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Poesie per sopportare la vita

“Vivo, ma in me non vivo,
e tanto è il ben che dopo morte imploro
che mi sento morir perché non moro”.
(Teresa di Gesù, Opere, ed. ODC, Roma 19858, 1498)

Sabato scorso 15 ottobre non è passata invano, almeno per me, la memoria di santa Teresa d’Avila [Qui]: fosse anche solo per essermi avventurato tra le pagine dei suoi testi poetici, tra le strofe di canzoni e brevi componimenti sacri.

Gli stessi che Teresa di Gesù improvvisava durante i suoi faticosi viaggi, cantandoli poi insieme alle sorelle ogni qual volta si avventurava per la Spagna ad aprire nuove fondazioni e case della sua riforma carmelitana.

Lungo il cammino sui carri coperti, ma rozzi e sgangherati, trasformati in “monasteri ambulanti”, le religiose portavano anche un piccolo campanello con il quale davano i segni del silenzio, dell’orazione e dell’ufficiatura, come fossero in convento.

Scrive padre Egidio di Gesù: «Degna di considerazione era la cura che la Madre mostrava per coloro che l’accompagnavano, come se non avesse da far altro e fosse sempre stata carrettiera. Alle volte chiamava quelli che venivano a piedi e li consolava, parlando loro con tanta grazia da far dimenticare ogni stanchezza. …

Così, per acque, per nevi, bruciata dal sole, battuta dalla tempesta, sana e ammalata, percorre la Nuova e la Vecchia Castiglia, penetra nell’Andalusia, scende fino a Siviglia, risale nuovamente in Castiglia, sempre col medesimo entusiasmo che anima e trascina al sacrificio chi ha la fortuna d’accompagnarla». (ivi, 1066-1067)

Quando alloggiava nel monastero, le canzoni venivano accompagnate da un tamburello e dal battito delle mani.

Una volta suor Ines di Gesù ricorda che fu incaricata da Teresa di ricopiare una poesia da cantare poi in comunità, e mentre scriveva pensava tra sé e sé che in una donna così santa, come la Madre Fondatrice, tali canti non le sembravano molto dignitosi.

Ma Santa Teresa, che aveva indovinato il pensiero vedendo la sua perplessità, le disse con molta grazia, passandole accanto: «Tutto ciò è necessario per sopportare la vita». (ivi, 1496)

I suoi testi nascono soprattutto dall’intimità d’amore con il Cristo, ma anche dal sentimento opposto: dalla percezione cioè di una lontananza, che equivale per lei a privazione di una siffatta intimità di amore.

Il tutto vissuto come una mancanza lancinante, il desiderio struggente, fortissimo, del cielo, come un sentirsi morire perché ancora non le è dato quel morire che è vivere e quella terra che è cielo.

Nel testo sopra citato sono evocate le parole mistiche di san Paolo, quando scrive di sé e della sua esperienza viva di Cristo ai Galati: «Vivo ego, iam non ego, vivit vero in me Christus. E questa vita, che io vivo nel corpo, la vivo nella fede del Figlio di Dio, che mi ha amato e ha consegnato se stesso per me». (Gal., 2, 20).

Scrive Teresa nelle Relazioni spirituali, che rappresentano come la continuazione al Libro della vita: «Vi sono dei giorni in cui mi è sempre alla mente quello che dice San Paolo. Anche a me pare, benché non come lui, di non essere più io che vivo, che parlo e che voglio, ma un altro in me che mi dirige e mi dà forza.

Sono come fuori di me per la gran pena che la vita mi dà. Sì, mi è così doloroso esser lontana da Dio che il maggior sacrificio che ora io offro alla sua gloria è appunto di accettar di vivere per amor suo». (ivi, 456-457)

La speme sol m’allevia
d’avere un dì a morire,
ché col morir eterea
vita verrò a fruire.
Morte che a vita susciti,
non ritardar! t’imploro!
Moro perché non moro.
Non mi tradir! Fortissimo
vita, ricorda – è amore.
Puoi guadagnar col perderti.
Cedi! Per te è migliore.
(ivi, 1500)

Nei lamenti dell’esilio l’amore si rivela

Cammino interminabile,
lungo e crudele esilio,
terra in cui debbo vivere,
soggiorno di periglio!
Signore amabilissimo,
concedimi d’uscire,
ché ansiosa in Te d’immergermi,
desidero morire…
Questo terreno vivere
è un’iterata guerra:
la vera vita vivesi
oltre la grama terra.
Amarti, amarti, o Amabile,
amarti e mai finire.
Ansiosa in Te d’immergermi,
desidero morire.
(ivi, 1507-1509)

E ancora nel Libro della vita leggiamo: «Io so di una persona alla quale, pur non essendo poeta, accadeva di improvvisare strofe molto sentite nelle quali manifestava la sua pena; Parole che non erano frutto di intelligenza ma uno sfogo dell’anima che tuttavia le davano gioia». (Vita, 16, 4).

Un’altra poesia esprime la gioia che Teresa sperimenta nella preghiera, come intima unione d’amore. Una gioia che lei paragona a quella che nelle parabole qualifica il Regno dei cieli: simile alla gioia condivisa con le amiche della donna che ritrova la moneta perduta o a quella del re Davide quando cantava e ballava davanti a Yhwh:

«Mi sembra che sia come quella donna di cui parla il vangelo che voleva chiamare e chiamava le vicine. Credo che tale sentimento doveva provare il re profeta Davide quando suonava e cantava sull’arpa le lodi di Dio» (Vita, 16, 4;3).

Felicità di chi ama

Libero e lieto è il cuore innamorato,
che tutto e solo si concentra in Dio.
Per Lui rinuncia ad ogni ben creato,
per Lui si lascia in disdegnoso oblio.
Il suo pensiero è tutto in Lui sacrato,
ed Ei l’appaga in ogni suo desio.
Così, fra mezzo a questo mar sconvolto,
passa sereno nella pace avvolto.
(Opere, 1506)

Una volta le carmelitane di Siviglia, prima della partenza della Madre dal loro convento, insistettero perché il priore padre Gracián acconsentisse a che Teresa fosse ritratta da un frate pittore che era andato al monastero per decorarlo, un certo fratel Giovanni della Miseria, che non era certo “il gentil pittore” della poesia che segue.

Così padre Gracián commentò quell’episodio: «Ella se n’afflisse, non tanto per l’incomodità a cui il pittore la costringeva, obbligandola a rimanere immobile per tanto tempo senza muovere la testa e alzare gli occhi, ma per il pensiero di lasciare nel mondo la sua figura.

Il ritratto riuscì male perché fratel Giovanni non era un gran pittore. La Madre gli disse scherzando: “Dio ti perdoni, fra Giovanni! Dopo tutto questo, mi hai fatto brutta e cisposa”. – Questo è il ritratto che ora abbiamo, ma mi sarebbe piaciuto – scrive ancora Gracián – che fosse stato più al vivo, perché la Madre aveva il viso molto bello che muoveva a divozione» (ivi, 1274, nota 1).

Nella poesia Cercando Dio Teresa immagina che “Amore” abbia dipinto in lei l’immagine di Cristo e in Lui la sua:

In me cerca te/e in te cerca me

Con tanta grazia e diligenza Amore
in me ti seppe ritrattar, che al mondo
non mai s’avrà un così gentil pittore
che miglior opra possa in ciò compir
Fosti dal nulla per amor creata,
bella, graziosa e nel mio cuor dipinta
Se ti smarrissi, o mia colomba amata,
cercati in me, ché ti potrai scoprir.
Ti scoprirai dipinta sul mio petto
sì ben al vivo e con sì dolci tratti
che in contemplarti tu n’avrai diletto,
grata all’eccelsa possa dell’amor.
Che se poi non sapessi ove cercarmi,
non vagare per monti o per foreste:
se veramente tu vorrai trovarmi,
cercami in te, dentro il tuo stesso cuor.
Tu sei l’ostello ov’io dimoro e dove
il mio riposo e il mio piacer rinvengo.
Non affannarti nel cercarmi altrove:
chiamami e tosto io sarò da te.
In ogni tempo e in qualsivoglia loco
pur io ti chiamo e di chiamar non lascio.
In me ti cerca, ed – oh, mirabil gioco!
te pur con gioia troverai qui in me.
(ivi, 1510-1511).

La poesia è linguaggio non solo dei poeti ma pure dei mistici e di coloro che narrano la vita quando ama fino in fondo. Le loro parole senza saperlo sono ammirate come quelle di poeti, anzi doppiamente commuovono.

Così quelle di Teresa che non avevano alcuna pretesa letteraria. Le parole “pur non essendo poeta”, si riferiscono alla sua mancanza di cognizioni stilistiche intorno alle regole della metrica.

Un pensiero di Thomas Mann [Qui] può così offrirci un orizzonte interpretativo circa questi testi quando scrive che: «Ammiriamo la poesia proprio perché sa parlare come la vita, ma siamo doppiamente commossi dalla vita che parla, senza saperlo, proprio come la poesia» (Introduzione a Lettere di Condannati a morte della Resistenza europea, Einaudi, Torino 1964, XI).

A sua immagine: morire d’amore, morire per te

Le tue parole per me fanno fiorire le mie per te: un canto d’amore, parole sussurrate, zitte e poi gridate. Le tue parole che mi sfiorano come una carezza, mi mancano le parole tue per me. La cosa più grande è morire d’amore.

Così Giuni Russo [Qui], donna di lotta ed energia, cantante e compositrice, artista di ricerca, sperimentale e d’avanguardia, spaziò tra vari generi musicali, tra cui anche testi classici e di musica sacra.

Appassionata della poesia di Giovanni della Croce [Qui] fu ispirata dalla sua opera poetica nelle sue canzoni. Innamorata di Teresa d’Avila, Giuni disse che le sue parole le cantavano dentro. Morirò d’amore è la sua ultima canzone, definita da lei stessa come “una preghiera” che invoca una presenza, perché la sofferenza d’amore non si cura se non con la presenza della sua figura.

Vento nei capelli e gli occhi al sole
E richiami vigili nel cuore
Affidavo all’aria i miei pensieri
E le parole, le parole tue mi mancano
Le parole urlate poi dall’eco ripetute, cantano
Morirò d’amore, morirò per te
Il tuo sorriso, l’allegria, quanto mi mancano
Le parole sussurrate, zitte, poi gridate
Le parole tue per me
Morirò d’amore, morirò per te
Senti il vento contro le ringhiere
Con te vicino passo le mie sere
E le parole, le parole tue mi sfiorano
Quelle parole che sai dirmi
Quando me ne voglio andare, vincono.
Morirò d’amore, morirò per te
Socchiudo gli occhi e le tue mani mi accarezzano
Quelle parole urlate poi dall’eco rimandate
Che dal cielo cantano
Morirò d’amore, morirò per te

La sua figura

L’estate appassisce silenziosa
Foglie dorate gocciolano giù
Apro le braccia al suo declinare stanco
E lascia la tua luce in me
Stelle cadenti incrociano i pensieri
I desideri scivolano giù
Mettimi come segno sul tuo cuore
Ho bisogno di te

Sai che la sofferenza d’amore non si cura
Se non con la presenza della sua figura

Baciami con la bocca dell’amore
Raccoglimi dalla terra come un fiore

Come un bambino stanco ora voglio riposare
E lascio la mia vita a te

Tu mi conosci non puoi dubitare
Fra mille affanni non sono andata via
Rimani qui al mio fianco sfiorandomi la mano
E lascio la mia vita a te

Sai che la sofferenza d’amore non si cura
Se non con la presenza della sua figura

Musica silenziosa è l’aurora
Solitudine che ristora e che innamora

Come un bambino stanco ora voglio riposare
E lascio la mia vita a te

Mi manca la presenza della sua figura
(Giuni Russo e Franco Battiato, La sua figura)

Per leggere gli altri articoli di Presto di mattina, la rubrica di Andrea Zerbini, clicca [Qui]

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Andrea Zerbini

Andrea Zerbini cura dal 2020 la rubrica ‘Presto di mattina’ su queste pagine. Parroco dal 1983 di Santa Francesca Romana, nel centro storico di Ferrara, è moderatore dell’Unità Pastorale Borgovado che riunisce le realtà parrocchiali ferraresi della Madonnina, Santa Francesca Romana, San Gregorio e Santa Maria in Vado. Responsabile del Centro di Documentazione Santa Francesca Romana, cura i quaderni Cedoc SFR, consultabili anche online, dedicati alla storia della Diocesi e di personaggi che hanno fatto la storia della chiesa ferrarese. È autore della raccolta di racconti “Come alberi piantati lungo corsi d’acqua”. Ha concluso il suo dottorato all’Università Gregoriana di Roma con una tesi sul gesuita, filosofo e paleontologo francese Pierre Teilhard de Chardin.

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Ogni giorno politici, sociologi economisti citano un fantomatico “Paese Reale”. Per loro è una cosa che conta poco o niente, che corrisponde al “piano terra”, alla massa, alla gente comune. Così il Paese Reale è solo nebbia mediatica, un’entità demografica a cui rivolgersi in tempo di elezioni.
Ma di cosa e di chi è fatto veramente il Paese Reale? Se ci pensi un attimo, il Paese Reale siamo Noi, siamo Noi presi Uno a Uno. L’artista polesano Piermaria Romani si è messo in strada e ha pensato a una specie di censimento. Ha incontrato di persona e illustrato il Paese Reale. Centinaia di ritratti e centinaia di storie.
(Cliccare sul ritratto e ingrandire l’immagine per leggere il testo)

PAESE REALE
di Piermaria Romani


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