settanta trasportata senza troppi scrupoli nell’anno 2021. In apparenza, i portatori di interessi “interni” sono tre: i soci, i dipendenti, i clienti. Nei fatti, i dipendenti e i clienti al dettaglio sono portatori di interessi che appaiono strumentali alla massimizzazione del profitto dell’azionista. Non esiste pari dignità tra questi “stakeholders”. Se li mettessimo su un podio, il gradino più alto sarebbe a distanza siderale dagli altri due. I dipendenti, i tanto vituperati bancari, somigliano a dei corrieri incaricati di portare a destinazione il pacco (il budget, l’obiettivo di vendita) lungo una strada disseminata costantemente di lavori in corso, che ne rendono il percorso lastricato di ostacoli e di imprevisti che però non contano e non devono contare  – per qualche capo area degli affari non conta nemmeno il fatto di essere in una pandemia, figuriamoci il resto.
Così aumenta lo stress correlato al lavoro, l’ansia della domenica sera, il vomito del lunedì mattina, la caduta di motivazione e la perdita del senso di appartenenza alla propria azienda. Lavorare per obiettivi, in un’azienda contemporanea, dovrebbe essere un’altra cosa: motivare i collaboratori e consentire loro di ottenere risultati grazie alla conoscenza dei loro clienti, che implica una concessione di autonomie decisionali, un riconoscimento di dignità professionale e umana. Invece la vita di moltissimi bancari, specialmente di rete, è fatta di report incessanti per dimostrare non già di avere raggiunto un obiettivo, ma di avere “fatto qualcosa”: telefonate, appuntamenti, contatti.
Una impostazione che si giustifica solo partendo dall’assunto che il proprio personale sia fatto di potenziali lavativi che hanno bisogno dell’occhiuto superiore per darsi da fare. Una concezione infantile del rapporto tra azienda e dipendenti, circondata da una organizzazione paramilitare all’italiana, dove anche le inefficienze e le sacche di parassitismo ricordano certi uffici dei marescialli dell’esercito, intenti a portarsi i prosciutti della mensa a casa mentre la truppa sgobba e mangia pasta scotta (chi ha fatto la leva sa di cosa parlo).

I clienti non sono tutti uguali. C’è quell’ uno per cento di “classe dirigente” ammanicata col potere politico, per cui un Ennio Flaiano conierebbe anche oggi alcune delle sue fulminanti definizioni, che ha causato l’ottanta per cento dei crediti a sofferenza, spesso concessi da banche-bancomat. Poi c’è il restante novantanove per cento che si vede negare il credito per merito del dissesto provocato dall’uno per cento precedente, oppure che deve sperare nel bancario corretto che cerca di soddisfare le sue esigenze reali di risparmio, anzichè incappare nel fenomeno in carriera che cerca di vendere cappotti all’equatore e ghiaccio agli esquimesi, e sapete perché? Perché la struttura lo premia. Premia la quantità di pezzi venduti, non importa come. Il controllo di qualità è una cosa che in banca arriva quando un giudice o un’autorità si occupano delle polizze decorrelate vendute come condizione di concedibilità di un finanziamento, si occupano di un derivato capestro, o di una polizza index linked venduta ad un ottantenne.

Il risiko bancario cui assistiamo ed assisteremo contribuirà a migliorare i rendimenti ed il valore dell’investimento dei soci e degli azionisti? Di sicuro ci proverà. Contribuirà a migliorare le condizioni di lavoro e la qualità del servizio? Non ci proverà nemmeno. Non sono obiettivi, questi ultimi, che rientrano tra gli scopi del risiko. Proprio questo quadro impone una inedita ma necessaria alleanza tra i risparmiatori e i dipendenti, perchè solo una saldatura tra gli interessi degli stakeholders più deboli potrà costituire un argine allo strapotere dei padroni delle ferriere.

PER CERTI VERSI
Via Arianuova

Ogni domenica Ferraraitalia ospita ‘Per certi versi’, angolo di poesia che presenta le liriche del professor Roberto Dall’Olio.
Per leggere tutte le altre poesie dell’autore, clicca
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VIA ARIANUOVA

Una foresta di silenzi
Aperta
Da vie di luce
I dedali
Della certosa
La radura
Delle arti
Le dolci mura
Un amore
Una dea
Armoniosa
Per il mio
Chagall
La prima volta
Che vidi Ferrara

Ci sono tornato
Per dissodare
Menti
Con la vanga
Della filosofia
E le scarpe
Di Van Gogh
In via
Arianuova
Lenta
Paesana
La foresta già
Un po’
Ristretta
Poi la crisi
Poi mille ragioni
La fretta
La pandemia
Lo so
Chiuse le copisterie
L’edicola
Le pizzerie
Altro ancora
Auto dappertutto
Arianuova
Dove ti sei perduta?

L’età dei Lumi e l’era dei vaccini

 

Oltre 400 milioni di dosi di vaccino anti Covid-19 somministrate nel mondo e un dibattito sempre aperto tra favorevoli e no-vax, tra coloro che ne riconoscono l’unica via d’uscita per una svolta alla stagnazione in cui ci troviamo, rafforzando la memoria immunitaria dell’intera collettività, e quelli che ritengono improbabile la cosiddetta ‘immunità di gregge‘, optando per l’dea di una condizione di malattia che perdurerà e diventerà endemica. Pensieri, convinzioni e dichiarazioni, non solo appannaggio della gente comune, ma anche di epidemiologi e virologi, esperti e addetti ai lavori.

La lunga strada dei vaccini percorre intere epoche della nostra Storia e non sempre occupa un posto di rispetto nei nostri ricordi. Eppure ha salvato l’umanità dalle grandi catastrofi sanitarie, ha conquistato enormi traguardi nel contrasto alle epidemie, ha fornito un contributo decisivo alla lotta alle malattie infettive e aperto le conoscenze su fenomeni scientifici sconosciuti. Intuizioni, ricerca e sperimentazioni coraggiose hanno salvato più volte l’umanità.

Era il 1796 quando Edward Jenner inocula il vaccino a un bambino ammalato di vaiolo, dimostrando scientificamente l’efficacia di quel prodotto che ribattezzò ‘vaccino’, cioè derivato dalla mucca. Infatti, lo scienziato e i suoi colleghi avevano notato come i mungitori risultassero immuni al devastante vaiolo umano, se sulle loro mani fossero comparse delle piaghe, le stesse presenti sulle mammelle delle mucche. Intuì che il vaiolo bovino era meno aggressivo di quello umano e poteva costituire un punto di partenza per un deterrente a una orribile malattia, che mieteva 40.000 vittime l’anno nella sola Inghilterra. Jenner decise di innestare il materiale prelevato dalle pustole di una mungitrice affetta da vaiolo bovino su James Phipps, il figlio di otto anni del suo giardiniere. Dopo un po’ di febbre, il ragazzino guarì in due giorni e due mesi dopo, quando Jenner – forse in modo oggi eticamente discutibile – lo risottopose al vaccino, James non sviluppò nessun sintomo. Era nata ed era stata confermata l’idea alla base dei vaccini: un agente infettivo indebolito scatenava la reazione difensiva del corpo.

Da allora studi e sperimentazioni prolificarono. Nel 1885 Louis Pasteur testa con successo il suo vaccino antirabbico su un bambino morso da un cane idrofobo e nel 1890 Emil Roux, parallelamente a Emil von Behring, mette a punto il siero antidifterico (la difterite, causata da un batterio che produceva una tossina in grado di gonfiare la gola fino al soffocamento), a cui seguirà il vaccino nel 1923, per merito di Lèon Gaston Ramon, il quale ne produrrà poco dopo anche uno contro il tetano. La prima grande vaccinazione di massa avviene nel 1962, con il vaccino antipolio di Albert Sabin, ponendo fine – non senza resistenze alle somministrazioni da parte della gente – alle epidemie da poliovirus, che colpiva il sistema nervoso centrale. La poliomielite uccise o paralizzò 28.500 persone all’anno tra il 1951 e il 1955, ma già qualche decennio prima aveva manifestato i suoi devastanti effetti; si arriverà al 2002 per dichiarare l’Europa libera dalla malattia.

Nel 1957 si scatenò un’epidemia di influenza asiatica da Virus A Singapore/1/57 H2N2, che uccise circa 2 milioni di persone nel mondo. Negli Usa le vittime non superarono i 69.000 perché Hilleman riuscì a creare un vaccino e a distribuirne 40 milioni di dosi in tutta fretta, con un’incredibile accelerazione. E non fu neanche il primo, per l’illustre microbiologo americano, padre dei vaccini contro oltre 40 agenti infettivi (morbillo, orecchioni, rosolia, epatite B, meningite…). Negli anni 2000 si perfezionano i vaccini tetravalenti (2005) contro pertosse, rosolia, varicella, il vaccino anti-hpv contro il papillomavirus responsabile del carcinoma al collo dell’utero (2015), nel 2016 quello esavalente e nel 2018 il vaccino con virus vivo attenuato Ebola Zaire che viene distribuito “per uso compassionevole” in Congo e altri Stati africani.

Oggi come ieri, molta gente è scettica, critica, negazionista sul tema dei vaccini: tante vite salvate non erano e non sono sufficienti per convenire sulla necessità e validità del vaccino. Manca la fiducia. Nell’Età dei Lumi, il 1700, il ‘favoloso innesto’ di Jenner non fu solo una conquista della medicina, ma anche uno spartiacque tra due schieramenti ideologici contrapposti: da una parte gli oscurantisti che consideravano le conquiste della scienza un’offesa al Creatore, blasfemia vera e propria, dall’altra gli illuministi, a favore di una pratica ‘figlia della ragione’ e nemica della cieca ignoranza.

Oggi  siamo più informati, acculturati, aperti a nuove soluzioni che diano risposte a nuove necessità, tuttavia permane lo scetticismo e il rifiuto a priori di quegli interventi medico-sanitari che la pandemia sollecita, a dimostrarci che la scienza ha fatto grandi progressi, le tecnologie sofisticate permettono traguardi insperati, la medicina ha varcato limiti e confini inimmaginabili, ma l’atteggiamento umano rimane controverso, a volte irrazionale, schiavo di paure ataviche e retro pensieri giustificati o gratuiti che siano. La difficile strada della prevenzione e della cura contro i peggiori virus e batteri in circolazione è ancora in salita.2

PRESTO DI MATTINA
Il pastore, gli agnelli e il pungitopo

 

«Considerato nella sua spirituale preparazione, il concilio ecumenico, a poche settimane dal suo radunarsi, sembra meritare l’invito del Signore: “Vedete tutti gli alberi, quando già rimetton le foglie, voi conoscete da voi stessi, solo a guardarli, che s’appressa l’estate; e allo stesso modo anche voi, quando vedrete avverarsi queste cose, sappiate che è vicino il regno di Dio”», (Lc 21,29-31). In questo testo del settembre del 1962 papa Giovanni XXIII vede il concilio e la chiesa radunata in esso, come una primizia e un segno dell’approssimarsi del regno di Dio. L’averlo desiderato ardentemente ‒ “giorno desiderato” lo chiama ‒ diviene pure invocazione, fiducia nello Spirito che sempre opera nella storia umana attraverso gli uomini e le donne di buon volere; ma anche un dono pasquale alla chiesa perché ritorni ad amare con cuore pastorale e s’avvicini alla vita della gente.

Un analogo desiderio, quello di fare Pasqua con i suoi, arde in Gesù lungo il cammino verso Gerusalemme: «“Desiderio desideravi. Ho desiderato ardentemente di mangiare questa Pasqua con voi, prima della mia passione» (Lc 22, 15). La Pasqua è la brama più intima di Gesù, desiderio di prossimità e di comunione con il Padre e con noi, ciò che lo spinge ad annunciare il Padre, il suo avvicinarsi all’uomo nella storia tramite la sua giustizia: «Era vicina la Pasqua, la festa dei Giudei. Alzati quindi gli occhi, Gesù vide che una grande folla veniva da lui e disse a Filippo: “Dove possiamo comprare il pane perché costoro abbiano da mangiare?”», (Gv 6, 4-6). Scrive Agostino: «Il desiderio è il recesso più intimo del cuore. Quanto più il desiderio dilata il nostro cuore, tanto più diventeremo capaci di accogliere Dio». (Io. Evang., tr., 40, 10).

S’avvicina la Pasqua è pure il titolo, ripreso ogni volta come fosse un unico titolo, delle lettere pastorali di mons. Luigi Maverna, vescovo di Ferrara-Comacchio dal 1982 al 1995. Tornava ogni anno su quel versetto di Giovanni 6,4 come fosse un cristallo dalle molteplici sfaccettature. E tutte le volte riusciva a illuminarne un aspetto diverso, certo com’era, nell’approssimarsi della Pasqua, di «trovarla sempre nuova».

Pasqua: culmine e fonte in cui convergeva a da cui si irradiava il suo desiderio, accompagnato dal pensiero e dall’azione pastorali. Non per caso, alla messa in cui si congedò dalla diocesi fu salutato con il canto dell’Exultet pasquale, avendo egli confidato poco prima, alla vigilia di Pasqua, che gli sarebbe piaciuto morire mentre la Chiesa intonava quell’inno. Ci lasciò nel 1998 ai primi vespri della festa di Pentecoste: discesa dello Spirito santo su Maria e gli apostoli nel cenacolo, compimento della Pasqua nella chiesa, suo inizio e germe nel mondo attraverso l’annuncio del vangelo alle genti.

Se il vescovo Filippo Franceschi, suo predecessore (1976-1982), aveva introdotto e traghettato la nostra chiesa nella recezione del concilio, lui lo aveva declinato nella ferialità del suo cammino, promuovendo e attuando le strutture partecipative e di condivisione conciliari nel popolo di Dio, senza trascurare di animare il mistero nascosto in esso con una attiva partecipazione alla liturgia, che riteneva, unitamente ai poveri, il cuore della chiesa: «Una Chiesa povera per i poveri. Privilegiare i poveri, nella pastorale, è compiere opera di evangelizzazione». Timido e risoluto al contempo, nel testamento aveva scritto: «La Chiesa non è nelle grandi cose. La Chiesa è preparata dalla voce e dall’azione dei ministri e dei fedeli, la Chiesa è dove è, dove sono i cuori umilmente aperti, accoglienti, concordi con Cristo. “Dove due o tre sono riuniti nel mio nome, lì sono in mezzo a loro”. Lì, ad ascoltarlo; lì, a riamarlo; lì, a gustarlo e pregustarlo, lì per l’eternità. Di lì, la fecondità di un amore che raggiunge, spiritualmente, invisibilmente, soprannaturalmente, ma concretamente, i confini del mondo». Da lui appresi la sinodalità, quel camminare insieme così caro a Papa Francesco. Con lui la praticai anche nella comunità parrocchiale e diocesana. Un “vescovo fatto desiderio” scrissi commentando allora il suo testamento, perché così deve essere lo stile di chi si avvicina alla Pasqua: lui si apprestava all’incontro con il Cristo pasquale con il ‘massimo desiderio’, ‘desiderio bruciante’, appunto «Desiderio desideravi» (Lc 22,15).

Commentando il salmo 37 il vescovo d’Ippona Agostino scrive: «Sia dinanzi a lui il tuo desiderio; ed il Padre, che vede nel segreto, lo esaudirà. Il tuo desiderio è la tua preghiera; se continuo è il desiderio, continua è la preghiera. Il desiderio è la preghiera interiore che non conosce interruzione. … Se dentro al cuore c’è il desiderio, c’è anche il gemito; non sempre giunge alle orecchie degli uomini, ma mai resta lontano dalle orecchie di Dio (Enarr. in Ps., 37, 14). Il desiderio prega sempre, anche se la lingua tace: se desideri sempre, sempre preghi. Quando sonnecchia la preghiera? Quando si raffredda il desiderio, (Serm., 80, 7)».

Il desiderio di un possibile cambiamento e trasformazione affretta e avvicina la Pasqua, che ci viene incontro e risveglia il ricordo di ciò che in essa è accaduto: un ribaltamento delle sorti. Un inno della liturgia della settimana santa canta: «Trafissero (perforarunt) quel mite corpo e ne uscì sangue e acqua! La terra, il mare, il cielo, il mondo da quale fiume vengono purificati!»; ed Ambrogio: «In lui è risorto il mondo, in lui è risorto il cielo, in lui è risorta la terra; vi sarà infatti un cielo nuovo e una terra nuova», (De excessu fratris. Orazione funebre, II,102).

S’avvicina la Pasqua, avvicinati anche tu.

Avvicinati allora per ritrovare quella prossimità che nessun distanziamento potrà mai ostacolare: perché essa è il luogo della memoria vissuta, cresciuta con noi nella forma di una responsabilità: quella del continuare a fare memoria della dignità umana ogni volta tradita, venduta per un paio di sandali o per trenta denari, spogliata, crocifissa, ma ogni volta liberata dall’amore più grande, quello di chi dà la sua vita per farla nascere di nuovo. È questa la coscienza che Gesù ha avuto di sé nell’approssimarsi della Pasqua: «Se il chicco di grano caduto in terra non muore, rimane solo; se invece muore, produce molto frutto» (Gv 12, 24). Null’altro che questo è la Pasqua: la debolezza vittoriosa di un amore.

Avviciniamoci io e voi insieme, allora, per fare memoria dell’Ecce Homo e di ogni uomo e donna del nostro tempo che, essendo senza bellezza e apparenza per attirare gli sguardi, incarnano nel presente Colui che Pilato presentò alla folla. Non potrei descrivere meglio questa condizione, con più verità e drammaticità, delle parole incise da Primo Levi nell’esergo del suo libro più noto: Se questo è un uomo: Voi che vivete sicuri… Considerate se questo è un uomo/ Che lavora nel fango/ Che non conosce pace/ Che lotta per mezzo pane/ Che muore per un sì o per un no./ Considerate se questa è una donna,/ Senza capelli e senza nome/ Senza più forza di ricordare/ Vuoti gli occhi e freddo il grembo/ Come una rana d’inverno», (Einaudi, Torino, 2014, 2 e 177).

Anche se questo testo ‒ come sottolinea Cesare Segre nella postfazione ‒ riecheggia lo Shemà Israel (Ascolta, Israele) tuttavia «l’atto di fede manca; al contrario, si sviluppa il tono esortativo, dal Voi iniziale, ripreso anaforicamente nel terzo verso, agli imperativi Considerate (due volte), Meditate, Scolpitele, Ripetetele (in particolare i vv. 16-19 sono traduzione fedele del testo ebraico: «queste parole/ scolpitele nel vostro cuore/ stando in casa andando per via,/ coricandovi alzandovi»); e si conclude con una specie di maledizione per chi non obbedirà. A che cosa? All’obbligo del ricordo».

Esattamente quello stesso ricordo cui la Pasqua ci esorta. Il ricordo del mistero più alto di tutti, come lo chiama papa Leone Magno: «Quanti desiderano arrivare alla Pasqua del Signore, devono prepararsi a celebrare il mistero più alto di tutti, il mistero del sangue di Gesù Cristo che ha cancellato le nostre iniquità, facciamolo con i sacrifici della misericordia. Al Signore infatti nessun’altra devozione dei fedeli piace più di quella rivolta ai suoi poveri, e dove trova una misericordia premurosa là riconosce il segno della sua bontà», (Disc. 10 sulla Quar., 3-5; PL 54, 299-301)

C’è una poesia di Umberto Piersanti che mi ricorda il buon pastore che dà la vita come pure il Cristo, mite agnello, rialzato dalla morte, sanguinante ma vivo: l’Agnello mansueto che s’avvicina a noi proprio a Pasqua.

Cade la neve
larga, mesi e mesi,
gela fossi e fonti,
schianta querce e olmi,
sotterra case
e stalle, l’erbe gialle,
cancella gli stradini
fino a Viapiana
e muoiono gli agnelli
uno alla volta,
stridono nella stalla fredda,
fanno pena,
il pastore li guarda
desolato,
alza il falasco
fradicio, dissolto,
non c’è più un ceppo d’erba
la più gelata
venne una luce chiara
sulla neve,
l’aria fredda e liscia,
senza tempesta
restano tre agnelli,
li porta fuori,
storcono quelli il muso,
le zampe magre dentro
il nevone stanno incatenate,
belano i disperati,
soffiano forte
nella macchia li spinge
il buon pastore,
e con un ramo scava,
con le due mani
il pungitopo appare,
i frutti rossi
brillano colmi
e intatti, i cespi
freddi trapassano la neve
fitti e aguzzi
quando gli agnelli giungono
stremati,
brucano foglie e frutti
buttano sangue,
sugli spini lasciano la lana,
queti colmano i ventri
senza belare.

(Nel tempo che precede, Torino 2002, 71-72)

 

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Il misoneismo e le mistificazioni macroeconomiche

Le vicende del 2020 hanno costretto gli stati ad un’inversione ad U in merito ai deficit e al debito. Oggi è possibile spendere, condonare cartelle esattoriali, dare benefit a imprese e famiglie senza incappare nei soliti strali delle autorità europee e dei paladini del pareggio di bilancio. La pandemia, purtroppo, ci sta dando la possibilità di un osservatorio inedito sulle faccende macroeconomiche e si affermano, o semplicemente vengono rispolverati, due concetti fondamentali:
– le banche centrali devono supportare l’opera dei governi perché gli obiettivi sono comuni, l’indipendenza è relativa e deve essere confinata a specifiche finalità di politica monetaria;
– quando c’è una crisi di domanda bisogna creare moneta e far sì che questa venga spesa nell’economia reale senza preoccuparsi di debito o inflazione, fino a quando le cose non migliorano. In altri termini, il bilancio dello stato si indebita spendendo a favore dei cittadini che quindi ricevono la possibilità di un credito (in contabilità quando qualcuno spende un altro incassa).

Banche centrali e moneta, in sintesi, sono al servizio degli stati e non viceversa, la scarsità e la favola delle risorse limitate è una scusa buona per non spendere solo nelle stagioni dell’abbondanza (cioè nei periodi in cui l’economia cresce senza problemi), quando c’è crisi e lo stato non crea debito i cittadini non incassano e quindi soffrono (non c’è credito senza debito).
Queste conclusioni potrebbero essere elaborate da ognuno di noi semplicemente guardando ai fatti e quindi senza bisogno di aggiungere altro ma, come diceva Keynes, “La più grande difficoltà nasce non tanto dal persuadere la gente ad accettare le nuove idee, ma dal persuaderla ad abbandonare le vecchie”. E le vecchie idee in questo caso sono quelle inculcate al pubblico negli ultimi 40 anni di storia per cui la mente è abituata a immaginare alcuni fenomeni prima ancora che questi vengano spiegati. Alcuni di questi sono appunto l’indipendenza delle banche centrali e la scarsità della moneta.
Chi difende queste congetture non ha più bisogno di spiegarle per farle accettare grazie al fatto che sono già radicate nel nostro inconscio, a prescindere dalle implicazioni o tantomeno dalla fondatezza, perché fanno oramai parte del nostro patrimonio cognitivo.
Un esempio per chiarire, il Mario Draghi presidente della Bce, in una delle tante conferenze stampa, risponde alla domanda di un giornalista sulla possibilità che la Bce possa finire i soldi affermando sorridendo che questo è escluso e, aggiunge sempre sorridendo, che la Bce ha tutte le risorse (finanziarie) necessarie per far fronte a qualsiasi evenienza. Il Mario Draghi presidente del consiglio richiama invece alla prudenza perché le risorse (finanziarie) sono scarse.
È ovvio che le due affermazioni siano in contraddizione, ma quale appare alla nostra mente più credibile? Quale la nostra mente accetta senza difficoltà e da quale, inspiegabilmente, ci sentiamo più rassicurati? Ovviamente dalla seconda, cioè per la nostra mente le risorse sono scarse, è meglio non spendere, non fare troppo debito altrimenti la catastrofe è dietro l’angolo. Paura del nuovo o misoneismo, come veniva definito da Carl Gustav Jung, il rifiuto di quell’emozione che ci suggerisce che qualcosa non è al posto giusto, non è comprensibile immediatamente alla nostra mente (ne ho parlato nel mio libro “L’altra faccia della moneta”).
Ma questo ci limita, ci impedisce di crescere e di sviluppare concetti nuovi. Sta peggiorando il nostro modo di vivere il presente e di immaginare il futuro, tutto a discapito delle nuove generazioni.
Eppure è lapalissiano, il sole riscalda, l’evidenza si mostra nemmeno più tanto tra le righe e, rimanendo nel solco dei due argomenti che mi sono prefissato, banche centrali e moneta (quindi debito), andiamo a estrapolarla tra le informazioni disponibili a tutti, normalmente ignorate nel loro reale significato o mistificate nella loro interpretazione. Rimaniamo su Mario Draghi e poi andiamo all’Ocpi di Carlo Cottarelli.
L’11 ottobre 2019 l’attuale Presidente del Consiglio fu insignito della laurea honoris causa in Economia dell’Università del Sacro Cuore ed ovviamente tenne un discorso che è interamente pubblicato qui https://www.ecb.europa.eu/press/key/date/2019/html/ecb.sp191011~b0a4d1e7c5.it.html e dal quale estraiamo quanto di seguito: “Descrissi una volta l’indipendenza della banca centrale come indipendenza nell’interdipendenza. Intendevo con ciò sottolineare che il contesto istituzionale nel quale operiamo influenza la velocità con la quale raggiungiamo il nostro obiettivo e l’entità degli effetti collaterali delle nostre azioni. È doveroso esprimere con chiarezza quando altre politiche potrebbero rendere il nostro compito più agevole e rapido.
L’indipendenza della banca centrale non è un fine in se stesso. Il suo scopo risiede nel garantire la credibilità della banca centrale nel perseguimento della stabilità dei prezzi e nello scongiurare che la politica monetaria sia succube della politica fiscale; essa assicura così una dominanza monetaria. L’indipendenza della banca centrale non impedisce perciò un dialogo con il governo quando è evidente che esso consentirebbe un più rapido ritorno alla stabilità dei prezzi. Pone soltanto dei limiti ai suoi eventuali effetti. In particolare un coordinamento delle politiche, quando necessario, deve contribuire alla stabilità monetaria e non può ostacolarla.”
Mario Draghi intende dire che deve sempre esistere una collaborazione e un legame chiaro tra uno Stato e la sua Banca Centrale sebbene sia necessaria una linea di demarcazione (indipendenza) tra la politica fiscale e quella monetaria. Entrambi gli strumenti hanno bisogno del proprio spazio di manovra ma l’obiettivo deve essere comune e, in questo caso, l’accento sulla stabilità dei prezzi non è visto come l’odioso principio liberista che impedisce l’allargamento del benessere sacrificato all’arida politica monetaria, ma piuttosto come una necessità legata ad un periodo di stabilità monetaria fuori dai periodi di crisi.
E che Draghi intenda questo diventa ancora più chiaro nella sua intervista al Financial Times https://www.ft.com/content/c6d2de3a-6ec5-11ea-89df-41bea055720b e nelle sue parole riportate dall’Ansa di questi giorni https://www.ansa.it/sito/notizie/politica/2021/03/19/decreto-sostegni-da-32-miliardi-atteso-oggi-il-via-libera-dal-cdm_fe290451-0755-46c1-981a-a93026219acb.html. I suoi interventi rilanciano spesa e debito “non è il momento di chiedere soldi ma di dare soldi”, cioè è necessario creare moneta e fare deficit attraverso:
– la politica fiscale dello stato, che deve prevedere più spesa e meno entrate ignorando i tetti al deficit e le convergenze sul debito pubblico imposti dai trattati (deficit inferiore al 3% e debito degli stati inferiori al 60%);
– la politica monetaria della banca centrale, la Bce deve continuare ad acquistare i titoli di stato attraverso l’attuazione dei piani pandemici.

Nel momento di bisogno gli intenti di Stato e Banca Centrale devono convergere, l’indipendenza deve essere messa da parte e insieme si combatte la crisi e si corregge la curva. L’ulteriore considerazione è che uno stato ha bisogno di una banca centrale e che se nell’eurozona ci deve essere una sola banca centrale, questa deve essere al servizio degli stati.
Se questo fosse percepito come elemento di verità macroeconomica e di gestione dell’economia al servizio dei cittadini (mettendo da parte la “paura del nuovo” e facendo “spazio alle nuove idee eliminando le vecchie”) sarebbe più facile comprendere l’inutilità del Recovery Fund e magari diventerebbe ovvio il suo essere uno strumento essenzialmente politico e non economico.
Da Draghi passiamo all’Osservatorio sui Conti Pubblici Italiani (Ocpi) e alle arrampicate sugli specchi. Il documento dal quale partiamo è di questi giorni ed è consultabile qui https://osservatoriocpi.unicatt.it/cpi-archivio-studi-e-analisi-le-banche-centrali-possono-andare-in-perdita-cosa-ne-conseguirebbe?mc_cid=87cb2aa7db&mc_eid=af47140064. Il tema si può riassumere così: può operare in negativo una banca centrale? Ovviamente sì, ma forse all’Ocpi non studiano le conferenze di Draghi e non guardano tra le righe di quanto scrivono gli esperti economici della Bce.

Traduco: Le banche centrali sono protette dal rischio di insolvenza grazie alla loro capacità di creare moneta e quindi possono operare anche con bilancio in negativo.
Si tratta di una piccola nota alla pagina 14 dell’Occasional Paper nr. 169 di aprile 2016 https://www.ecb.europa.eu/pub/pdf/scpops/ecbop169.en.pdf?f7073b79c2f6f62c79918dc24088dd00 che chiarisce all’uomo della strada, cioè a noi, tutto quanto c’è da chiarire: non può fallire chi crea il denaro e potendolo creare può operare anche con un bilancio in negativo. Questo perché può coprire ogni buco contabile si dovesse presentare, cosa che nessuna società privata, azienda o famiglia potrebbe mai fare. E per questo dire che uno Stato è come una famiglia è ovviamente un’altra congettura che si aggiunge alla lista delle emozioni che dovremmo prima o poi affrontare. Ma perché allora ci sono tanti problemi di spesa ed esiste l’irrazionale paura del debito nell’area euro? Semplicemente perché si sono fatte delle scelte politiche in tal senso, come ci spiegano sempre gli esperti economici della Bce.

Il problema nasce dalla mancanza di relazioni tra l’autorità fiscale (Ministero del Tesoro) e l’autorità monetaria (la Banca Centrale), cioè ad un’errata interpretazione dell’indipendenza delle banche centrali di cui parlava Draghi in uno dei suoi tanti momenti di contraddizione argomentativa. Se le due entità non collaborano, il debito pubblico diventa un problema e quindi agli stati viene reclusa la possibilità di spendere a deficit e alle banche centrali di attuare politiche monetarie in loro soccorso. Chi ci rimette sono ovviamente gli interessi dei cittadini. In altri termini, se la banca centrale rimane collegata alle necessità dello stato allora questi non deve trovare soldi sui mercati per spendere ma semplicemente deve rinnovare i titoli in scadenza che, in ultima analisi, la banca centrale può sempre comprare, senza doversi preoccupare di avere capitale per poterlo fare, perché può operare anche in negativo. Le sofferenze causate dall’austerità non hanno una base economica ma solo normativa.
Ma cosa aggiunge l’Ocpi a tutto questo? Praticamente nulla se non elementi tecnici e contabili che non cambiano di una virgola la realtà di quanto sopra. Segnalo solo questo: “…il Sistema Europeo delle Banche Centrali (Bce + banche centrali nazionali) ha in portafoglio un’enorme quantità di titoli di Stato per via del Quantitative Easing e del Pepp (Pandemic Emergency Purchase Programme) … ad oggi le banche centrali europee hanno conseguito utili elevati. Per esempio, nel 2019, la Banca d’Italia ha registrato un utile di oltre 8,2 miliardi di euro, di cui 7,8 miliardi incassati – direttamente o indirettamente – dallo Stato.”
Cioè quando una banca centrale acquista e detiene titoli, oltre a stabilizzarne il relativo mercato tenendo calma la speculazione (ricordate il whatever it takes?), fa anche guadagnare interessi agli stessi stati che li emettono.
In conclusione, ben venga finalmente l’apertura di un dibattito serio sulla definizione di indipendenza delle banche centrali, sull’importanza dei deficit e sul loro significato, sul ruolo e sulla funzione della moneta in economia, ma aggiungerei la necessità all’auspicio che si possa parlare delle distorsioni presenti nel sistema economico, delle congetture spacciate per verità assolute e della infondatezza degli attuali miti economici.

Al cantón fraréś / Mendes Bertoni:
“Al magh Ciuźìn e l’Urlón dal Barch” (Seconda parte)

 

In versi, Mendes Bertoni continua a narrare le avventure del mago: l’edificazione del Vòlto detto del Chiozzino (1), il pentimento e la conversione di Bartolomeo Chiozzi, il successivo confinamento al Barco del diavolo che, da Fedele Magrino, diventa Urlón. Una leggenda nella leggenda vuole che al Ciuźìn, alla rottura del patto col demonio, entrando dalla porta sud nella chiesa di S. Domenico, riuscisse a schivare il rabbioso calcio del servo contrariato dal mutamento interiore del padrone. L’orma del maligno è ancora visibile nel marmo (2) del portale in piazza Sacrati.
Come ognuno potrà verificare.
(1) A tutt’oggi esistente fra il vicolo omonimo e via Ripagrande, di fianco alla casa di B. Chiozzi,
(2) Colonna destra, a circa un metro da terra.
(Ciarìn)

Al magh Ciuźìn e l’Urlón dal Barch (śgónda part)
. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .
Cuntàr dill maravié dal magh Ciuźìn
am vrìa na stmana, car al mié letór,
ma se ‘d paziéηza ti t’n’avrà uη puchìn,
ascolta questa ch’l’è ‘d divers culór.
T’impararà da chi è stà fat al “VÒLT”
aηcora iη pié e ch’l’aη sarà mai tòlt.

Par divertìr j’amigh più d’uη carηvàl
e dimustràr al màgich so putér,
l’ha dà, iη cà na graη festa da bal,
faśénd gnir źó n’urchèstra ‘d furastiér.
A ‘η zèrt mument, con du tri salt e ‘η pas,
l’ha tirà su cal vòlt ch’l’è luηgh e bas.

L’ha continuà Ciuźìn par darsèt ann,
coη stil truvàd, a imbambanàr la źént,
ma un dì na luś ch’la gnéva da luntàη,
la strada la gh’ha iηsgnà dal pentimént.
“Basta col diàvul!” fra se stés l’ha dit
“Séηza la féd mi a són un òman frit”.

Avénd savù che agh jéra na fuηzión
int al ciśón ‘d San Dménagh, al Ciuźìn
d’andàragh al tòl sùbit decisióη;
ma ‘l diàvul, ch’l’aη vrìa vlèst, al gh’jéra avśìη.
Par libaràrs ad lu e dargh uη smach,
iη cà al la manda a tóragh al tabàch.

Arivà iη céśa al s’buta iη źnoć piaηźénd,
propia davanti al sacr’Altàr Magiór,
po’ ‘l ciama al fra’ e ‘l diś: “Mié reverend,
am vói cuηfsàr e riturnàr al Sgnór”.
I fra’ a pregàr j’as mét ad alta vóś,
faśéndas, ogni tant, al ségn dla cróś.

Dà indré la carta scrita da Ciuźìn,
par penitenza a viéη mandà FEDÉL
int na pusióη col PO ch’pasa d’avśìη,
ciamàda al BARCH. E iη cal brut pòst, ‘des bel,
a stà fiurénd, iη sémpliza strutùra,
uη nóv quartiér iη meź a la varźùra.

Stal diavulàz rabióś, prima ‘d partìr,
l’ha mandà uη zigh putént e pin ad vléη
che a tuti, ogni nòt, l’ha fat santìr,
faśéndagh far tarmàr e gamb e vén.
E ‘d più quand la buràsca la tiràva
o un tempuràl sul BARCH al s’arvarsàva.

URLÓN dal BARCH e ‘l MAGH CIUŹÌN da FRARA
j’è personàģ d’na storia ch’l’è nustràna;
na spèzia ‘d fòla dla nunìna cara
ch’la racuntàva ai ηvud prima dla nana.
L’è aηch “racónt” che ‘s lèź… sì, mi ‘t al digh,
sui lìbar dal setzént. ‘T salùt amigh!

 

Il mago Chiozzino e l’Urlone del Barco (parte seconda)

Riferire delle meraviglie del mago Chiozzino / mi vorrebbe una settimana, caro il mio lettore, / ma se di pazienza ne avrai un poco, / ascolta questa che è di diverso colore. / Imparerai da chi è stato fatto il “VÒLTO” / ancora in piedi e che non sarà mai tolto. /

Per divertire gli amici più di un carnevale / e dimostrare il suo magico potere, / dà in casa una gran festa da ballo, / scritturando un’orchestra di forestieri. / Ad un cert momento, con due tre salti e un passo, / ha costruito quel vòlto che è lungo e basso. /

La chiesa di San Domenico, portale sud, Ferrara, foto di Marco Chiarini

Ha continuato Chiozzino per diciassette anni, / con queste trovate, a imbambolar la gente, / ma un giorno una luce che veniva da lontano, / la strada gli ha indicato del pentimento. / “Basta col diavolo!” fra sé stesso ha detto / “Senza la fede sono un uomo fritto”. /

Avendo saputo che c’era una funzione / nel chiesone di San Domenico, il Chiozzino / d’andarci prende subito decisione; / ma il diavolo, che non avrebbe voluto, gli era vicino. / Per liberarsi di lui e dargli uno smacco, / in casa lo manda a prendergli il tabacco. /

Arrivato in chiesa si butta in ginocchio piangendo, / proprio davanti al sacro Altare Maggiore, / poi chiama il frate e dice: “Mio reverendo, / mi voglio confessare e ritornare al Signore”. / I frati si mettono a pregare ad alta voce, / facendosi, ogni tanto, il segno della croce. /

Data indietro la carta sottoscritta da Chiozzino, / per penitenza FEDELE viene mandato / in una possessione col PO che passa vicino, / chiamata IL BARCO. E in quel brutto posto, adesso bello, / sta fiorendo, in semplice struttura, / un nuovo quartiere in mezzo al verde. /

Questo diavolaccio rabbioso, prima di partire, / manda un grido potente e pieno di veleno /
che a tutti, ogni notte, ha fatto sentire, / facendo tremare e gambe e vene. / E ancor più quando la burrasca tirava / o un temporale sul BARCO si rovesciava. /

URLONE del BARCO e il MAGO CHIOZZINO da FERRARA / sono personaggi di una storia nostrana; / una specie di fola della nonnina cara / raccontata ai nipoti prima della nanna. / È anche “novella” che si legge… sì, te lo dico. / nei libri del settecento, Ti saluto amico!

Tratto da: Mendes Bertoni, Antologia della Divina commedia (Inferno); In zzà e in là, composizioni in vernacolo ferrarese, Ferrara, 1986.

Mendes Bertoni (Ferrara 1905 – 1987)
Vedi le note biografiche riportate nella precedente puntata del 19 marzo 2021 [clicca Qui]

 

 

 

 

Ulteriori informazioni si possono leggere in Werther Angelini (a cura di), Favolosa vita di Bartolomeo Chiozzi detto Chiozzini, di Anonimo ferrarese del XVIII secolo, con illustrazioni di Gabriele Turola, Ferrara, Liberty House, 1987.

 

Cover Ferrara: Volto del Chiozzino, foto di Marco Chiarini

Al cantóη fraréś: testi di ieri e di oggi in dialetto ferrarese, la rubrica curata da Ciarin per Ferraraitalia, esce ogni 15 giorni al venerdì mattina. Per leggere le puntate precedenti clicca [Qui] 

FOTOGRAFIA E SCRITTURA:
a lezione da Leonardo Sciascia

 

di Giuseppe Leone

Ricordare è ripercorrere i propri passi nell’essenza dei momenti, un viaggio sentimentale ed emozionale, che ogni volta ripercorro con grande piacere e coinvolgimento. Ci sono eventi o persone che restano fermi nella memoria e che con la loro eterna presenza ci accompagnano per tutto il nostro percorso vitale.
Il mio ricordo di Sciascia resta indelebile nella mia memoria, per me è stato sempre un maestro di vita, di ispirazione, di crescita personale e culturale, il suo esempio e la sua presenza hanno trasformato la mia ricerca fotografica in un’osservazione sensibile, conoscitiva e in buona parte letteraria.

Fotografare per me è stato scrivere
. Da quel lontano 1977, quando in casa editrice Sellerio ebbi l’occasione di conoscerlo, il tempo ha edificato incontri relazioni e amicizie solide che conservo gelosamente nei labirinti della mia memoria. Collaborare con personaggi di alto livello culturale come Leonardo Sciascia ha generato una ricerca della verità e della bellezza tendente al rispetto dell’uomo e del suo ambiente.
Il consolidarsi della nostra amicizia è storia nota ai molti, ne ho parlato tanto e raccontato tramite fotografie che nel tempo sono diventate icone e pietre miliari del novecento letterario in Sicilia e non solo. La nostra amicizia, mia e di Leonardo Sciascia, rese possibile la realizzazione di due libri, per me di grande importanza, come La Contea di Modica (1983) e Invenzione di una prefettura (1986); libri che hanno cambiato totalmente la mia visione della narrazione fotografica. Ripercorrendo a ritroso i ricordi, alcuni click fotografici mi permettono di ricostruire un mosaico di eventi, situazioni e viaggi che hanno consolidato e impreziosito non solo la collaborazione lavorativa ma la nostra amicizia: il viaggio in Spagna, 1984, venti giorni in giro seguendo le orme del Don Chisciotte di Cervantes e di Hemingway, nel suo ristorante dove era solito andare; il suo piacere per la torta Savoia della pasticceria Di Pasquale a Ragusa, delizia e passione per le eccellenze del territorio; il piacere del conviviale e della buona tavola. Proprio su questo tema da tempo lavoro ad un progetto che fra un paio di mesi verrà condensato in un libro, la pubblicazione è sul tema del piacere del conviviale a tavola nella pausa pranzo, un excursus di fotografie che raccontano dal 1965 ad oggi la bellezza e l’importanza della relazione nata attorno ad un convivio).

Ritornando alle mie più care amicizie e al mio racconto nelle mie fotografie ho messo in luce l’uomo Sciascia e non solo il grande scrittore.
La collaborazione lavorativa con Sciascia e non solo con lui mi ha dato la spinta per ricercare e ampliare il mio archivio di immagini e di storia visiva, raccogliendo più di sessant’anni di un paese, il cambiamento epocale che abbiamo vissuto nell’ultimo fine secolo, le contraddizioni di una Sicilia gattopardiana in cui il bello convive con il turpe degrado dell’illegalità (tema caro a Sciascia nei suoi libri e quanto mai attuale).

Nell’autunno del 1984 alla galleria La tavolozza di Vivi Caruso, di Viale Libertà a Palermo, Leonardo Sciascia organizzò e curò una mostra sui Paesaggi Iblei visti e interpretati da Piero Guccione con i suoi pastelli e da me con le mie fotografie. Scrisse una nota suggestiva sul rapporto tra la fotografia e la pittura, la bellezza fascinosa di entrambe e di come possano insieme dialogare e compenetrarsi mantenendo intatte la loro natura evocativa (testo ripubblicato per il ventennale della morte di Sciascia nel libro Sciascia dalla Sicilia alla Spagna, Federico Motta editore, 2009).
Non solo scrittore, dunque, ma anche appassionato di arte; Sciascia era un ricercatore raffinato della bellezza nelle sue forme più varie, colori e segni grafici accendevano la sua fantasia e la sua scrittura, e come fuoco che divampa in ogni direzione coinvolgeva tutte le persone che lo affiancavano, compreso me. Nello scorrere del tempo inesorabile ogni ricordo che permane nella mia memoria sicuramente non si perderà nell’oblio e resterà nella memoria collettiva.

Giuseppe Leone, che vive e lavora a Ragusa dove è nato, ha esordito illustrando il volume di Antonino Uccello La civiltà del legno in Sicilia (Cavallotto, 1972). Da allora le sue fotografie hanno illustrato numerosi libri, cataloghi e riviste di editori italiani e stranieri. Tra le pubblicazioni più note: La Pietra vissuta. con testi di Rosario Assunto e Mario Giorgianni (Sellerio, 1978); La Contea di Modica, con testo di Leonardo Sciascia (Electa, 1973); L’Isola Nuda, con testo di Gesualdo Bufalino (Bompiani, 1988); Il Barocco in Sicilia  e Sicilia Teatro del Mondo, con testi di Vincenzo Consolo (Bompiani, 1991); L’Isola dei Siciliani, con testi di Diego Mormorio (Peliti Associati, 1995). Ha esposto le sue fotografie in numerose mostre personali in Italia e all’estero.

Sulla figura e l’opera di Leonardo Sciascia, leggi su Ferraraitalia:

Sergio Reyes
UN ILLUMINISTA IN SICILIA : Attualità di Leonardo Sciascia a 100 anni dalla nascita [Qui]
Giuseppe TrainaDENTRO IL GIALLO : I personaggi di Sciascia e Simenon davanti al potere [Qui]
Roberta Barbieri
, RICORDANDO SCIASCIA : Una storia semplice [Qui]
Rosalba Galvagno
IL MAESTRO E IL GIOVANE ESORDIENTE : La corrispondenza tra Leonardo Sciascia e Vincenzo Consolo [Qui]
Giuseppe Giglio,
 “Ce ne ricorderemo, di questo pianeta” [Qui]
Rosario Castelli, 
IO CREDO NEL MISTERO DELLE PAROLE” : Un ‘Uomo di Lettere’ e il destino di essere solo[Qui]
Antonio Di Grado,
QUEL SUO iNSEGNAMENTO: «Non si parla male dei libri» [Qui]

 

Gli scrittori Angelo Carotenuto e Pietro Leveratto al Microfestival delle storie

 

da: Ufficio stampa Microfestival delle storie

Si conclude con due autori della casa editrice Sellerio il programma di marzo del Microfestival delle storie.
Mercoledì 24 marzo alle 18.30 il giornalista Angelo Carotenuto presenterà Le canaglie, un romanzo ambientato nella Roma degli anni Settanta dove lotte e trasformazioni si stanno imponendo nella storia del Paese. Le Canaglie è lo sguardo su una squadra di calcio, la Lazio, da parte di un fotografo di un quotidiano che sa cogliere luci e ombre della realtà e degli uomini che ha di fronte.
Mercoledì 31 marzo, alle 18.30, Pietro Leveratto presenterà Il silenzio alla fine, una storia degli anni Trenta tra l’Italia del fascismo e New York, città che accoglie e intreccia emigranti, artisti e malavitosi.

Entrambi gli autori saranno intervistati da Riccarda Dalbuoni e le presentazioni saranno trasmesse in diretta sulle pagine facebook del Microfestival delle storie e di Ferraraitalia

Angelo Carotenuto, Le canaglie, Sellerio

Le canaglie è la storia corale di un gruppo di giovani e del Paese spaccato in cui la loro vicenda prende vita. Quel gruppo è la squadra di calcio più folle che sia mai esistita in Italia, la Lazio dei maledetti, che in poco più di cinque anni, fra l’ottobre 1971 e il gennaio 1977, supera gli avversari in campo ma finisce per distruggere se stessa, passando dalla serie B allo scudetto – nella domenica in cui gli italiani votano per il divorzio – e proiettata verso un epilogo che nessuno poteva immaginare. Sono loro le canaglie, calciatori ventenni che girano armati, si lanciano con il paracadute, scatenano risse al cinema e al ristorante, fuggono dai ritiri per andare al night. Una compagnia di irregolari, le canaglie arrivano al successo facendosi la guerra, tramando, sparandosi addosso, ribaltando amicizie e legami. L’Italia degli anni di piombo, delle Brigate Rosse, degli omicidi politici, del caso Pasolini, delle battaglie per divorzio e aborto, è raccontata dalla voce di Marcello Traseticcio, fotografo di un quotidiano popolare della capitale e testimone del suo tempo, quando da paparazzo della Dolce Vita si è dovuto riciclare come reporter di nera e di sport. Attraverso di lui i ricordi si mescolano alla cronaca, il resoconto reale degli anni Settanta di Roma e dell’Italia si specchia nel desiderio di una gioventù che cercò di spezzare e di rifare il mondo.

Pietro Leveratto, Il silenzio alla fine, Sellerio

New York, primavera 1932. La città più viva del mondo agli ultimi sgoccioli del proibizionismo, l’età felice del jazz appena dietro le spalle, sotto la cappa della grande depressione. Nell’intrecciarsi di altre vite e storie, tre uomini incrociano drammaticamente le loro esistenze. Un ebreo austriaco, tormentato e sommo musicista, e un celeberrimo direttore d’orchestra italiano, antifascista in esilio, accomunati dalla musica grande. Sullo sfondo, a tramare, il terzo uomo, specie di ragno maldestro; siciliano, fascista della prima ora; sodale di Mussolini fin dagli albori socialisti e convinto perciò di essere il suo interprete più vero in mezzo ai traditori, mentre forse il duce nemmeno sa bene che esista. Uno decide di perdersi nei luoghi oscuri della grande città, e lì sfiora un amore, nelle stesse ore, in circostanze inesplicabili, un altro scompare. Sono i giorni del rapimento di baby Lindbergh e l’FBI è troppo impegnata nella ricerca per sprecare intelligenza dietro altre sparizioni. E forse manca perfino la voglia di far luce sui rapporti tra un «socialista», la criminalità italiana, e il suo governo straniero. Qualcuno conosce la verità ma, alla fine, scenderà il silenzio. Protagonista assoluto è il caso indifferente che domina le vite umane, un caso accentuato dal movimento frenetico della città che non dorme mai, in cui nessuno è di lì e per forza ognuno è buono e cattivo insieme.

NESSUN UOMO E’ UN’ISOLA
Per impedire che la pandemia si trascini, è necessaria una risposta globale

 

Ogni lotta contro una pandemia è una corsa contro il tempo. La sfida è vincere la capacità del microbo di fare rapidi cambiamenti. I microbi si rigenerano molti velocemente. Varianti particolarmente preoccupanti sono state identificate in Brasile, Sud Africa e Regno Unito. Alcuni di questi nuovi ceppi potrebbero essere resistenti ai recenti vaccini COVID-19. Il modo migliore per evitare lo sviluppo di varianti pericolose è proteggere il maggior numero di persone possibile dal contagio. Il fatto che milioni di persone nei paesi a basso reddito sono ancora in attesa di anti vaccini, non è solo ingiusto socialmente, ma pericoloso per tutti.

I paesi sviluppati non potranno difendersi dall’epidemia, solo se la malattia si diffonderà altrove. L’azione collettiva per immunizzare il mondo dal COVID-19 non ha solo un doveroso fondamento etico, ma è una necessità pratica.
I paesi ad alto reddito potrebbero avvicinarsi all‘immunità di gregge attraverso la vaccinazione nei prossimi mesi. Ma saranno ancora in pericolo a causa di varianti che evolvono in paesi non vaccinati che attraversano i confini internazionali.

Uno studio del gennaio 2021, pubblicato dalla Camera di Commercio Internazionale, ha affermato che l’accesso ineguale ai vaccini potrebbe costare all’economia globale fino a 9,2 trilioni di dollari, con circa la metà dei costi per i paesi ricchi.
Per impedire che la pandemia si trascini, sarà necessaria una risposta globale. Un esempio è il programma noto come COVAX: un’iniziativa dell’Organizzazione Mondiale della Sanità per fornire vaccini a 92 paesi a basso reddito, inclusi molti in Africa. L’immunizzazione diffusa in Africa rimane una prospettiva lontana: l’Unione Africana spera di far vaccinare il 60% degli 1,3 miliardi di individui del continente entro tre anni.

A febbraio, le nazioni del G-7 si sono impegnate ad aumentare i loro impegni nei confronti di COVAX a 7,5 miliardi di dollari; 4,0 miliardi di dollari provengono dagli Stati Uniti. Una cifra molto inferiore a quella necessaria. I paesi ricchi devono fornire maggiori finanziamenti a COVAX, con la consapevolezza che le loro donazioni rappresentano una polizza assicurativa per sé.
Quindi i governi e le istituzioni umanitarie internazionali devono aumentare la fornitura di vaccini per i paesi meno attrezzati. Gli Stati membri dell’Organizzazione mondiale del commercio dovrebbero rivedere le regole sulla proprietà intellettuale, per vedere se è possibile utilizzare adattamenti o deroghe speciali per aumentare l’offerta.

L’emergere di preoccupanti varianti di COVID-19 diventa più probabile, finché vaste aree del mondo non hanno ancora accesso ai vaccini. A febbraio, il segretario generale delle Nazioni Unite António Guterres ha annunciato che dieci paesi avevano somministrato il 75% della fornitura mondiale di vaccini COVID-19. A quel tempo, più di 130 paesi, che ospitano 2,5 miliardi di persone, non avevano ancora ricevuto una singola dose di vaccino.

La pandemia potrebbe anche portare una maggiore instabilità geopolitica.
L’OMS, i governi, le organizzazioni non governative e le aziende farmaceutiche dovrebbero fare il massimo per aumentare la produzione di vaccini COVID-19 e per somministrarli.
Agiamo nella consapevolezza che nessun paese è un’isola. I vaccini saranno il modo migliore per respingere l’emergere di nuove varianti mortali di COVID-19. Ma finché tali programmi non saranno attuati i governi e le organizzazioni sanitarie internazionali dovranno istituire un sistema di sorveglianza per monitorare i cambiamenti nel virus, come ha fatto efficacemente il Regno Unito.

I ricercatori stanno cercando di espandere la protezione offerta dai vaccini attuali. Ma devono anche sviluppare vaccini di seconda e terza generazione, per far fronte alle varianti, man mano che emergono. Il coronavirus potrebbe diventare endemico come l’influenza che si diffonde ogni inverno, a volte con una nuova variante, che raggiunge proporzioni epidemiche o pandemiche, prima che alla fine si attenui in un ceppo stagionale meno temibile.
La prossima generazione di vaccini COVID-19 potrebbe quindi essere multivalente, ovvero in grado di combattere più di una variante. I ricercatori dovrebbero mirare a sviluppare un vaccino universale contro il coronavirus, che colpisca le parti della particella virale condivise da tutte le varianti. Tale lavoro sarà importante per neutralizzare il potenziale devastante delle mutazioni del virus.

Né gli Stati Uniti, né qualsiasi altra potenza globale, possono sconfiggere una pandemia pensando in termini nazionali. I vaccini COVID-19 sono ormai una componente cruciale della sicurezza e della difesa nazionale degli Stati Uniti. Ma a differenza di altre sfere di difesa, questa prevede una protezione estesa agli stranieri. Come notò il poeta John Donne secoli fa, “Nessun uomo è un’isola… ma è parte del continente”.

Riferimento bibliografico: Michael T. Osterholm and Mark Olsha, The Pandemic That Won’t End, March 8, 2021

Per leggere tutti gli articoli di Elogio del presente, la rubrica di Maura Franchi, clicca [Qui]

O LA BORSA O LA VITA
Acqua Bene Comune VS Privatizzazione e Speculazione Finanziaria

 

Le ricorrenze rischiano sempre di diventare momenti celebrativi oppure di portare a ragionamenti scontati. Non fa certo eccezione la Giornata Mondiale dell’ Acqua ta  , che, da lungo tempo, è proposta per oggi 22 marzo: è facile aspettarsi proclami più o meno dotti sull’importanza dell’acqua come risorsa essenziale per la vita, sulle minacce cui essa è esposta dal cambiamento climatico e anche appelli perché se ne faccia un uso responsabile e sostenibile.
Per fortuna, però, c’è anche chi non si incammina su questa strada, come il Forum italiano dei Movimenti per l’Acqua, che ha scelto di “dedicare” questa scadenza ad una brutta vicenda, ma che rende bene l’idea del punto al quale siamo arrivati.
Mi riferisco al fatto che, per la prima volta nella storia – il 7 dicembre 2020 – è stato costruito un contratto “future” sull’acqua alla Borsa Merci di Chicago, una delle piazze finanziarie più importanti al mondo. Con tale scelta, si arriva ad un vero e proprio salto di qualità: non solo l’acqua è completamente mercificata, ma ora si può tranquillamente trattarla come base per la speculazione finanziaria.

Questa, infatti, è oggi la natura dei contratti futures scambiati in Borsa. Ma cosa sono essi esattamente? I futures, in realtà, non sono nient’altro che contratti derivati che impegnano due parti (un acquirente e un venditore) a effettuare una compravendita di una merce o di un titolo ( il cosiddetto sottostante) ad una certa data e ad un determinato prezzo.
L’esempio più classico è quello dell’agricoltore che vende una certa quantità di grano al mugnaio a un prezzo definito oggi per una consegna spostata nel tempo ( 1 quintale di grano al prezzo di 100 $ scambiati tra sei mesi). Inizialmente, dunque, quando nascono, a metà dell’ ‘800, i futures svolgono una funzione assicurativa: al di là di come andrà il raccolto del grano, il compratore e il venditore sanno che si scambieranno il grano a quell’epoca e a quel prezzo, ovviamente mettendo in conto le possibili perdite o guadagni, ma avendo entrambi quella certezza.
Nel corso del tempo, però, da quando è diventato abituale collocare e scambiare i futures in Borsa, essi possono essere venduti o comprati in qualunque momento, senza aspettare la scadenza prefissata, e al prezzo esistente in quel momento.
Non si negoziano più i futures per avere quella merce a quel prezzo alla data prefissata, ma diventano uno strumento speculativo: compro un contratto futures con il prezzo del grano a 100 $ a sei mesi, ma se dopo 2 giorni il prezzo del grano sale a 105 $ , rivendo il mio future, lucrando sulla differenza del prezzo.
Di fatto, si compiono vere e proprie scommesse sull’andamento del prezzo della merce, tant’è che meno del 2% dei contratti futures negoziati arrivano alla scadenza definita. Siamo alla finanza-casinò, quella che ha contraddistinto l’attività finanziaria negli ultimi decenni, guidata dall’imperativo di fare i soldi con i soldi ( e molto spesso, con quelli degli altri), che peraltro ha fortemente contribuito alla crisi del 2008 e degli anni successivi.

Ora, al di là del fatto che il future sull’acqua originato alla Borsa di Chicago è ancora più complesso di come l’ho descritto, rimane il dato di fondo che l’acqua è entrata nel vortice della finanza speculativa. E, purtroppo, non appare come un fatto episodico, ma una realtà costruita da un elemento strutturale, come hanno ricordato i dirigenti di CME Group che hanno dato vita al future sull’acqua, e cioè che, a causa del cambiamento climatico, dell’aumento della popolazione, del peggioramento qualitativo dell’acqua, essa è destinata a diventare bene sempre più scarso e soggetto all’accapparamento, per cui inevitabilmente essa non può che essere governata dalla logica del mercato, della domanda e dell’offerta per fissarne il prezzo e, infine, come tutte le merci, anche ai processi speculativi.

Non solo è sacrosanta l’indignazione per questa deriva, che va in direzione opposta all’idea che l’acqua sia un bene comune e il suo accesso deve essere garantito a tutti, come diritto umano universale, sancito dalle stesse prese di posizione dell’ONU, ma occorre anche costruire un’iniziativa adeguata per contrastarla.
Lo si sta facendo a livello internazionale. E in Italia 
lo si è fatto nei giorni passati, con la petizione promossa dal Forum italiano dei Movimenti per l’Acqua, che in poco tempo ha raccolto oltre 43.000 firme [firma anche tu Qui]  e che abbiamo chiesto di presentarla oggi al Presidente del Consiglio e ai Presidenti della Camera dei Deputati e del Senato. Nella stessa direzione andrebbe anche l’approvazione della legge per la ripubblicizzazione del servizio idrico, elaborata a suo tempo sempre dal Forum dei Movimenti per l’Acqua, ferma dall’inizio della legislatura alla Commissione Ambiente della Camera e che l’attuale maggioranza di governo non sembra lontanamente aver l’intenzione di discutere, così come la riscrittura della parte del Recovery Plan in tema di tutela del territorio e dell’ acqua, dotato, nell’ultima versione conosciuta, di risorse insufficienti, mal indirizzate e, ancor più, ispirato da una logica di ulteriore privatizzazione del servizio idrico, in particolare nel Mezzogiorno.
E ancora: occorre bloccare l’improvvida  intenzione avanzata da alcuni Comuni (Firenze, Assisi e Ferrara), con il sostegno del Ministero degli Esteri, di candidare il nostro Paese a ospitare nel 2024 il Forum Mondiale dell’Acqua, scadenza espressione del pensiero mercatista delle grandi aziende multinazionali che gestiscono il servizio idrico.

Realizzare ora gli obiettivi sopra indicati assume grande valore, a maggior ragione ora che stiamo avvicinandoci al decennale dei referendum sull’acqua e sul nucleare svoltisi il 12 e 13 giugno 2011.
Si tratta di una una scadenza importante, non per farne l’ennesimo appuntamento celebrativo, ma per rimarcare che la maggioranza assoluta dei cittadini italiani si sono espressi in modo chiaro e preciso e che quell’esito è stato largamente disatteso e contraddetto.
Intendiamoci: non che quel risultato non sia servito, visto che senza quel pronunciamento il servizio idrico sarebbe stato totalmente privatizzato entro la fine del 2011, Nello stesso tempo, però, abbiamo presente che, non solo non è stata attuata la ripubblicizzazione del servizio idrico, ma, sia pure in modo più strisciante, la privatizzazione è andata avanti comunque e, con la complicità dell’Agenzia regolatoria nazionale che ha compiuto un’operazione degna delle ‘tre carte’, è rimasto il profitto garantito nelle tariffe.
Di fatto, siamo di fronte ad un attacco deliberato alla democrazia, con l’intento – purtroppo in gran parte riuscito – di diffondere sfiducia e rassegnazione nei confronti della mobilitazione collettiva. In ogni caso, il movimento per l’acqua pubblica continuerà la propria iniziativa. Sappiamo che stiamo parlando del futuro, che i processi in corso, a partire dal cambiamento climatico e dalla stessa pandemia, ci consegnano l’alternativa tra la Borsa e la vita, tra i Beni Comuni e la mercificazione e finanziarizzazione degli stessi, tra la cura e il profitto. Non penso ci siano dubbi da che parte stare.

Partecipa al webinar su zoom “il futuro dell’acqua in borsa”, oggi, lunedì 22 marzo, alle ore 18,30 [clicca Qui] 

La Sartina : Una favola del dopoguerra
(seconda parte)

 

Alle sei del pomeriggio Remo era già sotto il portone della sartoria con in mano un magnifico mazzo di rose dal gambo lungo .
-Ehi Valentino…dove guardi…sono quassù…prendi!
disse l’Ines dalla finestra del laboratorio.
Remo afferrò al volo un biglietto stropicciato.
Era di Lia
“Ti aspetto qui a casa mia entro le sei e mezzo ….I miei vogliono prima conoscerti…Corso Piave n. 26 ultimo piano… Corri…ti aspetto ”
E Remo corse.
Non era certamente un tipo atletico.
Non lo era mai stato.
Anzi.
Aveva sempre studiato. Molto. E quel diploma da ragioniere l’aveva fortemente voluto.

Inabile alla leva per la forte miopia, aveva così avuto la possibilità di continuare gli studi.
Avrebbe desiderato moltissimo poi proseguire, andare a Bologna all’Università. Lettere era il suo sogno.
Gli era stato offerto, subito dopo il diploma, dal suo amico fraterno Ermanno, un posto alla Cassa di Risparmio di Ferrara e accettò.

Arrivò sotto il portone di Lia decisamente stravolto.
Si ricompose alla bell’e meglio.
– Ecco …entra pure..questi sono i miei genitori… Giuseppe mio papà …e quella è mia mamma – disse Lia aprendogli con un sorriso la porta di casa.
Remo entrò con le sue rose, quasi intimorito e si sedette sulla ottomana della cucina a fianco di Lia.
Di fronte i suoi genitori e il fratello Nino.
– Così lei vorrebbe sposare la nostra Lia… – disse subito e con aria decisamente severa suo padre Giuseppe.
Remo colto di sorpresa, smarrito di fronte a quella inaspettata richiesta, volse il capo di lato a cercare la risposta negli occhi di Lia.
Lia lo guardò innamorata.
– Sì…certamente…ne sarei felice! – rispose senza esitare.
– Bene. Allora… allora adesso siete ufficialmente fidanzati e potete uscire assieme…
ma scusate… ora devo andare a finire un altro lavoretto, sempre dalla Norma… mi raccomando… attenzione vero …Ah… il suo nome?
– Remo papà… Remo – disse Lia felice.
– Bene… bene… e domenica la aspettiamo per il pranzo…

Il fidanzamento durò un anno.
E fu il più bello della vita di Lia.
Remo la veniva a prendere ogni sabato pomeriggio, con la sua Balilla, per andare subito dopo in piazzetta San Michele, dove c’era la sartoria. Nell’androne della casa infatti li aspettavano  Anna, Ines e i rispettivi morosi per una passeggiata nel centro.
Le tre donne davanti e i fidanzati dietro.

Più che una passeggiata sembrava una sfilata di moda.
Terminato l’orario del lavoro infatti le tre sartine si fermavano quasi ogni sera in sartoria, per confezionare il loro vestito nuovo da mostrare poi alla città, sedute ai tavolini della pasticceria Bida.
Quelle ore passate assieme alle sue compagne rimasero per sempre nel suo cuore.
Ridevano… si  raccontavano tutto… Si sentiva libera di confidare ogni cosa alle sue amiche, mentre le loro mani con grande sapienza confezionavano piccoli capolavori fatti con ago e filo.

Il giorno delle nozze fu fissato per il 25 aprile.
Mancava solo un mese e Lia non aveva però il danaro per il suo abito da sposa.
Aveva quindi deciso di sistemare un abitino bianco, trovato a poco prezzo a Bologna.
Non voleva chiedere soldi a suo papà. Sapeva che servivano per far studiare suo fratello Giovanni. E per Lia studiare aveva la priorità su tutto.
– Adesso poi mi dite perché mi avete fatto venire fin qui… l’unica serata libera che abbiamo… e
con tutto quello che devo fare ad una settimana dal matrimonio! – disse Lia alle amiche che l’avevano chiamata insistentemente in sartoria .
– Siediti e smettila di brontolare… Dai Anna prendilo! E tu… occhi chiusi … e non sbirciare! – disse Ines all’amica.
Anna tornò dal laboratorio con in mano una gruccia, a cui era appeso un qualcosa di lungo, tutto avvolto in un panno scuro.
– Dai cosa aspetti: aprilo!
Lia meravigliata non sapeva proprio cosa pensare. Si avvicinò alla confezione e tolse il panno.
– Non è possibile! – disse, alzandosi di scatto in piedi e portando le mani al viso, quasi a voler trattenere alcune lacrime che non ce la facevano proprio a rimanere dentro.
-Ma… è l’abito da sposa della Bianchini!
-Siii… non lo è mai venuto a ritirare… tu non  sai nulla… non si è sposata! Con calma ti racconteremo… L’abbiamo preso noi per darlo a te. È il nostro regalo… Te lo meriti tutto!! –
Lia non sapeva più cosa dire e cosa fare.
Guardava quell’abito, con cui era iniziata alcuni anni prima per lei una nuova vita.
Stringendo a sé in un abbraccio fortissimo le sue amiche in quel momento pensava che, nonostante fosse nata in una famiglia con poche possibilità e non sapesse scrivere neppure una frase senza fare trenta errori, tutto l ‘amore ricevuto aveva trasformato la sua vita in una bella favola.

E arrivò il giorno delle nozze. Il cuore di Margherita Rosalia, per tutti Lia, non era mai stato più felice di così.
Dopo un anno dal matrimonio nacque il primo figlio, un maschietto di oltre quattro chili.
E poi, l’anno successivo, Rita una dolcissima bambina dagli occhi celesti.

La vita di Lia adesso cambia rapidamente, ma il cuore di Lia è grande e contiene anche tutta la fatica per un nuovo lavoro, molto più duro, non più da sartina, dopo la chiusura della sartoria negli anni Sessanta e soprattutto per la malattia del marito, iniziata troppo presto.

Nasce un’altra bambina.
Il Tempo non è amico delle favole e si porta via il grande amore della sua vita.
Bisogna farsi coraggio per continuare la vita da sola, con tre figli e allora ogni mattina, comprimendo il petto, rimprovera il suo cuore che comincia a far le bizze: “Sopporta cuore” – diceva… e fermo all’obbedienza restava il cuore costante, tenacemente.
Improvvisamente, e ancora molto giovane, Rita si ammala gravemente tanto da morirne. Il cuore di Lia vorrebbe correre lontano, fino a raggiungerla.
I battiti, dicono preoccupati i medici, è da troppo tempo che non sono più regolari.

“Ma non è così” – dice scherzando Lia guardando i suoi cinque nipotini – “non sanno solamente decidere da quale parte stare!”. E’ il desiderio di rivedere i loro sorrisi, che la aiutano ogni volta che deve tornare in ospedale
Come la sera del 31 ottobre del 2010, ma questa volta lo sa che è l’ultima
Allora il cuore di Lia aspetta.
Aspetta il giorno dopo, la mattina di Tutti i Santi, per tornare a battere lassù vicino al suo Remo.

La Prima Parte puoi leggerla [Qui]

Le canaglie di Angelo Carotenuto
Una squadra di calcio, immagini e persone nella Roma anni Settanta

Il suo mestiere è osservare, capire con gli occhi e puntare l’obiettivo. Sugli uomini, sulla città, su un momento. Marcello Traseticcio è un fotografo che lavora in un quotidiano romano e racconta per immagini cosa sta accadendo nella Roma degli anni Settanta quando Giorgio Chinaglia è un calciatore della Lazio indomito e Tommaso Maestrelli un allenatore che lo ha preso come un altro dei suoi figli. Le canaglie, edizioni Sellerio, di Angelo Carotenuto è un libro sui legami forti, la dedizione al lavoro, l’amicizia e l’amore. Come quello fra Maestrelli e la moglie Lina, due persone che, quando si ritagliano un momento di serenità senza figli né squadra, sono l’esempio di cosa voglia dire insieme. E Marcello riesce a ritrarli in una foto, che regalerà loro molti anni dopo: “per una foto un uomo e una donna sono i soggetti più importanti, il loro è un amore a tempo, a rischio, breve, minacciato, fragile. I paesaggi al contrario sono eterni, io ho avuto sempre tanta fretta. Quella posa era come ‘na caraffa piena d’acqua che prima o poi si svuota. Siamo cecchini con un colpo solo e io lo avevo usato bene. Erano bellissimi”.
L’amore è anche quello tra Marcello e la moglie Maria a cui il mestiere di Marcello ha sottratto tempo e condivisione, una colpa che Marcello si porta addosso, ma che non cerca di espiare fintamente: “mi consegnavo a un esilio per non guardare in faccia il mio peccato, il castigo che da qualche cielo certo mi veniva”. Quando, però, la malattia gli sta strappando Maria, Marcello consegna alla moglie la sua più bella dichiarazione d’amore, quella di tutta una vita. Non sarà questo l’unico dolore per Marcello, che dovrà anche affrontare un mistero riguardo la figlia verso la quale non smetterà di dedicare il senso dei suoi giorni, “condannato a vivere”, nell’attesa e nel ricordo.
I giornalisti del quotidiano scrivono e Marcello completa con le foto le storie che sarebbero storie a metà se l’immagine non comunicasse lo stupore, l’ombra, le mani nei capelli di chi è di fronte a un morto ammazzato. Sono gli anni delle manifestazioni studentesche, degli scioperi per il rinnovo dei contratti, delle bombe, della criminalità, dei rapimenti e dell’omicidio Pasolini. Il fotografo Marcello Traseticcio c’è in questa Roma divisa dove i giocatori della Lazio sono uomini anche fragili, di cui il fotografo conosce gli azzardi e gli errori. E li osserva, fuori dall’obiettivo della Leica, con l’occhio di un uomo a cui è toccato in sorte di dedicarsi all’unica persona che per caso gli è toccato vivere, “la sola che di volta in volta ha posato il famoso dito sul pulsante per scattare le sue foto”.
Il giornalista Angelo Carotenuto presenterà Le canaglie al Microfestival delle storie mercoledì 24 marzo alle 18.30. Dialoga con l’autore Riccarda Dalbuoni.

Cosa sono i meme?

 

Spesso, quando parliamo di meme, ci riferiamo a contenuti divertenti (come immagini con scritte, gif, video, sticker e così via), che circolano in rete e riescono ad avere una notevole diffusione grazie alla loro capacità di colpire il nostro immaginario. Portare degli esempi di meme è semplice, ma non lo è altrettanto definirli.
Il termine è stato coniato dal celebre biologo Richard Dawkins nel libro The Selfish Gene (1976), secondo il quale i meme svolgono, sul piano culturale, la stessa funzione che hanno i geni nell’organismo. Così come i geni, i meme (abbreviativo di “mimene”, cioè “unità di imitazione”) si diffondono e mutano seguendo combinazioni casuali o rispondendo a sollecitazioni esterne.
In altre parole, come il gene si diffonde in altri organismi attraverso la riproduzione, così il meme si diffonde in altri cervelli tramite la comunicazione. Anch’esso può avere errori di copiatura e modificarsi, oppure trovare scarsa diffusione ed “estinguersi”.
Il termine “meme” dunque non è strettamente collegato alla rivoluzione tecnologica, ma può riferirsi alle cose più disparate: idee, comportamenti, mode, immagini, simboli, slogan, o qualsiasi altro tipo di prodotto culturale che possa essere trasmesso agli altri e dagli altri imitato.

Se mi lasci i tuoi soldi ti apro il conto,
se me ne lasci troppi te lo chiudo

 

Non ti meravigliare se la tua banca nei prossimi giorni ti manderà una lettera in cui ti comunica due novità: primo, se tieni più 100.000 euro sul conto corrente ti verrà applicata una commissione aggiuntiva; secondo, con un breve preavviso, la banca potrebbe decidere di chiuderti il conto, perchè le costa troppo.(NB Per adesso questa decisione riguarda i conti aziendali, non quelli intestati a persone fisiche. Per adesso.)

Prima di cominciare a inveire contro le banche ladre (ho pochi soldi e non me ne danno, gli lascio tanti soldi e non solo non me li pagano, ma me li fanno pagare), conta fino a dieci e respira. Dal punto di vista puramente industriale la scelta ha una sua razionalità: i tuoi soldi la banca li depositava presso la Banca Centrale Europea, che questo deposito lo remunerava – poco, ma lo remunerava.
Adesso invece siamo in una inedita situazione di tassi negativi: vuol dire che la BCE accetta il deposito della banca, ma invece di remunerarlo si fa pagare dalla banca – poco, ma si fa pagare. Si tratta di una misura di politica monetaria espansiva: in questo modo la BCE, in una fase di economia stagnante, stimola le banche a prestare i soldi ai clienti (da cui incasserebbero degli interessi: pochi, ma li incasserebbero) anzichè lasciarli dormire in BCE, dove da ora in avanti saranno le banche stesse a dover pagare per il deposito.

Come tutte le misure di politica monetaria, il riflesso sull’economia dei tassi negativi dipenderà da come si comporteranno le banche, ma anche da come andrà l’economia reale. E’ uno stimolo, non è un automatismo. La misura in sè potrebbe indurre le banche a riaprire i cordoni della borsa del credito: ma non si prestano soldi a qualcuno che, interessi o meno, non appare in grado di ridarteli. Non lo fareste neppure voi per un vostro amico, figuratevi se lo farebbe la banca, di cui non siete nemmeno amici. Di conseguenza, tu che stai imprecando perchè ti vogliono far pagare il deposito dei tuoi soldi, non passare dalla rabbia all’esaltazione pensando che il tuo sacrificio aiuterà tuo figlio ad avere il mutuo che gli è stato negato. Se nutri troppa fiducia in questo automatismo, potresti dover aspettare troppo: i soldi a tuo figlio fai prima a darglieli tu, così intanto abbassi il saldo del tuo conto e non rischi di pagare la commissione di elevata giacenza.

A questo punto potresti sollevare un’obiezione: ma perchè mi fanno pagare se lascio tanti soldi e non mi fanno pagare se ne lascio meno? Se la gestione di un conto per la banca è un costo, lo è anche se il conto ha una giacenza bassa. L’obiezione è sensata, anche se la banca non può arrivare al parossismo di chiudere tutti i suoi conti correnti perchè le costano troppo (non è scema). Infatti, la banca si riserva la facoltà di chiudere il tuo conto (quello con troppi soldi dentro) solo se non gli affianchi almeno un investimento. Se hai anche dei soldi investiti (in fondi, polizze, gestioni patrimoniali) il conto non te lo chiude (ancora una volta, non è scema), anche se la commissione di giacenza potrebbe fartela pagare lo stesso, allo scopo di convincerti a dirottare parte della tua liquidità in uno strumento finanziario, che serve a dare un rendimento al tuo denaro.

Cosa non quadra in questo discorso? Nulla, se non fossimo in piena epidemia mondiale, e se il mercato dei prodotti finanziari fosse efficiente. In effetti il conto corrente non è uno strumento di investimento (non lo è mai stato), ma uno strumento di servizio. C’è però un problema contingente, che speriamo resti contingente e non diventi strutturale: l’enorme incertezza economica, che mantiene i detentori di denaro costantemente all’erta, e non propensi ad impegnare i soldi  – e questa è senza dubbio una concausa dell’aumento dei depositi liquidi.  Inoltre c’è il problema dell’efficienza del mercato finanziario: il quale, almeno in Italia, è caratterizzato da una eccessiva complicazione dei prodotti al dettaglio, da una scarsa trasparenza e da una “consulenza” spinta, dai piani altri, verso la pura vendita.

L’eccessiva complicazione è sempre sospetta. Ad essa si associa regolarmente una scarsa trasparenza, il che rende il sospetto una certezza: se nel contratto mi viene omesso qualcosa, o mi viene scritto in caratteri minuscoli con una nota a piè di pagina, o mi viene scritto in modo incomprensibile per una persona di cultura media ma inesperta di finanza (ma chiedete a molti “esperti” se vi sanno decodificare le clausole di un prodotto finanziario), vuol dire che la complicazione non è nel mio interesse.

La consulenza inquinata dalle pressioni non è una responsabilità dei bancari – che peraltro sono dei “consulenti” in termini atecnici: possono più propriamente essere definiti degli esperti dei loro prodotti, quelli che la banca mette loro a disposizione, i prodotti della casa o delle case con le quali esistono degli accordi commerciali. Sotto questo profilo essere cliente della banca A o della banca B può fare differenza, se in genere i prodotti della banca A sono più efficienti(cioè hanno un miglior rapporto tra rischio e rendimento) di quelli della banca B. Ma tutte le banche hanno prodotti dignitosi e altri meno buoni. Altri ancora, roba da cui stare alla larga. Un consulente preparato, che dia dei suggerimenti sull’intera gamma di prodotti disponibili e che sia realmente indipendente dalle pressioni (e dai regali) delle case di produzione sarebbe l’ideale. Peccato che la sua consulenza giustamente debba essere pagata, e nel nostro paese non è ancora maturata la convinzione secondo la quale è meglio pagare due volte ma in modo trasparente (una per la consulenza e una per le commissioni del prodotto, che ci sono sempre) in cambio di uno strumento efficiente, piuttosto che pagare senza accorgersene, pensando che sia gratis e per uno strumento che forse, per efficienza, non è nella parte alta della gamma.

In tutto questo non vi è nulla di scandaloso: se siete in giro per cambiare macchina e andate alla Fiat, il “consulente” non vi proporrà mai una Renault. Basta che il rapporto sia chiaro. Quella che è scandalosa è la quantità di disastri finanziari che hanno coinvolto i risparmiatori in questi decenni, il che fa riflettere sulla qualità del nostro management (quello al top, perché gli scandali finanziari non sono mai colpa degli sportellisti, che però sono quelli che si beccano gli insulti) e sulla cultura di base delle persone, che una certa parte del sistema ha interesse a mantenere ignorante, e quindi manipolabile. Questa situazione rende ancora più urgente un cambio di paradigma, nella direzione di un’alleanza di interessi tra chi rappresenta i bancari onesti, coscienziosi e desiderosi di lavorare per la clientela (la stragrande maggioranza), e chi rappresenta i risparmiatori “normali”, senza velleità speculative.
Solo una saldatura tra questi interessi può contrastare la deriva delle vessazioni commerciali, che spingono le reti di vendita (persino in tempi in cui la legge vieta gli spostamenti non necessari) a convocare clienti per piazzare loro prodotti ad elevato commissionale, con buona pace della sbandierata ‘centralità del cliente’ e delle ‘risorse umane’.

PER CERTI VERSI
Il cimitero degli orologi

Ogni domenica Ferraraitalia ospita ‘Per certi versi’, angolo di poesia che presenta le liriche del professor Roberto Dall’Olio.
Per leggere tutte le altre poesie dell’autore, clicca
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IL CIMITERO DEGLI OROLOGI

Radici eteree
Alberi di mare
Soffi di metafisica
Al cimitero
Degli orologi
Il tempo è morto
Dove il nostro conato
Di guardarci
Nella sola bellezza
È sbocciato

Nuovo record del debito pubblico:
per fortuna!

Il debito pubblico italiano a gennaio di quest’anno è arrivato a 2.603,1 miliardi di euro, un nuovo e assoluto record, cerchiamo allora di capire di cosa stiamo realmente parlando dal punto di vista contabile e verso chi siamo indebitati, tralasciando volutamente altri aspetti nondimeno importanti, come, ad esempio, cos’è, perché esiste e se uno Stato ne può fare a meno.
Banca d’Italia, nella pubblicazione “Finanza pubblica: fabbisogno e debito” del 15 marzo 2021 mostra che al 31 dicembre 2020 il debito delle amministrazioni pubbliche ammonta complessivamente a 2.569 miliardi e 400 milioni di euro ed è ripartito per detentori come mostro nell’infografica di seguito, dove ho evidenziato le percentuali spettanti ai vari creditori e nella legenda invece le cifre corrispondenti.

La prima considerazione da fare è che il 70% del debito rimane ripartito tra banca d’Italia, banche, istituzioni finanziarie e famiglie italiane mentre solo il restante 30% è attribuibile a non residenti. Di seguito la ripartizione

La successiva considerazione è che il 22% del totale, per ben 556 miliardi, è detenuto da Banca d’Italia ed è importante chiarire cosa questo voglia dire. Per farlo utilizziamo un ulteriore ripartizione fatta dall’Osservatorio dei Conti Pubblici (Ocpi) di Carlo Cottarelli, con l’accortezza di informare che questi dati sono stati diffusi in una pubblicazione del 18 dicembre 2020, quindi mancava qualche giorno alla chiusura dell’anno.

Come si vede, alla percentuale detenuta dalla banca d’Italia l’Ocpi aggiunge la quota detenuta dalla Bce e dalle Istituzioni europee arrivando al 36,6% e limitando il debito “reale”, cioè detenuto dal mercato (in generale e sia residenti che non residenti), al 121,4%. Ben inferiore al picco del 2014 e previsto in calo nel 2021.
La domanda da sciogliere è: perché il debito pubblico in rapporto al Pil è in totale al 158%, cioè un valore di 2.600 miliardi, mentre qui ne definiamo “reale” solo il 121,4%, cioè un valore di circa 2.000 miliardi?
Questo succede perché quando il debito è detenuto da una Banca Centrale è come se la moglie dovesse soldi al marito, quindi il capitale resta in famiglia e gli interessi prodotti dal prestito vengono periodicamente incassati dal marito, cioè dal Governo. Quando poi la situazione generale ritornerà sotto controllo e non richiederà nuovo debito, quello accumulato non avrà nessuna necessità di essere rimesso sul mercato. Potrà essere cancellato oppure tenuto per i successivi 100 anni allo 0% di interesse.
Per ulteriore chiarezza, è di queste settimane la notizia che il Governo italiano di Mario Draghi ha contrattato una consulenza con la società internazionale McKinsey per la gestione del Recovery Fund. Ebbene circa 5 anni fa ho pubblicato un articolo su queste pagine scritto con Claudio Bertoni che trovate qui (https://www.ferraraitalia.it/cancellare-il-debito-pubblico-per-mckinsey-non-e-un-problema-ma-ai-mercati-finanziari-non-conviene-41104.html) e che trovava spunto proprio da un report edito da questa società di consulenza. In sintesi si faceva la differenza tra debito lordo e debito netto, cioè per avere reale contezza del debito in capo ad uno Stato bisognerebbe sottrarre al debito totale quello detenuto dalle banche centrali. Esattamente il ragionamento fatto dall’Ocpi di Carlo Cottarelli.
A questo ragionamento vorrei aggiungere che il debito detenuto poi dai residenti, in particolare alle famiglie, garantisce un piccolo rendimento ai propri risparmi che tendenzialmente potrebbe poi essere speso all’interno del circuito economico che lo ha prodotto, generando guadagno per la comunità.
Ma vorrei introdurre anche un ulteriore spunto di riflessione. Dai dati risultanti dalla pubblicazione “Finanza pubblica: fabbisogno e debito” della Banca d’Italia si evince che 228 miliardi e 162 milioni vengono conteggiati sotto la voce monete e depositi e si riferiscono nella quasi totalità ai soldi che girano, le banconote da 10, 20 e 50 euro che utilizziamo per le piccole spese quotidiane. Un “artificio” contabile che potrebbe anche non doversi trovare da quel lato della contabilità (passività) e che porterebbe a questo punto il debito pubblico quasi al 100% nel suo rapporto con il Pil.
In conclusione, il debito c’è e ha la sua importanza, ma non necessariamente è da considerare un record negativo o un impedimento sulla strada del benessere collettivo. Ad esempio, e per chiudere, il debito creato nel 2020 è servito per comprare mascherine e respiratori, vaccini, dare ristori a chi è stato costretto a chiudere e anche bonus alle famiglie per le baby sitter e allora: sicuri di volerlo ridurre?

LA CURA É NELLA BIBLIOTECA
I 25 anni delle Biblioteche di Roma

 

Roma – Si parla spesso di biblioterapia, la tecnica praticata in psicoterapia attraverso la lettura scelta e guidata di libri, con obiettivi curativi e formativi, ma mai di bibliotecoterapia, o biblioteca terapeutica. Neologismi forse impropri che hanno, però, il pregio di dare nome all’insostituibile quanto sottovalutata funzione terapeutica della biblioteca, sul piano personale e sociale.

Solo in vista di chiusure, limitazioni o diminuzioni di budget, le biblioteche fanno notizia. forse perché si sentono ancora forti i moniti lungimiranti del secondo dopoguerra sul valore delle biblioteche, che stabiliscono l’assioma ‘libro = cibo per la mente’, secondo la celebre metafora ancora potente dell’Adriano di Marguerite Yourcenar:  “Fondare biblioteche è come costruire ancora granai pubblici, ammassare riserve contro un inverno dello spirito che, da molti indizi, mio malgrado, vedo venire” (Memorie di Adriano), o come il progetto visionario ma imprescindibile di Jella Lepman, di realizzare la più grande biblioteca del mondo per ragazzi. Tornata nel 1945 come ‘esperta dei bisogni culturali ed educativi delle donne e dei bambini’ in una Germania devastata, dalla quale era fuggita perché ebrea, la Lepman nel 1949 inaugura la Internationalen Jugendbibliothek di Monaco, che nasce proprio dalla consapevolezza dell’importanza di distribuire a bambini e ragazzi non solo la cioccolata, ma anche i libri, per ricostruire in loro la fiducia nell’umanità, nella civiltà e la voglia di vivere.

Roma, Davanti alla Biblioteca Cornelia, particolare

La biblioteca come terapia intensiva dello spirito insomma, che aiuterebbe in questo momento a risollevarci dai colpi della malattia, dei lutti, delle ristrettezze economiche e del distanziamento sociale. Ma il ruolo terapeutico delle biblioteche In Italia, attualmente limitato a causa delle misure restrittive legate alla pandemia, da troppo tempo esige un rilancio.

Nella legislazione dei paesi del nord Europa da diversi anni ormai alle biblioteche è affidato un ruolo sociale e culturale fondamentale: sono considerate simbolo di cittadinanza attiva, democrazia e libertà di espressione e talvolta i cittadini sono coinvolti in alcuni aspetti vitali della loro organizzazione. Nel caso ad esempio della Biblioteca Centrale di Helsinki “Oodi sono previste delle consultazioni pubbliche per stabilire il nome della struttura, l’organizzazione dei piani e le attività che al suo interno i cittadini vorrebbero svolgere.
Il paragone con le politiche dei paesi del nord Europa, oltre a provocare l’inevitabile senso di frustrazione, ci riporta al nucleo della biblioteca pubblica: ‘pubblica’ non per appartenenza  istituzionale, quanto piuttosto per le caratteristiche del suo servizio, rivolto al pubblico e aperto a tutti.
Animato da questo spirito, 25 anni fa un gruppo di bibliotecari, con il sostegno di brillanti studiosi e l’approvazione degli amministratori politici, danno vita al Sistema Biblioteche Centri Culturali del Comune di Roma, un progetto visionario dove ‘sistema’ prefigura l’importanza di fare rete nell’accezione di rete bibliotecaria diffusa, mentre ‘centri culturali’ sposta il significato di biblioteca da semplice luogo di raccolta e conservazione dei libri a luogo di animazione culturale, e di crescita formativa dal forte valore relazionale.

Per far emergere le potenzialità terapeutiche delle biblioteche e cogliere quello che di significativo accade intorno a questo fulcro di esperienze, possiamo indicare una delle 40 biblioteche del Sistema Bibliotecario di Roma, la Biblioteca Cornelia, come osservatorio privilegiato dei fermenti creativi e delle esigenze di condivisione che la animano. L’idea, già sperimentata ma da sviluppare, è di raccogliere una miscela di contributi variegati sotto forma di racconti, approfondimenti, considerazioni e focus, collegati dai noti “sei gradi di separazione” alla biblioteca Cornelia, quella sorta di organismo vivente, con un cuore pulsante nel quartiere periferico di Montespaccato e con sottili terminazioni che si sviluppano verso il centro e oltre, fatto di relazioni, contatti e storie personali.

In tempi normali che sembrano lontani, la biblioteca è un luogo vivace e molto frequentato, che ospita nei singoli spazi dedicati, attività rivolte a varie fasce di utenti, tanto che non è raro, in alcuni pomeriggi, assistere all’affluenza di diversi gruppi di appassionati e generazioni: il Bibliotè, gruppo di lettura che unisce la passione per i libri a quella per la condivisione gastronomica di tè e dolci fatti in casa è l’ideale prosecuzione del gruppo dei piccoli lettori disposti in cerchio per le letture Nati per Leggere, dai 0 ai 3 anni, anche loro molto devoti al rito della merenda. O, ancora, non è inusuale assistere, proprio all’ingresso della Biblioteca, al via vai di due ben riconoscibili gruppi di utenti, che presto si separano in direzioni opposte: i piccoli lettori con i rispettivi genitori accorrono per seguire letture animate e laboratori creativi, mentre appassionati cinefili o semplici curiosi sono richiamati da presentazioni di libri o rassegne cinematografiche a tema.

Chi frequenta la biblioteca per partecipare alle attività culturali, nonostante differenza di età, provenienza sociale e formazione culturale, è spinto dal desiderio di condividere con altre persone, spesso sconosciute, passioni e opinioni su un libro appena letto o un film visto insieme, azionando, in questo modo, quel processo vitale e terapeutico dell’apertura verso l’altro e dell’abbattimento del muro dell’incomunicabilità.
In queste occasioni di incontro ognuno offre all’altro la propria chiave di lettura e la propria interpretazione, ad esempio, sul ruolo del ‘cattivo’ in un film o di un personaggio secondario in un libro, proponendo prospettive diverse, che portano a riconsiderare aspetti sottovalutati, a ribaltare le convinzioni di partenza o confermarle, provocando una forma di sottile e divertente spaesamento. Questo confronto tra idee diverse è la base per la costruzione di una mentalità aperta e di una società tollerante, oltre a  sviluppare lo spirito critico.

L’ingresso della Biblioteca Cornelia, Roma

Il cuore della biblioteca, anche architettonicamente, si trova vicino all’ingresso e ha la forma di un grande ring dove si disputano matches di ricerche bibliografiche e transazioni informative: è il front office. Una sorta di trincea dalla quale impartire indicazioni topografiche, sia in senso stretto, sull’ubicazione dei servizi igienici e della sala ragazzi, sia in senso biblioteconomico, sulla collocazione dei libri della sezione ‘Gialli’, o ‘Roma’.
La Biblioteca Cornelia con le sue specificità fa parte dell’ampio e articolato Sistema delle Biblioteche di Roma, che a partire da quel 26 febbraio 1996 ha visto, nel corso degli anni, il disseminarsi e il radicamento nel territorio cittadino di varie sedi bibliotecarie diventando ben presto, tra gli utenti che le hanno iniziate a frequentare, un riferimento sicuro, un luogo aperto a tutti al servizio della comunità.

Il venticinquennale delle Biblioteche di Roma è un bel traguardo, ma rappresenta anche un’opportunità da non perdere per riflettere sul ruolo svolto finora dalle biblioteche e per cogliere le sfide sempre nuove poste dalla società contemporanea, su tutte quella del rilancio, con una progettualità ampia e condivisa, delle politiche culturali ed educative sul territorio, per crescere bene insieme, come cittadini consapevoli, nei prossimi 25 anni.

Alessia Pompei, collaboratrice di Ferraraitalia, è direttrice della Biblioteca Cornelia di Roma.

CONTRO VERSO
Il bambino postale  

 

Ricordo bene l’incontro con questo ragazzo, che ormai sarà un giovanotto. Tossicodipendente la madre, in carcere per spaccio il padre, viveva con i nonni materni, terrorizzati che anche lui diventasse “come quelli là”. Così cercavano di inamidarlo, cosa assai difficile. Gli adolescenti, si sa, sono un po’ spiegazzati. E alla prima trasgressione la nonna ha avuto una crisi psichiatrica e lui è stato inserito in una comunità.
In udienza mi ha detto: “Prima con la mamma, poi coi nonni, ora in comunità, e vi domandate se mandarmi in affido. Non vi sembra un po’ troppo?”.

Il bambino postale  

Sono stato un bambino
senza un solo difetto.
Nella casa dei nonni
ero proprio un ometto.

Son finiti quei giorni,
sembro un pacco postale.
Troppe andate e ritorni
dentro un gran carnevale

perché vivo da anni
nella comunità.
Le promesse dei grandi
sono vere a metà.

S’impasticca la nonna
nonno è fin troppo buono
resta in carcere il babbo
e mi chiede perdono.

Mamma poi è distante
in chilometri e droga.
Me ne ha dette già tante
e con sempre più foga.

Lei promette, promette
mi vorrebbe con sé
con la coca non smette
e dimentica che

qui mi gioco la vita.
Anche se “per favore,
con pazienza infinita
io le chiedo più amore.

Un ragazzo che ha una famiglia scombinata, compromessa con la droga, non è destinato alla tossicodipendenza, anche se – stando ai dati degli operatori – corre dei rischi in più. È un rischio anche ossessionarlo, però. E, insomma, il giusto mezzo è difficile da trovare, come pure il contesto migliore per la sua crescita.

CONTRO VERSO, la rubrica di Elena Buccoliero con le filastrocche all’incontrario, le rime bambine destinate agli adulti, torna su Ferraraitalia  il venerdì. Per leggere i numeri precedenti clicca [Qui]

Al cantón fraréś
Mendes Bertoni: “Al magh Ciuźìn e l’Urlón dal Barch”

In un manoscritto anonimo redatto fra il XVIII e il XIX secolo (Archivio Eredi Magri, Torino) si leggono le vicende settecentesche, fra leggenda e storia, di Bartolomeo Chiozzi e del suo patto col diavolo. Anche Riccardo Bacchelli nel volume primo de Il Mulino del Po descrive le vicende del matematico,  cabalista, astrologo, progettista di opere idrauliche, ovvero del mago Chiozzino e del suo servo Fedele Magrino alias Urlone del Barco, crudele e spaventevole.
Mendes Bertoni riporta in endecasillabi vernacolari alcuni incredibili episodi dell’operato del mago e del diabolico servitore: travestimént, sparizión, maravié.
(Ciarìn) 

Al magh Ciuźìn e l’Urlón dal Barch (Fola fraréśa)

In témp luntàη luntàη, viveva a Frara
CHIOZZI BARTOLOMEO, uη bel iηźégn.
Dutà d’una cultura più che rara,
da j’òm ad létra l’era fat a ségη.
Basòt, rubùst, simpaticón e bel,
l’ha spigazà, mi ‘n sò, quanti stanèl.

Su la VIÉ GRANDA al stava ad cà, alóra,
iη quéla ch’fa cantóη coη VIA CHIOZZINO;
e  iη sta mudèsta e sémpliza dimóra,
al tgnéva sémpar… baccanàl festino.
Là déntr’al baracàva in vita sana,
st’òmaη pin d’vizi, ma ‘d póca féd cristiana.

Uη gióraη, col so saηgv, su carta scrita,
col diàvul l’ha firmà, d’acòrd, stàl pat:
lu sól, da sgnór, l’avrìa gudù la vita
e intiér i desideri sudisfàt;
iηvéz al diàvul, aηch se a maliηcuór,
al sarìa stà FEDÉL, so servitór.

Da cal mumént Ciuźìn uη magh al dvénta
e coη l’aiùt dal diàvul fra i so pié
che, stand ai pat, in tut al’acunténta,
al fa di cvei da móvar maravié.
I so travestimént e sparizión,
j’agh dà, béη prest, na graη riputaziòn.

Un dì Ciuźìn, con àltar so cumpàgn,
iη farmacia, al tgnéva discusión
e al sustgnéva che al viη “sampàgη”,
fra tut i vin, al jéra quél più bón.
E, méntr’il so raśón al difandéva,
a séći arvèrsi l’aqua źó la gnéva.

N’avénd nisùη purtà coη lór l’umbrèla,
i prevedéva uη bagη fóra ‘d staśóη;
ma ‘l magh Ciuźìn un’ucaśión ‘csi bèla
l’aη vol farsla scapàr, da furbacióη.
Vdénd i cumpagη ch’i stava lì a tudnàr
tuti al si porta, a cà da lu, a diśnàr.

Na vòlta iη cà, Ciuźìn al dmanda a lór:
“Vliv al magnàr dla córt dal re dla Spagna
o dal re ‘d Fraηza?”, j’agh rispónd in còr:
“Ma quél dla Fraηza: quél l’è na cucagna!”
Ed eco cumparìr dal dit al fat,
la tavula, cuciàr, bicér e piatt.

Tut jéra d’òr, marcà col stèma ‘d Fraηza;
e tant pietàηz sfurnàdi a la fraηzéśa
e vin e dólz e fruta in abundàηza
servìda dentr’a zésti e seηza spesa.
Finì al diśnàr, dòp uη minùt soltànt,
sót tera è scumparì propia tut quant…

                               (continua la prossima settimana)

La seconda parte del testo in dialetto sarà su Ferraraitalia venerdì 26 marzo.

 

Il mago Chiozzino e l’Urlone del Barco

In tempi lontani, viveva a Ferrara / Chiozzi Bartolomeo, un bell’ingegno. / Dotato d’una cultura più che rara, / dagli uomini di lettere era menzionato. / Basso, robusto, simpaticone e bello. / Ha sgualcito, non so, quante sottane. /
Sulla via Grande (oggi Ripagrande) stava di casa, allora, / in quella che fa angolo con via Chiozzino (oggi vicolo del Turco); / e in questa modesta e semplice dimora, / teneva sempre chiassose feste. / Là dentro gozzovigliava in allegria, / quest’uomo pieno di vizi, ma di poca fede cristiana. /
Un giorno, col suo sangue, su carta scritta, / col diavolo ha firmato, d’accordo, questo patto: / lui solo, da signore, avrebbe goduto la vita / soddisfacendo interamente i desideri; / mentre il diavolo, anche se a malincuore, / sarebbe stato Fedele, il suo servitore. /
Da quel momento Chiozzino diventa un mago / e con l’aiuto del diavolo fra i suoi piedi / che, stando ai patti, l’accontenta in tutto, / fa cose da meravigliare. / I suoi travestimenti e sparizioni, / gli danno, ben presto, una grande reputazione. /
Un giorno Chiozzino, con altri suoi compagni, / in farmacia, teneva discussione / e sosteneva che il vino “Champagne”, / fra tutti i vini, era quello migliore. / E, mentre difendeva le sue ragioni, / a secchiate veniva giù l’acqua. /

Tratto da: Mendes Bertoni, Antologia della Divina commedia (Inferno); In zzà e in là, composizioni in vernacolo ferrarese, Ferrara, 1986.

Non avendo alcuno portato con sé l’ombrello, / prevedevano un bagno fuori stagione; / ma il mago Chiozzino un’occasione così bella / non vuol farsela scappare, da furbacchione. / Vedendo i compagni che stavano a tentennare / tutti li porta, a casa propria, a desinare. /
Appena in casa, Chiozzino chiede loro: / “Volete il pranzo della corte del re di Spagna / o del re di Francia?”, gli rispondono in coro: / “Ma della Francia: quello è una cuccagna!” / Ed ecco comparire dal detto al fatto, / la tavola, cucchiai, bicchieri e piatti. /
Tutto era d’oro, marcato con lo stemma di Francia; / e tante pietanze sfornate alla francese / e vini e dolci e frutta in abbondanza / servita dentro a ceste e senza spese. / Finito il desinare, dopo un solo minuto, / sotto terra è scomparso tutto quanto…  (continua)

Mendes Bertoni (Ferrara 1905 – 1987)

Autore di poesie e commedie dialettali, molto rappresentate, fra le quali: La sbragunzona,Tut a l’arversa, Operazion: al fer dal lov, La Mariulina, Al paes dla cucagna, Un ass tarulì (con Enrico Menarini), Un anzul a l’inferan, I du vecc bacuch. Si è cimentato, con divertente risultato, nella traduzione in ferrarese di alcuni canti della Divina Commedia. Socio fondatore del Tréb dal Tridèl, cenacolo di cultura dialettale ferrarese.

Al cantóη fraréś: testi di ieri e di oggi in dialetto ferrarese, la rubrica curata da Ciarin per Ferraraitalia, esce ogni 15 giorni al venerdì mattina. Per leggere le puntate precedenti clicca [Qui] 

Cover Ferrara: vista del Sottomura dal Torrione del Barco-  Foto Marco Chiarini 2021 

 

Aste marginali e aste competitive
Sofismi da esperti o riflessione seria?

Del Next Generation Eu abbiamo già scritto e quindi, sorvolando la questione politica, ci soffermiamo questa volta unicamente su quella che viene percepita dalle persone come la parte più importante, cioè i miliardi che vengono promessi a vario titolo all’Italia: 209 miliardi di euro da non lasciarsi scappare.
Durante il 2020 sono successe tante cose che hanno determinato l’esigenza di avere fondi a disposizione da distribuire alle famiglie e alle attività che venivano tenute chiuse per la crisi pandemica. Situazione eccezionale e non prevedibile che ha richiesto soluzioni altrettanto non programmate come l’intervento della Commissione Europea e dei miliardi (prestiti e aiuti) destinati alla nostra martoriata economia.
Mentre la pandemia avanzava, il Tesoro procedeva alle classiche aste di Titoli di Stato facendo registrare richieste record da parte degli investitori che puntualmente eccedevano l’offerta. Addirittura il 3 giugno 2020 venivano offerti 14 miliardi di Btp a 10 anni mentre l’importo richiesto era, esattamente, di 107miliardi e 910 milioni.
Il 2020 si è avviato poi a conclusione con un surplus di domanda non evasa di circa 103 miliardi di euro.
Nel 2021 segnalo invece solo l’asta del 16 febbraio in cui l’importo assegnato è stato di 10 miliardi a fronte di una domanda di 68.459,820, cioè un surplus di oltre 58 miliardi.
Dall’inizio pandemia, cioè da gennaio 2020 ad oggi, il mercato ci ha richiesto Titoli a 10 anni per oltre 160 miliardi eccedenti l’offerta, cifra non lontana da quella che ci toccherà gestire nel futuro prossimo, offerta dalla Commissione europea, e per cui il Quirinale ha ritenuto opportuno sostituire il premier Giuseppe Conte con il più esperto Mario Draghi.
Ci sarebbe comunque da segnalare che non esistono solo i Btp a 10 anni ma che ad esempio nel 2020 sono stati offerti al mercato complessivamente più di 500 miliardi di Titoli tra cui almeno 180 miliardi in Bot, questi ultimi tutti a tassi sostanzialmente negativi. E su questo è necessario aprire un altro fronte non secondario, il tasso di interesse.
Come si sa, quello offerto dalla Commissione europea sarà molto basso o nullo, ci saranno condizionalità politiche certo, ma a quelle siamo talmente abituati che non ci facciamo più caso, complice l’idea dell’incapacità italica nella gestione di fondi, confini e mari che… “ben venga” qualche controllo dall’estero. E quindi, di quali interessi ci siamo sobbarcati nelle aste di cui abbiamo parlato in precedenza?
L’asta di giugno 2020 si è chiusa con un rendimento lordo di 1,707% mentre quella di febbraio 2021 con un tasso dello 0,604%. Nettamente sfavorevole rispetto a quello dei futuri bond della Commissione europea che potrà contare sulla tripla A della Germania. Ma come mai a fronte di una richiesta eccedente la domanda di ben 93 miliardi si concede un tasso del 1,7%? Sembra proprio che la legge della domanda e dell’offerta si sia distratta e che la stessa cosa, anche se in forma ridotta, abbia fatto nell’asta di febbraio 2021.
A questo punto introduciamo un’informazione importante che potrebbe far luce sulla questione. Esistono infatti due tipologie di aste utilizzate dal Tesoro, l’asta competitiva e quella marginale:

L’asta competitiva viene utilizzata normalmente per il collocamento dei Bot, le domande vengano soddisfatte al tasso proposto da ciascun operatore secondo rendimenti crescenti. Le richieste allocate sono soddisfatte al tasso proposto da ciascun operatore e quindi ne risultano più tassi di allocazione, quindi la Banca d’Italia calcola successivamente un rendimento medio ponderato e il suo corrispondente prezzo per permettere una ordinata e successiva rivendita di questi titoli alla clientela retail (cioè a quelli che vanno in banca a prenotare l’acquisto di un Bot).
L’asta marginale viene utilizzata per i titoli a medio-lungo termine (Ctz, Btp, Cct/Ccteu e Btp€i) e quindi anche per le aste di cui ho raccontato le vicende. E’ previsto in questo caso che le richieste allocate siano aggiudicate tutte allo stesso prezzo, ovvero il prezzo marginale che è il prezzo meno elevato tra quelli offerti dagli aggiudicatari e vale per tutti gli operatori assegnatari.

Facciamo un esempio pratico per vedere la differenza tra i due tipi di aste, specificando che quando si parla di “operatore” si intende una banca accreditata presso il Mef, cioè di uno specialista in Titoli di Stato, in pratica una piccola cerchia di affidabili banchieri. Dunque, se un operatore vuole comprare un Bot ed offre 100,5 egli pagherà 100,5 a condizione che sia risultato vincitore, cioè aggiudicatario. Se un operatore vuole invece comprare un BTP ed offre 100,8, ma l’offerta più bassa (quella del compratore marginale) è pari a 100,3 allora l’operatore e tutti gli altri aggiudicatari pagheranno 100,3. Tradotto in percentuale di interesse, se all’asta del giugno 2020 oppure del febbraio 2021 l’operatore si è aggiudicato l’interesse del 1,7% oppure dello 0,60%, non vuol dire che questo sia stato il prezzo migliore possibile che il Tesoro (e quindi le nostre tasche) avrebbero potuto ottenere. Magari qualcuno aveva offerto di comprarli ad un interesse del 1% ma si è ritrovato a guadagnare un interesse del 1,7%.
E’ chiaro che qualcuno potrebbe obiettare che questo metodo fa sì che le aste non vadano deserte, che se si offrisse troppo poco allora non avremmo tanti investitori disposti a comprare i nostri Titoli. E’ pur vero che fatico a crederci, che non ricordo aste andate deserte, che quando succede qualcosa del genere esistono dei rimedi. Ad esempio in Germania, dove si offrono tassi costantemente negativi, qualche volta capita e allora lì interviene la Bundesbank, congela i titoli non richiesti dal mercato e li propone all’asta successiva, sempre a tassi negativi. Ma si sa, la Germania è la Germania e noi siamo solo l’Italia.

Di seguito i documenti relativi ai risultati delle aste in argomento e i programmi trimestrali in cui si specifica (leggere le ultime due righe) che verrà utilizzata l’asta marginale

Documenti e fonti:

Risultato asta del 03 giugno 2020

Programma trimestrale di emissione – II trimestre 2020

Risultato asta del 16 febbraio 2021

Programma trimestrale di emissione – I trimestre 2021

Parole a capo
Natasa Butinar: “A capo scoperto” e altre poesie

“Cittadino tenete conto delle mie spese di viaggio: la poesia, tutta la poesia è un viaggio nell’ignoto”
(Vladimir Vladimirovic Majakovskij)

In errore

Non ero in errore
prima di nascere.

Non vestitemi
con il vostro peccato.

Avrò tempo per scegliere
l’abito su misura da me stessa creato.

 

In guerra

Sono a fare guerra alla luce
perché ci ha resi ciechi,
bruciando in orbite
il bulbo oculare per far posto
ai nidi calabroni.
La guerra a ogni bene
perché ci ha resi nudi
e nessun cappotto si trovava
nelle mani protese d’altri,
semmai il dito puntato e le risa.

Devo fare la guerra all’amore
perché ci priva d’ogni ragione,
ubriachi d’affetto non ci accorgiamo
che il cono d’ombra è sempre più lungo
e che il suolo che calpestiamo
suda il sangue che abbiamo perso.

 

A capo scoperto

Ho smesso di coprirmi il capo
quando entro nel tuo santuario
perché non credo che tu sei il mio superiore.

Sì, ti hanno descritto come tale i miei avi
ma di più non sei finché
le mie sorelle indossano il velo
per nascondere i lividi,
fino a che un bimbo esanime
attira a se gli sciami di mosche
e la Natura deturpata dai tuoi adepti
cerca di continuo di rimarginare le ferite.

Ho smesso di coprirmi il capo
quando entro nel tuo santuario
cosi i miei pensieri “impuri”
possono salire fino alle tue orecchie
e magari decidi di farti vivo.

Sto in silenzio, non prego ma scrivo
di miei sentieri stretti e accidentati
scrivo con una penna di gabbiano
intinta nel petrolio versato in mare
da chissà quale nave.

Scrivo in penombra
perché da lì si vede chiaramente il Mondo
e vedo te, ”superiore”,
inchiodato su una croce
che i tarli tardano ad attaccare,
povero Cristo,
dagli uomini
cosa ti sei lasciato fare?

 

Natasa Butinar, Fiume (Croazia), 1971. Negli anni ’90 si trasferisce in Italia dove tuttora vive. Nel 2016 pubblica la raccolta di poesie bilingue Elefante Bianco. Nel 2019 esce Il guardiano silente. Le sue poesie fanno parte di numerose antologie tra le quali la prestigiosa Antologia di poeti contemporanei dei Balcani edita da LietoColle, 2019. Traduttrice e collaboratore per quanto riguarda il Festival internazionale della Poesia  Pero Živodraga Živkovića (Bosnia) organizzato da poeta  Emir Sokolović e  sponsorizzato dalla Ambasciata Italiana a Sarajevo.

La rubrica di poesia Parole a capo curata da Gian Paolo Benini e Pier Luigi Guerrini esce regolarmente ogni giovedì mattina su Ferraraitalia. Per leggere i numeri precedenti clicca [Qui]

LA SARTINA
Una favola del dopoguerra (prima parte)

 

Aveva appena parlato con suo padre.
A scuola non ci voleva più andare.
Si vergognava.
Rispetto alle altre bambine lei era troppo grande.
Più alta, già con le forme di una giovane donna, si distingueva immediatamente in mezzo alle altre. Aveva provato a mettersi nell’ultimo banco, ma poi …niente… insomma si sentiva fuori posto.
La guerra era terminata da un anno e solo da pochi mesi erano ritornati in città da Argenta dove avevano trovato ospitalità da un collega di suo padre, guardia carceraria nella casa circondariale di via Piangipane a Ferrara.
Negli anni della guerra non era riuscita ad andare a scuola e quindi l’aveva ripresa dalla quinta elementare, dove l’aveva interrotta.
A quindici anni si trovava così iscritta alla classe quinta B della scuola Alda Costa accanto alle figlie della piccola borghesia cittadina, lei nata sì a Ferrara ma con un cognome dall’origine inequivocabile: Sciacovelli, Margherita Rosalia Sciacovelli.

La sua famiglia era arrivata a Ferrara negli anni trenta e lì erano nati lei e suo fratello più piccolo Giovanni.
– Oh buongiorno…finalmente ci viene a trovare…E chi sarebbe questa bella ragazzina signor Sciacovelli?
– Ciao Norma…hai ragione…ti avevo promesso che sarei venuto…ma col nuovo direttore non ho più tanto tempo libero per i miei lavoretti…ma dove è la macchina che si è inceppata?
Ah, lei è Rosalia, mia figlia e vorrebbe fare la sartina…
– Guarda sei fortunato la Nives è a casa oramai da un mese …ha appena avuto il suo secondo figlio.
Se vuoi può già iniziare…
– Allora sì…bene… io intanto provo ad aggiustare quella vecchia Singer.
Mi metto di là…se è il solito problema faccio presto.
– Bene…e tu vieni con me …ti faccio vedere le tue compagne…

La sartoria della Norma era un punto di riferimento sicuro per le signore della città.
Arrivavano lì da lei pregandola di fare lo stesso vestito che avevano visto in piazza, in vetrina da Giudici, il negozio più elegante del centro, dove tutte le signore portavano i loro mariti ad aprire il loro portafoglio per aggiudicarsi prima delle altre l’ultimo tailleur alla moda.
Norma le stava ad ascoltare…non aveva più nessuno, solo la sartoria.
Il figlio e il marito non erano più tornati dal fronte, il lavoro era tutto per lei e le ragazze della sartoria la sua famiglia.
Erano sempre state in quattro: lei, Ines, Anna e la Nives che adesso era a casa.
Anna era bravissima a disegnare.
Andava verso sera quando Giudici era chiuso a copiare gli abiti che erano stati ordinati dalle clienti, tornava in laboratorio e riportava sulla carta il modello. Norma tagliava la stoffa e Ines e Nives cucivano.
-Ecco ragazze…guardate chi vi porto oggi: questa e ‘ Rosalia…facciamo Lia…ti va bene?
Rosalia alzò per la prima volta i suoi occhi su quel nuovo mondo e disse solo
– Sì!
-Bene sei di poche parole…non come quelle due vipere lì…non fanno altro che parlare di ragazzi e matrimoni…
– E tu sei fidanzata?
Dal fondo del negozio si senti’ la voce di Peppino, il padre di Rosalia, gridare
– Allora Norma la smetti di dire queste cose…non vedi che è ancora  una bambina?
-Ma dai Peppino stavo scherzando…non mi sembra però tanto piccola.
Rosalia infatti non era più piccola
Si era “sviluppata” presto rispetto alle sue coetanee e sembrava già una donna fatta.
Era una bella ragazza.
Capelli lunghi castano scuri come gli occhi, magrissima ma con un bel seno ne’ troppo grande ne’ troppo piccolo, ma soprattutto una pelle dal colorito delicato come il suo nome.
Timidissima, arrossiva appena qualcuno la guardava.
Parlava poco, ma capiva subito ciò che gli altri volevano da lei.
Era svelta.
Non si lamentava mai.
Il mestiere lo apprese in fretta diventando in poco tempo veloce come le altre.
Lì era felice.
Aveva trovato in Ines e Anna due amiche.
Fino ad ora non aveva mai avuto amiche.
Ascoltava rapita i loro racconti, le loro avventure con i ragazzi.
-Vedrai… – concludevano sempre con queste parole- un giorno entrerà da quella porta il tuo principe azzurro e ti porterà via da noi! –
Lia allora arrossiva più del solito mentre sorrideva e subito si sentiva dall’altra stanza la voce di Norma
-Ma la volete lasciare stare…pensate piuttosto a terminare il vestito per la Bianchini…tra sette giorni si sposa e noi dobbiamo ancora cucirlo!
Lia guardava quell’abito bianco tutto  pizzi e raso come a qualcosa che a lei non sarebbe mai toccato.
Era l’ultima a lasciare il laboratorio.
Così faceva più ore.
A casa servivano dei soldi per la vita di tutti i giorni e la paga di suo padre era veramente una miseria.

Oramai il vestito era finito.
Era tardi. Sicuramente passate le nove di sera
Lia prese il vestito per metterlo su una gruccia.
Fu un attimo.
Senti fortissimo il desiderio di provarlo.
Non aveva mai fatto una cosa simile
Si tolse in fretta i suoi e ancora più velocemente  si infilò l’abito.
Il cuore le batteva all’impazzata.
Era perfetto.
Sembrava fatto apposta per lei.
Si avvicinò allo specchio.
– Ma lei è bellissima signorina!
Rosa si girò di scatto verso la voce sentita alle sue spalle emettendo un piccolo grido di sorpresa.
– Oh mi scusi, non volevo spaventarla…ma ho provato a chiamare  la Norma …la porta era socchiusa e sono salito…poi l’ho vista e non sono riuscito a trattenermi…mi scusi non volevo proprio spaventarla…lei è bellissima….Permetta …mi presento…sono il rag. Remo Bianchi, tengo la contabilità della sartoria.
Rosalia non sapeva cosa pensare e men che meno cosa dire.
Le girava la testa.
– Non sono io la sposa! Io l’ho solo cucito! –  disse alla fine tutto di un fiato!
– Bene – disse Remo sorridendo- allora sono fortunato …mi rimane una speranza…
– Guardi facciamo che la vengo a prendere domani terminato il lavoro…diciamo alle 18,30 …la prego mi dica di sì.
E Rosa disse sì.

La Seconda Parte puoi leggerla [Qui]

In copertina: foto di Roberto Paltrinieri

TIKTOK   TIKTOK   TIKTOK

 

Valeria continua a guardare il suo cellulare con molta attenzione. Sembra inconsapevole delle persone che la circondano. Tipico degli adolescenti.
“Ma Valeria cosa stai facendo?”
“Guardo Tiktok” mi risponde distrattamente.
Enrico, che sta giocando con le costruzioni, alza la testa, la guarda e poi dice: “Ti stanno rovinando i nervi ottici”. Cosa ne sa Enrico, che ha quattro anni, dei nervi ottici? Non so, ma mi vien da ridere, quel bambino è una forza.

TikTok è attualmente l’applicazione più scaricata al mondo dagli adolescenti, ci si può registrare dai 12 anni in su. Permette di realizzare video di breve durata che hanno come tema la cucina, la danza, la musica, il nonsense e tutto ciò che è buffo e può far ridere. Si possono sia creare nuovi contenuti che reinterpretare delle scene di film o serie tv.

Un videoclip famosissimo che è stato creato con Tiktok  è quello dove una persona, ripresa dalla sua camera da letto, muove la bocca e sembra che stia imitando la traccia audio di un film. Il grande successo di TikTok si deve proprio a questa sua funzione principale, cioè quella di creare brevi video sincronizzati. Questo permette ai giovani di sbizzarrirsi e divertirsi molto. In modo particolare i filmati ricordano i film di Walt Disney e i suoi personaggi. Ad esempio su Tiktok si può vedere una vecchietta vestita da Nonna papera che canta mentre cucina, oppure un’adolescente vestita da Biancaneve che balla in maniera indiavolata davanti allo specchio del bagno, o un signore con le sembianze dell’elefante Dumbo che suona il pianoforte bendato. Roba da ridere come matti e da restare tutto il giorno incollati a Tiktok.

TikTok, creato da una società cinese che si chiama ByteDance, non è soltanto un social media, ma si avvicina molto ai social network, come Facebook e Instagram, perché grazie a TT gli iscritti si costruiscono un seguito, hanno persone con cui interagire, possono essere apprezzati o meno (con le ormai celebri ‘reazioni’ e il classico cuoricino per il ‘mi piace’).
Tiktok inoltre garantisce un feed immediato e non impegnativo, interazioni tra utenti ‘innovative’ e originali, l’uso di #hashtag.

Valeria continua a guardare il suo cellulare e a ridere.
“Ma quanto tempo passi con questo Tiktok?” chiedo.
“Quasi tutto il tempo libero che ho” mi risponde,
“Io sto sempre su Tiktok mentre faccio altro. Anche mentre disegno tengo d’occhio Tiktok e, se appare un  video divertente, lo condivido con le mie amiche, così ridiamo tutte. Guarda questo, ha raggiunto 30.000 visualizzazioni in qualche ora.”
Guardo, è il video di una ragazza che si tinge i capelli di viola, mentre fa delle boccacce allo specchio del bagno e digrigna i denti in una specie di sorriso horror.
Non so perché faccia ridere, ma questo non è rilevante. Ogni età ha le sue caratteristiche, il suo modo di divertirsi e di trovare piacevoli alcune cose piuttosto che altre.

Ciò che mi colpisce di più è la velocità impressionante con cui tutto questo succede.
In un minuto si può guardare il video, apprezzarlo, condividerlo, riderci, dimenticarlo. In pochissimo tempo viene visto da miglia di persone. Tutto a una velocità impressionante. Dopo qualche minuto ce n’è già un altro con le stesse caratteristiche del primo che intraprende lo stesso percorso.
Ovviamente il motore, nonché la fonte di sussistenza e di forte guadagno per TT, è l’insieme di tutti questi video che, in maniera gratuita, vengono postati dai registi in erba e replicati velocissimamente e all’inverosimile.
Tiktok mi fa compagnia, c’è in ogni momento qualcosa di nuovo da guardare, così non mi annoio mai” dice mia nipote.

Ripenso a quando avevo l’età che ha Valeria adesso. Anche io amavo molto le recite e i travestimenti. Solo che il passaggio social non esisteva. Io le ‘messe in scena’ le facevo davvero. Prendevo Cecilia, la mia sorella più piccola, e la travestivo con i vecchi abiti della nonna Adelina, con le scarpe enormi del nonno, con un vecchio parka verde di mio padre che era appeso nella dispensa e che serviva per andare nell’orto nei periodi in cui faceva freddo e c’era la nebbia. Quel parka color verde secco come le foglie d’autunno, aveva sicuramente visto tempi migliori, ma a me piaceva perché era adatto a travestire Cecilia da animale preistorico, o da orso. L’interno del parka era di finto-pelo bianco, ingiallito dal tempo e dal luogo dove era riposto, arruffato e pesantissimo. Un capo prezioso e unico.

Altre volte andavo nel cortile di Albertino Canali e mi facevo dare dei sacchi di juta, che i suoi genitori avevano sempre perché li usavano per il granoturco, e li trasformavo con la forbice in abiti da scena ‘strepitosi’. Dopo aver sistemato gli abiti, organizzavo spettacoli nel mio cortile, aprendo il portone e impressionando tutti i passanti di via Santoni Rosa che, trovandosi davanti a casa mia in quel momento, ignari del loro destino, venivano catapultati senza preavviso in una messa in scena ‘da urlo’. Mi piacevano anche le danze folli. Per i balli facevo dei costumi con la carta crespa dai colori sgargianti e danzavo insieme alle mie sorelle e alle mie amiche, sempre nel cortile. Ero una specie di ‘croce e delizia’ degli abitanti di via Santoni.

Ora invece di farlo davvero, lo spettacolo lo si guarda. Anzi, in realtà non è nemmeno così. Dire che lo si guarda è riduttivo, diciamo che vi si partecipa con un grado diverso di coinvolgimento. Mentre si guarda un video di Tiktok si può anche fare altro, mentre si organizza una recita nel cortile della propria abitazione, con tanto di attori veri e di pubblico in carne ed ossa, non si può proprio fare altro. Gli spettacoli ‘veri’ necessitano di un impegno e una determinazione esclusivi. Resta il fatto che anche quello di Tiktok è un guardare partecipe, l’interazione è garantita, l’aggiunta di creatività stimolata.

Ciò che è molto diverso è la mancanza di fisicità. Non c’è più prossimità tra i corpi, né interazione di tipo fisico. Si guarda una persona su uno schermo, si è guardati sullo schermo. Questo è il vero cambiamento, l’apertura di una porta verso un futuro digitale, che è una novità, che invita tutti a delle nuove relazioni, a un nuovo modo di conoscersi e di apprezzarsi. Continuo a pensare che il nostro avere un corpo sia fondante, sia proprio una delle caratteristiche dell’essere umano. E’ attraverso il corpo che cresciamo, sentiamo, amiamo, moriamo. E’ attraverso il corpo che sperimentiamo l’essenza più profonda dell’essere umani. La mediazione di un social in tutto questo è fonte di grande cambiamento. Cambia lo stile di relazione, cambiano i tempi e la prossimità, cambia lo stare dentro e fuori dai momenti, cambia la gente.

Ma non demonizzerei proprio Tiktok.
E’ un modo di affacciarsi al mondo che appartiene prevalentemente a questa generazione di adolescenti e che apparterrà, quasi di sicuro, anche a quelle che verranno. E’ la novità che avanza, la stranezza che conquista, la digitalizzazione che pervade tutto, il marketing che aggancia i giochi dei ragazzi e imperversa potente.

Mi chiedo cosa farei se avessi adesso 12 anni e poi dico a Valeria:
“Mi è venuta un’idea. Facciamo anche noi un video su Tiktok, ci mettiamo la nonna Anna mentre cucina.”Lei alza la testa e mi guarda. “Siiii. Facciamo l’account della nonna”.
“Visto che su Tiktok va forte Walt Disney potremmo chiamare l’account  Nonna Papera Anna, oppure Nonna Anna Papera”. Dico.
“No” dice lei “Chiamiamolo Nonna Papera e basta”.
“Ok. Nonna Papera e basta. Ho visto che sono tutti vestiti in maniera eccentrica. Dobbiamo trovare un costume per la nonna. Un grosso fiocco in testa, un giubbino rosa fluorescente e gli occhiali da sole. Poi, così vestita, le facciamo preparare e cuocere le cotolette e, mentre lei cucina,  la filmiamo”.
“Sì, sì, sì. Si vede subito se ‘buchiamo’ lo schermo, nel giro di poco tempo arrivano migliaia di visualizzazioni. Altrimenti ne arrivano poche e allora a dobbiamo ricominciare”. Dice.
Lo vuole fare davvero, sta già pregustando l’impresa. Mi vien da ridere.
Con questa storia dei travestimenti sono ancora brava, come quando da piccola convincevo Cecilia e le mie amiche a mettersi vecchi vestiti e maschere di carta.

Abbiamo solo un piccolo problema: chi spiega tutto questo alla nonna Anna?
Tiktok, tiktok,  tiktok.  sembra il rumore del tempo che passa …. Ma è un caso?  Forse sì.

La fine della casa

 

ROMA – Le riflessioni che seguono sono nate a margine del caso della piccola Antonella Sicomoro, la quale ha perduto la vita lo scorso 20 gennaio a dieci anni, in casa sua a Palermo, per le conseguenze di una sfida nella quale era stata coinvolta attraverso la frequentazione dei social.
Eventi come questo danno l’impressione, soprattutto a chi non è più giovanissimo, che si sia instaurato un nuovo ordine del possibile, purtroppo spaventoso. Ma è davvero così?

Che vi siano bambini vittime di giochi tra coetanei non è purtroppo una novità. Anche le case sono da sempre luoghi di oscuri pericoli per i più piccoli. Dove sarebbe, dunque, la discontinuità? Non sarà che, come facevano i nostri anziani apparendoci per questo tanto bizzarri, cominciamo a trovare il presente così solo perché lo osserviamo ormai da una certa lontananza?
La risposta che si vorrebbe qui argomentare è: no, la discontinuità c’è. E ha radici potenti e lontane.
Lontane quanto? Quanto l’inizio della trasformazione delle culture umane da nomadi a sedentarie. La sedentarizzazione, infatti, produce una nuova percezione dello spazio che si ridefinisce nei termini di interno alla sfera antropizzata (infield) e di esterno ad essa (outfield). Ovviamente, nel cuore dell’area interna c’è il villaggio e, nel villaggio, le abitazioni.

Inizia così, oltre diecimila anni fa, la lunga storia – architettonica e simbolica – della casa, attraverso la quale essa diventerà, molti secoli più tardi, espressione della coesione della famiglia come nucleo autonomo.
Questa qualificazione antropologica dello spazio della casa come luogo di intimità ‘inviolabile’ – come tra l’altro sancito dalla Costituzione – conduce al delinearsi della sua essenza come quella di un argine contrapposto alla potenza intrusiva del mondo. Di conseguenza, come quella di una dimensione, essenzialmente appropriata all’esistenza umana, di latenza sociale e, dunque, di agio esistenziale. In conclusione, come rileva Bachelard, dello spazio essenzialmente più poetico del nostro mondo.

Pochi anni dopo l’esplorazione di Bachelard (nel 1957) della casa come spazio poetico, Guy Debord pone in evidenza i tratti di fondo di un potente processo di trasformazione in atto nella nostra società: essa diviene società dello spettacolo. Ciò avviene quando la sfera dello ‘spettacolo esonda dalla sua collocazione tradizionale nel contesto della vita sociale e ne diviene la dimensione fondamentale: quella di un “rapporto sociale tra individui mediato dalle immagini”, sì che “la realtà sorge nello spettacolo”.
Questa inversione del rapporto genetico tra vita reale e spettacolo, naturalmente legata alla diffusione delle tecnologie, colonizza progressivamente gli spazi della nostra esistenza, in senso architettonico, fisico e ontologico, ovvero relativo alla determinazione di ciò che siamo e di ciò che è.
Debord (morto suicida nel 1993) aveva certamente presente l’insediamento fisico degli schermi televisivi – vere e proprie finestre sulla dimensione dello spettacolo – in ogni appartamento, e talvolta in ogni sua stanza. Si tratta, anche qui, di un vero e proprio capovolgimento delle prospettive abitative, nel quale lo sguardo umano viene radicalmente captato nella dimensione dello spettacolo, al punto che esso perde interesse per ciò che avviene nella sfera, ormai arcaica, del circostante.

Gli ultimi anni hanno portato una radicalizzazione del fenomeno, al punto che altre finestre si sono aperte direttamente sui nostri stessi corpi, in modo tale che l’intero intreccio delle relazioni sociali si riflette costantemente negli schermi degli smartphone.
Inoltre già da tempo è data a ciascuno di noi la possibilità di non essere, in questo capovolgimento delle dimensioni, soltanto “spettatori”, bensì di poter divenire in ogni istante detentori di un infinitesimale pixel dello schermo globale. È, appunto, la dimensione dei social e, in particolare, di quello sul quale si è perduta la piccola Antonella: Tik Tok.

Questo, naturalmente, non significa in alcun modo che la quotidianità colonizzi all’inverso la dimensione dello spettacolo, ripristinando in qualche modo un equilibrio. Al contrario: significa che non soltanto la quotidianità viene vissuta e misurata nella prospettiva della sua spettacolarità, ma anche che viene progettata in funzione di essa.
Nella percezione delle attività, dei luoghi, delle persone, insomma, le esigenze del far spettacolo di sé possono prevalere su quelle più proprie.

Quella dello spettacolo, diceva dunque Debord, è una nuova forma di società. Ma questa forma non si arresta affatto sulla soglia della nostra casa. Non rispetta minimamente il vincolo dell’intimità. Abita con noi le nostre stanze. Veste i nostri corpi.
Ecco, dunque, che paradossalmente godiamo ormai di maggiore intimità quando camminiamo per le strade che quando sediamo sul nostro divano. La ragione è presto detta: le strade sono un luogo di comunità, nel quale non possiamo non mantenere un cordone ombelicale con l’orizzonte arcaico della realtà e dei suoi accidenti; nelle nostre case, se aperte ormai solo sugli schermi-finestre, quel cordone ombelicale può finalmente essere radicalmente reciso.

È precisamente ciò che già da tempo si può constatare in alcuni di coloro che – per età, per condizioni fisiche o per altre ragioni – consumano perlopiù o esclusivamente il loro tempo tra le pareti domestiche. È, inoltre, una delle possibili prospettive dalle quali riconsiderare la fenomenologia del lockdown, che va colto anche come l’allestimento di una immensa platea forzata per la spettacolarizzazione della pandemia.

I nostri ‘appartamenti’, dunque, non sono più, in essenza, luoghi nei quali appartarci dalle costrizioni e dalle infestazioni della dimensione sociale, bensì dei contenitori nei quali quella dimensione, nella forma estrema dello spettacolo, si apparta con noi, ci assimila e ci aliena. Le ‘mura’ domestiche, lungi dall’essere ormai un argine alla violazione della nostra intimità, costituiscono la segreta nella quale essa viene definitivamente annichilita, ovvero estromessa dall’essere.

Nel chiuso di queste stanze, nessuna rete relazionale – compresa quella della famiglia –  ha essenzialmente diritto di intromettersi, di accompagnarci, di proteggerci, come evidentemente è accaduto nel tragico caso della piccola di Palermo.
È la fine della ‘casa’. Un mutamento epocale nel quale si compiono diecimila anni di storia.
Nei nuoviappartamenti, in coerenza con l’evoluzione della dimensione dello spettacolo, non soltanto siamo strutturalmente esposti alle sue liturgie, ma anche tenuti a esporci continuamente – grazie al pixel di schermo globale cui veniamo assegnati – allo sguardo osceno della dominazione che ci impone di imbellettarci, di sculettare, di fare simpaticamente il broncio o di stringerci, bambini, una cinta al collo.

Così sembra essersene andata la vita della piccola Antonella Sicomoro. Ma siamo solo all’inizio.

Attualmente Giuseppe Nuccitelli insegna filosofia e scienze umane nella scuola media superiore pubblica. Ha collaborato con Università, con Enti di Ricerca, con la RAI e con altri soggetti. È autore di varie pubblicazioni nell’orizzonte della filosofia e della linguistica educativa. È giornalista pubblicista.