Skip to main content

FANTASMI /
L’esiliato

 

sistono tanti tipi di scrittori. Tra questi ci sono gli scrittori russi, una specie in genere molto amata anche perché, si dice, in via di estinzione. Esistono poi diversi tipi di scrittori russi e tra questi, frugando a lungo nel mazzo, si trovano prima quelli rimasti in Russia e subito dopo gli emigrati all’estero.

Esiste poi una sottospecie di scrittore russo in esilio che non sappiamo quanto sia corretto definire scrittore. Ci riferiamo a persone dedite a scrivere racconti, capaci di avventurarsi a volte nel genere del romanzo e spesso autori di articoletti e ricerche su argomenti di attualità politica o di letteratura. Credetemi, dopo una lunga esperienza di lavoro con i profughi dall’Unione Sovietica e poi dalla ‘Nuova Russia’, so di cosa parlo.

Misha Dobruvolskij faceva parte di quest’ultima categoria di esuli i quali, per il semplice fatto di essere esuli, acquisiscono la patente di scrittori e come tali vengono accolti a prescindere da ciò che scrivono.

Questo accade soprattutto in Francia, specialmente a Parigi, e spesso anche in Italia. Sei hai la patente di scrittore naturalmente è più facile pubblicare i tuoi lavori su riviste specialistiche, italiane o francesi.

Molti di questi esuli vantano un’origine aristocratica, provengono cioè da famiglie titolate di cui è impossibile provare l’autenticità a causa della distruzione degli uffici anagrafici seguita alla tanto deprecata rivoluzione di ottobre e alla successiva guerra civile.

In ogni caso Misha era un principe titolato, vicino pare alla famiglia Yussupov, a cui apparteneva l’assassino di Rasputin. Altissima nobiltà, dunque, imparentata con la famiglia dello Zar. Così almeno risultava da certe carte scolorite vecchie di quasi un secolo vergate in cirillico ed esibite a richiesta, e noi non abbiamo ragione di dubitarne.

Perciò qualcuno potrebbe chiedersi come mai il nipote di tanta stirpe fosse finito a vivere relegato in una soffitta, rinominata mansarda, di un rione popolare di Sorrento. “E’ stato il meraviglioso clima a conquistarmi” raccontava lui.

In realtà si trovava lì perché aveva a suo tempo concupito una fanciulla napoletana di buona famiglia, l’aveva lasciata incinta e i suoi genitori, ricchi ma sprovvisti di quarti di nobiltà, avevano trovato per la giovane coppia romantica quella sistemazione di fortuna nel lontano 1986.

Per un uomo nato negli ultimi anni dello stalinismo, sopravvissuto al lungo travaglio della vita sovietica e al caos della perestrojka, ‘vivere alla napoletana’ negli anni ottanta dello scorso secolo era facile come bere un bicchierino di vodka. Nasce però spontanea un’altra domanda: come riusciva Misha a mantenersi? Semplice: la fortuna era dalla sua parte.

Non si offese quando la fanciulla napoletana lo abbandonò, stanca dell’inconcludenza e soprattutto della miseria e della sporcizia in cui lui, scrittore per vocazione ma costretto a rinunciare alla servitù per mancanza di mezzi, la costringeva a vivere.

Lei si era trovata in poco tempo un lavoro e un marito napoletano molto più promettente e soprattutto, con gran sollievo del padre naturale, si era portata via la neonata facendola adottare dal nuovo marito.

Nonostante il comportamento da gran cialtrone di Misha, i suoceri, chissà perché, si erano affezionati a quello strano profugo di lusso che sembrava così bisognoso di protezione, e attraverso traffici, clientele e relazioni politiche riuscirono a fargli ottenere una pensione speciale dal governo socialista italiano di allora, una pensione di cui Sasha godette fino alla fine.

Anche se godere è una parola esagerata per un assegno mensile che consentiva a malapena di pagare affitto e bollette, a patto di non mangiare più di due volte al giorno. Ma a Sorrento è possibile, come del resto in Russia, vivere decentemente con pochi mezzi, praticando con astuzia l’arte dell’espediente.

E così Misha, dopo essersi trovato una seconda moglie, la dolce Margherita, una fiorentina innamorata della letteratura russa più che di lui, scoprì tutti i vantaggi di un’esistenza sulla costiera amalfitana nei mesi invernali interrotta da una lunga vacanza in una grande tenuta in Toscana da marzo fino a tutto ottobre: tenuta di proprietà della famiglia di Margherita.

Era diventato un pensionato/scrittore mantenuto dal governo italiano senza aver mai lavorato un solo giorno in tutta la sua vita, come si addice a un vero aristocratico.

Con il suo simpatico, dolce italiano, dall’inflessione russo/napoletana e il sorriso educatamente ironico sapeva intrattenere per ore i suoi ascoltatori e commensali, i quali gareggiavano per invitare a pranzo e a cena l’illustre ospite ed esibirlo a amici e parenti.

Da parte sua Misha raramente si sottraeva a quegli inviti, se non per rendersi ogni tanto più ricercato. Grazie alla buona alimentazione, al buonumore costante e alla mancanza di qualsiasi tipo di stress lavorativo si ritrovò all’età di settantatre anni con l’aspetto e la leggerezza di un sessantenne in buona forma.

Risolto il mistero di come sopravviveva rimane però un altro mistero: che cosa aveva scritto? E soprattutto che cosa stava scrivendo? Durante un pranzo in un ristorante della costiera amalfitana aveva risposto a un commerciante di vini, un uomo scettico e molesto come alcuni napoletani sanno essere: – Al momento sono impegnato da molti anni in un romanzo dal titolo Ol’ga Karamazova, la sorella nascosta.

Di fronte all’inevitabile ilarità dei commensali, aveva spiegato, sorseggiando da un calice di rosso Aglianico: – Vedete, ho scoperto negli archivi della biblioteca di San Pietroburgo degli appunti autentici di Dostoevskij, appunti rimasti a lungo sconosciuti, nei quali il grande scrittore racconta il tormento di una sorella minore dei Karamazov. Pensate, una bambina nata da una relazione del vecchio Fiodor con una prostituta.

– ’Sto piezz’ e puorco – commentò il commerciante di vini.

– La quale sorella, ho scoperto dopo un po’ – proseguì Misha con sguardo radioso  – si era resa complice del disgustoso Smerdjakov per fare fuori il detestato padre naturale il quale, risultava dagli appunti, l’aveva stuprata quando era ancora una bambina di otto anni. Lei, sconvolta, si era rifugiata nel convento di Aliosha, il fratello buono, per confessare la sua partecipazione al turpe delitto ed espiare una doppia pena. Doppia perché all’epoca, sapete, le bambine vittime di stupro erano sempre più colpevoli degli stupratori.

Lo aveva raccontato come fosse un fatto di cronaca, con una voce bassa e patetica da attore di teatro, ma i napoletani, si sa, hanno una speciale predilezione per battute e insulti di bassa lega a scapito delle sorelle altrui e in quell’occasione tirarono fuori il peggio del repertorio.

Lui, curiosamente, anziché offendersi come sarebbe stato logico aspettarsi, pare che si divertisse più di loro a coprire di insulti la povera Ol’ga Karamazova a colpi di ‘’N gulo a soreta’ e via dicendo.

In questa maniera, tra le risate generali, affondando in un mare di volgarità tra le quali scontati giochi di parole su Smerdjakov, nessuno riusciva a capire se Misha si fosse inventato tutto o se davvero stesse scrivendo un romanzo incentrato sulla tragica figura di Ol’ga Karamazova.

Ridevano e bevevano. Circondare di dubbi, misteri e leggende la propria esistenza e soprattutto le sue opere letterarie era un’arte nella quale primeggiava.

Altrettanto abile si era dimostrato fino a quel momento nell’arte di vivere galleggiando sui guai e i drammi della vita, danzando sull’orlo dell’abisso come spesso si dice, senza mai guardare giù in basso e salvando solo le buone maniere.

Tanto è vero che la dolce Margherita, quando litigavano e lei minacciava il divorzio, lo accusava spesso di essere ‘inconsistente’. Lui alzava le spalle, la baciava sulla fronte e tirava dritto.

Ma a ridosso del settantaquattresimo compleanno accadde l’impensabile. Durante un pranzo nel parco della tenuta in Toscana conobbe una collega universitaria di Margherita, una quarantenne ricercatrice di letteratura russa. Veniva spesso a trovarla per ragioni di lavoro.

Mai gli era apparso un simile volto incorniciato da capelli castani lunghi e ondulati e il labbro superiore che lasciava intravedere, da una minuscola fessura, un piccolo spazio vuoto a forma di ‘o’.

All’inizio provò delle sensazioni di stordimento, come se avesse bevuto un bicchierino di troppo e un venticello tiepido gli accarezzasse le cosce fino alle parti intime, poi si accorse di certe ondate di brividi che gli salivano dalla pianta dei piedi su per le vertebre e al tempo stesso sviluppò una predilezione per certi film strappalacrime che fino ad allora aveva disdegnato.

Diventò facile al pianto, dormiva male, mangiava in modo disordinato, dimagrì a causa della cattiva digestione e rimase sconvolto dalla potenza di certe fantasie erotiche del tutto nuove che lo assalivano la notte.

Ma la quarantenne aveva tutt’altro per la testa, era sposata con un affettuoso promotore finanziario, impegnata ad accudire due figli ancora piccoli e terribilmente occupata a difendersi e ad  attaccare in quella feroce partita a scacchi che si chiama carriera universitaria.

Lei aveva da subito provato simpatia per quel garbato principe russo che quando camminava sembrava veleggiare, ma appena si accorse di certi sguardi languidi iniziò una gentile quanto veloce presa di distanza. Cominciò a frequentare il meno possibile la tenuta in Lucchesia, anche a costo di vedere danneggiati suoi rapporti di lavoro con Margherita.

Quando Misha capì di essere finito nel vortice di un amore disperato, la voluttà della sofferenza crebbe fino a diventare il sentimento prevalente. Se prima era considerato inconsistente, adesso si aggirava come un fantasma tra la casa in Toscana, il parco e la costiera amalfitana.

Margherita osservava incredula la fenomenale trasformazione di quell’uomo del quale, chissà perché, non riusciva a fare a meno anche se lo avrebbe molto desiderato.

Lui la ignorava, ogni tanto le lanciava un’occhiata e sembrava si dicesse: “Chi è questa gentile signora che vive nella mia casa?”, dimenticando che tutte le case, compresa quella di Sorrento, erano proprietà ormai della moglie.

In quella fatale primavera, quando si dirigeva giù verso il mare, alla vista del cielo di notte veniva rapito da uno stato di eccitazione romantica, che si mescolava con un desiderio struggente di morire gettandosi dall’alto della scogliera tra il baluginio delle onde, come se il mare e il cielo fossero una sola entità pronta ad accoglierlo e a cullarlo.

Una di quelle notti fece anche un paio di passi verso il vuoto per vedere se trovava il coraggio di lanciarsi nell’abisso. Ma prima di cedere al fascino di un destino tragico preferì godersi ancora per un po’ l’ebbrezza dell’amore infelice.

Un giorno la moglie, sorseggiando il cappuccino, gli chiese: – Dimmi Misha, hai mai letto Lolita del tuo tanto amato Nabokov? – Era l’unico romanzo di Nabokov che non aveva letto. Il semplice fatto che negli anni sessanta ne avessero tratto un film americano di successo lo aveva degradato ai suoi occhi di aristocratico.

Lo lesse. Ne indovinò il senso, e capì ancora meglio perché la moglie glielo avesse suggerito. La sua ammirazione per il principe Vladimir Nabokov, che lui chiamava Volod’ja come fossero amici, era sterminata, rappresentava il suo modello di uomo e di scrittore, l’ideale irraggiungibile che non osava confessare nemmeno a se stesso.

Poi rilesse Lolita una seconda volta. Sapeva di non essere come Humbert Humbert  malato di ‘pedofollia’ – per l’occasione coniò questo neologismo – ma volle guardarsi allo specchio con occhio freddo e oggettivo: si accorse della sua carne raggrinzita, delle pieghe cascanti della faccia e di altri dettagli dal significato inequivocabile.

La scivolata dal romantico al patetico era affare di un attimo, un passaggio perfettamente rappresentato su quello specchio. Decise di salvarsi la pelle e rinunciare al tragico tuffo, a costo di apparire un vigliacco ai suoi stessi occhi.

Del resto, era mai stato un eroe? Per qualche mese aveva smesso di danzare sul bordo della vita, un periodo sufficiente per capire che esplorare l’abisso era un compito al di là della sua portata.

Così, grazie a Nabokov e alla complicità della moglie, evitò il suicidio. Ma ormai era un altro uomo: erano svanite la sua cordialità e la sua piacevolezza da commensale, si ridusse presto al ruolo di ospite tollerato e ben poco ricercato.

Due mesi dopo venne punto da una vespa durante una passeggiata nel bosco in Toscana e morì nello spazio di pochi minuti per shock anafilattico. Aveva da pochi mesi compiuto settantaquattro anni. Ma la fine della sua vita non coincide con la fine della sua storia.

Quando alla figlia della prima moglie di Misha, la napoletana, fu rivelato di essere una figlia adottiva, lei, appena superato lo spaesamento, si mise a frugare nella biografia del suo padre naturale, questo principe russo. Voleva sapere tutto di quell’uomo, anche perché si sentiva legittimata a definirsi ‘principessa’, sia pure con la dovuta nonchalance.

Ma dopo accurate ricerche tra le carte del defunto venne fuori che non solo il famoso romanzo su Ol’ga Karamazova era una semplice barzelletta – questo lo avevano già intuito in molti – ma che in tutta la sua vita Misha aveva pubblicato solo due articoli per una sconosciuta rivista accademica online di Minsk, in Bielorussia: uno su Gorkij a Capri e un altro su Gogol a Roma.

Tutti i racconti e il romanzo politico pubblicato clandestinamente in Unione Sovietica di cui spesso aveva vagheggiato con aria misteriosa erano solo annunci senza alcun riscontro, pure invenzioni.

Quanto ai documenti stampati in cirillico che avrebbero dovuto comprovare le sue pubblicazioni se li era scritti da solo e li aveva autenticati creando intestazioni fasulle con la procedura del copia e incolla da documenti autentici.

Se in vita aveva galleggiato, possiamo dire che, dopo la morte, Misha Dobruvolskij evaporò insieme alla sua immagine. Come se non fosse dotato di un sufficiente peso specifico per affondare.

La figlia, dopo un primo momento di disillusione, si consolò, scoprendo che se non altro quel documento in cirillico con albero genealogico e stemma araldico principesco era autentico. Almeno il titolo era salvo. E ancora oggi se ne vanta pubblicamente, seppure con discrezione, ad ogni occasione propizia.

Racconto inedito, proprietà dell’autore.

Per leggere tutti gli articoli, saggi, racconti, divagazioni della rubrica FANTASMI clicca [Qui]

PRESTO DI MATTINA /
Un albero in cammino

 

Sementi autunnali di un libro appena chiuso,
già germogliano in un altro,
non ancora aperto.

Così ho pensato, attraversando con Bashō [Qui] Lo stretto sentiero del profondo nord. Giunto all’ultima pagina, mi è affiorato alla memoria il frontespizio di un altro libro − un testo sulla speranza di Gabriel Marcel [Qui], “Homo viator”. Prolegomeni ad una metafisica della speranza, Borla, Torino 1967 – che lessi tanti anni fa e a cui dedicai un articolo sulla rivista Palestra del Clero nel 1983. Come se un viaggio appena terminato germogliasse subito in un altro inizio.

Dice un detto antico: Homo viator, spe erectus. Un viandante è l’uomo, innalzato dalla speranza, che cammina eretto verso un oltre cui non può resistere a lungo. La speranza è fragile apparizione, come una striscia di haiku, uno spazio ristretto che nell’aprirsi subito si richiude.

L’haiku, pura immediatezza dell’impressione di incontri, di luoghi, di stagioni, di minute e quotidiane presenze colte nell’attimo del loro mostrarsi lungo il cammino o la sosta. Breve il suo dire, non descrizione né ragionamento, ma forza di movimento che fa avanzare dentro sé e fuori, verso l’oltre. Immagine di nitidezza: istantaneità di un lampo.

Come l’haiku la speranza assomiglia nell’uomo allo spazio piccolo di una conchiglia, in cui il vento continuamente muove il rumore dell’infinito mare.

Come l’haiku «è il coagularsi di una intuizione estetica possibile solo quando il soggetto, dopo un lungo apprendistato, riesce a scomparire d’un tratto per lasciare posto all’oggetto, all’evento, quasi cifra in cui si concretizzano la leggerezza, la rapidità, l’esattezza, visibilità e la leggerezza» – scrive Elena Dal Pra – così la speranza è il coagularsi dell’esistenza, non come un problema da risolvere ma, al fondo della sua problematicità questionante, come mistero da accogliere; dimentichi di se stessi si scompare per lasciare il posto all’altro, attimo di presenza: risonanza di un altrove.

“Arbor viator”

Un albero in cammino, fattosi errante viaggiatore. Queste le parole affiorate subito dopo, ritornando con il pensiero a Matsuo Munefusa (Ueno 1644-Dsaka 1694), colui che cambiò il suo nome in Bashō, una pianta resistente al grande freddo e dalle cui fibre si ricavano tessuti pregiati.

Scelse questo nome quando un inverno egli ricevette dal suo discepolo una pianta di Bashō, il banano orientale giapponese. Lo piantò nel giardino di casa che i discepoli iniziarono a chiamare “eremo del Bashō”, tanto che da allora egli prese a firmare i suoi haikai con questo nome, portando il quale egli si mise in viaggio nel 1689, avanzando con fatica per la pena del distacco. Questo è l’haiku con il quale inaugurò il suo taccuino:

La primavera passa
triste il canto degli uccelli,
negli occhi dei pesci, lacrime

alla stanchezza non manca sollievo di stupore
stanchezza:
entrando in una locanda,
i glicini

Da quel giorno non si fermò più. Percorse 2.400 chilometri da sud al nord del Giappone. Come un eremita errante, Bashō si avvicinò in questa itineranza al buddhismo zen, la memoria dei luoghi, i paesaggi, i santuari, montagne sacre, le tombe degli antichi, la stessa poesia sono le sue mete, da cui poi nuovamente ripartire.

Ricorda ancora Elena dal Pra: «si sposta apparentemente senza uno scopo, calcando le tracce dei poeti del passato, visitando templi, e dispensando la sua sapienza ai poeti che incontra sulla sua strada, in una ricerca di ascesi che passa attraverso la fusione con le cose piccole della natura e con il fluire dei suoi tempi, e attraverso una solitudine e una povertà che sole possono permettere questa fusione», (E. Dal Pra, Haiku, Mondadori, Milano, 34).

Pioggia d’inverno
sarò chiamato anch’io
viaggiatore.

Strada facendo nella stagione delle piogge, non c’è ormai più differenza tra lui e la pianta di bashō.

Un banano nel temporale
Il gocciolio dell’acqua nel catino
Scandisce la mia notte

Verde
riverbera il banano
sui pannelli di carta di riso

Non compare l’ideogramma della parola speranza, così mi è sembrato. Essa forse è nascosta, o da cercarsi in ogni segno, in ogni immagine in cui segretamente dimora.

A me è sembrato così che ogni cosa fosse illuminata di speranza dal di dentro: “in mezzo al campo/ il canto libero/ dell’allodola”;

anche i colori la manifestano silenziosamente: “Inizio d’autunno:/ nel mare e nei campi/ un verde solo”;

è nascosta in una foglia: “cade una foglia di paulonia -/ perché non vieni/ nella mia solitudine?”;

perfino la troviamo nello scrosciare delle cascate: “chiare cascate:/ tra le onde si infilano verdi/ gli aghi dei pini”; “la cascata Shiraito -/ Filo Bianco – / scorre in mezzo al fogliame verde”;

compare sulla mensa: “fragranza dei fiori di pruno:/ sotto il naso dell’ospite/ una ciotola verde mare”.

Nella forza di sognare essa rincuora il poeta ammalato: “Ammalatomi in viaggio/ il mio sogno corre ancora/ qua e là nei campi spogli”. Perfino da un ciliegio tardivo non si lascia dimenticare, essa è nascosta come fuoco, nei suoi fiori sotto la neve per dischiuderli:

“Mi sono appoggiato a una roccia per un momento di sosta, quando ho notato un ciliegio alto appena tre shaku (1= 30,303 cm) con i boccioli in parte schiusi. Anche se coperti da una coltre di neve, i fiori del ciliegio tardivo non dimenticano l’arrivo della primavera: come erano aggraziati! Era come avvertire il profumo dei pruni sotto un cielo infuocato”.

Ma forse il luogo profondo, abisso, in cui è nascosta la speranza è nell’ideogramma delle lacrime. Sono la compagnia dell’homo/arbor viator, della sua condizione di sofferenza, di insoddisfazione e di ricerca, di impermanenza in un luogo e, al contempo, della sua infinità che lo attira fuori di sè.

Le lacrime sono l’attimo transitorio ed insieme l’eternità. È nelle lacrime che si attarda, si sofferma la speranza come un residuo inamovibile, grumo resistente in ogni ferita.

“Li vicino, in un antico tempio, si trovano le pietre tombali della famiglia Satò. Tra tutte, le più struggenti erano quelle di due donne andate in sposa alla famiglia Satò. Sono passate alla storia per il loro eroismo, pur essendo donne. A questo pensiero, le maniche della mia veste si sono impregnate di lacrime. Non bisogna viaggiare lontano, fino in Cina, per trovare lapidi che inducono al pianto”.

Dopo aver visitato le tre montagne della nascita, della morte e della rinascita, vita morte vita, Bashō scrive “Tornato al tempio, per richiesta dell’abate, ho scritto sui tanzaku (striscia di carta stretta e lunga) tre poesie composte nel mio pellegrinaggio lungo i tre monti.

Frescura!
Pallido spicchio di luna crescente
sul monte Haguro.

Si sbriciolano
le cime delle nubi
Monte Della Luna.

Come posso parlare
di Yudono, maniche
bagnate di lacrime.

Davanti alla sepoltura di un poeta scrive:

Smuoviti, tomba!
È la mia voce che piange
questo vento d’autunno.

E guardando una ciocca di capelli della madre morta:

la prendessi in mano
si scioglierebbe nelle mie lacrime
come brina d’autunno.

Se tu ti dimentichi della speranza, la speranza non dimenticherà te, perché non si spera da soli. Non dimenticare allora chi ha sperato e spera con te e anche per te. Qui, alla partenza di un discepolo, Bashō si paragona ai fiori del susino rosseggianti che restano nascosti nel bosco.

Non ti dimenticare
i fiori del susino
in mezzo al bosco.

Io spero in te per noi

Questa intuizione profonda di Gabriel Marcel non l’ho più dimenticata da quando la lessi per la prima a volta nel 1983 in Homo viator. Tanto che spesso mi sale alle labbra come una supplica, e d’improvviso l’angolo della preghiera si apre sullo stretto sentiero del profondo nord, cercando la speranza nascosta tra la gente:

«“Io spero in te per noi”: questa è forse l’espressione più adeguata e più elaborata dell’atto che il verbo sperare traduce in maniera ancora confusa e velata. In te – per noi: qual è dunque il legame vivo che esiste tra questo te e questo noi che soltanto il pensiero più profondo riesce a scoprire nell’atto di sperare? Non si deve rispondere che Tu sei in qualche modo il garante di questa unità che lega me a me stesso, oppure l’uno all’altro, gli uni agli altri?

Più che un garante che assicurerebbe o confermerebbe dall’esterno un’unità precostituita, Tu sei il cemento stesso che ne costituisce il fondamento. Se è così, disperare di me o disperare di noi, significa disperare di Te.

Certo, è logico che vi sia qualche difficoltà nell’ammettere che io formo con me stesso una comunità reale, un noi: solo a questa condizione tuttavia io partecipo allo spirito come fonte d’intelligenza, d’amore e di creazione.

Questo Tu assoluto nel quale debbo sperare, ma che ho sempre anche la possibilità, non astratta ma effettiva, di rinnegare, è il fulcro del mondo che io formo con me stesso e che – l’esperienza ce ne offre la tragica testimonianza – rimane investito del potere di auto-incenerirsi…

Se è così, bisogna dire che sperare, come noi presentiamo, significa vivere nella speranza, anziché concentrare la nostra ansiosa attenzione sulle poche monete d’argento allineate dinanzi a noi, delle quali febbrilmente, incessantemente facciamo e rifacciamo il conto, attanagliati dal timore di averne meno del previsto o di trovarcene senza…

“Io spero in te per noi”, tale è la formula autentica della speranza. Ma se questo “per noi”, anziché aprirsi su un infinito, tende a rinchiudersi su sé stesso, la speranza appassisce e si snatura» (Homo viator, 72-73;  109).

Vivere la speranza come il fiume del cielo: di traverso alla terra

Ama-no-gawa, il fiume del cielo, è la Via Lattea.

O burrascoso mare!
traverso all’isola di Sado
si stende il Fiume del Cielo.

Per leggere gli altri articoli di Presto di mattina, la rubrica di Andrea Zerbini, clicca [Qui]

Il battito di Orbán

Con un  decreto del ministero dell’interno, pubblicato sulla Gazzetta ufficiale, il Governo di Budapest stringe ancora sulla legge sull’aborto. “Oltre ai requisiti già previsti per abortire, la nuova norma rende obbligatorio per i medici presentare alle donne la prova “chiaramente identificabile delle funzioni vitali del feto” [Qui]  

Come se le donne non sapessero, dal giorno stesso in cui scoprono di essere incinte, che la vita sta creando altra vita nelle loro viscere. Tutte le donne lo sanno , anche le più giovani, anche le bambine, anche le meno istruite, anche le più misere, e lo sanno per il semplice fatto di essere nate da donna, perché fa parte della loro storia, perché i loro corpi sentono e comunicano con la loro anima, perché i loro corpi ogni mese gli ricordano il potere che sta dentro di loro.

Si può quindi solo dire che chi ha scritto e pensato questa legge è un sadico o una sadica. Una legge che non conosce e non riconosce l’umano è una legge disumana e questa non riconosce la piena umanità delle donne!  E diciamolo, la piena umanità delle donne è sempre stata difficile da accettare dai grandi pensatori della storia e dai legislatori. “O angeli o streghe malefiche”, mai semplicemente donne.

Far ascoltare il battito cardiaco del feto poco prima di praticare  un aborto  equivale a dire alla donna: ”Tu che non sai cosa sia la vita, che umana non sei, sappi che stai uccidendo la vita, sei un omicida”.

Curiosamente,  la definizione di morte è stata modificata negli anni ’60 proprio per consentire la donazione degli organi. Una questione molto complessa sulla quale mi piacerebbe ragionare.
Prima un morto lo riconosceva anche un bambino. La morte era legata alla cessazione del battito del cuore. Bastava appoggiare l’orecchio sul cuore, sentire il freddo che avviluppa un corpo nel quale il sangue cessa di fluire, per riconoscerla . Oggi non è più così, oggi c’è  anche la morte cerebrale e la dichiara un medico. Una nuova forma di potere su cui riflettere.

Alle donne incinte però il cuore che smette di battere lo vogliono far sentire.
Forse hanno dimenticato cosa sia la morte, forse il  progresso le ha portate sulla via della perdizione. Come femminista sono  sempre stata a favore delle legge 194, che non è una legge a favore dell’aborto, ma  una legge a favore della piena autodeterminazione delle donne. Dove autodeterminazione va intesa come un processo nel quale le decisioni sono il frutto di una relazione profonda tra l’individuo e il gruppo, la società che appunto non le lascia sole. La 194 è una legge compassionevole,  capace di indicare la strada alla comunità, ma aperta alla complessità della vita e delle relazioni umane.

Dovremmo chiederci quindi come sia possibile che Orbán e il suo governo, orgogliosamente, annuncino che in un “paese cristiano” come il loro questo sia un passo avanti in  difesa della vita. Ma forse non c’è da stupirsi, solo pochi mesi fa la Corte Suprema degli Stati Uniti ha ribaltato una sentenza di 50 anni prima, mostrando quanto il patriarcato non abbia alcuna intenzione di smettere di legiferare sui corpi delle donne.

Il  potere in un sistema patriarcale, sistema in cui tutti e tutte siamo cresciuti, è fondato sul controllo dei corpi delle donne. Perché? Per il semplice fatto che il potere generativo delle donne sfugge al controllo degli uomini. Da sempre l’autodeterminazione delle donne  è temuta e va tenuta sotto controllo, va  delimitata, perché  la loro autodeterminazione, se pienamente riconosciuta, conferisce loro un potere impossibile da eguagliare.

L’autodeterminazione delle donne obbliga tutti,  uomini a donne, a rivedere il sistema sociale in cui viviamo, un sistema tragicamente competitivo in cui solo il più forte ha “il diritto” di vivere e comandare,  e apre invece a una visione del mondo e della vita opposta, fondata sulla cooperazione tra diversi e sulla fiducia reciproca.

Ecco perché questi uomini/donne politici, saldamente radicati in una cultura patriarcale, ancorati alla vecchia visione darwiniana del più forte, si beano di approvare leggi antiumane. Il loro potere è  visibile solo quando legiferano sui corpi delle donne, quando annientano il senso stesso dell’umanità delle donne, altrimenti sparirebbero.

Orbán ha introdotto una nuova forma di tortura. Ma attenzione, non c’è da fidarsi dei quintali di indignazione che riempiono la bocca dei politici e inondano le colonne dei giornali. La legge barbarica ungherese non è tanto lontana da noi, ‘il battito di Orbán’ si sente anche da qui. Nell’Europa delle frontiere, dei muri, delle guerre fratricide, il patriarcato non conosce confini. E le donne hanno cominciato a capirlo.

Cover: Il Primo Ministro ungherese Viktor Orbán, foto da Workers’ Liberty – su licenza Wikimedia Commons. 

LO STESSO GIORNO
Sabra e Shatila. 40 anni dal massacro

Di: Redazione di Pagine Esteri, 16 settembre 2022 

16-18 settembre 1982
Beirut, Libano: tre lunghi giorni di strage nei campi profughi di Sabra e Shatila

Beirut, Libano. Era il 1982. Il 16 settembre. L’esercito israeliano era giunto nella zona occidentale di Beirut e insieme alla Falange libanese circondò i campi profughi di Sabra e Shatila.

L’obiettivo dichiarato era quello di scovare i combattenti palestinesi. Ma i campi erano privi di protezione militare: i combattenti erano andati via. Dopo dubbi e discussioni era stato deciso di accettare l’accordo proposto dagli Stati Uniti di Ronald Regan e ritirarsi dai campi profughi per evitare la strage.
Erano state date precise garanzie. Dagli USA e da Israele: una volta che usciti dal Libano i combattenti, la popolazione civile palestinese non avrebbe subito conseguenze. Ma il 16 settembre, per 3 giorni, i campi furono rastrellati. Prima i falangisti pareva cercassero solo gli uomini. Poi hanno cominciato a prendere anche le donne e ad assicurarsi che ci fossero i bambini.

L’esercito israeliano, intanto, aveva chiuso i campi, i palestinesi non potevano uscire e ai falangisti veniva permesso di entrare. L’obiettivo politico della Falange libanese era cacciare dal Libano i palestinesi. E poi di vendicarsi. Vendicarsi per l’assassinio del suo leader, Bachir Gemajel, ucciso due giorni prima.

In questo modo cominciò la strage, illuminata dai fari di perimetro dell’esercito israeliano.

Andò avanti per 3 giorni.

I primi che visitarono i campi dopo il ritiro israeliano descrissero l’orrore di uomini, donne e bambini chiusi in trappola e trucidati. I metodi furono violenti e sanguinari e non si disdegnò l’utilizzo della decapitazione.

Dopo 40 anni i due campi profughi sono ancora lì. Ma la memoria è viva e tramandata da associazioni, volontari, scuole, dagli adulti ai bambini.

La situazione dei palestinesi è misera, i campi sono incredibilmente sovraffollati ma gli è vietato, in Libano, acquistare abitazioni.

La condizione sanitaria è preoccupante, cavi che spostano acqua e energia elettrica pendono insieme aggrovigliati come una rete tra i vicoli sempre più stretti e le case alte e buie. Ai palestinesi è vietato svolgere moltissimi lavori In Libano, decine. I bambini e le bambine spesso non possono far altro che lavorare con i genitori oppure vagare soli per i campi. Le associazioni li accolgono, provano a tenerli con loro, tra attività, giochi e istruzione, come fa la Beirut Atfal al Assomoud (La casa dei figli della Resistenza). Ma le forze non bastano mai.

Insieme al Comitato per non dimenticare Sabra e Shatila, delegazioni italiane e internazionali parteciperanno alle celebrazioni per il 40ennale che si terranno oggi, 16 settembre. Un’occasione per ricordare ma anche per aprire gli occhi sul presente.

Redazione di Pagine Esteri 

 

Cover: Manifestazione di giovani palestinesi, 15 maggio 2021 (foto Comitato per non dimenticare Sabra e Shatila)

Le storie di Costanza /
Settembre 1959 – Maria Bambina

 

A Cremantello c’è un bel mulino. Si trova nella parte del paese dove è ubicata la chiesetta di Maria Bambina. Davanti alla costruzione c’è un grande spiazzo dove si possono fermare i carri a scaricare il grano, a caricare i sacchi di farina, la crusca e gli altri residui della lavorazione.

Il mulino è ampio e circolare, con delle ruote di pietra che tritano il grano rendendolo poltiglia. Le ruote sono azionate ad acqua, passa sotto le pale la Tiria, uno dei nostri fossi più grandi, con una portata fluviale importante.

Il mulino è dipinto con calce bianca che disinfetta, il pavimento è di pietra e viene continuamente spazzato e lavato. La gente porta al mulino i cereali e se ne va con la farina, la crusca e il mangime per i polli.

Se la produzione è abbondante e supera le necessità famigliari, parte del raccolto viene lasciato al mugnaio, che provvede a venderla ad un’altra famiglia e poi a trasferire alla prima il ricavato già concordato.

I proprietari del mulino sono due fratelli: Pietro e Marcello Sassi che, a loro volta, lo hanno ereditato dal padre. Uno si occupa del funzionamento dell’impianto e della supervisione sugli operai, l’altro si occupa dell’amministrazione e fa i contratti.

Questa spartizione del lavoro è molto efficiente, non ci sono sovrapposizioni e, contrariamente a quello che succede da altre parti, i fratelli collaborano senza litigare e il lavoro prospera.

Il figlio di Marcello si chiama Giacomo ed è un mio amico. Forse io gli piaccio, ma non me lo ha mai detto, si limita a venire con me tutte le volte che capita l’occasione. Andiamo a messa, alla fiera, alle riunioni della Caritas e a quelle del Patronato Acli.

Giacomo è un tipo molto tranquillo, perennemente in ritardo, grassoccio, con i capelli biondi e gli occhi azzurri. Quando dobbiamo andare da qualche parte io gli dico sempre: – Ci vediamo là, così ti tengo il posto.

In realtà non è per il posto che vado sempre da sola, ma per non fare la figura di quella che arriva sempre in ritardo, tra l’altro accompagnata dal figlio del mugnaio che è, risaputamente, benestante.

Adesso sono seduta davanti all’ingresso del mulino dall’altra parte della strada, su una delle panchine di legno che circondano la chiesetta della Madonnina. Una chiesa molto piccola e spoglia, al cui interno ci sono alcuni banchi, le rastrelliere dei lumini, un altare di marmo colorato di epoca barocca e una piccola statua dorata della Madonna, che troneggia là in mezzo con autorevolezza e luminosità indiscussa.

Sono circa le sei di sera e sto aspettando Giacomo, perché dobbiamo accordarci su alcune questioni prima di andare alla prossima riunione del Patronato. Mi ha detto: – ci vediamo sulla panchina alle sei ; quindi, arriverà fra venti minuti ed io, intanto, mi posso godere la frescura di settembre, il mio mese preferito.

In chiesa stanno facendo le prove del coro. “Dall’aurora tu sorgi più bella/Coi tuoi raggi fai lieta la terra/E tra gli astri che il cielo rinserra/non v’è stella più bella di te./Bella tu sei qual sole/Bianca più della luna/E le stelle più belle/ non son belle al par di te.”

Si sentono le voci dei coristi che, non proprio all’unisono, cantano questa canzone, che ha cent’anni, ma che piace a tutti. È una canzone in cui la parola “bella” e la parola “bianca” riferite alla Madonna, vengono ripetute molte volte. Sono queste parole, unite alla musica cantilenante, che piacciono alla gente. Le trovano rassicuranti, trasmettono un po’ di speranza.

Del resto, il canto in chiesa è una forma di preghiera, non è necessario che il coro canti perfettamente, né che le voci siano perfettamente in armonia, l’importante è che trasmettano un’emozione, la consapevolezza di essere di fronte ad un grande mistero quale è quello del cuore immacolato di Maria.

Guardo il portone da cui dovrebbe uscire Giacomo. Per ora non lo vedo arrivare. Non è ancora il momento.

Al mulino ci sono molti gatti, perché dove ci sono i cereali ci sono anche tanti topi.  I gatti li catturano e se li mangiano in un sol boccone e, grazie a quelle proteiche abbuffate, diventando rotondi e con un manto lucidissimo.

La settimana scorsa sono nati dei micini all’interno di un cassone posizionato vicino alle macine di pietra. Sono quattro, tre tigrati e uno bianco e nero. Siccome la mamma è tigrata pensiamo che quello a chiazze assomigli al padre.

A Giacomo piacciono i micini e mi ha chiesto se ne voglio uno. Io non posso prenderlo perché ne ho già due che si azzuffano con Toti per guadagnarsi il latte del mattino e le carezze di mio fratello Giovanni.

Una volta un brutto gattone maschio ha preso in bocca un micino appena nato e lo stava portando via. Lo abbiamo rincorso fino in fondo al mulino e per fortuna Giacomo è riuscito a toglierglielo dalla bocca e a riportarlo dai suoi fratelli.

A volte succede che i grossi maschi uccidano una intera famiglia di gattini. Sono aggressivi e vogliono le femmine solo per loro. Ci sono anche maschi molto bravi, si curano della prole e sono dei vice-mamma efficienti.

Intanto è passato un quarto d’ora e il portone del mulino si apre per far passare Giacomo che viene verso di me.

– Ciao Anna mi dice. – Ciao gli rispondo io e lo rendo partecipe delle questioni per le quali lo stavo aspettando. – Va bene, facciamo come vuoi tu commenta lui, come fa sempre.

Quasi tutte le nostre discussioni finiscono così. Non litighiamo mai. A volte ci scambiamo i rispettivi pareri, a volte non è necessario nemmeno quello, visto che il parere è solo uno.

A mia madre piace Giacomo e forse le piacerebbe che ci fidanzassimo, ma a me piace Umberto Del Re, anche se non so esattamente dove sia e cosa stia facendo in questo momento. Siccome è stato promosso, suo padre gli ha regalato il motorino. Mi ha detto che una volta verrà a trovarmi a Cremantello. Mi farebbe molto piacere.

Mi ha anche detto che, prima di pensare all’università, vuole fare il militare. Ha fatto domanda per fare il paracadutista, ma non lo hanno preso perché, giocando a pallavolo, si è rovinato un ginocchio.

Il menisco è stato operato ma non è tornato nelle condizioni ottimali, quelle che sarebbero necessarie per fare il parà. L’hanno così preso per fare il radiotelegrafista e partirà a novembre. Mi ha detto che mi scriverà, chissà se è vero. Umberto scrive molto bene e gli piace farlo, quindi credo che riceverò sue notizie via carta.

Giacomo conosce Umberto. Credo che, nel caso abbia mai avuto velleità nei miei confronti, se le sia fatte passare la prima volta che lo ha visto.

Umberto è alto e robusto, ha un fisico atletico e allenato. Saprebbe difendersi molto bene, se fosse necessario. Giacomo è un tipo tranquillo e non ha nessuna intenzione di entrare in aperto conflitto con chicchessia, men che meno con chi parte da una situazione di vantaggio.

Intanto in chiesa stanno continuando a provare la stessa canzone, solo che ora sono passati alla seconda strofa. “Gli occhi tuoi son più fondi del mare/la tua fronte ha il profumo del giglio/le tue gote baciate dal figlio/Son due rose e le labbra son fior/ Bella tu sei qual sole/Bianca più della luna/E le stelle più belle/ non son belle al par di te”.

Alcuni cantori hanno intonato “non son bella al par di te” con un acuto che non è piaciuto al maestro del coro. – Fermi, fermi! Non si sale così, sembrate impiccati –  dice, agitando le braccia.

– Ora vi faccio sentire io – e si mette a cantare “non son bella al par di te” in maniera poco dissimile a come l’avevo appena sentita. Mi vien da ridere, ma mi trattengo vista la serietà dell’impresa che si sta svolgendo tra le mura della chiesa dietro le mie spalle.

Io e Giacomo ci guardiamo e pensiamo alla processione imminente. Don Astolfo guiderà la fila, seguito dalle bambine vestite di bianco, che porteranno la statuina di Maria Bambina per le strade di Cremantello.

Il Don non ama molto le processioni. Galoppa deciso e semina i fedeli dietro di lui. Ogni tanto sua sorella Colombina lo chiama:  – Don Astolfo vada piano, stiamo rimanendo indietro! – Allora lui si volta e con uno sbuffo rallenta quel poco che basta per far tacere Colombina e poi riparte al trotto.

Anche gli uomini che chiudono il corteo hanno provato a dire al parroco di camminare più piano, ma lui vuole finire la processione in fretta e tornarsene, quanto prima, a casa sua.

I cantori non se la prendono più di tanto per le corse di Don Astolfo, sono distratti dalle parole della canzone che devono cantare e dai segnali fatti col capo dal loro direttore. Nessun cantore conosce le note, si canta tutto a orecchio, come viene, ed è bello così.

Le donne della Confraternita del Santissimo Sacramento portano una cintura azzurra sui cui viene appoggiato un grosso cero. Sono tutte donne anziane, molto devote e molto ligie alla tradizione dei ceri, tradizione di origine medioevale la cui genesi si perde nella notte dei tempi.

Le cinture azzurre sono un po’ ingiallite perché molto vecchie e perché stanno tutto l’anno chiuse in un cassetto dell’armadio che c’è in sacrestia. Quando vengono tolte da là, si arieggiano e si prova a pulirle, ma alle strisce resta comunque una sfumatura giallastra e un vago odore di muffa.

Intanto il coro è arrivato alle prove della terza strofa: “Delle perle tu passi l’incanto/ La bellezza tu vinci dei fior/tu dell’iride eclissi i bagliori/il tuo viso rapisce il signore./Bella tu sei qual sole/Bianca più della luna/E le stelle più belle/non son belle al par di te”.

– Accidenti quanto urlano oggi – dice Giacomo – deve essere Maria Bambina che pompa aria direttamente nei loro polmoni. – Ridiamo un po’, pensando a Maria Bambina che viene portata in processione a quel modo. Confidiamo sul fatto che la Madonnina non se la prenda, né per la corsa del parroco, né per le voci stonate, né per le vecchiette della Confraternita con le loro cinture sbiadite. Speriamo che apprezzi quello che in questa piccola chiesa si riesce a fare.

Nei paesi qui intorno succede la stessa cosa e se lei se la prendesse per tutte queste processioni un po’ stonate, diventerebbe una Maria Bambina triste. Invece splende di una luce meravigliosa e irradia d’oro le persone, le strade, gli alberi e i cuori.
Bella tu sei qual sole/Bianca più della luna/E le stelle più belle/non son belle al par di te.”

N.d.A. I protagonisti dei racconti hanno nomi di pura fantasia che non corrispondono a quelli delle persone che li hanno in parte ispirati. Anche i nomi dei luoghi sono il frutto della fantasia dell’autrice.

Per leggere tutti i racconti di Costanza Del Re è sufficiente cliccare il nome dell’autore.

Parole a capo
Matteo Finoglietti: “Cerchio” e altre poesie

“Mi feci tante domande che andai a vivere sulla riva del mare e gettai in acqua le risposte per non litigare con nessuno.”
(Pablo Neruda)

Nadir

Il blando grido dei gemelli
è l’onda sulla rivista bianca
che increspa l’esistenza,
dimora lieta dei segni
che ricompone un quadro
da ciò che scompare

La mossa atta a offendere
è un placido bacio di fate
distratte, il silenzio di neve
e l’acufene, gioia
che lasciava le stanze
la cuspide inerme. Attende,
che l’agguato sia propizio

Pedestri sguardi dove il cielo
è luce sull’acqua e la stessa danza
degli astri decide la significanza
dei passi. Con loro la mia voce
si è spostata a ritroso
nella confusione presente,
come un granchio

Faccio fronte con la fuga
agli alvei di una domanda

– dove sei?

 

Cerchio

In girum imus nocte
et consumimur igni

Sei il Palinsesto palindromo
a cui biascicando m’abbarbico
cercando uno stralcio di segno,
imporre nomi nei loops eterni
dell’automazione: la vergogna
dei presagi: i calli. Mani
protese che palpano e sanno
cosa non stringono

Il rilievo di un sonno senza sogni
sottrarsi alla legge degli intoppi,
muovere nuovi passi
liberi – nel vano vanto
del metallo – ogni smacco
si mescola alla stele
di un linguaggio:

uno zero zero uno

discente dell’ignoto
rimetto alla conta
il capo perduto
della matassa:

uno zero zero due

 

Ansia

Una piccola pila di segreti
e poco più; il turbinio
di pensieri si dirada a stento
mi segue, chiassoso,
fin sul confine
della darsena

Avessi un commiato
o la riconoscenza tra le dita,
un foglio di via da stringere forte
forse prenderei il largo,
come chi va verso sera
in balia dell’ignoto

Falsa rotta che muovi
a vuoto la nave,
io non ti ho scelto.
Eppure l’orizzonte avanza,
ma non vedo altro approdo
che la cova di segreti
chiusi a stento nella stanza,

il mare immenso
è la risacca

 

Guado

Ogni trama tetra
svincola dalle dita
la ferrea presa di sogni inermi:
ciottoli di un fiume
dove ti faccio d’acqua costretta
sempre alla schiva e ostinata presa

Saperti assente
all’agguanto furibondo,
tra le spensierate genti
stese assenti per i prati,
non mi fa certo ressa
tra pensieri d’intemperie,
di burrasca

Il tuo corso placido
non ha che un seguito:
in sonno come in veglia
farti ospite gradito
L’innato asilo che ti devo
è l’unico divino avvento
che mi scampi dalla pioggia

 

Memento

Tra seguiti e seguaci
sperperi volti, come cavie
alla solenne prova di vita
cui sei sempre assente

Vedi come qui non devi
che fare quello che ti pare?
Fuggire adulare la gente,
o reggere lo scettro

Mai, mi fossi arrischiato
a un inchino, o posato
congiunto speranza alle labbra:
fine arte dell’inganno

L’assenza ti precede – notifica
la spola confusa di segni nel buio –
e la vita – in cui t’insinui
e che invadi – avanza
tumefatta dal ricordo,
tra le macerie dei tasti
in cui attenti un raccordo

 

Matteo Finoglietti è un poeta torinese di 29 anni. Inizia a “giocare” con le parole all’età di 6 anni, prendendo consapevolezza durante l’adolescenza della propria passione per la poesia. Studia al liceo scientifico Piero Gobetti di Torino per poi diplomarsi all’istituto magistrale Domenico Berti con un diploma a indirizzo musicale. Al liceo Gobetti conosce l’insegnante di Letteratura e Latino Paola Valpreda che, insieme allo scrittore torinese Salvatore Tripodi, seguirà il suo percorso di crescita letteraria, fornendo consigli e letture.
Dopo il diploma, Finoglietti lavora come insegnante di scacchi, steward e cameriere; trovando tuttavia il tempo di dedicarsi con impegno all’arte, in particolare alla poesia e alla musica.
Si dedica anche allo studio delle lingue, in particolare l’inglese, il giapponese e il francese. Attualmente cerca una casa editrice che apprezzi la sua silloge per una pubblicazione. Le poesie qui pubblicate sono tutte inedite. La proprietà dei testi è dell’autore.

La rubrica di poesia Parole a capo curata da Pier Luigi Guerrini esce regolarmente ogni giovedì mattina su Ferraraitalia/Periscopio. Per leggere i numeri precedenti clicca [Qui]

Ci SIAMO: Interno Verde Danza
A Ferrara dal 16 al 18 Settembre

Dopodomani si comincia. Dal 16 al 18 settembre, nell’ambito dell’amatissima ed attesissima manifestazione Interno Verde, che abbiamo presentato su periscopio la settimana scorsa, la danza uscirà dal teatro ed entrerà nei giardini di Ferrara con Interno Verde Danza 2022: cinque spettacoli di danza contemporanea in vari suggestivi spazi della città, preceduti, per la prima volta, da una grande festa in Castello con le esibizioni di nove scuole di danza cittadine.

La manifestazione, giunta alla seconda edizione, è inserita nel Festival di Danza Contemporanea 2022 (che da ottobre continuerà al Teatro Comunale), ed è organizzata dal Teatro Comunale di Ferrara con il sostegno del Ministero della Cultura, della Regione Emilia-Romagna e del Comune di Ferrara, in collaborazione, appunto, con Interno Verde.

MicroDanze reenactment – Stroma – ph. Claudio Montanari

Palazzo Schifanoia e il suo inebriante e profumato giardino, il Giardino ‘segreto’ delle Sibille di Casa Romei e il sontuoso ed elegante loggiato della Palazzina Marfisa d’Este diventano per un intero fine settimana (sabato 17 e domenica 18 settembre, con più repliche nella giornata), un palcoscenico a cielo aperto con ospiti originali e bellissime scenografie.

Palazzina Marfisa, foto Interno Verde
Palazzo Schifanoia, foto Interno Verde

Interno Verde Danza 2022 propone performance site-specific di danza contemporanea ideate e realizzate da cinque tra le migliori compagnie italiane: MM Contemporary Dance Company in prima assoluta nel Giardino delle Sibille a Casa Romei con Short Stories di Michele Merola, Fondazione Nazionale della Danza / Aterballetto a Palazzo Schifanoia con MicroDanze / Urban Settings, CollettivO CineticO a Palazzina Marfisa d’Este con O+< Scritture viziose sull’inarrestabilità del tempo, al Ridotto del Teatro Comunale (spostati dal Chiostro di San Paolo per possibili avverse condizioni meteo) Nicola Galli presenta Il mondo altrove e C.G.J. Collettivo Giulio e Jari con Evento.

Danza, storia, arte e architettura si collegano tra loro. D’altronde, Ferrara, sin dal XV secolo, ha un legame particolare con la danza grazie alla figura pionieristica di Domenichino da Piacenza, primo teorizzatore dell’arte coreutica che, con la sua attività alla corte degli Este, riuscì a far riconoscere alla danza la stessa dignità della musica e della pittura.

Eccovi allora alcuni dettagli sugli eventi nello specifico. Se siete curiosi, troverete vari link agli artisti, cliccando sui nomi rispettivi.

Venerdì 16 settembre ore 20 – Loggiato del cortile del Castello Estense, Open Day Scuole di Danza

Le Scuole di Danza del territorio presentano le proprie coreografie. Hanno aderito all’iniziativa: la Scuola di Danza di Luisa Tagliani, il Cigno Danza M2 di Melania Durca, Dance Nation di Fabrizio Lolli, Scuola di Danza Classica Arabesque di Elena Souchilina, Gruppo Teatro Danza di Anna Lolli, Jazz Studio Dance – Uisp Ferrara – direzione artistica di Silvia Bottoni, ASD Vigarano Danza di Anna Rita Smai, Hip Hop Room di Sabrina Lopez e Zenit E-Motion a Bondeno di Marika Ferrarini.

Sabato 17 e domenica 18 settembre ore 11, 17.30 e 18.30, Casa Romei – Short Stories – MM Contemporary Dance Company

Ferrara ospita la prima assoluta di Short Stories di Michele Merola (una coproduzione del Teatro Comunale di Ferrara).

MM Contemporary Dance Company, foto Nicola Stasi

Interpreti saranno sei danzatori della MM Contemporary Dance Company, compagnia di danza contemporanea attiva dal 1999 e diretta dallo stesso Merola.

Short Stories nasce per adattarsi a luoghi non convenzionali come un cortile, un prato, un giardino naturale, una radura.

La coreografia, nelle sue varie sezioni, dialoga con il giardino ‘segreto’ di Casa Romei (quello delle Sibille) e con gli affreschi e la storia dell’edificio costruito dal mercante Giovanni Romei alla metà del XV secolo, tanto da creare un rapporto sinergico tra corpi, spazi e pubblico presente. Il luogo si trasformerà poeticamente in un teatro a cielo aperto, pur mantenendo la sua peculiarità e la sua anima. Il lavoro coinvolge i corpi danzanti in un disegno continuo, costruito su ripetizioni e differenze, momenti di assoli, duetti e partiture corali, musicalmente sostenute da loop e lunghissimi rallenty generati dal sound della musica dal vivo, composta ed eseguita da Federica Furlani. I danzatori faranno perdere il senso del confine che separa pubblico e spazio scenico.

Prima della performance, Andrea Sardo, direttore del Museo di Casa Romei, illustrerà la Sala delle Sibille in collegamento con il giardino, per dar modo a chi vi assiste di cogliere e godere delle connessioni artistiche tra l’evento danzato e lo spazio che lo ospita.

Casa Romei, foto Interno Verde

Sabato 17 e domenica 18 settembre ore 11.30, 16 e 19, Palazzo Schifanoia, MicroDanze/Urban Setting – Fondazione Nazionale della Danza / Aterballetto 

Nei suggestivi spazi interni ed esterni di Palazzo Schifanoia, residenza di “delizia” dei duchi estensi e luogo simbolo di Ferrara, la Fondazione Nazionale della Danza / Aterballetto propone MicroDanze / Urban Setting, progetto di performance “danzate” ideato da Gigi Cristoforetti che sfugge alla dinamica del palcoscenico, alla distanza che separa lo spettatore dall’interprete, creando un continuum tra chi guarda e chi è guardato sollecitando un’esperienza emotiva ed estetica. Il Nuovo Museo Schifanoia e parte del suo giardino dialogheranno con il lavoro di coreografi – nazionali e internazionali – che hanno concepito otto pezzi brevi di sei-otto minuti da danzare in spazi ristretti, ai quali è possibile assistere come se si stesse visitando – appunto – un museo. Filo conduttore è la ricerca sulla danza come forma dell’abitare, in relazione con le pratiche artistiche contemporanee che si radicano in un territorio.

MicroDanze reenactment – Eppur si muove – ph. Claudio Montanari

Le MicroDanze rappresentate a Interno Verde Danza sono inserite in un suggestivo percorso curato da Lara Guidetti e sono: Active Motivation di Elena Kekkou, Pensieri di Carta di Hélias Tur-Dorvault, Eppur si muove di Francesca Lattuada, Turn the Tide di Roberto Tedesco, Knight Rider di Yannis Nikolaidis, Strôma di Giovanni Insaudo, Forget me not di Konstantinos Rigos, Fantasmagoria di Markella Manoliadi. Nell’ottica di trasmissione e valorizzazione del lavoro, il progetto coinvolge giovani talentuosi danzatori selezionati da Aterballetto.

MicroDanze urban setting – Forget me not by Konstantinos Rigos – ph. Davide Sabattini
MicroDanze urban setting – Fantasmagoria by Markella Manoliadi – ph. Claudio Montanari
MicroDanze urban setting – Stroma by Giovanni insaudo – ph. Davide Sabattini
MicroDanze urban setting – Pensieri di carta di Hélias Tur-Dorvault – ph. Davide Sabattini

Sabato 17 e domenica 18 settembre, ore 11, 17.30 e 19, Ridotto del Teatro Comunale (spostati dal Chiostro di San Paolo per possibili avverse condizioni meteo), Evento – C.G.J. Collettivo Giulio e Jari 

Sabato 17 e domenica 18 settembre ore 11.30, 18 e 19.30, Ridotto del Teatro Comunale (spostati dal Chiostro di San Paolo per possibili avverse condizioni meteo), Il mondo altrove – Nicola Galli

Al Ridotto del Teatro Comunale due saranno gli appuntamenti. Si inizia nel chiostro piccolo con C.G.J. Collettivo Giulio e Jari, che propongono Evento, di e con Giulio Petrucci e Jari Boldrini, con musica di Simone Grande. Per gli artisti “le relazioni umane sono esperienze condivise intessute di ricordi”. La relazione e l’intesa tra i performer esprime il coraggio di vivere pienamente e apertamente l’unicità di un legame irripetibile, per condividerlo. Evento nasce, dunque, dal desiderio di trasmettere un’esperienza del corpo senza alcun filtro. Il motore è il fulmineo scambio di informazioni tra i due danzatori: i tempi ritmici rispondono a un impulso visivo e la geometria dello spazio muta ripetutamente.

EVENTO CGJ Ph Andrea Macchia

A seguire, nel chiostro grande di San Paolo, Nicola Galli presenta Il mondo altrove, creazione coreografica in forma di rituale danzato, che celebra secondo una logica scenica il moto di un mondo inesplorato. Quattro figure sciamaniche, finemente adornate, conducono una cerimonia magica e senza tempo, un dialogo gestuale che diviene espressione di sostegno vicendevole, dono perpetuo, comunione universale e celeste. Nel tracciare un percorso ideale tra Occidente e Oriente, il lavoro di Galli è liberamente ispirato ai rituali indigeni dell’America del Sud, ai simboli e alle tradizioni del teatro Nō giapponese, e all’ossessiva, per certi versi mistica ed eccentrica ricerca musicale del compositore Giacinto Scelsi intorno all’idea sferica del suono.

Il mondo altrove, Nicola Galli

Sabato 17 e domenica 18 settembre ore 11, 17.30 e 19, Palazzina Marfisa d’Este, O+< Scritture viziose sull’inarrestabilità del tempo – CollettivO CineticO

Il giardino di Palazzina Marfisa d’Este, con la decorata Loggia degli Aranci, è lo spazio e il luogo con cui si confronta CollettivO CineticO con O+< Scritture viziose sull’inarrestabilità del tempo, creazione di Francesca Pennini, con Teodora Grano (danza), Angelo Pedroni (dj live) e Andrea Amaducci (grafica live).

CollettivO CineticO_O_Scritture Viziose, ph.Matteo De Fina

In O+< la danza è costruita e decostruita secondo una continua precarietà. Una sorta di tappeto bianco rettangolare occupa lo spazio. Sul grande foglio il corpo di nero vestito della performer danza, mentre il writer osserva, strizza gli occhi, immortala frame che velocemente trasforma in disegni sull’enorme tela. È come se il movimento venisse bloccato, ritratto, schizzato sul foglio che si riempie di segni in base alla presenza della danzatrice che entra in dialogo con lo spazio bianco monodimensionale: il tratto si fa corpo, mentre il corpo si fa tratto nell’azione pittorica di Amaducci.

Un programma ricchissimo, dunque. Di che inebriarsi, al profumo dei giardini in fiore.

MicroDanze urban setting, Active Motivation by Elena Kekkou , ph. Davide Sabattini

 Immagini cortesia dell’Ufficio stampa del Teatro Comunale di Ferrara

PROVE GENERALI DI UN GIROTONDO AL PARCO URBANO
Appuntamento l’1 ottobre per Save the Park

 

Ufficialmente si chiama flash mob, oppure presidio popolare, ma l’evento programmato sabato 1 ottobre a partire dalle 16,30 assomiglierà soprattutto a un girotondo. Un enorme girotondo nel verde del Parco Urbano. Dove? Proprio nella grande area erbosa dove dovrebbe atterrare la corazzata del Boss, con un megapalco  e circa 60.00 spettatori.

La mozione Save The Park (vedi in fondo all’articolo) ha raccolto quasi 30.000 adesioni: un numero stratosferico, mai visto a Ferrara. 30.000 firme che non sono (come qualcuno vorrebbe far credere) contro il concerto di Bruce Springsteen e nemmeno contro i grandi eventi. 30.000 persone ragionevoli che chiedono semplicemente di spostare il concerto del Boss in un’altra area e preservare l’inestimabile ma delicato patrimonio naturale del Parco Urbano.

Il laghetto del Parco Urbano Bassani (Foto Valerio Pazzi)

Un folto gruppo di ferraresi  si è votato alla nobile causa della difesa del Parco Urbano. Oltre alla raccolta di firme, è stata avviata in questi giorni una campagna di sensibilizzazione, mentre sono in programma nuove iniziative.
Prima di tutto c’è da organizzare il grande girotondo del 1 ottobre. E siccome le cose “vanno fatte bene”, il gruppo si è dato appuntamento nel parco per le ‘prove generali’ del flash mob. 

   

Intanto, è stata preparata una maglietta, con il logo Save The park e una vignetta spiritosa; una catapulta che lancia il Boss e il suo bel concerto fuori dai confini del Parco Urbano. Sabato 1 ottobre tutti i partecipanti al flash mob indosseranno quella maglietta. E saranno in tanti , gli organizzatori stanno già raccogliendo, una per una, le adesioni dei ferraresi. In preparazione anche uno grande striscione.

Infine, per pubblicizzare l’iniziativa, sono stati stampati alcune migliaia di volantini. E visto che sono già in distribuzione nelle affollate serate del Buskers Festival,  dove arrivano anche tanti turisti stranieri, del volantino Save The Park è stata preparata anche una versione in lingua inglese.

Non era mai successo che a Ferrara una petizione popolare raccogliesse tante firme. Mentre scrivo, più di 35.000 cittadini hanno già firmato la petizione SAVE THE PARK per proteggere dai maxieventi lo straordinario patrimonio naturale del Parco Urbano intitolato a Giorgio Bassani. Se non l’hai ancora fatto puoi aggiungere la tua adesione [firma qui la petizione] 

Regno Unito, ne abbiamo abbastanza della monarchia


di Craig Murray*, Manchester UK
Traduzione dall’inglese di Daniela Bezzi (pressenza intermazional press agency)

Non vi è dubbio che milioni di persone abbiano provato un sincero attaccamento per la Regina Elisabetta, come continuerà a essere evidente nei giorni a venire. Ma ciò che appare sempre più evidente è anche la natura anacronistica della monarchia, nelle sue palesi assurdità e con quelle procedure da pantomima, con gli Herald Pursuivants e i Royals piegati sotto il peso delle loro medaglie mai guadagnate.

Nell’annunciare la morte della regina, qualche stenografo della BBC è stato costretto a battere a macchina con espressione compunta frasi del tipo “Il Duca e la Duchessa di Cambridge sono da oggi il Duca e la Duchessa della Cornovaglia oltre che di Cambridge”, che anche cinquant’anni fa sarebbe suonata parecchio assurda come battuta in uno sketch alla Monty Pyton. Ancora più assurdi sono i milioni di reddito feudale che accompagnano quel titolo, tutti soldi veri, sborsati da persone normalissime sotto forma di contributi feudali.

Le misure in vista della morte della regina sono state pianificate decenni fa e si vede. La BBC, ITV e i Canali 4 e persino 5 hanno interrotto qualsiasi programmazione di intrattenimento per dare spazio alla più pre-ordinata espressione di corale cordoglio, come se vivessimo ancora in un mondo in cui alla gente non è permesso cambiare canale per godersi Gordon Ramsay su Blaze – come se non esistessero Netflix, Amazon e l’intera Internet.

Ho seguito per alcuni minuti la BBC la notte della morte della regina, fino a quando un “commentatore specializzato in vicende della corona” ha detto che la gente si stava affollando all’esterno di Buckingham Palace perché la nazione intera sentiva il bisogno di rispondere a quel gran dolore con il benessere fisico di stare insieme. Erano un paio di centinaia in tutto. Le emittenti hanno continuato a concentrarsi su una dozzina di bouquet lasciati sul marciapiede, nel disperato tentativo di convincere la gente a portarne di più.

Non c’è dubbio che tutto questo abbia funzionato e che ci sia stata una discreta folla e tappeti di fiori nei giorni seguenti. Erano in molti a provare una sincera devozione per Elisabetta II, o meglio per quella immagine di lei straordinariamente ripulita che veniva loro presentata.

Io l’ho vista da vicino mentre era impegnata in due visite di Stato che nel mio ruolo di ambasciatore sia in Polonia che in Ghana ho contribuito in modo rilevante a organizzare. Era molto diligente, molto seria, sinceramente ansiosa di fare del suo meglio e preoccupata per questo. Mi ha colpito per la sua personalità gradevole e gentile. A dire il vero, non mi è sembrata particolarmente brillante o acuta. Ero abituato a lavorare con ministri di un certo livello, sia inglesi che esteri e lei non era a quel livello. Ma è in effetti improbabile che qualcuno scelto per puro diritto di nascita possa esserlo.

Come vuole la tradizione, lo staff responsabile nell’organizzazione di una visita di Stato riceve normalmente una privata manifestazione di ringraziamento a livello individuale. Oltre agli onori previsti dalla circostanza. Io ho rifiutato un LVO (Luogotenente del Royal Victorian Order) a Varsavia e un CVO (Comandante dello stesso Royal Victorian Order) ad Accra. Per via di questa singolare circostanza, sono una delle pochissime persone, o forse l’unica persona, che ha mai rifiutato un onore dalla regina e che poi ha avuto un’udienza privata in cui lei stessa me ne ha chiesto il motivo! Sicuramente devo essere l’unica persona che per ben due volte ha vissuto una simile esperienza. (All’inizio della mia carriera mi era stato chiesto se avrei accettato un OBE, che è la massima onorificenza britannica e ho detto di no. Come per la stragrande maggioranza delle persone che hanno rifiutato un onore, dubito fortemente che la regina lo abbia mai saputo.)

In ogni caso, durante la mia audizione, ho detto alla regina che ero non solo repubblicano, ma anche un nazionalista scozzese. Devo dire in tutta onestà che ha avuto una reazione del tutto normale: mi ha risposto con cortesia e sembrava vagamente divertita. Entrambe le volte, invece dell’onorificenza, mi ha dato dei regali personali: un portalettere realizzato dal Visconte Linley e un piatto Armada d’argento. In seguito ho messo all’asta quel portalettere per raccogliere fondi in favore di Julian Assange.

Ho indugiato in questo viaggio a ritroso nella memoria per spiegare che ho trovato la defunta regina una persona piacevole e molto motivata, che faceva ciò che riteneva giusto. Siamo tutti modellati dall’ambiente in cui siamo nati; io sarei stato un monarca ben più orribile di lei se fossi nato nel suo ruolo, sicuramente molto più sibaritico (come sembra essere il resto della sua famiglia).

Per cui non c’è alcuna personale malizia dietro la mia previsione che la festa per la monarchia finirà molto presto. Non solo perché l’istituzione e lo sfarzo appaiono ridicoli nell’epoca attuale, ma per come viene presentata. La BBC si sta comportando come se fossimo ancora negli anni Cinquanta e a quanto pare continuerà a farlo per molti giorni. L’intera nozione di una piattaforma statale di trasmissione è antiquata e credo che un numero crescente di persone se ne accorgerà.

Il 29% della popolazione del Regno Unito vorrebbe abolire la monarchia, senza contare le risposte dei Non So; in Scozia la percentuale sale al 43%. Nel Regno Unito nel suo insieme i giovani tra i 18 e i 24 anni sono per il 62% favorevoli all’abolizione della monarchia, esclusi i Non So e si sentiranno ulteriormente distanti dalla stravaganza degli eventi di questi giorni. Solo i lealisti, i sudditi davvero convinti si sentiranno rafforzati – gran parte della popolazione non potrà fare a meno di ridicolizzare come assurda questa crescente pomposità. Nelle stesse ore in cui la Regina stava morendo, io stesso mi sono trovato a esortare la gente su Twitter a commenti un po’ più gentili.

Consideriamo seriamente questo dato. Il 29% della popolazione vuole abolire la monarchia. Pensiamo a tutta la copertura della monarchia trasmessa dalla BBC nel corso degli ultimi dieci anni. In che percentuale possiamo dire che le opinioni repubblicane siano state in qualche modo rappresentate? Meno dell’1%?

Consideriamo ora la copertura mediatica su tutti i media di trasmissione e stampa. Quante volte i media hanno rispecchiato il punto di vista repubblicano di un terzo della popolazione? Molto, molto meno di un terzo delle volte. Più vicino allo 0% che all’1%. Sì, ci sono alcuni media che non amano Meghan perché è nera, o sono inclini a criticare Andrew. Ma l’istituzione della monarchia stessa?

Non ci può essere esempio più chiaro del potere della monarchia, dell’implacabile propaganda mediatica con cui l’establishment mantiene la sua presa.

Sia i media privati che quelli statali sono unanimi nel più servile sostegno della monarchia. La Thailandia ha leggi molto severe per difendere la sua monarchia. Noi non ne abbiamo bisogno; abbiamo la proprietà dei media statali e aziendali che pensano a farla rispettare. Un’ultima considerazione, che non credo servirà granché, ma solo per il gusto di speculare. Il re Carlo III ha fatto sapere che è sua intenzione provare a esercitare una maggiore influenza sul governo rispetto a sua madre. Sale al trono nello stesso momento in cui si insedia un nuovo governo sotto Liz Truss, che rappresenta un assoluto anatema per le convinzioni politiche di Carlo.

Carlo è un ambientalista liberale di vecchio stampo con una genuina (sebbene superficiale) predilezione per il multiculturalismo. Ha fatto sapere che deplora le deportazioni in Ruanda. Ora si troverà a calarsi nel suo ruolo, mentre in suo nome il governo sta per essere guidato da folli ideologi di destra, che premono per una spinta massiccia per produrre più combustibili fossili. Potrebbe valere la pena fare scorta di popcorn…

Chiedo scusa se faccio notare che la mia capacità di fornire questa copertura dipende interamente dalle vostre gentili iscrizioni volontarie che mi permettono di proseguire in questo blog. Questo post può essere riprodotto o ripubblicato gratuitamente da chiunque, anche in traduzione. Siete comunque benvenuti se continuerete a leggere anche senza abbonarvi. Vi siamo quindi molto grati per ogni iscrizione utile a mantenere attivo questo blog.

* ) Craig Murray è autore, blogger e attivista per i diritti umani. È stato ambasciatore britannico in Uzbekistan da agosto 2002 a ottobre 2004 e Rettore dell’Università di Dundee da 2007 a 2010

Cover: La famiglia reale britannica in una foto del giugno 2012 (Foto di Carfax2, Wikimedia Commons)

TERZO TEMPO
Luis Enrique: a modo mio

Nonostante la Nazionale maschile della Spagna sia una delle più vincenti, innovative ed emulate Nazionali degli ultimi quindici anni, lo spazio che i media spagnoli le hanno dedicato negli ultimi anni è incentrato perlopiù sulla figura e sulle parole dell’allenatore Luis Enrique, il cui rapporto con gli stessi media è sempre stato un po’ difficile.

Tale rapporto si è ulteriormente inasprito a partire dall’estate del 2018, cioè quando è cominciata la sua prima esperienza sulla panchina della Spagna: già dalla conferenza stampa di presentazione, il tecnico asturiano ribadì ai giornalisti che a lui non interessava essere simpatico o accomodante e che avrebbe interagito con loro senza alcun filtro. Un atteggiamento, questo, che aveva contraddistinto il suo triennio sulla panchina del Barcellona [Qui], e che nell’ultimo periodo sta avendo un’enorme risonanza mediatica, specialmente dopo la conferenza stampa dello scorso 5 ottobre. In quell’occasione Luis Enrique rispose così alla domanda di un giornalista che gli chiedeva se avesse letto o meno le critiche della stampa spagnola alle sue convocazioni.

“Non mi arrivano notizie delle critiche perché non vi leggo, non vi ascolto. Per me, è la stessa lista di sempre. Non vi leggo perché credo di sapere più di calcio della maggior parte di voi, e ho più informazioni di voi. Tra le opinioni che posso leggere, non ce n’è una che possa interessarmi.”

Aggiungete a tutto ciò il fatto che, da giocatore, lo stesso Luis Enrique è passato dal Real Madrid al Barcellona, accogliendo a braccia aperte la filosofia del club blaugrana ed esportandola poi in altri contesti. Data l’acerrima rivalità – non solo calcistica, ma anche politica, linguistica e sociale – tra la Catalogna e la capitale spagnola, va da sé che buona parte della tifoseria madridista serba un po’ di rancore nei suoi confronti, accusandolo addirittura di non convocare volontariamente i giocatori del Real Madrid in Nazionale. Basti pensare che in occasione della finale di Nations League tra Spagna e Francia qualche tifoso dell’undici blanco, nonché dei giornalisti e opinionisti filo-Madrid, hanno espressamente simpatizzato per la Francia di Karim Benzema – capitano e simbolo del Real Madrid di questi ultimi anni – anziché per la propria Nazionale. Ad aggiungere benzina sul fuoco ci ha pensato poi l’account Twitter dello stesso Real Madrid [Qui], complimentandosi con la Nazionale francese e il già citato Benzema per la vittoria.

Insomma, per un motivo o per l’altro Luis Enrique è lontano dall’avere quella popolarità trasversale che, ad esempio, appartiene al suo collega Roberto Mancini. L’allenatore asturiano, infatti, non concede interviste a singole emittenti o a singoli giornalisti e non presta il suo volto a campagne pubblicitarie. Nel frattempo, la sua Spagna è una squadra sempre più sicura di sé e dei suoi mezzi: ha uno stile di gioco ben definito, si trova a suo agio nelle avversità e ama prendersi dei rischi. Luis Enrique ha ridato un’identità alla Nazionale spagnola, poiché adesso ciascun giocatore sa benissimo cosa fare, come farlo e quando farlo. È tuttavia un gruppo piuttosto giovane, e può peccare di inesperienza o precisione nei momenti chiave, ma tutto ciò a Luis Enrique non interessa granché: vuole che la sua squadra giochi come sa, senza condizionamenti. E, perlomeno sotto quest’aspetto, la Spagna di oggi somiglia moltissimo al suo allenatore.

Cover: foto di EFE

La pace del signor G. di Luzzara che fermava la guerra con tre parole

 

“Il tema della pace riassume qualsiasi altro”
Cesare Zavattini

Valentina Fortichiari, profonda conoscitrice degli scritti di Cesare Zavattini, ha curato la “LA PACE Scritti di lotta contro la guerra”. La Festa dell’Unità di Bologna di domenica scorsa dedica un momento di dibattito al tema. Partecipo anch’io.

“Non è vero”: è il grido che, per Cesare Zavattini, ripudia la guerra. E ci riesce, secondo il realismo magico dei suoi racconti.
Così in Straparole: il 16 giugno 1940. In piazza Venezia. mentre il Duce annunciava la guerra. un certo G. lo interruppe gridando non è vero. Fu lui che impedì la guerra. Io gli ho parlato a lungo ed era un uomo di media cultura, sposato nel ’35, con un bambino di quattro anni; gli ruppero il setto nasale e strappato una manata di capelli che non gli sono più ricresciuti. Attualmente gestisce una fabbrichetta di sapone a Iseo”.

Il ripudio della guerra potrebbe aprire a una realtà migliore, come quella raccontata in  Totò il buono. Scritto per i figli e pubblicato nel ’43, ispira il film Miracolo a Milano.

Una realtà migliore appare possibile nel Dopoguerra. Sempre in Straparole: “La rivoluzione, 31 luglio 1945. Nel mio quartiere se passa un ricco i ragazzi scalzi gridano ri-vo-lu-zio-ne fingendosi col pestare i piedi pronti all’inseguimento”. Sempre non è vero è efficace nei confronti di una politica subito inadeguata: “Una volta contavo di fondare un’associazione di giovani che avrei allevato nel sospetto, anzi nell’incredulità; li avrei disseminati per i comizi, affinché interrompessero gli oratori gridando: non è vero”.

Buona idea, ma ci vuole altro. Lo sa Aldo Capitini che propone i Centri di Orientamento Sociale della nonmenzogna. Sono l’alternativa ai comizi. Ci si va per ascoltare e parlare. Non l’uno senza l’altro. E i temi vanno dalle patate agli ideali. Ci vogliono tutti. Zavattini è molto attento all’iniziativa.

Il tema della pace accomuna Aldo e Cesare. Questi, già nell’ottobre del ’51 pensa ai cinegiornali della pace e a un grande lavoro culturale profondo e diffuso. Nel 1955 a Helsinki ha il Premio del Consiglio mondiale della Pace con sede a Vienna.
Zavattini è già in contatto con Capitini. Interessante è il loro scambio epistolare e il reciproco dono, con dedica, delle loro pubblicazioni. Il 7 luglio 1950 Cesare scrive ad Aldo: “Ti appoggerò con tutte le mie forze”. Si intensificano i contatti nel ’61, anno della prima marcia Perugia-Assisi. Lo ritiene un messaggio da rendere permanente. Pensa a un Giornale della Pace, una rivista quindicinale, lito, di 64 pagine, da pubblicare con Mondadori, con direttore Aldo Capitini e qualificati collaboratori: De Benedetti, Vittorini, Quasimodo…
Capitini ne ha pronto il titolo: “Pace risponde”. Zavattini progetta pure un grande volume, “Problemi della pace”. Sono generosi propositi che non hanno attuazione.

Ne sentiamo l’eco sempre in Straparole: “Non bastano delle rondini come Bertrand Russell, il nostro Capitini e qualche altro per riscattare una generazione di intellettuali. Alcuni dei quali continuano a fare delle opere magari stupende e che contribuiscono ovviamente, in forme più o meno dirette, a prendere coscienza anche della pace come atto supremo e costante di responsabilità, però non affrontano il problema di petto. (…) Sarebbe un fatto importante e meraviglioso come il volo sulla Luna se per un anno intiero gli intellettuali non s’occupassero d’altro che di capire il problema della pace, di studiarlo, di farlo capire, di farlo studiare, di approntare delle specie di tavole sinottiche attraverso le quali si vedano le più segrete ramificazioni del problema, ramificazioni che raggiungono gli individui e la società nei momenti più impensati della loro esistenza”.

Aldo muore nel ’68. Il suo Attraverso due terzi del secolo può considerarsi il bilancio dei suoi esperimenti con la verità, secondo il detto di Gandhi.
Cesare muore nel 1989. Ha più tempo e fa più bilanci. Un bilancio non confortante è in La notte che ho dato uno schiaffo a Mussolini. Nel “postscriptum più lungo dello scriptum” troviamo vari appunti. Il numero 6, ad esempio, comincia così: “Per tanti anni un intero popolo è stato stupido, salvo poche eccezioni di cui non facevo parte. La nostra tragedia è imperniata sulla stupidità, rivela la stupidità”. I trent’anni passati dalla Liberazione non ci hanno reso più consapevoli. Anzi! L’appunto 70 ribadisce in apertura “che il nostro paese è maturo non da oggi. Lo era dal 1945, per assumere una responsabilità politica di sinistra vera e propria. Le fasi e parentesi liriche, ‘repubblicane’, socialiste, socialdemocratiche, sono state bruciate da trent’anni di regime prevaricatore”.

“Stricarm’ in d’na parola” (Stringermi in una parola), è la miglior definizione di poesia che io conosca – raccoglie le sue poesie in dialetto. Ritroviamo il tema della pace e della guerra in vari punti.
È esorcizzata nell’attacco de “La guèra / La guèra l’an ghé mai stada! / Mé a l’o invantada! / Am suced quand a bev”.
Dire “abbasso” non basta e l’età lo rende difficile. “Cumplean / Abàs la guera abàs! / A siom d’acord da tanti an, abàs. / Ades ch’ié stanta, / s’al sbrai trop fort / am ve sö an po’ ad catar / e pensi a la me mort”.
C’è il ricordo delle manifestazioni: “Basta! / Invern e istà / a sa m’avdeva sempr’in di cortei / sota cartei cm’insema scret basta! / A intreciava i bras / cun om cun doni ad töt i età / sensa dmandarg’ al nom, / e andaum”.

Alla biennale di Venezia del 1982 presenta il suo unico film come attore, soggettista, sceneggiatore, regista La veritàaaa.
Consiglio di guardarlo fino ai titoli di coda. E anche quando i titoli di coda finiscono. Fino alla chiusa: Ma non ci sono dei manuali, dei libri per insegnare la Pace! C’è da…, c’è da scrivere meno… Anzi: da non scriverla! Scrivere meno e organizzare di più. E negli occhi! Imparando di generazione in generazione, con la pazienza della fede, proprio, i linguaggi, la logica!!, che è la vita stessa! Inventare la vita… E guardate che non c’entra la bontà. Guardate la bontà non c’entra! Bisogna cominciare dal feto, altrimenti la pace non ci sarà mai. In eterno!”

Lo stesso anno, l’ottantenne Cesare riceve l’Ordine dell’amicizia tra i popoli, conferito dal Soviet supremo dell’URSS. Due anni dopo, con apprezzamento bipartisan, Il premio Alcide de Gasperi.

Questo splendido articolo di Daniele Lugli è già apparso con altro titolo, ieri 12 settembre 2022, su Azione nonviolenta 

Il Progetto FE.RIS contrasta con le urgenze della crisi climatica:
la via del confronto e della democrazia partecipata

 

“Il tempo per fermare la catastrofe sta finendo” –  ha dichiarato alla Cnn Michael Mann, uno degli autori del Sesto rapporto sullo stato della scienza sui cambiamenti climatici, firmato dai 234 scienziati dell’IPCC (International Panel on Climate Change) – Restano zero anni per evitare ulteriori pericolosi cambiamenti climatici. La finestra sul mantenimento del riscaldamento globale al di sotto di 1,5 gradi si sta chiudendo rapidamente e le attuali promesse sulle emissioni fatte dai firmatari dell’accordo di Parigi non bastano al raggiungimento di tale obiettivo”.

Il mondo si è riscaldato di 1,1 gradi Celsius in più rispetto ai livelli preindustriali “inequivocabilmente a causa delle attività antropiche” afferma il Sixth Assessment Report —IPCC  e si sta aggravando più rapidamente di quanto previsto: dal 2018, quando l’IPCC ha pubblicato un rapporto speciale sul significato di 1,5 gradi, le emissioni di gas serra sono continuate ad aumentare senza sosta e hanno spinto le temperature globali più in alto.

Ormai sappiamo che per contrastare la crisi climatica ed ecologica dovremo  cambiare il nostro modo di vivere e di relazionarci con la natura e gli spazi in cui viviamo, dovremo modificare profondamente stili di vita, di produzione e di consumo. Dovremo individuare  strade per scelte coraggiose che portino a una radicale e rapida trasformazione della società.

In questo contesto di piena crisi climatica non è più possibile continuare a consumare territorio, perseguendo un modello di sviluppo ormai inadeguato. 

Purtroppo, mentre a parole si prendono impegni per il risparmio di consumo di suolo, nei fatti, le scelte contraddicono tali impegni: in Italia infatti si continua a cementificare, come ben evidenzia il recente  rapporto Ispra (70,000 m2 di nuovo suolo consumato nel 2021, 2 m2 al secondo ).
Questo avverrà  anche a  Ferrara se andrà in porto il  progetto Fe.ris che risulta infatti non solo inadeguato ma sbagliato e pericoloso per la città e il suo equilibrio sociale e ambientale.
Lo scorso mese di luglio, il primo atto del progetto Fe.ris. è stato approvato dal Consiglio Comunale con una risicata maggioranza, con una forte opposizione della minoranza e di parte della maggioranza, e senza nessun confronto e coinvolgimento dei cittadini, forze sociali ed economiche ed associazioni.

Non è possibile accettare  questa incoerenza del Sindaco e della Giunta. Infatti contrastare il consumo di suolo era stato un impegno preciso che l’Amministrazione Comunale si era assunto appena tre mesi prima, lo scorso 12 aprile, proprio per mitigare gli effetti del riscaldamento globale.

Che senso ha costruire un nuovo ipermercato e un grande parcheggio nel Sottomura se dobbiamo modificare le modalità di consumo e ridurre l’uso dell’auto privata e favorire la mobilità pubblica o il car sharing?

E che senso ha un accordo di programma pubblico-privato che nella riqualificazione dell’area della caserma non ha chiare le finalità pubbliche dell’intervento? Non basta dire che siccome l’area è degradata va bene qualsiasi intervento.

I principali punti critici del progetto Fe.ris

Non è un progetto innovativo e tantomeno rigenerativo la realizzazione di un nuovo ipermercato in via Caldirolo.
Un ipermercato rappresenta la perpetuazione di un modello di sviluppo e di consumo ormai in via di superamento ovunque. E a che serve alla città, già invasa dai centri commerciali, costruirne un altro di quasi 4000 metri quadri di superficie di vendita?
Si tratta di un’idea vecchia e superata, agli antipodi del modello della “Città dei 15 minuti“ [vedi una breve presentazione video] proposto dall’urbanista franco-colombiano Carlos Moreno per la città di Parigi e riproposto da tanti altri urbanisti e amministratori per rendere vivibili le città: “un’idea di spazio urbano in cui la maggior parte delle necessità quotidiane dei residenti può essere soddisfatta spostandosi a piedi o in bicicletta direttamente dalle proprie abitazioni”.
E’ davvero paradossale che proprio al modello della “città in 15 minuti” si rifaccia il progetto Fe.ris nel Documento di presentazione, ma contraddicendolo in toto, contabilizzando anche gli spostamenti in auto! (vedi pag.25 allegato V)

Non è un progetto rigenerativo e non è innovativo un nuovo grande parcheggio in via Volano.
Un parcheggio sul Vallo delle Mura che nega il valore del “vuoto” necessario per valorizzare il paesaggio e le fortificazioni storiche è sbagliato paesaggisticamente perché irrispettoso del contesto, ma è sbagliato anche in riferimento ad ogni nuovo e moderno criterio di mobilità urbana. E’ un modello di mobilità vecchio, che continua ancora a essere incentrato sull’uso dell’automobile privata a detrimento del trasporto collettivo, in aperta controtendenza con quanto si sta sperimentando in tante città del nord Europa sempre più “car free”. I parcheggi scambiatori non devono stare vicino al Centro città, ma in periferia,  proprio per favorire l’uso dei mezzi pubblici.

Manca la pubblica utilità.
Essendo un Accordo di programma (art.11) tra pubblico e privato, il progetto deve essere indirizzato al bene pubblico. “Favorire la rigenerazione dei territori urbanizzati e il miglioramento della qualità urbana ed edilizia” e “tutelare e valorizzare il territorio nelle sue caratteristiche ambientali paesaggistiche favorevoli al benessere umano ed alla conservazione della biodiversità” sono infatti i principali criteri di utilità pubblica sottesi all’approvazione di un Accordo di programma pubblico-privato che permettono importanti varianti agli strumenti urbanistici e di pianificazione vigenti.

Non c’è nessun bene pubblico in un parcheggio in via Volano. Quell’area dovrebbe essere invece acquistata dal Comune e rinaturalizzata per completare il progetto Mura. E ugualmente, non c’è alcuna utilità pubblica nella realizzazione di un altro grande centro commerciale in via Caldirolo.

E per l’area della caserma? Quali finalità pubbliche vengono garantite? In passato si era parlato di campus universitario in collaborazione con Unife, di funzioni collegate ai poli museali, di un centro congressi alla Cavallerizza … adesso leggiamo di residenze, per studenti e non, a libero mercato e negozi .. tutti interventi finalizzati unicamente alla redditività economica dei soggetti privati che gestiranno quelle attività.

Ma soprattutto, lo richiamavo all’inizio, Fe.ris non è un progetto ambientalmente sostenibile. Si continua a consumare suolo. Come si può ritenere ecosostenibile un progetto che intende realizzare l’ennesimo ipermercato di cemento su suolo agricolo e creare un parcheggio nel Vallo delle Mura?

In via Caldirolo, ci sarà una perdita di 15.180 mq di area verde. Di fronte alle Mura, in una delle ultime storiche aree in cui la campagna si affaccia sulla città, si vuole costruire un nuovo ipermercato in un’area vincolata a verde nel piano regolatore.  L’area interessata è di 27.410 mq. Attualmente 26.130 mq di seminativo e 1280 mq di  fondiario (occupato dalla villa  che  verrà demolita); alla fine avremo  10.950 m2 di “parco” e 15.758 mq di fondiario (14.477 mq di parcheggi, 3.500 mq di ipermercato, 250 mq di negozi). E poco importa che tutto questo cemento venga “armonizzato” – leggi: camuffato – con un bel tetto verde!

Nell’area della caserma ci sarà un aumento della capacità edificatoria di 2.000 m2. Si vuole  abbattere 8.000 m2 di vecchi manufatti  e  ricostruire per 10.000 m 2.

In via Volano si perde l’occasione unica di acquisire i terreni e di decementificare restituendo alle Mura storiche quell’area. Si vuole costruire un parcheggio di 8.545 mq  in un’area nel Vallo delle Mura, area (ex deposito Silla) di 12.950 mq vincolata a verde nell’attuale piano regolatore.

Abbiamo visto Ferrara allagata, sappiamo che eventi estremi si manifesteranno sempre più frequentemente con l’alternarsi di periodi di siccità e di violente precipitazioni, sappiamo che ogni intervento di mitigazione del rischio va realizzato al più presto, altrimenti continueremo a fare la conta dei danni, a spendere risorse per riparare i danni e non per prevenire i disastri.

Sappiamo che per ridurre i rischi di allagamento gli interventi di deimpermeabilizzazione dei suoli nelle aree urbane sono una priorità tra gli  interventi da mettere in campo per permettere l’assorbimento delle acque piovane,  E lo sa anche il nostro Comune che ha presentato, meritoriamente, progetti per la depavimentazione di piazze e aree urbane. Perché con questo progetto si va in direzione contraria e si pavimenta e impermeabilizza terreno? “Stop consumo di suolo” non può restare uno slogan vuoto.

Cosa fare allora?

Ancora una volta,  sono state prese decisioni importanti per la città senza il confronto e la partecipazione dei cittadini. Dopo oltre due anni di lavoro tra l’Amministrazione e la società privata titolare dell’intervento, il progetto e’ andato in consiglio comunale senza una preliminare discussione con gli abitanti della città, senza un loro coinvolgimento diretto nelle scelte di trasformazione.

Bisognerebbe stralciare dal progetto il supermercato e il parcheggio e verificare insieme ai cittadini cosa fare, quali interventi di pubblica utilità realizzare nell’area della caserma.

Non sarebbe stata questa l’occasione giusta per creare  uno  spazio di confronto pubblico dove approfondire idee, proposte e visioni per la Ferrara futura?

Trattandosi di un Accordo di programma, non c’è l’obbligo di organizzare percorsi partecipativi ma, al di là degli obblighi amministrativi, una visione di quale città vogliamo, concordata con i cittadini, dovrebbe sempre guidare e precedere interventi così caratterizzanti e trasformativi.

L’assessore Balboni, in un incontro con la Rete Giustizia Climatica,  si è dichiarato disponibile al confronto. Ha affermato che in consiglio si è votato solo un accordo (art. 11 L.241/90) preliminare al successivo Accordo di Programma e che ci sarà spazio per la partecipazione dei cittadini. Spero quindi che si apra un efficace confronto che porti a modificare grandemente il progetto.
In questo senso, è assolutamente necessario che gli esperti, le associazioni ambientaliste, le organizzazioni sociali ed economiche – tutti coloro che finora hanno manifestato un giudizio negativo o comunque critico rispetto il progetto Fe.ris – sappiano cooperare ed elaborare proposte innovative e condivise. L’incontro pubblico appena promosso dalla Rete Giustizia Climatica per il prossimo 24 settembre va in questo senso.

Sul Progetto Fe.ris puoi leggere su periscopio i precedenti interventi della Sezione di Ferrara di Italia Nostra [Qui] e di Corrado Oddi [Qui]

Caro risparmiatore, formica virtuosa e derubata…

Caro risparmiatore, formica virtuosa,
intanto voglio manifestarti tutta la mia simpatia. Ed è per questo che ho deciso di scriverti.
Ho letto, come tutti in questi giorni, il rapporto periodico sul risparmio, che celebra la grande virtù degli italiani, nell’essere le formiche del mondo. I primi in fatto di quantità di risparmio che, anche in tempi grami, riescono a.. “mettere da parte”. Forse pensando a tempi ancora più grami. Un esercizio di…. “ottimismo tenace”, insomma. Ma questa è ricchezza nazionale vera. Uno dei fondamentali, come si dice, della tenuta del nostro paese, anche nelle ricorrenti difficoltà, crisi o semplici disavventure. E tanto più importante e significativo lo è, se rapportato al crescente debito pubblico che, invece, il paese ha accumulato e continua ad accumulare, senza riuscire a ridurlo neanche un po’. Soprattutto quando governa la destra, come dimostrano le serie storiche in materia.
È proprio il caso di dire, che siamo di fronte al confronto fra virtù private e vizi pubblici. Storia antica, e non certo la migliore da ricordare. Soprattutto se ci sta’ davvero a cuore, il futuro dei nostri figli e nipoti.
E tuttavia, il mio, è, per te amico risparmiatore, un sentimento di sincero apprezzamento e riconoscenza patriottica.
Non nello schema della celebre “Favola delle api” di Bernard di Mandeville, dove l’autore proponeva un modello di società nel quale i vizi privati, tali erano considerati gli sforzi delle formiche ad accumulare, fossero funzionali al benessere collettivo. Ed a sviluppare una cultura della pubblica virtù. Tant’è che quando Giove punì l’alveare per le frodi che vi si facevano, tutto andò in rovina.

No. Io apprezzo davvero la saggia amministrazione delle tue sudate risorse.

Però… però sono anche molto triste per te, al pensiero che questa tua virtù è affidata nelle mani di veri lestofanti. Viziosi, impenitenti e sempre impuniti. Si, mi riferisco sia a singoli, persone e istituzioni finanziarie, come a un intero sistema fondamentalmente truffaldino.
Mi limito a due esempi, facilmente comprensibili e incontestabili.
Le banche. I tuoi risparmi. in banca, cash di conto corrente, ti danno un tasso zero. Ma le commissioni in varie forme corrono ogni giorno. E quanto! Se però tuo figlio va a chiedere un mutuo a quella stessa banca e lei glielo concede (se va bene, e con una infinità di condizioni e garanzie), lo fa a tassi non inferiori al 5%. Per ora. Però lo fa usando quei tuoi soldi, nei quali a te non dà assolutamente nulla.
Il sistema finanziario – è il secondo esempio – lo sappiamo, è il peggio del capitalismo moderno. Non a caso è quello che genera più ingiustizie. Il rapporto Banca d’Italia di un mese fa, dice che, negli ultimi anni, i risparmi si sono svalutati di oltre il 30%. In pratica, in pochi anni, hai perso un terzo di quanto avevi prudentemente messo in cascina.
E chi li ha presi? Ma la speculazione innanzitutto o come si dice, il “mercato”…amico mio. Questo dio cattivo, cioè, che non ama le persone perbene, e che si diletta invece turlupinarle.
Per sorte professionale di… inutile riformatore pubblico, di un pezzo di questo mondo bancario e finanziario, ho avuto modo di osservare questa torbida realtà. Non ho mai voluto imparare le sue technicalities, e quindi non ho da darti alcun “consiglio per gli acquisti”
Di sicuro però ti posso avvertire che, se come è probabile alle prossime elezioni vincerà la destra, e metterà in atto la politica di facile spesa pubblica che si propone di voler fare, stai sicuro che il mercato e la speculazione che lo pilota, si accaniranno proprio sui tuoi risparmi. Quelli che sono rimasti e che sono il loro boccone preferito.
Almeno questo posso dirtelo con sicurezza e serena coscienza.
Auguri, quindi, a te e a tutti noi.

Per certi versi/ A mio babbo

Ogni domenica Ferraraitalia ospita ‘Per certi versi’, angolo di poesia che presenta le liriche del professor Roberto Dall’Olio.
Per leggere tutte le altre poesie dell’autore, clicca
 [Qui]

A Mio Babbo

L’ho visto
Il suo sorriso
Come un tempo era e fu il mio
Di mio babbo
Al mio arrivo
È rinato
Un angelo
Alla sua mente
Come ero io bambino
Quando tornava
La sera buia
Dal lavoro
Accendevo un lumicino

“Save Julian Assange, unisciti alla rivoluzione di Wikileaks”
Evento a Manchester, Regno Unito.

Articolo originale di: Redazione Italia di pressenza

La 24 ore per Julian Assange del 15 ottobre si avvicina e, come si può vedere dalla mappa nel sito, le iniziative si moltiplicano. Attivisti e gruppi di ogni tipo stanno lavorando per organizzare eventi diversi a seconda dei loro gusti e capacità.
Se siete interessati a organizzare un evento locale, grande o piccolo, scriveteci alla mail 24hassange@proton.me.

Di seguito riportiamo un’originale iniziativa che si svolgerà nel “pub più eccentrico” di Manchester, nel Regno Unito e che potrebbe servire da ispirazione per altri eventi simili.

In collaborazione con Body Warmth: Dance to Stay Warm stiamo organizzando il nostro evento “Save Julian Assange. Join The Wikileaks Revolution” presso l’Old Abbey Taphouse, Guildhall Close, Hulme, Manchester.
Il nostro evento inizierà sabato 15 ottobre alle 15:00 e durerà fino alle 19:00; sarà poi seguito da Body Warmth dalle 20:00 alle 03:00 del mattino.
L’evento è gratuito, ma è previsto un costo di 5 sterline per la parte serale, al fine di raccogliere fondi per coprire i crescenti costi di riscaldamento del locale.

Il nostro gruppo “The People’s Collective” sostiene la democrazia mondiale e la libertà di espressione e il nostro obiettivo particolare al momento riguarda i recenti e preoccupanti sviluppi del caso del fondatore di Wikileaks Julian Assange.

Julian è attualmente detenuto in isolamento, in condizioni terribili, nella famigerata prigione di Belmarsh a Londra. Il Ministro degli Interni Priti Patel ha recentemente firmato i documenti per l’estradizione, che lo porteranno a essere processato negli Stati Uniti, dove rischia 175 anni di reclusione.

L’evento si terrà presso l’Old Abbey Taphouse di Hulme. Vincitore nel 2022 del premio “Community Pub of the Year” assegnato dalla “Campaign for Real Ale”, è stato anche definito il “pub più eccentrico di Manchester” dal Manchester Evening News nel 2022. Il locale dispone anche di uno studio al piano superiore dove DJ, musicisti e altri creativi possono registrare sessioni e programmi radiofonici per STEAM Radio, che fa parte dell’impresa sociale STEAM MCR. L’obiettivo di STEAM è fornire uno spazio creativo a chi vive nella zona, in particolare ai gruppi poco conosciuti.

Saranno esposte opere d’arte originali, striscioni politici e fotografie di attivisti politici di base e di sostenitori di questa causa provenienti dai nostri precedenti eventi musicali e dalle passate manifestazioni per Julian Assange. Il nostro rivoluzionario evento live sarà caratterizzato da una serie di esibizioni dal vivo, tra cui i set acustici di Damien Luke McNeilly e The Valleys, i recital di poesia di Leon the Pig Farmer, Steve Jaffa Brown e altri poeti, nonché una performance di danza contemporanea dalle 15.00 alle 19.00. Ci sarà anche un’esibizione della band di attivisti politici punk scar Galaventis. Vari DJ sosterranno il tema dei diritti umani, della libertà di parola e di espressione e della democrazia mondiale.

Contatti:
Lima Al-iskalachi. Mail: limazakoor@gmail.com

Cover: Manchester, Regno Unito, l’Old Abbey Taphouse, sede dell’iniziativa per la libertà di Julian Assange

Germogli /
Peppa Pig, i bigotti, l’arroganza e la paura

I post-fasci in questo momento soffrono di una ambivalenza del comportamento: l’arroganza e la paura.

L’arroganza scatta come riflesso della vittoria elettorale da tutti pronosticata, e fa scappare i loro desideri prima inconfessabili: bloccare il mare contro l’arrivo dello straniero; dare un’ elemosina solo alla famiglia numerosa (italica), perchè se lo merita, gli altri possono morire di fame; censurare i cartoni animati con dentro famiglie lesbiche e omosessuali. Non so dire se i Mollicone e i Pillon che tuonano contro le amiche gender di Peppa Pig siano il nuovo Minculpop:  un’abbreviazione che, per triviale assonanza, si attaglia anche alla tentazione di questi bigotti di mettere all’indice le proprie pulsioni represse.

“La mente di un bigotto è come la pupilla dell’occhio. Tanto più la luce risplenderà su di essa, quanto più si contrarrà.”
Oliver Wendell Holmes

La paura trapela dalle parole del gran consigliori di Giorgia Meloni, Guido Crosetto. Che davanti ad una domanda del giornalista di Avvenire che chiede su chi possa contare Fratelli d’Italia per governare nel frangente più duro del secondo dopoguerra, risponde: “Giorgia, se servisse in un momento particolarmente difficile o tragico, parlerebbe con Letta e chiamerebbe Letta senza nessuna esitazione, così come Conte o Calenda. Se è in gioco il destino dell’Italia, tutti devono collaborare. Penso che i primi ad averne piena consapevolezza siano Mattarella e Draghi.”

Paura, eh? No, caro Crosetto, troppo comodo. Se vincete, governate voi, fasci e derivati. Se davvero avrete il 70 per cento dei seggi, arrangiatevi. O almeno dovreste arrangiarvi. Intanto vedere Giorgia Meloni che giura fedeltà alla Costituzione antifascista sarà un piccolo spettacolo. Per il resto, quien sabe. Mi aggrappo paradossalmente all’idea che il peggio sia davvero vicino, e alla flebile speranza che una parte del mitologico “popolo” a quel punto esca dal torpore. E’ una brutta immagine, ma siamo su un piano inclinato.

– Non sei mica fascista? – mi disse.
Era seria e rideva. Le presi la mano e sbuffai.
– Lo siamo tutti, cara Cate, – dissi piano. – Se non lo fossimo, dovremmo rivoltarci, tirare bombe, rischiare la pelle. Chi lascia fare e s’accontenta, è già un fascista.
Cesare Pavese

Prezzi infuocati dalla speculazione.
Cosa sappiamo e cosa non ci dicono della Borsa del Gas di Amsterdam

di Francesco Gesualdi
pubblicato con altro titolo su pressenza del 9 settembre 2022)

Ormai lo abbiamo imparato: i prezzi vertiginosi del gas che stanno sconquassando l’Europa si formano in Olanda, alla Title Transfer Facility, una realtà più comunemente nota come TTF o Borsa del gas.

Schematicamente le borse sono strutture organizzate per fare incontrare produttori e acquirenti affinché possano accordarsi su prezzi e consegne dei prodotti oggetto delle loro trattative. Le borse sono molte, ciascuna con la propria specificità: quella di Chicago per le derrate agricole, quella di Londra per i minerali, quella di Amsterdam per il gas. Quando nacquero, a fine Ottocento, le borse erano frequentate soprattutto da produttori, grossisti e imprese di trasformazione. Con l’andare del tempo, però, si sono popolate anche di speculatori, soggetti interessati non a vendere o comprare alcun tipo di bene, ma a ingaggiare scommesse fra loro sull’andamento futuro dei prezzi. Oggi l’attività speculativa è così ampia da avere spostato il centro gravitazionale della formazione dei prezzi. Se in condizioni normali i prezzi sono determinati dagli operatori di scambi reali che costringono gli speculatori al ruolo di piccoli opportunisti, quando prevale la finanza la situazione si ribalta: la speculazione determina i prezzi e gli operatori di scambi reali fungono da inseguitori. Così si può assistere a impennate repentine o crolli subitanei dei prezzi, perché la speculazione si nutre più di calcolo emotivo che di scientificità previsionale.

Di tutte le borse, quella di Amsterdam è fra le più recenti. Nata nel 2003, fra l’altro su base totalmente telematica, è stata fortemente voluta dal governo olandese che voleva fare del proprio paese una piattaforma commerciale del gas a livello europeo.
Approfittando di tre elementi favorevoli: l’Olanda stessa è produttrice di gas; è crocevia di una fitta rete di gasdotti che la collega al tempo stesso a paesi produttori, come Norvegia, Russia, Gran Bretagna e a paesi consumatori, come Germania, Belgio, Francia; dispone delle infrastrutture necessarie a ricevere e immagazzinare LNG, il gas liquefatto che viaggia via nave.
Del resto sul finire degli anni Novanta del secolo scorso l’Unione Europea aveva emanato una serie di provvedimenti tesi a liberalizzare il mercato del gas, che il governo olandese sfruttò per aprire la borsa del gas affidandone la gestione a Gasunie, l’impresa di Stato che possiede i gasdotti situati sul suolo nazionale.

Stando ai numeri forniti da Gasunie, alla sua borsa sono iscritti 150 operatori economici di tutta Europa (fra cui società petrolifere, società elettriche, ma anche banche e altre società finanziarie), che nel 2021 hanno stipulato contratti per una quantità complessiva di gas corrispondente a 600 miliardi di metri cubi.
L’aspetto curioso, però, è che nel 2021 le importazioni di gas dell’Olanda non hanno oltrepassato i 60 miliardi di metri cubi, mentre le esportazioni si sono fermate a 43 miliardi di metri cubi, la differenza essendo stata utilizzata per consumi interni. In conclusione si può affermare che solo il 10% dei contratti stipulati alla borsa di Amsterdam ha avuto finalità commerciali, mentre l’altro 90% ha avuto finalità speculative, riuscendo negli ultimi 12 mesi a moltiplicare il prezzo del gas di quasi sei volte.

Nei giochi speculativi c’è sempre una parte che vince e una che perde. Ma poiché sono entrambi consapevoli dei rischi che corrono, è forte la tentazione di scrollare le spalle e sentenziare che mal voluto non è mai troppo. Il guaio, però, è che i loro giochetti poi ricadono sull’intera società a causa di un effetto contagio che però ci lascia sempre col dubbio se sia reale o pretestuoso. Nel caso specifico del gas, verrebbe fatto di pensare a un contagio reale per Paesi come Germania, Belgio e Francia, che sono i destinatari del gas acquistato sulla borsa di Amsterdam. Mentre rimangono dubbi per i Paesi dell’Europa meridionale, che con l’Olanda hanno rapporti pressoché nulli. L’Italia, ad esempio, nel 2021 ha importato da questo Paese solo lo 0,4% del suo fabbisogno sotto forma di gas liquefatto.
E alla fine viene spontanea la domanda: come può un sassolino trasformarsi in una valanga che getta nella disperazione famiglie ed imprese di un intero continente?

Ci sono due criteri per capire la portata della borsa di Amsterdam: quello quantitativo e quello contrattuale.

Da un punto di vista quantitativo la borsa olandese si conferma un sassolino. Nel 2021 l’Unione Europea ha importato 337 miliardi di metri cubi di gas, di cui solo il 17% transitato per l’Olanda. L’altro 83% è stato ricevuto tramite gasdotti o navi metaniere in un rapporto commerciale diretto fra Paesi consumatori e Paesi produttori. L’Italia, ad esempio, nel 2021 ha importato 72,7 miliardi di metri cubi di gas di cui l’86% tramite gasdotti che la collegano direttamente a Russia, Algeria, Azerbaijan, Libia. Mentre l’altro 14% è stato ricevuto tramite navi metaniere da Qatar, Norvegia e Usa.

Venendo all’altro aspetto, quello contrattuale, schematicamente esistono due tipologie di contratti di fornitura: a prezzi fissi e indicizzati.
Quelli a prezzi fissi, solitamente di lunga durata, tutelano sia l’acquirente che il venditore. L’acquirente perché ha la garanzia di un prezzo certo, il venditore perché ha la garanzia che il prezzo gli verrà pagato anche se l’acquirente decide di sospendere i suoi acquisti. Non a caso tali contratti sono anche detti take or pay ossia prendi o paghi.
Di tutt’altro genere i contratti a prezzi indicizzati, che oltre ad essere di durata più breve, prevedono prezzi viariabili, oscillanti in base a come si muovono le quotazioni di borsa, quella di Amsterdam nel caso europeo.

Dunque gli aumenti in bolletta troverebbero giustificazione solo nel caso di forniture basate su contratti indicizzati. Ma è questa la situazione dell’Italia o non è piuttosto dominata da contratti take or pay, che in caso di esplosione dei prezzi permettono alle imprese importatrici di ottenere generosi extraprofitti?
Questa informazione purtroppo non circola, mettendo in evidenza un grave deficit di democrazia che preferisce sacrificare famiglie, tessuto economico e conti pubblici, piuttosto che inimicarsi le imprese energetiche.

Ma oggi che stiamo parlando della necessità di mettere un tetto al prezzo del gas, il tema della trasparenza assume enorme importanza, come assume importanza la necessità di riformare le borse per limitare le bizzarie della speculazione e soprattutto per non assumere più le sue follie come riferimento per i prezzi reali.
Ne va di mezzo non solo la vita dei più deboli, ma la tenuta stessa della società.


Francesco Gesualdi, già allievo di don Milani, è fondatore e coordinatore del Centro Nuovo Modello di Sviluppo di Vecchiano (Pisa), che si propone di ricercare nuove formule economiche capaci di garantire a tutti la soddisfazione dei bisogni fondamentali. Coordinatore di numerose campagne di pressione, è tra i fondatori insieme ad Alex Zanotelli di Rete Lilliput. www.cnms.it

Ferrara, Ciak, si gira
Lu’, mia cara Lu’, sempre e solo tu…

A fine ottobre 2021 li avevamo già incrociati per le strade della nostra città. Ferrara ancora una volta set cinematografico, questa volta della docummedia “Lu’ duchessa d’Este, fama e infamie di Lucrezia Borgia”.  Protagonisti: Lucrezia Lante della Rovere, Tullio Solenghi e Tobia De Angelis (e la recente new entry Francesco Zecca), regia di Marco Melluso e Diego Schiavo (produzione Mardi Gras).

Oggi sono tornati. Tornati ad arricchire il racconto di figure carismatiche della storia italiana iniziato con La Signora Matilde. Gossip dal Medioevo (Premio Francovich 2019, assegnato dalla SAMI, Storici Archeologi Medievisti Italiani), ispirato a Matilde di Canossa e raccontata come la più grande influencer dell’anno Mille, e Il Conte Magico, legato alla storia del Conte Cesare Mattei e della sua Rocchetta a Grizzana Morandi, con sullo sfondo, le scoperte scientifiche dell’800 e il sogno di Mattei, inventore dellelettromeopatia, di trovare la cura per ogni male.
Film entrambi sostenuti dal Fondo Audiovisivo della Regione Emilia-Romagna, nell’ambito del Progetto Rinascimento Emiliano.

La Signora Matilde, i registi Marco Melluso e Diego Schiavo, foto dal web
Elettromeopatia Conte Mattei

Un bel connubio frizzante e innovativo tra cultura, storia, cinema e territorio, destinato a una vasta divulgazione e a un pubblico di tutte le età. Un lavoro sapiente e intelligente di approfondimento e riscoperta di figure storiche locali, volto a renderle familiari al grande pubblico oggi sempre più distratto da mille informazioni, leggermente confuso, oserei. Con una strizzatina d’occhio alla promozione culturale e turistica del territorio.

Dal primo ciak che si era aperto, a ottobre scorso, a Palazzo Roverella, con una simbolica partita a scacchi volta a raccontare i giochi di potere intorno alla controversa protagonista, si era passati alla sala dell’Arengo, nel Palazzo Municipale, scenario di una “conferenza stampa”, durante la quale i giornalisti mettono alla gogna la famiglia Borgia, accusandola di aver creato pubblico scandalo. Ci si era poi spostati al Castello Estense e a Bologna.

Riprese San Petronio, Certosa, 7 settembre, foto Valerio Pazzi

Oggi le riprese continuano, fra lo stesso Castello Estense, le piazze Trento e Trieste e Ariostea, il Teatro Comunale, le sale del Palazzo Ducale Estense, oggi sede del Comune di Ferrara), i territori del ducato estense (le Delizie di Belriguardo, del Verginese e della Mesola) per poi trasferirsi a Modena, alle Gallerie Estensi.

Lucrezia Lante della Rovere, riprese Piazza Ariostea 7 settembre, foto Valerio Pazzi
Lucrezia Lante della Rovere, riprese Piazza Ariostea 7 settembre, foto Valerio Pazzi

Nel tempo, la figura di Lucrezia Borgia ha assunto diverse sfumature, quasi sempre machiavelliche, che l’hanno relegata al ruolo di femme fatale. L’intento, spiega Diego Schiavo, è di “raccontare i fatti nella loro ricostruzione e nel modo più obiettivo per ridare piena dignità storica a Lucrezia, troppo spesso rappresentata, a senso unico, come una figura spregiudicata e malvagia. Il narratore si muoverà in ambientazioni moderne, in un ponte tra passato e futuro”.

Lucrezia Borgia sosteneva: per essere felice ho bisogno dell’amore, della bellezza e della cultura” – ha ricordato l’assessore Marco Gulinelli – “e il grande merito di questo film è quello di riuscire a mettere insieme la bellezza estetica, la storia ed elementi legati all’ironia con un lavoro di destrutturazione e desacralizzazione molto intelligente ed efficace, che dà grandi stimoli intellettuali e che siamo impazienti di potere apprezzare nella sua pienezza”.

Francesco Zecca, riprese Piazza Ariostea 7 settembre, foto Valerio Pazzi

Lu’ Duchessa d’Este. Fama e infamie di Lucrezia Borgia racconta l’appassionante storia di Lucrezia Borgia d’Este, donna per secoli ritenuta simbolo di crudeltà e amoralità. Lucrezia, in realtà, è stata vittima di pettegolezzi e spregiudicati giochi di potere della sua famiglia e solo una volta divenuta duchessa di Ferrara, ha potuto dimostrare il suo valore e la sua benevolenza. Durante la terribile guerra contro Venezia, ha sfoggiato la sua capacità diplomatica e di governo e ha retto da sola il Ducato. In seguito, si è dimostrata abile imprenditrice, investendo i suoi averi nella costruzione di argini di fiumi e in un’opera di bonifica che ha reso coltivabile un’area di oltre 25.000 ettari, risollevando così le finanze dello Stato, colpite dalla guerra. Inoltre, dal suo arrivo a Ferrara, aveva fatto restaurare e costruire chiese e conventi. Per questo e per il suo senso di giustizia e di rispetto per i ferraresi, Lucrezia era riuscita a vincere i pettegolezzi e le maldicenze che l’avevano preceduta e si era conquistata l’appellativo di “Madre del popolo”.

Lucrezia Borgia è stata una profonda amante della cultura e ha accolto alla sua corte un vero e proprio cenacolo di poeti e umanisti, tra i quali Ludovico Ariosto, Pietro Bembo, Gian Giorgio Trissino ed Ercole Strozzi. Ma è stata anche una delle donne più eleganti del Cinquecento, vantando un guardaroba sontuoso e di lussuose fattezze; famosa anche per la raffinatezza dei gusti, ha ispirato numerose ricette e leggende legate al cibo: si narra che ai suoi capelli si siano ispirati per la creazione delle tagliatelle e delle coppiette di pane tipiche di Ferrara. A lei si deve anche la fortuna del pampapato e della salama da sugo, ancora oggi rinomate eccellenze della cucina ferrarese.

Attraverso il racconto della vita di Lucrezia Borgia, il film intende anche far riflettere su victim blaming (la colpevolizzazione della vittima) e slut shaming, fenomeni estremamente attuali che colpiscono le donne e di cui già Lucrezia Borgia fu vittima durante la sua vita.

La protagonista del film è la meravigliosa Lucrezia Lante Della Rovere, che condivide con Lucrezia Borgia il nome, ma che, soprattutto, è discendente di Giulio II, al secolo Giuliano della Rovere, il Papa che commissionò a Michelangelo gli affreschi della cappella Sistina. Acerrimo nemico dei Borgia, Giulio II ne ha decretato la rovina. Un bel filo.

Lucrezia Lante della Rovere, riprese Certosa, 7 settembre, foto Valerio Pazzi

Il teaser del film è stato presentato lo scorso 13 maggio nella sala dell’Arengo

In esso si può apprezzare quanto i registi amino giocare con stili, mode e riferimenti alla cultura, facendoli interagire con luoghi ricchi di arte e storia. Immagini che mostrano alcuni dei luoghi che fanno da scenografia alla storia, come il Palazzo Roverella Circolo dei Negozianti e le segrete del Castello Estense di Ferrara. Ma non solo: il teaser contiene alcuni momenti del backstage a cui emerge la passione con cui i registi, il cast e tutta la troupe stanno portando avanti il progetto che la pandemia ha rallentato, come gran parte del mondo del cinema, della musica e del teatro.

Il film tanto atteso e dal sapore pop e un po’ glamour, è in uscita l’8 marzo 2023, giorno della Festa della Donna. Sarà un caso?

Il progetto Lu’ duchessa d’Este. Fama e infamie di Lucrezia Borgia è patrocinato da: Regione Emilia-Romagna, Comune di Ferrara, Comune di Modena, Città Metropolitana di Bologna, Visit Romagna, Comune di Nepi, Comune di Bentivoglio, Comune di San Lazzaro, Comune di Voghiera, Fondazione Ferrara Arte, Genus Bononiae – Musei della Città, GVC We World, AICS, Festival dell’Eccellenza al Femminile.

Pagina facebook

Instagram

Cover e foto nel testo sono di Valerio Pazzi, dal set del 7 Settembre 2022

PRESTO DI MATTINA /
La voce del silenzio

 

Ascolta la voce del silenzio

“O silenzio!
strillo di cicale
penetra le rocce”.
(Matsuo Bashō, Poesie, Sansoni, Firenze 1944, 37).

Nel testo a commento di questo haiku si legge che fu ispirato a Bashò [Qui] visitando il tempio di Rûshakuji, vicino alla città di Yamagata.

Situato fra antichi pini e querce sopra numerose e gigantesche rocce muschiose: «Due o tre voci di cicale relativamente basse udite di quando in quando in un luogo quieto danno vie più l’impressione del silenzio (M.)»

Si custodisce il creato come si custodisce la parola di Dio, ascoltandola e vivendola: è il creato la sua parola silenziosa: «Ascolta la voce del creato». Si custodiscono i poveri come si custodisce l’eucaristia, condividendola, celebrandola nella vita: «Ascolta la voce dei poveri».

‘Custodire nel cuore’ è verbo che troviamo nel vocabolario della Sapienza. Il grido dei poveri come la parola silenziosa del creato deve essere macerata, sminuzzata, continuamente ruminata, al pari della parola di Dio − dicevano i Padri del deserto − affinché diventi vita con e nelle nostre vite, storia con e nelle nostre storie.

«Ascolta la voce del creato». È questo il tema scelto da papa Francesco per il suo messaggio nella giornata per la cura del creato. In realtà, più che una sola giornata è un periodo che stiamo vivendo: il tempo del creato, che è iniziato il 1° settembre e si concluderà il 4 ottobre, con la festa di san Francesco.

Senza ascolto profondo, senza crederci, non si attua nessun cambiamento radicale, né in noi, né nel creato e ancor meno nella società. Di qui l’invito all’ascolto quale viatico di conversione, non solo individuale, ma comunitaria;

noi in umanità solidale «Come persone di fede, ci sentiamo ulteriormente responsabili di agire, nei comportamenti quotidiani, in consonanza con tale esigenza di conversione.

Ma essa non è solo individuale: “La conversione ecologica che si richiede per creare un dinamismo di cambiamento duraturo è anche una conversione comunitaria” (Laudato Sii, 219).

In questa prospettiva, anche la comunità delle nazioni è chiamata a impegnarsi, specialmente negli incontri delle Nazioni Unite dedicati alla questione ambientale, con spirito di massima cooperazione» (Messaggio, Ascolta la voce del creato). Così l’umanità tutta va compresa come soggetto chiamato alla cura della madre terra e dei poveri.

L’ascolto inizia con uno sguardo sul creato, sull’altro, quello dell’enciclica Laudato sii [Qui], che è insieme un’enciclica verde, ma al contempo fortemente sociale, capace di discernere, cioè di vedere nella questione ecologica alla sua radice il problema sociale, e nei poveri la cristologia, il Cristo stesso e la conseguente pratica di un’opzione preferenziale per i poveri.

Un “tempo per il creato” fu proposto dal Patriarcato Ecumenico di Costantinopoli sin dalla fine degli anni ottanta. Ma ancor prima papa Paolo VI auspicava un tempo di riflessione necessario a prevenire una “catastrofe ecologica”. Un tempo per coltivare la nostra “conversione ecologica”, rilanciava Giovanni Paolo II.

Quella ecologica, non può che essere infatti una sfida che unisce tutti i cristiani. Al pari di quella della giustizia e della pace fu sempre di più la coscienza e l’impegno che animò il cammino del Consiglio Ecumenico delle Chiese nella seconda metà del secolo scorso.

L’ambito ecumenico conferì uno sviluppo ulteriore alla sensibilità dei temi ambientali, intrecciando – non a caso − il tema della cura del creato con i temi della giustizia e della pace.

In questo solco anche la Conferenza episcopale italiana attraverso le sue commissioni per i problemi sociali e il lavoro, della giustizia e della pace, unitamente a quelle per l’ecumenismo e il dialogo interreligioso, dal 1º settembre 2006, ha iniziato a celebrare annuale la “Giornata per la salvaguardia del creato” che poi prenderà il nome “per custodia del creato”.

Dolce canto e grido amaro

“Il canto delle cicale
non dà segno
di loro vicino morire”.
(Bashō, 10)

Scrive papa Francesco: «Se impariamo ad ascoltarla, notiamo nella voce del creato una sorta di dissonanza. Da un lato, è un dolce canto che loda il nostro amato Creatore; dall’altro, è un grido amaro che si lamenta dei nostri maltrattamenti umani.»

Il dolce canto del creato ci invita a praticare una «spiritualità ecologica» (LS, 216), attenta alla presenza di Dio nel mondo naturale. È un invito a fondare la nostra spiritualità sull’«amorevole consapevolezza di non essere separati dalle altre creature, ma di formare con gli altri esseri dell’universo una stupenda comunione universale» (ivi, 220).

Per i discepoli di Cristo, in particolare, tale luminosa esperienza rafforza la consapevolezza che «tutto è stato fatto per mezzo di lui e senza di lui nulla è stato fatto di ciò che esiste» (Gv 1, 3).

In questo Tempo del Creato, riprendiamo quindi a pregare nella grande cattedrale del creato, godendo del «grandioso coro cosmico» di innumerevoli creature che cantano le lodi a Dio.

Uniamoci a san Francesco d’Assisi [Qui] nel cantare: “Sii lodato, mio Signore, con tutte le tue creature” (cfr. Cantico di frate sole). Uniamoci al Salmista nel cantare: «Ogni vivente dia lode al Signore!» (Sal 150, 6).

Purtroppo, quella dolce canzone è accompagnata da un grido amaro. O meglio, da un coro di grida amare. Per prima, è la sorella madre terra che grida. In balia dei nostri eccessi consumistici, essa geme e ci implora di fermare i nostri abusi e la sua distruzione.

Poi, sono le diverse creature a gridare. Alla mercé di un “antropocentrismo dispotico” (ivi, 68), agli antipodi della centralità di Cristo nell’opera della creazione, innumerevoli specie si stanno estinguendo, cessando per sempre i loro inni di lode a Dio.

Ma sono anche i più poveri tra noi a gridare. Esposti alla crisi climatica, gli “ultimi” soffrono più fortemente l’impatto di siccità, inondazioni, uragani e ondate di caldo che continuano a diventare sempre più intensi e frequenti.

Ancora, gridano i nostri fratelli e sorelle di popoli nativi. A causa di interessi economici predatori, i loro territori ancestrali vengono invasi e devastati da ogni parte, lanciando “un grido che sale al cielo” (Querida Amazonia, 9).

Infine, gridano i nostri figli. Minacciati da un miope egoismo, gli adolescenti chiedono ansiosi a noi adulti di fare tutto il possibile per prevenire o almeno limitare il collasso degli ecosistemi del nostro pianeta.

Ascoltando queste grida amare, dobbiamo pentirci e modificare gli stili di vita e i sistemi dannosi. Sin dall’inizio, l’appello evangelico: «Convertitevi, perché il Regno dei cieli è vicino!» (Mt 3, 2), invitando a un nuovo rapporto con Dio, implica anche un rapporto diverso con gli altri e con il creato.

Lo stato di degrado della nostra casa comune merita la stessa attenzione di altre sfide globali quali le gravi crisi sanitarie e i conflitti bellici. «Vivere la vocazione di essere custodi dell’opera di Dio è parte essenziale di un’esistenza virtuosa, non costituisce qualcosa di opzionale e nemmeno un aspetto secondario dell’esperienza cristiana» (ivi, 217) (Messaggio).

Dall’amaro al dolce”, è l’espressione che frate Francesco al termine della vita ricorda ai suoi come sintesi della propria conversione.

Non solo quella iniziale ma anche quella sperimentata lungo tutta la propria esistenza, vissuta come un continuo passaggio pasquale da una logica autocentrica e autoreferenziale ad una proiezione eccentrica, evangelica; da un pratica di dominio e sfruttamento all’essere servo di ogni creatura.

Un cambiamento radicale è anche quello ecologico, purché parta dall’ascolto del grido amaro della natura e dei suoi più vulnerabili abitanti per poter ritornare al dolce cantico di tutte le creature.

«Il Signore dette a me, frate Francesco, di incominciare a fare penitenza così: quando ero nei peccati mi sembrava cosa troppo amara vedere i lebbrosi, e il Signore stesso mi condusse tra loro e usai con essi misericordia. E allontanandomi da loro, ciò che mi sembrava amaro mi fu cambiato (conversum fuit) in dolcezza di animo e di corpo. E in seguito, stetti un poco e uscii dal secolo» (Fonti francescane, 110).

Anche l’amaro di Bashō, per l’improvvisa morte, a 25 anni, del suo maestro Jshitada, o “Sengin”, si mutò in una mistica dolce, di poeta itinerante: «il poeta pianse colui che per anni gli era stato maestro e amico. Come voleva l’usanza andò sul monte Koya con una ciocca di capelli del defunto a depositarla nel grande monastero buddista.

La tradizione vuole che per il dolore fosse preso da un amaro desiderio di ritiro; ma di certo, da allora, fu un mistico umile e povero, predicatore della bontà universale. Riuscì a liberarsi con onore da ogni funzione ufficiale e, abbandonata la casa del suo signore, andò a Kyiìto facendosi alunno e domestico di Kigin che aveva avuto per l’addietro occasione di praticare recandosi da lui come messaggero di Joshitada» (Bashō, 50).

L’amaro grido del mare, eco muto

Fuggono Farid e sua madre Jamila dopo l’uccisione del padre Omar in Libia al tempo di Gheddafi. Fuggono per la guerra lasciando il deserto, la loro casa; ma il viaggio per mare sul barcone verso l’Italia non andrà a buon fine. È una storia raccontata con grande sensibilità poetica senza mortificarne tutta la drammatica tragicità da Margaret Mazzantini [Qui], in Mare al mattino, Einaudi, Torino 2011.

«Farid non ha mai visto il mare, non c’è mai entrato dentro. Lo ha immaginato tante volte. Punteggiato di stelle come il mantello di un pascià. Azzurro come il muro azzurro della città morta.

Ha cercato le conchiglie fossili sepolte milioni di anni fa, quando il mare entrava nel deserto. Ha rincorso i pesci lucertola che nuotano sotto la sabbia. Ha visto il lago salato e quello amaro e i dromedari color argento avanzare come logore navi di pirati.

Abita in una delle ultime oasi del Sahara. I suoi antenati appartenevano a una tribù di beduini nomadi. Si fermavano negli uadi, i letti dei fiumi coperti di vegetazione, montavano le tende. Le capre pascolavano, le mogli cucinavano sulle pietre roventi.

Non avevano mai lasciato il deserto. C’era una certa diffidenza verso la gente della costa, mercanti, corsari. Il deserto era la loro casa, aperta, illimitata. Il loro mare di sabbia. Macchiato dalle dune come il manto d’un giaguaro.

Non possedevano nulla. Solo impronte di passi che la sabbia ricopriva. Il sole muoveva le ombre. Erano abituati a resistere alla sete, ad essiccarsi come datteri, senza morire. Un dromedario apriva loro la strada, una lunga ombra storta. Scomparivano nelle dune. Siamo invisibili al mondo, ma non a Dio. Si spostavano con questo pensiero nel cuore.

D’inverno il vento del nord che attraversava l’oceano di roccia stecchiva i barracani di lana sui corpi, la pelle si aggrappava alle ossa dissanguata come quella di capra sui tamburi.

… In primavera nuove dune nascevano, rosate e pallide. Vergini di sabbia. Il ghibli infuocato si avvicinava insieme al gemito rauco di uno sciacallo. Piccoli riccioli di vento come spiriti in viaggio pizzicavano la sabbia qua e là. In un attimo il deserto si sollevava e divorava il cielo. E non c’era più confine con l’aldilà…

I dinari dei risparmi di Omar, gli euro e i dollari che nonno Mussa ha guadagnato con i turisti del deserto. Omar conta i soldi, poi toglie una pietra e li nasconde nel muro. Parla con Jamila, chiude le mani intorno alle sue mani strette.

Farid non dorme, guarda quel nodo di mani nel buio che tremano come una noce di cocco sotto la pioggia. Omar dice che devono andarsene. Che avrebbero dovuto farlo da un pezzo. Nel deserto non c’è futuro. E adesso c’è la guerra. Ha paura per il bambino» (ivi, 4-5; 8).

Un altro deserto, un altro grido: il grande sertão

«Ed ecco, il sole, con un balzo, lontano alle nostre spalle, al di sopra dei macchioni, scoppiava, una grandiosità. Giorno spiegato. Terminò la vegetazione da foraggio, e gli arbusti spinosi, come quei cespugli dai virgulti argentati, e simili. Terminava l’erba, in quei paraggi grigiastri.

E tutto questo, arrivando a poco a poco, dava un’oppressione raddensata, il mondo si stava invecchiando, nel viandante. Terminò il sapé selvatico dell’altipiano. Uno si guardava alle spalle. A quel punto, il sole non lasciava guardare in nessuna direzione.

Vidi la luce, un castigo. Vidi uno sparviere: fu l’ultimo uccello che si scorse. Ed ecco che stavamo in quella cosa – deserto pieno, vuoto soffice, rovesciato. Era una terra differente, insensata, un lago di sabbia.

Dove si sarà trovato il suo soverchio, confinante? Il sole si rovesciava sul suolo, con sale, sfavillava. Di quando in quando, una vegetazione morta, qualche ciuffo di pianta secca – come una chioma senza testa. Si propagava a distanza, in avanti, un vapore giallo. E il fuoco cominciò a entrare, con l’aria, nei nostri poveri petti.

… La continuazione del martirio, da quando spuntò il mattino, del giorno seguente, nella brumalva di quel defunto albeggiare, senza nessuna speranza, senza neppure la semplice presenza degli uccellini.

Ci muovemmo. Io abbassavo gli occhi per non vedere gli orizzonti, che chiusi non mutavano, incombevano. La Landa dell’Onza Rossa concepiva silenzio, e produceva una cattiveria – come persona!

… Le piogge già erano state dimenticate, e lì c’era il midollo tristo del sertão, era un sole sul vuoto. Si avanzava di pochi metri, e si calcava il sabbione, una sabbia che sfuggiva, senza consistenza, spingendo all’indietro gli zoccoli dei cavalli.

Poi, sopravveniva un aggrovigliamento intricato, di arbusti spinosi e stoppia di gravia, assai scabroso, di un verde-nero color serpente. Nessun cammino. Di lì, si passa a un terreno duro rosato o color cenere, screpolato e ruvido – i cavalli, non intendendolo, s’innervosivano».
(João Guimãres Rosa [Qui], Grande sertão, Feltrinelli, Milano 2017, 42-44).

Si diventa consapevoli di sé e del cammino solo con l’irruzione dell’altro. Affinché si ritrovi la strada per la cura del creato occorre sempre di nuovo ascoltare il suo dolce canto e il grido amaro.

Lasciamoci guidare dall’istinto insito nel creato e dallo stupore ancora promettente, il creato sarà per noi come quel contadino che camminava avanti portando il foraggio sul dorso. Senza saperlo, servì da guida a Bashō e a Sora, suo discepolo, alla ricerca dello “stretto sentiero del nord”, che altrimenti si sarebbero smarriti per il vasto deserto della pianura di Nasuno.

Un cambiamento radicale di stile e di sguardo; scrive Chandra Candiani di Bashō: «La nostra fame di spirito, di vastità, può trovare in Bashō una bussola, dentro gli stretti sentieri della vita messa a nudo, la sua asciuttezza, la sua sobrietà ma soprattutto l’incantevole parità del suo sguardo sul mondo: “Sui monti d’estate/ Partendo/ Mi inchino ai sandali di legno”» (Chandra Candiani, Lo stretto sentiero del profondo nord, Einaudi, Torino 2022, xxiii-xxiv).

Traverso la landa d’estate
ci guida un uomo che porta
un fascio di fieno sul dorso.

Sopra il sentiero montano
nasce improvviso il sole
fra il profumo dei fiori di prugno.
(Bashō, 23; 20)

Per leggere gli altri articoli di Presto di mattina, la rubrica di Andrea Zerbini, clicca [Qui]

C’è qualcosa di nuovo… anzi d’antico:
Una Regina che muore e il Razionamento che ritorna

Va bene, ho capito, è morta la povera vecchia regina Elisabetta, rimasta eroicamente al timone del Regno Unito (e mica tanto unito) e del Commonwealth (ammesso e non concesso che conti ancora qualcosa) per più di Settant’anni.  Una tempra di ferro, un attaccamento alle tradizioni che non ha pari. Ho sentito anche la salve infinita dei cannoni. Elisabetta II: in televisione non si parla d’altro.

Ma chi come me – e non mi pare siano tanti –  senza venir meno al rispetto dovuto ad ogni morte, prematura o tardiva che sia, dichiara che “della regina Elisabetta non mi importa poi molto”, chi dice una cosa assolutamente ovvia: che “il suo peso politico era pari a zero”, essendo stata, la sua, “una guida puramente simbolica”. Chi osserva che “il mondo, con Elisabetta o senza Elisabetta,  rimane esattamente quello che era, con tutti i suoi drammi irrisolti”.
Ma chi (e anche questa volta mi iscrivo al piccolo gruppo) osserva come tutto il grande squadrone corazzato dell’informazione mainstream (i grandi giornali, tutte le televisioni, le inspiegabili lacrimucce sui social,  and so on) ci sta propinando vita, morte e miracoli di Elisabetta e della Real Casa, tralasciando le cattive nuove di un’Italia ‘alla canna del gas’ (letteralmente) e di un’ Europa divisa su tutto, comprese le sanzioni, le contro-sanzioni, il tetto ai prezzi del gas, le tasse sugli extraprofitti…
Chi, insomma, prova a dire che sarebbe ora di abbandonare i fatti e misfatti, gossip incluso, di Casa Reale e di parlare di cose serie, di raccontare l’inverno da incubo che aspetta gli italiani, di indicare magari qualche responsabile. Tutti questi, e spero che col tempo aumentino di numero, vanno incontro a una selva di reprimende: se non son proprio duri di cuore, sono i  soliti bastian contrario.

Bene, sfida accettata: da incallito bastian contrario a me interessa parlare del Razionamento.
E si badi, il termine Razionamento (riapparso da poco nel vocabolario corrente) ha una storia ancora più vecchia del lunghissimo regno di Elisabetta II.

Per capire cos’è il razionamento, per guardarlo in faccia, non basta andare indietro di 50 anni. Allora, eravamo agli inizi degli anni Settanta del secolo scorso, c’era la cosiddetta ‘crisi petrolifera’: ci dicevano che il petrolio stava finendo (macché!), in realtà c’era il braccio di ferro con i paesi del cartello OPEC e le speculazioni conseguenti dei grandi operatori industriali e finanziari. Ma l’Austerity non era Razionamento.  Ero piccolo ma un po’ me la ricordo l’austerity: non si imponevano  agli italiani regole, orari, temperature, chiusura di fabbriche  e negozi. L’austerity era la gran invenzione dell’ ora legale per catturare un’ora in più di luce. E poco altro: spegnere un po’ prima le luci di piazza; un po’ di austerità sociale, e alla fine ne saremmo usciti fuori.

Il razionamento, quello vero, è molto più antico. Bisogna tornare alle foto in bianco nero del 1943-45. Agli anni  di ‘molte lacrime e altrettanto sangue’, agli anni della fame, delle lunghe code con in mano la tessera annonaria. Il “batrace stivaluto” (Carlo Emilio Gadda) ci aveva  infilato in una guerra assurda e persa in partenza, con un esercito con le pezze al culo e le scarpe di cartone. Che ci potevamo fare? Dopo la disfatta dovevamo pagare tutti. Non avevamo scelta.

Non siamo ancora a questo. Vedremo cosa sarà, all’inizio e mese dopo mese, il razionamento del prossimo autunno inverno. Quello che è certo è che morderà la carne viva degli italiani. Porterà disoccupazione e disperazione, negozi e piccole imprese fallite e chiuse per sempre.
Gli Italiani – siamo o non siamo ‘brava gente’? – aspetteranno ad accendere il riscaldamento e abbasseranno di uno o due gradi la temperatura; poi vedremo se basterà: un sacrificio tira l’altro. Ma avremo o no il diritto di sapere chi e perché ha messo l’Italia e gli italiani in questo vicolo cieco?

Per chiedere, anzi, per imporre sacrifici (mi par di ricordare che Giulio Andreotti fosse un esperto in materia) al governo e ai partiti  sembra bastare puntare il dito su un unico capro espiatorio: la Russia brutta e cattiva.
Ma chi pagherà per la fallimentare politica delle sanzioni, che ha messo in ginocchio mezza Europa e invece ha arricchito (parlo di svariato miliardi,  l’impero di Putin?
Chi chiederà conto alle grandi aziende energetiche nazionali degli extraprofitti miliardari, ottenuti vendendo il gas al prezzo della borsa di Amsterdam?

La storia si ripete. E questa vota è storia recente: prima dei giganti dell’energia, erano state le big pharma a vendere a peso d’oro i loro vaccini, fissando il prezzo a loro piacimento. Prezzi gonfiati e pagati dall’Europa e dagli Stati Nazionali senza battere ciglio. Ovviamente i soldi venivano sempre dalla stessa sacca, le tasche dei contribuenti.

Forse l’italiano medio dovrebbe opporsi a sacrifici dovuti a una situazione di cui nessun italiano medio è responsabile. Ma siamo ‘brava gente’, un po’ troppo abituata a ubbidir tacendo. Guarderemo in su, un cielo sempre più minaccioso. Fino a quando, si vedrà.

Cover: ritratto di Elisabetta II,  foto Wikimedia Commons

SUOLE DI VENTO/
Marseille notre amour!

 

Nessuna come Marsiglia. Nessuna città ho desiderato visitare, girare, annusare come Marsiglia. Nessuna ho, come Marsiglia, amato prima di vederla, sentirla, viverla.

Perché prima di riuscire, finalmente, ad andarci, l’ho vista, sentita, vissuta grazie agli scritti di Jean-Claude Izzo [Qui] , seguendo il suo “poliziotto” Fabio Montale nelle inchieste, nei suoi incontri, nei suoi percorsi.  E quando ci sono riuscita è stato per una breve ma intensa vacanza, tre settimane fa, con quattro amiche di canto e di avventure intellettuali.

Dopo la rapida ed efficiente fase di organizzazione logistica (aerei, hotel) parliamo poco, di questo viaggio, nei mesi precedenti. Forse i due anni di COVID ci hanno disabituate, forse tutte e cinque, ognuna a modo suo, desideriamo che questa città, subito ed inaspettatamente nominata come prossima meta dopo il precedente viaggio insieme, sia da scoprire in loco.

Di certo ognuna si aspetta qualcosa, si prepara a modo suo a questo incontro, ma ce lo diciamo solo in parte, prima di partire e, stranamente, non sentiamo il bisogno di un incontro comune per pianificare, proporre e studiare itinerari.

Condividiamo solo qualche brano di Jean-Claude Izzo riletto o appena scoperto e i consigli di una giovane amica architetta sulle tracce di novità urbanistiche, edifici e strutture assolutamente da non perdere.

Io ho con me il quadernetto su cui ho trascritto i posti preferiti di Fabio Montale, ricavati essenzialmente dalla trilogia (Casino totale, Chourmo, Solea) e dal gustosissimo, uscito postumo nel 2006, Aglio, menta e basilico.

Le parole che mi colpiscono mentre aspettiamo il volo all’aeroporto di Bologna, contenute nel primo capitolo di Chourmo, mi sembrano insieme un viatico e un pugno:

Marsiglia non è una città per turisti. Non c’è niente da vedere. La sua bellezza non si fotografa. Si condivide. Qui bisogna schierarsi. Appassionarsi. Essere per sempre contro. Essere, violentemente. Solo allora ciò che c’è da vedere si lascia vedere. E allora è troppo tardi, si è in pieno dramma. Un dramma antico dove l’eroe è la morte. A Marsiglia, anche per perdere bisogna sapersi battere. 

Più una visione del mondo e della vita che la descrizione di una città, per di più una visione del mondo che mi affascina e che vorrei che fosse anche mia.

Ma noi ci fermeremo solo quattro giorni, pochi per vivere davvero alla maniera di Izzo e di Montale.

In aereo vedo per la prima volta due delle mie amiche di viaggio tirar fuori le loro guide e le sento enumerare e commentare. Siamo sedute su due file diverse per cui non colgo tutto, ma quanto basta per individuare già quelle che saranno, anche perché sanno un po’ di francese, a fasi alterne le ‘capogruppo’; ma so anche che il rapporto che c’è fra noi cinque è garanzia di una vera collaborazione e rispetto e condivisione di idee, desideri, proposte.

Come viene immediatamente dimostrato quando, arrivate all’aeroporto, ci basta una rapida consultazione sotto il sole caldo per decidere di preferire un taxi al treno-navetta, perché, nonostante sapessimo che il nostro hotel era vicinissimo alla Gare Saint-Charles, desideravamo arrivare più in fretta possibile.

Che si sarebbe arrivate in fretta abbiamo compreso appena partite: guidare e sorpassare erano la stessa cosa, per Messa il magrebino, come pure la sua velocissima parlata e il suo intrecciare racconti personali e offerte di tour personalizzati nei giorni successivi.

Ma noi i tour li volevamo decisamente personalissimi, nel senso di pensarli e realizzarli seguendo e interpretando alla lettera i nostri impulsi e desideri del momento. E, trattandosi dell’ora di pranzo, il momento, una volta entrate nelle stanze e posati i bagagli, doveva essere decisamente culinario.

Ci avviamo e imbocchiamo quasi subito (ce l’abbiamo a due passi) la Canebière e l’aria che respiriamo è proprio quella che ci aspettavamo: tanta gente, tanti colori, tanti odori.

Non posso dimenticare che Izzo, nel capitolo ottavo di Casino totale (1995), manifesta la sua contrarietà alle ristrutturazioni avviate in quegli anni “I cinema avevano chiuso, uno dopo l’altro, poi i bar. La Canebière non era, oramai, che un susseguirsi di negozi di vestiti e scarpe. Un grande ciarpame, con un solo cinema, il Capitole”.

Per rafforzare, nel capitolo dodicesimo, il concetto: ”Non c’era più neppure un bar. Alle sette, le strade diventavano vuote e tristissime come alla Canebière”.

Quasi vent’anni dopo, a noi appare una Canebière affollatissima, giorno e notte, di gente diversa e variegata, e purtroppo anche di famiglie intere di indigenti che dormono su materassini stesi sul largo marciapiedi.

Torniamo al nostro primo giorno, alle nostre prime ore marsigliesi. La fame è tanta e ci fermiamo nel primo bugigattolo etnico che incrociamo: come spesso capita quando non si è programmato nei minimi particolari un itinerario, ci tocca accontentarci di quello che a Ferrara si definirebbe ‘un pustazz’, ma è così bello stare qui che tutto va bene.

Poi, fin da subito, diventiamo più esigenti, per cui la tappa successiva è un barettino nella piazzetta del Marché Des Capucins per un profumatissimo the alla menta.

Ristorate e rinfrancate iniziamo una delle lunghe camminate che caratterizzeranno le nostre giornate: ora la meta è Le Vieux Port. La sua collocazione, su una baia ad arco, consente di arrivarci ogni volta da una strada diversa e, quindi, di cogliere ogni volta una diversa prospettiva.

Oggi ci arriviamo da sinistra, praticamente sotto la collina su cui domina la Basilica di Notre-Dame-de-la-Garde, come scopriremo una volta spostateci sulla riva opposta.

Mentre ci facciamo accarezzare dal vento e annusiamo l’aria del mare e respiriamo la luce azzurra, siamo attratte dalla vista di un gran numero di persone che sostano sotto una struttura rettangolare, che si svela compiutamente solo quando ci arriviamo sotto e alziamo gli occhi.

Ci vediamo specchiate sull’immensa volta: l’Ombrière, la pensilina realizzata nel 2013 su progetto di Norman Foster [Qui], uno dei miei architetti prediletti.

Visto che l’altro polo nostro di attrazione è l’architettura contemporanea, decidiamo di andare alla ricerca dei Docks, i magazzini portuali  riqualificati dallo studio di architetti genovesi 5+1, inaugurati nel 2015 a completamento della rivoluzione estetica che nel giro di pochi anni ha letteralmente cambiato volto alla città. Sono diventati centri commerciali e luogo di incontro e passeggiate sulla Joliette.

In tanto camminare e ammirare è arrivata la nostra ora del Pastis (per onorare l’affermazione del ‘nostro’ Jean-Claude “il Pastis faceva parte dell’arte di vivere marsigliese”) e approdiamo in un bistrot, sulla cui lavagnetta del menu tutte leggiamo “Pastis à toute l’heure“.Solo dopo esserci sedute al tavolino scopriamo, nel faticoso cercare di comunicare con la cameriera burbera e gesticolante, che in realtà c’era scritto “Plats à toute l’heure“.Comunque il Pastis ce l’ha (ci raccomanda di mettere un solo cubetto di ghiaccio) e ci accordiamo pure su due vassoi di affettati e sottaceti e pane a volontà.

Quando ripassiamo dal Vieux Port per dirigerci verso l’hotel decidiamo che domani sarà il momento de Les Calanques. Tre ore e mezza in battello, il cielo azzurrissimo, il vento tra i capelli e la voglia di catturare con lo sguardo e trattenere dentro di te tutte quelle meraviglie: le isole, le falesie bianche e grigie, che disegnano l’orizzonte coi loro contorni, l’acqua ora blu ora color smeraldo. E ogni tanto girarsi per vedere Marsiglia dal mare.

Fabio Montale, in Solea: “Se potessi arriverei a Marsiglia solo dal mare. L’ingresso del porto, una volta superata l’ansa di Malmousque, mi dava ogni volta grandi emozioni… La città, stamattina, era trasparente. Rosa e blu nell’aria immobile.. Marsiglia respirava la propria luce

In quel momento Marsiglia profumava di anice…Il porto era magnifico in quel punto. Entrava negli occhi. Le banchine. I cargo. Le gru. I traghetti. Il mare. Il castello d’If e le isole del Frioul in lontananza. Tutto era bello da vedere.

 

Dopo tanta bellezza, prevalentemente naturale, la giornata si arricchisce di altra bellezza, frutto della creatività e maestria e progettualità umana: il MuCEM, museo della civilizzazione europea e del Mediterraneo, realizzato nel 2013 su progetto dell’architetto marsigliese Rudy Ricciotti [Qui], che ingloba il Fort Saint-Jean. In un cubo in acciaio e vetro avvolto da un rivestimento esterno in cemento accoglie collezioni permanenti, mostre e un piacevole tetto terrazza con caffè e ristoranti.

Ci spostiamo poi verso la Ville Méditerranée ‘centro per il dialogo e gli scambi nel Mediterraneo’ costruito, sempre nel 2013, nell’ambito delle iniziative per Marsiglia capitale europea della cultura, su progetto dell’architetto italiano Stefano Boeri [Qui].

Il nostro ‘corso di aggiornamento dal vivo’ sull’architettura contemporanea prevede, il mattino successivo, la visita alla Cité Radieuse, vale a dire l’Unité d’abitation progettata da Le Corbusier [Qui], come manifesto di un nuovo sistema abitativo, funzionale e sociale e realizzata nel 1952.

Visitiamo il quarto piano, dove uffici, negozi e gallerie d’arte aperti al pubblico permettono di immaginare strutture e dimensioni degli appartamenti privati in cui vivono oggi circa 1000 persone. La terrazza al nono piano si spalanca ai nostri occhi con il biancore di grandi elementi architettonico-scultorei e ci riempie lo sguardo dei panorami grandiosi della ‘città radiosa’.

Siamo praticamente in zona Prado, dove ci attende la passeggiata nel Parc Borely, dal quale approdiamo alla spiaggia!!!! Siamo in spiaggia insieme ai marsigliesi: tante famiglie, quasi tutte magrebine, bimbi e bimbe che si gettano nella schiuma dei marosi, il vento che richiama il pericolo, il ‘bagnino’ o ‘gendarme di spiaggia’, che invita ripetutamente e calorosamente, dall’altoparlante, alla prudenza.

Il giorno seguente saliamo alla Gare Saint-Charles: non ho sbagliato verbo: per arrivare ai binari si affronta una monumentale scalinata in stile Novecento, con una profusione di statue allegoriche dedicate alla Marsiglia ‘porta dell’Oriente’.

Attraversata la bella galleria in pietra e vetro, aggiunta in occasione della ristrutturazione del 2007, scendiamo dalla parte opposta per raggiungere, con un altro dei nostri lunghi percorsi a piedi, La Friche La-Belle-de-Mai, centro culturale polivalente, ricavato nel 1992 attraverso il recupero delle ex manifatture di tabacco.

Raggruppa oltre 70 strutture e comprende, tra gli altri, una galleria d’arte, una sala da concerto, Radio Grenouille, teatri e sale espositive e una terrazza sul tetto dove in serata è previsto uno spettacolo teatrale.

Noi non ci saremo: ci figuriamo troppo stanche per pensare di ritornarci, visto che nel pomeriggio prevediamo di salire alla Basilica di Notre-Dame-de-la-Garde, perciò ci accontentiamo di pranzare nel ristorante e di girare negli spazi, pochi aperti ma comunque suggestivi e coloratissimi di migliaia di graffiti.

Un tram affollato, nel quale siamo le uniche con mascherina, ci porta alla base della collina su cui si erge la basilica; saliamo sotto il sole caldo solo in tre e veniamo premiate dalla splendida vista dall’alto, a 360 gradi, della città.

Il giorno conclusivo lo dedichiamo al Panier, il primo sito colonizzato di Marsiglia e il quartiere più antico di Francia; nel XX secolo magrebini, italiani, corsi vi si stabilirono a ondate e per anni è stato un quartiere decisamente popolare.

Ora è attrazione turistica, pur con le dovute contraddizioni, come Izzo aveva previsto e come appare chiaro in queste parole che leggiamo nel capitolo decimo di Chourmo: “il Panier somigliava a un gigantesco cantiere. La ristrutturazione era al suo apice. Chiunque poteva comprarsi una casa per un pezzo di pane e, tra l’altro, risistemarla completamente grazie ai crediti speciali del Comune.

Si abbattevano case, addirittura pezzi di strade, per costruire graziose piazzette o dare luce a quel quartiere che ha sempre vissuto nell’ombra dei suoi vicoli. Il giallo e l’ocra cominciavano a dominare Marsiglia italiana. Gli stessi odori, le stesse risate, gli stessi scoppi di voci delle strade di Napoli, Palermo e Roma. Anche lo stesso fatalismo rispetto alla vita. Il Panier sarebbe rimasto il Panier. Non si poteva cambiare la sua storia. Così come quella della città.”

Si sarà notato che, dopo gli aneddoti relativi ai nostri primi incontri col cibo marsigliese, non ho più descritto i nostri pranzi e cene; questo perché il nostro non era un Esperimento Marsiglia, come intitola Paolo Di Paolo [Qui] il suo appetitoso scritto sul suo peregrinare lungo Cours Julien in cerca di ristoranti e cucine, che ivi abbondano, delle più svariate parti del mondo.

Noi abbiamo mangiato salades e daurades e riso e salsa aïoli e ci è piaciuto quasi tutto, ma in realtà, ovunque ci fossimo fermate, cercavamo la bouillabaisse, un po’ per curiosità e molto per omaggiare, anche in questo modo, la nostra guida letteraria, Jean-Claude Izzo ça va sans dire. E non l’abbiamo trovata mai…

E allora mi piace dirmi che, un po’ come quando si dimentica qualcosa in un luogo come traccia di sé o come pretesto per poterci ritornare, a Marsiglia ci dovrò tornare e questa volta la bouillabaisse di certo riuscirò a trovare.

I libri citati:

Jean-Claude Izzo, Casino totale, Ed. E/O 1999 (prima edizione Gallimard 1995)
Jean-Claude Izzo, Chourmo . Il cuore di Marsiglia, Ed. E/O 2000 (prima ed. Gallimard 1996)
Jean-Claude Izzo, Solea, Ed. E/O 2001 (prima edizione Gallimard 1998)
Jean-Claude Izzo, Aglio, menta e basilico. Marsiglia, il noir e il Mediterraneo, Ed E/O 2006
Paolo Di Paolo, Esperimento Marsiglia, Ed. EDT 2019

Parole a capo
Maria Mancino: “Bacio di carta”. Alcune impressioni e connessioni

Bacio di carta

Un respiro di carta
imbavaglia il tormento
che nell’attimo prima
giaceva pungente.

Dondola la notte
in una culla di parole
cigola l’oscurità

in un barlume di insonnia.

Sospira la mano
sul tratto d’inchiostro
lo bagna di lacrime
in un bacio di carta.

L’avvicinamento, a questa nuova plaquette Bacio di carta, Babbomorto Editore, 2022 di Maria Mancino, passa per un originale preludio di Edoardo Fontana fatto di impressioni.
Impressioni tipografiche, di odori, di mescolanze, di maestranze “impregnate” d’inchiostro e impegnate in un lavoro che vede passare, comporsi, scomporsi migliaia e migliaia di caratteri, di parole che si sposano e si slegano a caso.
Maria Mancino ci parla del piacere dello scrivere, di fare poesia nel tempo presente, una poesia “che dice la verità” anche nei tanti periodi dove i versi non sbocciano come “gemme senza volto“.

 

Lo dico piano

Lo dico piano
lo dico sottovoce

per paura di farmi male

l’anima è di cristallo
la ragione la frantuma.

Lo dico piano
lo dico senza voce
per paura di farti male

è complicato vivere
senza una ragione.

L’eterno confronto, tra la ragione e le emozioni, emerge tra immagini fantastiche “Navigo su una barchetta di giornale/ piegata da un bimbo in riva al mare” e sogni depositati in attesa di andarli a riprendere “quando sarò grande“.
Forse Maria “da grande” non saprà ancora scegliere quando riprendere quel sogno magari per paura che sia svanito.
Poesie impregnate di natura. Un legame fisico, costante, alla ricerca continua di un’armonia col proprio corpo e col tempo che, nonostante sia “fermo in una clessidra otturata“, passa inesorabile.

Petali

L’umore del cielo si guasta
i fiori arrugginiti tremano

sul bordo di un sorriso.

La notte imbriglia il sogno
il buio corteggia la solitudine

che inquieta slega parole.

Soffi d’anima scrivono
poesie su petali di carta

nel pianto dell’inchiostro.

L’amore prosegue verso luoghi
dove la ragione è sfocata

segue il profumo di rose sorgive.

Maria Mancino è nata a Campobasso e vive attualmente a Imola. Scrive poesie fin da piccola. Afferma di pensare in versi anche quando non scrive. Appassionatasi alla narrativa, ha pubblicato racconti con le case editrici: Negretto, FuocoFuochino e Fernandel. Da Babbomorto Editore hanno visto la luce le tre raccolte poetiche: “Bianco Spino”, “Mani d’argilla” e “Bacio di carta”, nonché il racconto “Uccel di bosco”. Nel settembre 2020, pubblica con l’Edizione Apostrofo:  “I plumcake del nonno”  un libro che attraverso i ricordi d’infanzia, delinea la mentalità, le tradizioni e la semplicità dei suoi luoghi. Sempre con l’Edizione Apostrofo nel marzo 2021 pubblica la raccolta poetica: “Nascosta è in lui la mia follia”.
La rubrica di poesia Parole a capo curata da Pier Luigi Guerrini esce regolarmente ogni giovedì mattina su Ferraraitalia/Periscopio. Per leggere i numeri precedenti clicca [Qui]

Il libro Bacio di cartaè acquistabile richiedendolo direttamente all’editore o durante le presentazioni. 

VITE DI CARTA /
Abitare più universi fatti di libri

 

Preparo la partenza per Mantova con una felicità nuova, nonostante sia l’ennesima partecipazione al Festivaletteratura.

Ma stavolta non me l’aspettavo di essere di nuovo reclutata come volontaria al servizio eventi, ho pensato di andare solo per un paio di giornate col pass della stampa come lo scorso anno, già contenta di questo privilegiato assaggio.

Invece presterò  servizio per tutte le giornate del Festival, da mercoledì 7 a domenica 11 settembre e tornerò col gruppo nel mattino di lunedì.

Già, il gruppo: sono cinque studenti del Liceo Ariosto e la amica ed ex collega che li accompagna. Saremo insieme nel viaggio, nella palestra dove alloggeremo e anche alla postazione di San Sebastiano, almeno noi due prof.

Mi sentirò ancora in servizio presso il mio liceo di sempre, ancora dentro il gruppo di lettura che chiamiamo Galeotto fu il libro.

La notizia che andrò a Mantova ha quasi spazzato via dai pensieri il libro di Alessandro Carlini [Qui], che devo presentare alla Biblioteca di Poggio Renatico poco dopo il rientro, mercoledì 14 settembre.

Ho detto “quasi” perché in realtà continuo ad abitare anche l’intenso universo di questo libro che ha per titolo inquietante Il nome del male, lo visito con senso di appartenenza ma a intervalli irregolari.

Nel frattempo la mente scappa a Mantova: leggo il programma cartaceo, lasciando segni di colori diversi sugli eventi più interessanti, verde per la musica, rosa per gli incontri di letteratura, blu per i grandi temi del presente e per gli autori imperdibili.

Penso a come riempire la valigia ideale che deve contenere un po’ di tutto: arredo letto, farmacia e beauty, abbigliamento e molto altro.

Settembre ha proprio cambiato le mie giornate, ho salutato il ritmo pigro di agosto e ritrovato il clima più fresco e più attivo della stagione autunnale.

Si intensificano le relazioni, scrivo e mi scrivono mail gli interlocutori del vivere sociale, soprattutto mi cade addosso il carico greve delle pastoie burocratiche in cui incappo a ogni piccolo atto da cittadina di questo paese.

Leggo. Ho ripreso a farlo ai ritmi consueti. E ascolto meno i notiziari tv, nella convinzione che le notizie dilaganti sulla campagna elettorale siano in buona misura eludibili.

Ma veniamo al libro di Alessandro Carlini che è uscito lo scorso aprile presso Newton Compton e rappresenta il sequel dell’altro recente romanzo, Gli sciacalli, uscito presso lo stesso editore nel 2021.

Li ho letti in ordine di edizione e in giorni ravvicinati, dunque mi rimane in testa una sorta di spumosa somma delle loro storie, la conoscenza ampliata del protagonista, il procuratore Aldo Marano, che investiga su assassini efferati nella Ferrara violenta degli ultimi anni di guerra e nell’immediato dopoguerra, tra il 1944 e il 1946.

Mi avvolge il quadro storico della città e della nazione uscita dalla Repubblica di Salò e dal conflitto civile senza avere una bussola, con gli Alleati in casa e i voltagabbana che aumentano ogni minuto. Mi intrigano le spire del romanzo giallo (o piuttosto del genere noir?) che Carlini padroneggia bene nel distribuire gli svelamenti della investigazione.

Nel primo romanzo Marano si occupa del caso della Fiat 1100 nera: una banda di feroci assassini percorre la provincia compiendo omicidi e vendette, nel buio della notte si vedono appena le luci e la targa dell’auto che uccide e poi si lancia a folle velocità facendo perdere ogni traccia.

Marano ipotizza che la banda sia formata da ex partigiani, ma anche da falsi partigiani ex repubblichini, che mascherano con la loro vendetta una diversa pulsione criminale alla conquista di denaro e potere.

Sono sciacalli che approfittano del momento caotico in cui anche Ferrara si trova  per seminare violenza; hanno appoggi importanti a livello politico e non sembrano avere ostacoli sulle strade polverose del contado.

Li combatte un magistrato che crede nella legge, che ne auspica il ritorno come principio di ordine contro il caos postbellico. Nel romanzo la figura letteraria di Aldo Marano riprende quella reale del magistrato Antonio Buono [Qui]; del resto la situazione storica è ricostruita dall’autore sulla base di documenti d’archivio, alcuni dei quali sono inediti.

Per esempio molte  delle azioni criminali della banda sono riprese da verbali originali delle forze dell’ordine e da materiale giudiziario relativo al processo ai capi della banda, istituito presso il Tribunale di Ancona e finito con l’applicazione dell’amnistia Togliatti.

Storia e finzione si intrecciano, ‘manzonianamente’, anche nell’ultimo libro: fin dal titolo la promessa è di immergere il lettore in una nuova serie di “atti tenebrosi” da romanzo gotico. Così è.

Le indagini del dottor Marano sono rivolte a un efferato omicidio avvenuto nel maggio del 1944 in una villa fuori città: è stata violentata e poi uccisa la contessa Maria Gherardini Franchi.

Il caso fino a quel momento insoluto è avvolto da segreti e misteri: mentre indaga Marano scopre che la vicenda si incrocia con i delitti della banda della 1100 nera.

In più, tra le insidie e la impaurita omertà dei testimoni che interroga Marano raccoglie alcuni segni che non può che qualificare come diabolici, viene a conoscere credenze e leggende del territorio, che lo spingono ad andare oltre l’interpretazione razionale dei fatti.

Deve mettere in gioco tutto ciò in cui crede se vuole dare un nome al male. Il finale, che è un finale aperto e non consolatorio, come in un giallo classico, non risponde completamente alla domanda. Nel senso che del nome tanto atteso vengono svelate solo alcune lettere…

Viene spiegata  per intero, invece, la etimologia del nome Aldo: l’origine è longobarda, e aldio indica il semilibero, “colui che non si poteva allontanare dalla terra dove il padrone lo aveva collocato.

Non era ammesso nell’esercito né poteva partecipare alle assemblee del popolo… Forse il suo padrone è la legge, e il suo nome sta lì a ricordarglielo sempre”, anche quando lui viene tentato dalla vendetta verso i colpevoli che lo ossessionano con la loro efferatezza e la immunità a cui sembrano essersi assicurati, diabolicamente. Il nome è dunque uno stigma.

La città di Bassani, quella raccontata in Una notte del ‘43, si arricchisce di nuovi tasselli storici e di nuova invenzione letteraria sotto la penna di Alessandro Carlini.

Il linguaggio in quest’ultimo romanzo ha soluzioni espressive ancor più coinvolgenti rispetto al precedente, ha una maggiore carica allusiva e si avvale di espedienti formali cari alla nostra tradizione poetica, non solo narrativa.

Il registro espressivo non è mai neutro, perché il narratore pur utilizzando la terza persona assume il punto di vista dei personaggi e di Aldo Marano innanzitutto.

Nelle analisi psicologiche e anche nella esposizione di azioni e pensieri prende corpo il mondo interiore di ogni personaggio, nei dialoghi le parole, con cui ognuno si esprime, emanano coerenza col quel mondo e il lettore trova davanti a sé figure a tutto tondo che risultano credibili.

Carlini a Mantova non c’è. Devo aspettare il dopo Mantova per incontrarlo e fare la sua conoscenza. Ora lo percepisco lontano, posizionato al di là dell’universo del ventiseiesimo Festival.

Tuttavia se le cose andranno come di solito accade quando ci si addentra nella letteratura, dall’universo di Mantova tornerò carica di nuove ricche suggestioni.

Credo che alla biblioteca del mio paese porterò nuove domande, o domande meglio pensate da porre al nostro ospite.

Per leggere gli altri articoli e indizi letterari di Roberta Barbieri nella sua rubrica Vite di cartaclicca [Qui]

SETSUKO IN MOSTRA A ROMA:
grazia, delicatezza e armonie naturali


“Toccare e modellare la terra è un modo per vivere in sintonia con la natura.”
Setsuko

Terracotta rivestita di smalto bianco, la purezza che splende e brilla di luce propria. Ma anche bronzo, legno, lavori su tela e un’accurata selezione di opere su carta.

Setsuko, Photo Zarko Vijatovic

Arrivano a Roma la delicatezza e la grazia della giapponese Setsuko (Setsuko Klossowska de Rola), in una mostra, Into the Trees II, che aprirà al pubblico l’8 settembre presso la famosa Galleria d’Arte Gagosian, in Via Francesco Crispi 16, di fianco alla centralissima piazza Barberini.

Non potevo non restare affascinata da tanta bellezza, tanto più che, ancora una volta, grandi protagonisti della storia sono, tra gli altri, i miei sempre amati alberi.

L’esposizione approfondisce i bellissimi lavori già presentati dall’artista a Parigi nel 2019, alla Gagosian di Rue de Ponthieu, in Into the Trees. Per Setsuko, la Natura è la sua maestra, colei che l’aiuta ad orientarsi, senza la quale non potrebbe dipingere o lavorare, l’ispirazione. Il suo giardino in Svizzera dal quale lavora è circondato da foreste e montagne: osservarle con attenzione e cura guida il tratto di ogni opera. Dedizione al mondo e alla sua forza.

A Parigi questa gentile artista giapponese ha presentato al suo pubblico la felice connessione tra elementi naturali ed elementi forgiati dall’opera umana, unitamente ad un mélange delicato di Oriente e Occidente testimonianza di grande sensibilità ed empatia, una meticolosa attenzione alle qualità più svariate della materia che l’hanno condotta a interessarsi alla ceramica e all’infinita malleabilità dell’argilla. Quasi un potente e creativo demiurgo.

Le opere parigine erano state realizzate nel suo studio presso il laboratorio di Benoît Astier de Villatte, prestigiosa firma di collezioni in ceramica, con il quale Setsuko intrattiene una continua e proficua collaborazione fin dai tempi in cui aveva vissuto con i genitori, da bambino, all’Accademia di Francia di Roma, Villa Medici, di cui il marito di Setsuko, Balthazar Klossowski de Rola (Balthus), era stato direttore tra il 1961 e il 1977. Da qui Setsuko si sarebbe trasferita al Grand Chalet de Rossinière, in Svizzera.

Quello nella Capitale è, quindi, un ritorno a una città per lei importante.

Con Into the Trees II, il lavoro di Setsuko viene presentato per la prima volta a Roma dal 1979, data della sua personale alla Galleria Il Gabbiano.

Setsuko, Raisin II, 2022, photo Thomas Lannes
Setsuko, Magnolia I, 2022, photo Thomas Lannes

Realizzate in terracotta e rivestite di uno smalto bianco lattiginoso, le sue sculture in ceramica rappresentano querce, magnolie, rose, viti, alberi di limone, mela cotogna, melograno e fico enfatizzando il solido radicamento dei tronchi e la consistenza nodosa della corteccia, incorporando fogliame, fiori, ghiande e frutti finemente modellati. Le forme imponenti e le superfici delicate trasmettono la forza sviluppata in anni di sopravvivenza e la nuova promettente crescita, attraverso forme vitali che denotano l’innata osservazione della natura da parte dell’artista. Queste opere, che ricordano le ceramiche giapponesi Jōmon (circa 10,500 – 300 a.C.), traggono anche ispirazione da tradizioni estetiche europee, continuando la sua ricerca sull’immaginario di Oriente e Occidente.

Setsuko, Chat assis sur fauteuil en osier vert 1997 photo Zarko Vijatovic Courtesy Gagosian

Accompagnano le ceramiche un ulivo in legno con foglie e fiori dipinti e candelabri in bronzo ornati da vite, fichi e melograni. Queste opere proseguono il percorso di Regards de Setsuko, una mostra del 2021 al Musée national du château de Malmaison, in Francia, ideata in dialogo con gli oggetti d’arte decorativa conservati nella casa di Joséphine de Beauharnais e Napoleone Bonaparte.

Setsuko, Chandelier, 2021, photo Thomas Lannes

Una serie di dipinti e opere su carta di Setsuko ripercorre poi la sua evoluzione artistica nell’arco di sei decenni, dagli anni Sessanta, quando l’artista risiedeva a Roma, fino alle opere realizzate durante l’isolamento della pandemia. Realizzati con tratti delicati e definiti con precisione all’interno del piano pittorico, queste eleganti nature morte e intimi interni domestici sono a volte ravvivati dalla presenza di piante e felini. Sintesi dell’estetica tradizionale giapponese e di quella modernista europea, i dipinti, come le opere scultoree dell’artista, rivelano la sua attenta osservazione contemplativa degli oggetti quotidiani e della vita che li circonda.

Leggerezza e bellezza da non perdere.

 

Setsuko è nata, nel 1942, a Tokyo da un’antica famiglia di Samurai e vive e lavora tra Parigi e il Grand Chalet de Rossinière, in Svizzera, l’albergo dalle 113 finestre acquistato d’impulso negli Anni ‘70 quando Balthus, che soffriva di malaria, su consiglio del medico cercava casa a mezza costa. Pensavano a poche stanze con un grande atelier finché un pomeriggio non entrarono per un tè in uno chalet immenso e fascinoso, un albergo semi dismesso. “Era vuoto, non c’erano altri clienti”, racconta Madame Setsuko. “C’era una atmosfera alla Agatha Christie, vedevo Miss Marple sferruzzare e Poirot centellinare il suo tè. Il padrone era malato e disperato, voleva vendere ma non trovava acquirenti: è una casa del 1754, con stanze piccole e soffitti bassi, a ogni piano tante porte e un solo bagno in fondo al corridoio. E non la si poteva ammodernare perché è una casa storica”. La coppia se ne innamorò subito. «Il proprietario era così felice che qualcuno la volesse che ci disse: vi do tutto, mobili, lenzuola, servizi per la tavola, soprammobili. Ancora oggi ho cose bellissime». Un luogo particolare e unico per un’arte che sarebbe presto diventata altrettanto unica e indimenticabile.

Setsuko, Magnolia I, detail, 2022, photo Thomas Lannes
Setsuko, Untitled, 1967, Photo Thomas Lannes, Courtesy Gagosian

Le opere di Setsuko sono incluse, tra le altre, nella collezione del Metropolitan Museum of Art, New York. Tra le mostre più importanti: Setsuko et Harumi: hommage à Balthus, Palais des Nations, Ginevra (2001); Atelier de Cezanne, Aix-en-Provence, Francia (2012); Grand-Château d’Ansembourg, Lussemburgo (2014); The Life of Setsuko Klossowska de Rola, Sogo Museum of Art, Yokohama, Giappone (2016); e Regards de Setsuko, Musée national du château de Malmaison, Rueil-Malmaison, Francia (2021). Dal 2002 Setsuko è presidente onorario della Fondation Balthus e nel 2005 è stata nominata Artista per la Pace dell’UNESCO.

Per un’interessante intervista (francese/inglese) aprire il link

Immagine in evidenza tratta dall’intervista, altre immagini cortesia Gagosian

 

la tempesta del gas e l’Europa ostaggio della speculazione

 

I ministri europei dell’energia anticipano al 9 settembre l’incontro di Berlino in quanto gli aumenti enormi di gas/luce mettono a rischio non solo molte famiglie ma parte dell’industria europea.
Si profilano razionamenti e una riforma strutturale dell’energia basatasi fino ad oggi sul libero mercato.
L’Europa scopre (un po’ tardi) che non si può andare avanti con bollette stratosferiche legate al “prezzo marginale” che fa la borsa Ttf di Amsterdam (avviata nel 2003). Una borsa che molti esperti hanno definito unautentico casinò che consente agli speculatori enormi profitti a spese dei consumatori e che ora tiene in scacco coi suoi prezzi (20 volte quelli del 2021) i cittadini europei.

Una borsa, quella di Amsterdam, con scambi modesti (1-2 miliardi di dollari di gas al giorno) contro i 2mila miliardi di dollari del petrolio Brent alla borsa di Londra (fonte Salvatore Carollo sulla rivista Energia.it) e che – non riflettendo i reali valori tra produzione e consumo -, consente con pochi movimenti speculativi di modificare (e di molto) il prezzo giornaliero. Già la California fu travolta nel 2000 da un sistema simile dove “gli squali della finanza sfruttarono gli errori dei politici” (F.Rampini su Il Corriere della Sera del 2.9.2022), che portò al fallimento della società finanziaria Enron. E la storia si ripete oggi con gas e luce in piena Europa.

E’ la Germania il paese più colpito perché ha la manifattura più estesa in Europa (seguita da quella italiana) e il suo modello di sviluppo si è basato per decenni su export ed energia a basso prezzo dalla Russia.

La carenza di gas ha fatto schizzare i prezzi alle stelle e il rischio è che le imprese europee vadano fuori mercato in quanto quelle americane pagano gas ed elettricità 7-10 volte meno e i cinesi la metà.
Se 2/3 delle famiglie italiane rischiano di perdere ‘solo’ una parte dei risparmi nei prossimi 6 mesi (1/3 hanno contratti bloccati fino al 30 aprile 2023, poi sarà “lacrime e sangue per tutti”), molte imprese europee (con contratti variabili) rischiano di chiudere o essere acquistate (come Pernigotti da JP Morgan, banca d’affari Usa). Il che prefigura chiusure, licenziamenti, deindustrializzazione e pesanti ricadute sul debito pubblico, specie per quei paesi (come l’Italia) che sono fortemente indebitati.

Dopo Svezia e Finlandia è ora la Germania che versa 10 miliardi a Uniper (l’utility tedesca del gas) affinché non fallisca, ma Uniper ha già perso negli ultimi 40 giorni altri 4 miliardi (perde 100 milioni al giorno) in quanto costretta a rifornirsi al mercato libero del gas. Ma al di là di Uniper, quasi nessuna impresa è in grado di reggere la concorrenza asiatica o americana con i prezzi attuali della materia prima energetica.

Negli ultimi 6 mesi industria e famiglie hanno ridotto i consumi energetici di circa il 15% in Germania e del 3% in Italia (al solito inadeguata), ma ciò non è assolutamente sufficiente (già l’Europa ci impone una riduzione del 7%). Inoltre ci sono prezzi stratosferici (245 euro a MWh ieri, 5 settembre, dopo il picco a 330 del 26 agosto), rispetto ad una media di 11-20 euro del 2018-2021), anche perché i rifornimenti alternativi alla Russia sono possibili solo in parte e a questi prezzi altissimi.

Ciò porta a rinviare la chiusura delle centrali nucleari tedesche (fissata a fine anno), a riaprire le 6 centrali a carbone in Italia e la BCE ad alzare i tassi di interesse (75 punti attesi) per mitigare l’inflazione, rallentando ancor più l’economia e accrescendo l’onere del debito pubblico per gli Stati. Europa e G7 hanno approvato un tetto al prezzo del gas russo (come chiesto da Draghi) e al petrolio russo (che scatta a fine anno) che probabilmente farà cessare completamente il flusso del gas russo aggravando il razionamento di questo inverno. Difficile pensare che la Russia possa accettare (unico tra i membri Opec+) di autoridursi i prezzi. Verosimilmente venderà petrolio e gas a Cina e India come sta già facendo.

In tale contesto cresce la pressione di cittadini e imprese perché la guerra finisca prima possibile.

Molte imprese espongono i confronti tra le bollette di questo anno e il 2021 (più alte da 3 fino a 16 volte) e sono i problemi che buona parte delle famiglie si troverà ad affrontare da ottobre (e forse per altri 2-3 anni).
Per molti paesi poveri (specie Africa) il rischio è ancora peggiore: la fame.
Negli ultimi 20 anni infatti qualcosa di molto storto è avvenuto anche nei paesi poveri, i quali (come noi) si sono sempre più indebitati, complici i bassi tassi di interesse che pagavano (in dollari) al Fondo Monetario Internazionale (Fmi), per cui oggi a livello globale il debito pubblico è salito a 305mila miliardi (348% del Pil mondiale), 5 volte quello che era nel 1997. 100mila miliardi sono debiti dei paesi poveri che hanno in parte anche migliorato le loro condizioni, ma ora, molto più indebitati, rischiano grosso.
Se infatti gli Stati Uniti, con l’inflazione alle stelle, aumentano i tassi di interesse al 3,5% per mitigarla, il dollaro (attuale moneta internazionale) si rivaluta (+12% sulle altre monete, euro incluso) e cresce così il costo annuo del debito dei paesi poveri (che è in dollari), per cui circa 20 paesi rischiano di fallire entro la fine dell’anno come lo Sri Lanka.

La finanza internazionale, a caccia di profitti per i nostri 50 milionari occidentali (americani, inglesi ed europei), dà un enorme contributo a questi squilibri perché sposta i soldi dai paesi emergenti (a rischio default) verso l’Occidente (circa 50 miliardi, fonte Fmi) dove crescono i tassi di interesse dei titoli di Stato e delle obbligazioni e anche per la rivalutazione del dollaro. Oltre alle manovre speculative su alimentari e gas che da sole incidono per la metà sugli aumenti in corso.
A rischio è paradossalmente anche l’Ucraina che da sola ha avuto un deflusso di 11,8 miliardi di dollari (da marzo) pari al 22% del totale deflusso dei paesi poveri e rischia la bancarotta dello Stato non più in grado di pagare gli stipendi (infatti l’Italia ha prestato, per ora, 200 milioni per pagare gli insegnanti).

Il Governo italiano anziché intervenire sulle regole di formazione del prezzo del kW al consumo ha lasciato fare, sapendo che ciò avrebbe prodotto ingenti extraprofitti (50 miliardi calcola la Confindustria). Extraprofitti che ha poi tassati per 25%, ma poiché la misura è malfatta ha raccolto solo 2-3 miliardi dei 10 previsti.
Doveva invece cambiare le regole di determinazione del prezzo base del kW al consumo, lasciando i legittimi profitti alle imprese della filiera, ma stroncando sul nascere gli extraprofitti. Il popolo italiano avrebbe ringraziato di cuore.

L’invasione della Russia in Ucraina ha dato di certo il via a questo processo, ma nessuna riduzione del 17% del gas in Europa da parte della Russia può scatenare prezzi 20 volte superiori.

Cosa dunque porta i prezzi alle stelle? Da un lato c’è la speculazione, dall’altro le aspettative degli operatori, banche e finanza
Si  è avviata una rottura della globalizzazione e delle catene di fornitura con il nuovo mondo bi-polare che si va realizzando, con due recinti sempre più chiusi (Usa-Occidente vs Cina-Russia) che produrrà per molti anni ancora (fonte Federal Reserve Usa) alta inflazione per tutti e conseguente impoverimento per tutti i popoli del mondo (Italia compresa).
Intanto prosegue la guerra dove a morire sono soprattutto gli ucraini (e russi). Anziché essere uniti, come Nato, per imporre a tutti una equa distribuzione degli oneri (almeno delle bollette) ci troviamo con paesi che per gli aumenti di gas e luce ci guadagnano (come Usa, Norvegia e Olanda) e noialtri che ci perdiamo. Strana idea di fratellanza.

Questo è a mio avviso il grande peccato di omissione dell’Europa, non aver capito per tempo il suo compito spirituale e civile, cioè diventare un Terzo polo nel mondo (autonomo sia da Usa che da Cina), dialogante con tutti, specie coi paesi poveri che sono la grande maggioranza nel mondo, sfruttando i reciproci interessi (come fece il grande Mattei a suo tempo con Eni), senza subire la diffidenza o l’ostracismo di molti paesi nei confronti degli USA per le sue politiche di potenza.
Era questo del resto il progetto politico di Gorbachev e di Brandt (due grandi statisti che “ci hanno provato” : alleare Europa e Russia (fonte Barbara Spinelli, Il Fatto quotidiano, 2.9.22). Del resto gli stessi Stati Uniti hanno capito, con l’uscita dall’Afghanistan che il mondo non può essere governato con le armi e solo un commercio equo (e non semplicemente “libero”) aiuta tutti a svilupparsi, limitando le speculazioni finanziarie e ridando un ruolo alla vera economia degli scambi equi nel rispetto anche della Natura che fino ad oggi è stata considerata una mera esternalità da distruggere per avere prezzi minori.

Questo non significa essere amici di Putin, ma capire che non ha senso combattere la Russia (che prima o poi si libererà di Putin), così come la Cina (che prima o poi potrebbe mitigare il suo dispotismo).
In ogni caso non è più possibile fare i ‘gendarmi’ di un mondo in cui diventiamo sempre più piccoli. Significa accettare che Russia e Cina oggi governati da dispotismi invaderanno il mondo e il nostro ricco Occidente? Non credo.
Compito dell’Europa è fare in modo che la Russia non finisca nella braccia della Cina in modo definitivo. Il futuro starà sempre più nella capacità di allearsi coi paesi poveri con scambi equi che favoriscano lo sviluppo (loro e nostro), Una politica di pace, diversa sia da quella militare americana, sia da quella ‘commerciale’ cinese che ‘aiuta’ i paesi poveri per indebitarli e portarli nella propria sfera di influenza.

L’Europa ha un altro ruolo, quello di proporre una ‘vita buona’ per tutti (non consumistica), basata sul modello sociale europeo, rispettoso della Natura, basata su scambi equi tra paesi, che ponga uno stop definitivo alle guerre e all’uso della finanza per impoverire con una ‘mano invisibile’ la maggioranza dei nostri concittadini e i paesi poveri come si fa da 500 anni.

Questo è il nostro ‘vantaggio competitivo’: cultura, habitat, ambiente, sanità, welfare, diritti umani, comunità territorialmente radicate che qualcuno vuole spazzare via.

Energia, Acqua, Rifiuti, Consumo di Suolo:
4 Leggi per cambiare la politica regionale e la nostra vita

 

Il prossimo 13 settembre, RECA (Rete per l’Emergenza Climatica e Ambientale Emilia-Romagna) e Legambiente regionale depositeranno in Regione più di 7.000 firme a sostegno delle 4 proposte di legge di iniziativa popolare in tema di energia, acqua, rifiuti e consumo di suolo.
In poco più di 3 mesi si è bene superata la soglia delle 5000 firme necessarie per la loro presentazione e discussione all’Assemblea regionale, segno di una disponibilità e di un interesse diffuso nella società su questi temi, soprattutto declinati in termini di alternativa alle politiche regionali (e nazionali) praticate sulle questioni ambientali e, più in generale, sul modello di sviluppo che li genera.

Non intendo riprendere qui i contenuti presenti nelle proposte di legge (peraltro li avevo già esposti in un precedente articolo su questo quotidiano [Vedi qui] ), quanto proporre tre ordini di riflessioni.

Il primo riguarda il fatto che le questioni su cui abbiamo raccolto le firme (ancora con la faticosa e superflua modalità di autenticazione e certificazione elettorale, sic!) sono diventate ancora più attuali e centrali anche solo rispetto ai mesi scorsi.
Prendiamo, a titolo esemplificativo, i temi dell’energia e dell’acqua. Sull’energia è ormai diventato senso comune la constatazione che l’aumento del prezzo del gas e dell’elettricità sta producendo una crisi profonda – più di quella conosciuta a proposito del petrolio negli anni ‘70 del secolo scorso – mettendo a forte rischio il livello di reddito e di vita delle persone e la situazione economica e produttiva del Paese. Una crisi che nasce dalla forte ripresa dopo il lockdown pandemico, con le strozzature nelle catene produttive che ha determinato.
Una crisi che si è aggravata con la guerra tra Russia e Ucraina e viene alimentata da un’irresponsabile ma, purtroppo, ‘fisiologica’ speculazione che si produce da quando un mercato di tipo borsistico regola il prezzo.

Una crisi che rende più forti la necessità di una politica energetica che scelga indipendenza e autosufficienza delle fonti (anche da questo punto di vista, quale scelta migliore se non quella della produzione da fonti rinnovabili?), ma che, invece, viene utilizzata per rilanciare con forza l’utilizzo delle fonti fossili, secondo una logica guidata dalla conferma di un vecchio e sbagliato modello di sviluppo e dalla massimizzazione dei profitti.

Se qualcuno giudica estremiste queste affermazioni, dovrebbe rispondere a un fatto che ha quasi dell’incredibile. Nello stesso momento in cui si fa persino allarmismo sulla mancanza di gas per il prossimo autunno, ci tocca registrare che, tra gennaio e maggio, di quest’anno sono stati esportati dall’Italia 1.467 milioni di metri cubi equivalenti (Smc) di gas, ovvero il 578% in più rispetto ai 254 milioni del 2021. Una quantità che non ha pari negli ultimi 15 anni
Oppure, basterebbe guardare all’esplosione di profitti dell’Eni, che nel 2021 sono balzati a 4,7 miliardi di €, il livello più alto dal 2012. O allo scandalo delle imprese energetiche diventate soggetti di elusione fiscale, visto che, rispetto ad una tassazione, pur insufficiente, del 25% degli extraprofitti realizzati con l’aumento del prezzo del gas, che doveva garantire 4,2 mld. all’erario con l’acconto di giugno, ne hanno versati solo 800 milioni.

Ragionando sulla questione dell’acqua, in tempi in cui sia la siccità che i fenomeni alluvionali estremi diventano ‘normali’ e ben evidenziano che il cambiamento climatico è già un dato strutturale, anche qui non si può non vedere come occorre ripensare un intero paradigma in base al quale la risorsa era considerata illimitata e la sua gestione poteva essere affidata dentro una logica completamente privatistica.

Di fronte a questa drammatica situazione – e questo è il secondo ordine di riflessione – anche in Emilia-Romagna, come a livello nazionale, si propongono interventi di corto respiro, legati a concezioni superate, dettati da un’idea di sviluppo prigioniera della logica della crescita quantitativa del PIL e di una torsione economicista e produttivista. Con l’aggravante, stando alle esternazioni del presidente della regione Bonaccini, che essi vengono presentati, da bravi primi della classe, come elementi  esemplari per l’intero Paese.

Ecco che allora Ravenna viene vista come una delle capitali del gas in Italia, installando un nuovo rigassificatore e promuovendo una nuova fase di trivellazioni per incrementare la produzione nazionale di gas, senza dimenticare il progetto dell’Eni di installare lì il CCS, impianto di stoccaggio e immagazzinamento della CO2.
Un progetto, quello del rigassificatore, che, oltre alle problematiche non trascurabili di sicurezza che comporta e di messa a rischio dell’ecosistema marino, significa puntare, per un periodo di tempo non breve, alla strategicità di una fonte fossile come il gas, mettendo in secondo piano il tema della transizione ecologica.
Senza, peraltro, rispondere in tempi brevi all’emergenza energetica, visto che il rigassificatore non andrà in funzione prima dell’autunno 2024.

In tema di mobilità, si continua imperterriti a seguire la strada delle grandi opere autostradali – dal Passante di mezzo a Bologna alla Cispadana e alla bretella Campogalliano-Sassuolo- che supportano l’utilizzo del mezzo di trasporto privato, anziché puntare al potenziamento del trasporto pubblico e alla “mobilità dolce”.

Su altri fondamentali beni comuni, dall’acqua al ciclo dei rifiuti, viene confermata la spinta alla loro privatizzazione e ad una gestione non sostenibile delle risorse: sulla prima con un provvedimento regionale che ha prorogato fino alla fine del 2027 le attuali gestioni del servizio idrico, facendo un ulteriore grande regalo a Hera e Iren, mentre sul secondo siamo addirittura in presenza di un un nuovo Piano regionale che prevede un incremento della produzione pro-capite dei rifiuti urbani del 5,4% che passerebbe dai 667 kg/ab anno del 2019 ai 703 del 2027!

Potrei continuare parlando del consumo di suolo, del ruolo negativo della proliferazione della logistica, delle linee che ispirano l’attuale produzione agricola e zootecnica, della qualità e dell’inquinamento dell’aria e di altro ancora.
Mi pare che ce ne sia quanto basta per sottolineare come non si può più ignorare la necessità della transizione ecologica e come diventa necessario mettere in discussione il modello produttivo e sociale che produce tali scelte regressive. Perché è di questo che si deve parlare e su cui occorre intervenire: del cosa si produce, di come e per chi  lo si fa.

Le 4 proposte di legge di iniziativa popolare hanno l’ambizione di muoversi entro quest’ambito. Spingere verso la produzione e l’utilizzo delle fonti energetiche rinnovabili, eliminare il consumo di suolo, ridurre la produzione dei rifiuti e uscire dall’incenerimento, favorire i processi di ripubblicizzazione del servizio idrico e dei rifiuti significa proprio aggredire questo nodo e prospettare un embrione di modello produttivo e sociale alternativo.

Anche per questo non si possono nutrire molte illusioni sul fatto che, allo stato attuale, esse possano essere accolte nella loro sostanza da chi governa (ma anche da chi sta all’opposizione) in questa regione.
Serve un’ampia mobilitazione sociale e una forte pressione sulla politica per sostenerle. E’ questa la terza riflessione di fondo.

E per questo il deposito delle proposte di legge, il 13 settembre,  verrà accompagnato da un presidio sotto la Regione Emilia-Romagna. Quindi si lavorerà perché esse vengano discusse in tutti i Consigli comunali, almeno di quelli capoluoghi di provincia.
Già con l’idea di pensare ad una grande manifestazione regionale a Bologna per il mese di ottobre,
mettendo al centro le tante vertenze territoriali che intervengono sui temi ambientali e che sono aperte in questa regione, unificate dall’orizzonte di prospettare un nuovo modello sociale e produttivo, di cui le 4 proposte di legge costituiscono un forte elemento esemplificativo. Costruendo anche una convergenza tra tutte le realtà che si muovono nel variegato mondo ambientalista e anche con il tema del lavoro, visto che lotta al cambiamento climatico, transizione ecologica e quantità e qualità del lavoro si tengono insieme. Almeno per chi pensa necessario tenere aperta la porta sul futuro, perché possa essere più giusto e solidale.

Un posto segreto
…un racconto

Un posto segreto
Un racconto di Carlo Tassi

Esiste un posto che non ho mai detto.
Esiste da quando quella volta decisi d’andar dietro a un sogno. Perché erano tante notti che veniva a trovarmi.

Ogni notte, puntuale, sentivo bussare alla finestra della mia cameretta. L’orologio alla parete segnava le tre e trentatré, e lui compariva dal buio oltre il vetro, e mi guardava senza far nulla. Io mi nascondevo sotto coperte e lenzuola e aspettavo che se ne andasse. Ero paralizzato dalla paura, non l’avevo mai visto in faccia ma vedevo la sua ombra, fuori nell’oscurità, e mi terrorizzava.
Poi, una notte, lo sentii singhiozzare. Era un pianto sommesso, discreto. E quando mi decisi a sbirciare da sotto il lenzuolo, quando ne alzai un lembo e provai a guardare verso la finestra, lui non c’era più.

La mattina seguente, mia madre entrò nella cameretta per svegliarmi e intravide qualcosa sul davanzale della finestra. Aprì le imposte e scoprì un piccolo fiore spuntare da una fessura della pietra. Era un gelsomino giallo, nato, non so come, proprio quella notte appena passata.
Quando me lo fece vedere, pensai fosse stato lui a lasciarlo, pensai che era un segno d’amicizia. Forse non era cattivo, forse m’ero sbagliato, e quel fiore era nato dalle sue lacrime.

Giunse un’altra notte e restai sveglio ad aspettarlo, volevo conoscerlo, scusarmi e ringraziarlo.
Mia madre aveva piantato il fiore con tutte le radici in un vaso, ci aveva messo della terra morbida e l’aveva innaffiata. Il vaso col fiore era sul davanzale, e io mi misi alla finestra, sperando che il mio visitatore misterioso tornasse a trovarmi. Aspettai tutta la notte fino al mattino, ma non venne. Feci altrettanto la notte dopo, e quella dopo ancora. Ma non venne mai, non venne più.

Passarono i giorni, e i giorni divennero settimane, così mi decisi: una sera aprii la finestra, presi il vaso – incredibilmente il piccolo fiore era diventato una bella pianta di gelsomini gialli e profumati – e lo posai sul comodino, poi mi coricai a letto e m’addormentai.
Alle tre e trentatré sentii bussare alla finestra. Era lui. Era tornato!
Misi da parte la paura, mi alzai dal letto, andai alla finestra e finalmente lo vidi.
Emerse dall’oscurità, era il mio sogno: un bambino uguale a me, e mi sorrideva.
Poi mi prese la mano e m’invitò a seguirlo.

Abbandonammo la mia cameretta uscendo dalla finestra. Non facemmo alcun rumore, proprio come due creature dell’oscurità. E l’oscurità non era affatto terribile come avevo sempre creduto.
Finimmo sul greto d’un torrente in mezzo al bosco. Attorno a noi c’erano gli abitanti della notte. Tutti quegli esseri che avevo sempre temuto e guardato con sospetto. Erano vicinissimi, illuminati dalla luna piena. E tutti ad accoglierci in pace.
Così falene, pipistrelli, gufi, volpi, grilli, lepri, donnole, gatti, marmotte, ricci, civette, toporagni, lupi e tanti altri esseri ancor più strani e misteriosi apparvero dal nulla e s’affollarono tutt’intorno incuriositi, quasi fossero folletti.
E per la verità – ora lo posso dire con certezza – erano proprio folletti!
Esatto cari miei. I folletti esistono per davvero. Vivono nei sogni dei bambini e degli stessi animali, ne hanno tutto l’aspetto. E oggi, ogni animale è mio amico, così come ogni creatura dei sogni, perché è proprio grazie a loro che tanti anni fa ho vinto la paura del buio.

Tornando a quella notte, quell’unica notte, rimasi a lungo nel bosco in compagnia delle sue fantastiche creature. Tanto a lungo che poi m’addormentai di nuovo.
Più tardi, al mattino, mia madre entrò nella cameretta e mi svegliò. S’era accorta che sul davanzale della finestra mancava la pianta di gelsomino e mi chiese dov’era finita. Io le risposi che non lo sapevo, e lei, poco convinta, la cercò in ogni angolo della stanza senza trovarla. Alla fine si rassegnò e uscì dandomi un’occhiataccia.

In fondo cosa avrei dovuto dirle? Che l’avevo lasciata in un posto segreto, sul letto di un torrente in mezzo al bosco, lontano miglia e miglia da casa?

Somewhere Only We Know (Keane, 2004)

Videoracconto letto da Alessandra Arlotti

Per leggere tutti gli articoli, i racconti e le vignette di Carlo Tassi su questo quotidiano clicca sul suo nome. Per visitare il sito di Carlo Tassi clicca [Qui]