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Immigrazione e demografia
Tre passi per gestire i problemi

Immigrazione e demografia: tre passi per gestire i problemi

La crescita anno dopo anno del fabbisogno delle imprese italiane è dovuta al fatto che, a causa del calo demografico, siamo già nella fase in cui, per i lavori manuali (sia al Nord che al Sud), per ogni 100 anziani che vanno in pensione ci sono in media solo 30 giovani italiani (non diplomati) disposti a fare questi lavori. Ciò spiega il crescente problema a trovare braccianti, edili, baristi, camerieri, autisti, operai, etc… Un problema peraltro europeo, in quanto il fabbisogno di manodopera in Europa è stimato in circa 2 milioni di immigrati all’anno, sempre a causa del calo demografico. E quindi i flussi potrebbero essere organizzati dall’Europa (sarebbe anche meglio, pensando alla disorganizzazione tipica degli italiani). Ma si tratta di un processo in 3 “passi” che può alimentare anche lo Stato italiano.

Il primo passo è programmare ogni anno il flusso di immigrazione regolare. L’ultimo decreto del Governo che entra in vigore il 27 marzo ne prevede 82.705 (44mila stagionali e 38.705 non stagionali). E’ il dato più alto degli ultimi 10 anni, ma ancora è troppo basso perché, se è vero che le stime della Fondazione Moressa prevedono un fabbisogno di 80mila all’anno, per molti altri la stima è almeno il doppio per i prossimi 10 anni a causa del declino demografico. E se non si fa questo primo passo, le prime ad essere danneggiate saranno proprio le imprese italiane.

Il secondo passo è cambiare la legge Bossi-Fini. Attualmente, un imprenditore che volesse assumere un immigrato deve prima rivolgersi al Centro per l’Impiego per verificare che non ci sia un italiano e, se non c’è risposta dopo 15 giorni, può fare domanda di un immigrato regolare allo Sportello unico per l’immigrazione della Prefettura, che si prende 30 giorni per il rilascio del nulla osta, dopo aver controllato che la richiesta sia dentro le quote. A questo punto si attiva la rappresentanza diplomatica italiana nel paese di origine per il rilascio del visto e, ovviamente, la procedura prevede che l’immigrato sia nel suo paese di origine. Questo meccanismo, come tutti possono capire, è fasullo e inefficace. Fasullo, perché non c’è nessun imprenditore che assume un lavoratore, tanto più immigrato, senza averlo prima selezionato e visto. Inefficace, perché assegna a Prefettura e Rappresentanza diplomatica processi (come la selezione del personale) che non sono in grado di gestire, e che comporterebbero tempi lunghissimi – conoscendo il grado di inefficienza delle nostre istituzioni su aspetti ben più semplici di questo.

Quindi cosa succede nella realtà? L’imprenditore seleziona un immigrato irregolare già presente in Italia e fa in modo che questi rientri in patria, chieda il visto, e arrivi. Tempo medio: 3-6 mesi. Questo meccanismo burocratico è finto e non funziona. Ecco perché i decreti flussi regolari sono in realtà forme mascherate per regolarizzare gli irregolari, che lo sanno benissimo e continuano ad arrivare, tra l’altro, con le carrette del mare. Sono 20 anni che tutti i Governi (e l’ Europa in testa) fanno finta di non vedere questa realtà, come le tre scimmiette.

Il terzo passo consiste nel fare accordi ufficiali coi paesi di provenienza. Nel 2022, su 105mila sbarchi di irregolari, più della metà dei migranti proviene da tre paesi: Egitto (20.542), Tunisia (18.148) e Bangladesh (14.982). Non è un caso che provengano da questi paesi, perché sono i nostri imprenditori che li ritengono lavoratori affidabili. In sostanza facciamo come gli inglesi, che hanno individuato da tempo gli immigrati dal Commonwealth come i preferiti. Gli imprenditori ci guadagnano perché pagano in nero, gli immigrati sono comunque contenti rispetto alla vita terribile che facevano in patria, Governo e opposizione fanno finta di non sapere. E’ interesse dei paesi d’ origine fare accordi con l’Italia, perché le rimesse degli immigrati regolari sono “oro” per il loro paese, finanziando la scuola dei figli e la sanità e aiutando mogli e famiglie povere.

Gli accordi dovrebbero prevedere una formazione in loco con insegnamento dell’italiano, una selezione on line con gli imprenditori italiani e l’invio in Italia regolare, via nave o aereo. Questi stessi paesi che inviano cittadini regolarmente selezionati si dovrebbero impegnare poi a riprendere eventuali immigrati irregolari che avessero pagato per essere trasportati dagli scafisti in modo illegale.

Si potranno poi migliorare le forme di “incontro e selezione” tra datori di lavoro italiani e lavoratori immigrati, per esempio con la presenza (pagata dall’Italia) dei datori di lavoro nei paesi di origine nelle fasi finali di selezione.

Questo processo avvierebbe una sana collaborazione tra l’Italia e il nord Africa, che rappresenterebbe per l’Italia un investimento essenziale per il suo futuro e ridurrebbe sia gli sbarchi illegali che i morti in mare.

Documentazione:

Decreto flussi 2023

Il decreto flussi 2023 (approvato dal governo a dicembre 2022) stabilisce che possono entrare in Italia per motivi di lavoro un totale di 82.705 persone distribuite così:
Lavoro stagionale (quindi per un lavoro che avviene solo in un periodo dell’anno): 44.000 persone dai seguenti paesi: Albania, Algeria, Bangladesh, Bosnia-Herzegovina, Corea (Repubblica di Corea), Costa d’Avorio, Egitto, El Salvador, Etiopia, Filippine, Gambia, Ghana, Giappone, India, Kosovo, Mali, Marocco, Mauritius, Moldavia, Montenegro, Niger, Nigeria, Pakistan, Repubblica di Macedonia del Nord, Senegal, Serbia, Sri Lanka, Sudan, Tunisia, Ucraina.

Di questi:

22.000 per lavoro stagionale in agricoltura. Le domande possono essere presentate dai datori attraverso queste associazioni: Cia, Coldiretti, Confagricoltura, Copagr, Alleanza delle cooperative (comprende Lega cooperative e Confcooperative).

1.500 per lavoro stagionale pluriennale (cioè con un solo nulla osta il lavoratore ha diritto ad entrare in Italia per lavoro stagionale per un massimo di 3 anni).

Lavoro non stagionale e autonomo (quindi per lavori che hanno una durata più lunga del lavoro stagionale) nei settori dell’autotrasporto (esempio: guida di camion), dell’edilizia e del turismo (esempio: cameriere di albergo): 30.105, di cui 24.105 persone provenienti da Albania, Algeria, Bangladesh, Bosnia – Herzegovina, Corea (Repubblica di Corea), Costa d’Avorio, Egitto, El Salvador, Etiopia, Filippine, Gambia, Ghana, Giappone, India, Kosovo, Mali, Marocco, Mauritius, Moldavia, Montenegro, Niger, Nigeria, Pakistan, Repubblica di Macedonia del Nord, Senegal, Serbia, Sri Lanka, Sudan, Tunisia, Ucraina.
6.000 persone provenienti da paesi extra UE con i quali l’Italia firmerà accordi di cooperazione durante l’anno 2022.

1.000 persone che hanno completato programmi di formazione ed istruzione all’estero approvati dal Ministero del Lavoro e dell’Istruzione.

100 persone che vengono dal Venezuela e hanno origine italiana per almeno una parte della famiglia.

500 persone per lavoro autonomo, cioè imprenditori, liberi professionisti, artisti famosi, ideatori di start up.

7.000 persone che devono convertire in permesso di lavoro un tipo diverso di permesso. Tra esse: 4.400 persone con permesso di soggiorno per lavoro stagionale da convertire in permesso di soggiorno per lavoro subordinato non stagionale; 2.000 persone con  permesso di soggiorno per studio, formazione professionale o tirocinio da convertire in permesso di soggiorno per lavoro subordinato; 370 quote persone con permesso di soggiorno per studio, formazione professionale o tirocinio da convertire in permesso di soggiorno per lavoro autonomo; 200 persone con permesso di soggiorno UE per soggiornanti di lungo periodo rilasciato da un altro Stato membro dell’Unione europea da convertire in permesso di soggiorno per lavoro subordinato; 30 persone con permesso di soggiorno UE per soggiornanti di lungo periodo rilasciato da un altro Stato membro dell’Unione europea da convertire in permesso di soggiorno per lavoro autonomo.

 

Parco Urbano e concertone: il caso non è chiuso

Parco Urbano e concertone, il caso non è chiuso:
aspettiamo un parere scritto dal Presidente della Provincia

Le recenti esternazioni pubbliche di Claudio Trotta, promoter italiano dei concerti di Springsteen, nelle quali si afferma che è stata la pubblica amministrazione ad indicare il luogo del concerto (circostanza finora negata), che il parco non è area protetta e nelle quali soprattutto, in modo offensivo, si pretende di insegnare ai cittadini di questa città come si devono utilizzare e far vivere i parchi (ma il signor Trotta ha mai frequentato un parco da utente?), hanno indotto Italia Nostra a richiedere al Presidente della Provincia, ente al quale risulta demandata la definizione ed il rispetto delle aree protette dal punto di vista ambientale, se le prossime iniziative previste nel Parco Urbano “Giorgio Bassani” sono compatibili con il rispetto della normativa vigente.

Si ribadisce che Italia Nostra è favorevole allo svolgimento di importanti concerti nella città, ma in luoghi adatti, quindi non a scapito di luoghi sensibili dal punto di vista ambientale e non a scapito della fruizione di spazi pubblici deputati ad altre funzioni.

Giuseppe Lipani
presidente della sezione di Italia Nostra di Ferrara.

Si allega per conoscenza la richiesta inviata:   

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Al Presidente della Provincia di Ferrara 
Gianni Michele Padovani
e per conoscenza: 
al Responsabile del Settore Pianificazione Territoriale della Provincia di Ferrara
arch. Manuela Coppari
al Responsabile Area pianificazione territoriale, urbanistica e tutela del paesaggio
della Regione Emilia-Romagna
dott. Roberto Gabrielli
alla Soprintendente Archeologia, Belle Arti e Paesaggio
per la città metropolitana di Bologna e le Province Modena, Reggio Emilia e Ferrara
arch. Francesca Tomba
Essendo in programma nel mese di maggio del corrente anno un concerto nel Parco Urbano della città di Ferrara per il quale è previsto un afflusso di almeno 50.000
persone, risultando alla scrivente associazione che il territorio del Parco Urbano della città, intitolato a Giorgio Bassani,
sia tuttora tutelato come “zona di particolare interesse paesaggistico – ambientale” (art.19) dal Piano Paesistico Regionale e come parte delle reti ecologiche di primaria importanza nel Piano Territoriale di Coordinamento Provinciale,
chiede
se lo svolgimento nel parco della manifestazione sopra richiamata sia compatibile con la normativa di tutela del Piano Paesistico Regionale e Piano Territoriale di Coordinamento Provinciale o se non sia pregiudizievole della salvaguardia di un territorio tutelato in quanto ricco di valori ambientali, anche sotto l ’ aspetto del rispetto e della difesa della flora e della fauna in esso presenti.
Poiché da notizie di stampa sembra di capire che l’attuale Amministrazione Comunale intenda in futuro utilizzare il parco come sede frequente, se non permanente, di spettacoli con grande affluenza di pubblico, pone il medesimo quesito anche per questa, a parere della scrivente Associazione, inconcepibile eventualità.
In attesa di cortese rapido riscontro, motivato dalla imminenza del concerto, porge cordiali saluti
Per il Consiglio Direttivo  della sezione di Italia Nostra di Ferrara
Il Presidente Domenico Giuseppe Lipani
Ferrara. 15/03/2023

Ferrara, Città all’incontrario

Sembra quasi una lettera innocua, cortese, educata, ma non lo è. E’ un’altra carta da giocare,  l’ultima in ordine di tempo, di Italia Nostra, contro le politiche della Giunta Fabbri,  sbagliate e pericolose nel merito ma anche nel metodo. Una lettera che inaugura l’ennesima battaglia della storica Associazione Ferrarese in difesa dell’ambiente e dell’identità culturale di Ferrara, perché tutti (in primis il Pubblico) rispettino i vincoli urbanistici e paesaggistici. della legge e del rispetto che merita una comunità urbana.
L’arrogante, illegittima  (e offensiva, come si legge nella lettera) presa di posizione del “tour operator” del Boss, ha il medesimo brutto sapore della vergognosa lenzuolata sul Carlino Ferrara a firma dell’impresa ARCO sul FE.Ris. Mai vista prima di ora a Ferrara una cosa così grave: imprenditori privati che parlano in vece della voce pubblica, che impartiscono lezioni (di scienza?) (di democrazia?), che dividono il popolo gregge tra i bravi della classe e i cattivi soggetti da metter dietro la lavagna. Sarebbero i soliti piantagrane degli ambientalisti.
Ci saranno altre occasioni per richiamare il Governo Locale  al rispetto delle norme su cui si fonda il gioco democratico. Nella lettera spedita 4 giorni fa e che oggi gli amici di Italia Nostra hanno deciso di rendere pubblica torna a concentrarsi sul Parco Urbano e sulla nebbia  di silenzi e reticenze che hanno accompagnato l’azione della amministrazione comunale  sin dall’inizio di tutta la vicenda.  La lettera chiede al Presidente della Provincia di Ferrara, che ha precise competenze in tema di tutela ambientale ed uffici preposti ai conseguenti controlli, di esprimere ufficialmente un parere chiaro sulla legittimità ed opportunità delle scelte compiute unilateralmente dal Sindaco e dal Consiglio Comunale di Ferrara.
Vedremo se arriverà una risposta e quando arriverà . Per ora c’è una sola cosa certa, che al contrario di quanto ha dichiarato più volte il sindaco con una certa sicumera, il “caso non è chiuso”. 
Francesco Monini

Per certi versi /
La ballata della luce

La ballata della luce

Fu l’inizio
allo sgorgare
del mattino
da una roccia
di cielo grigio
a comparire
una brace accesa
per la mia legna
ancora verde
che vento seccava
il fuoco
invisibile
divampò
divenne luce
per le nuvole
per le mani
degli alberi
rivoltate
degli ulivi
luccicanti
pensieri
illuminati
a comparire
dando inizio
alla candela
della sorte
fuochi di mare
nella grande notte
degli occhi
dove riposano
gli oceani
i pianeti
le galassie
non c’è
Spazio
che possa
sfuggire
alla capienza
delle mie pupille
Ogni domenica Periscopio ospita Per certi versi, angolo di poesia che presenta le liriche di Roberto Dall’Olio.
Per leggere tutte le altre poesie dell’autore, clicca [Qui]

SANTA LIBERTÀ
una storia vera

Santa Libertà. Una storia vera

 

Che piacere, che felicità  poter offrire in anteprima ai lettori di Periscopio un magnifico recente testo teatrale di Fabio Mangolini, che per me è un fratello più che un amico, ma anche – ed è questo che qui interessa – un grande autore: drammaturgo, regista, attore. insegnante, artista errante. La storia di Santa Libertà, come recita il titolo,  è una storia vera. Un viaggio reale in mezzo all’Atlantico e, insieme, il viaggio di Mangolini  che accende la luce su un piccolo episodio quasi dimenticato, che però ha incrociato la Grande Storia, quella delle nazioni, dei presidenti, dei generali e, come sempre accade, dove agiscono le idee, la politica, le opposte convenienze. La ricerca documentaria puntigliosa di Mangolini, la lingua asciutta e  precisa,  il montaggio incalzante del testo ci catapultano dentro una sorta di  “maledetta grana internazionale”. Una grana che qualcuno deve pur risolvere, ma che nessuno stato o capo di stato avrebbe voglia di accollarsi. 

Fin qui la storia macro, una storia, appunto, vera dal primo all’ultimo protagonista. Tranne chi occupa la scena, uno sconosciuto imbarcatosi in terza classe sulla nave “Santa Maria”: Alberto Sarti, 16 anni, nato a Caracas nel 1945 e figlio di genitori di San Giovanni in Persiceto, che attraversava l’oceano per visitare la zia e vedere per la prima volta la vecchia Italia.  L’Alberto Sarti di Mangolini è “lo spettatore per caso”; non sa niente del mondo, della politica, della dittatura di Salazar, della nuova Cuba, dell’America e del suo nuovo presidente giovane e bello. Ci è capitato per caso e di quel fuori programma ci ha capito poco e nulla. Per non mancare l’appuntamento con la storia bastava essere sul ponte di quel transatlantico, ed arrivarci puntuale, il il 21 gennaio 1961, proprio quando il Directorio Revolucionario Ibérico de Liberación, l’organizzazione fondata da esuli spagnoli e portoghesi per combattere le dittature di Franco e Salazar, ha sequestrato la Santa Maria e subito ribattezzata  Santa Libertà.
E’ finito un secolo e n’è cominciato un altro, ma quell’avventura, l’unica della sua vita, Sarti se la ricorda ancora per filo e per segno. La racconta a tutti quelli che incontra, anche a noi.
Buona lettura.

P.S. 1 Fabio Mangolini è di Ferrara, da ragazzo abitava in piazzale Camice Rosse. Una decina di anni fa è’ stato persino presidente del Teatro Comunale Claudio Abbado. Per un anno,  poi basta, altrimenti non sarebbe vero che Nemo profeta in patria e che a Ferrara presidenti e direttori artistici bisogna andarli a pescare tra i foresti e pagarli a peso d’oro.

P.S.2“Santa Libertà, Una Storia vera” ha girato alcune  piazze d’Italia. Io lo spettacolo l’ho visto 3 anni  fa, con grande divertimento, al ITC Teatro di San Lazzaro, quello che a me piace chiamare Stefano Tassinari. Ieri, sabato 18 marzo 2023 era in scena a Lecco. A Ferrara? Niente; né al Teatro Abbado, né al Nuovo, né altrove. Non so, forse  si sono dimenticati di invitarlo.
Francesco Monini

Santa Libertà. Una storia vera

di Fabio Mangolini

Lo spazio è diviso in due aree. In una l’attore narrerà le vicende legate al sequestro del transatlantico “Santa Maria”; nell’altra, invece, sarà un personaggio a raccontare la stessa storia dal suo punto di vista.

Quadro 1 Entrata

Entra l’attore e costruisce una barchetta di carta. Poi si siede al centro della scena con la barchetta in mano

Quadro 2 “Io c’ero” (soggettiva)

Mi chiamo Alberto Sarti. Sono nato a Caracas il 12 gennaio del 1945 da genitori italiani, di un paese vicino a Bologna, San Giovanni in Persiceto. I miei erano andati a vivere in Venezuela dieci anni prima un po’ per fame e un po’ perché non andavano d’accordo con i fascisti. Poi c’era stata la guerra, sono nato io, e hanno deciso di rimanerci, in Venezuela. Rimanerci per davvero. Alla fine del 1960 sono morti, tutti e due in un incidente stradale. Bum e la vita si sfascia. Finita. Ero rimasto da solo e avrei anche potuto rimanere a Caracas, ma una zia, la sorella di mia madre, mi scrisse dall’Italia che l’Italia stava rinascendo, che non era come una volta, come se io sapessi come fosse stata una volta, e mi mandò un biglietto per un transatlantico. Era per venire in Italia su un transatlantico portoghese, il Santa Maria, in terza classe, ma sempre un transatlantico di lusso. Si partiva dal porto de La Guaira, a due passi da Caracas, poi ci si fermava a Curaçao, nelle Antille Olandesi, a San Juan del Puerto Rico, a Miami, a Tenerife nelle Canarie e poi a Lisbona e a Vigo, in Spagna. Da lì avrei continuato in treno fino in Italia. Mia zia mi disse che sarebbe stato un viaggio molto bello, che mi avrebbe distratto e che avrei conosciuto molte persone. E sulla nave ce n’erano tante davvero. Eravamo in 959. Oltre all’equipaggio, c’erano portoghesi, spagnoli, venezuelani, olandesi, cubani, brasiliani, panamensi e un italiano. Io. Mia zia mi diceva anche che sarebbe stata un’esperienza che mi sarei portato dietro per tutta la vita. Certo che non poteva sapere, mia zia, che quella sarebbe stata l’esperienza che me l’avrebbe cambiata, la vita. Ma neanche gli altri passeggeri non potevano saperlo, neanche immaginarlo.
Il 20 gennaio del 1961, quando tutta questa storia cominciò, avevo sedici anni, ma quella storia mi è rimasta qui, per sempre. Ricordo benissimo quando alle undici di sera la nave salpò dal porto de La Guaira. Ero affacciato alla murata della terza classe. Tutti che salutavano e io che avevo gli occhi pieni di lacrime, ma cercavo di non mostrarlo agli altri. Lasciavo per sempre la terra dove ero nato. Non salutavo nessuno, io, solo il Venezuela. E non sapevo quello che sarebbe successo. Ma ancora oggi, dopo tanti anni, posso dire che io sul Santa Libertà, c’ero.

Quadro 3 “In Europa c’erano due dittature” (narrazione)

Parte un video con immagini delle dittature franchista e salazarista.

Erano due le dittature fasciste che ancora resistevano in Europa nel 1961 e tutte e due nella penisola iberica. In Spagna e in Portogallo. Francisco Franco, el Caudillo, in Spagna, e Antonio de Oliveira Salazar, il fondatore dell’Estado Novo, in Portogallo. Tutti e due erano lì fin dagli anni ’30. Salazar era arrivato al potere quasi in punta di piedi, nel 1932. Franco dopo una terribile guerra civile durata più di tre anni. Tutti e due erano stati alleati e aiutati da Mussolini e da Hitler. Tutti e due, però, quando avevano visto che fine avevano fatto i loro amici, erano diventati immediatamente filo-americani. Anticomunisti lo erano sempre stati. Crociati e ultracattolici, anche. Anzi, Santa Romana Chiesa li appoggiava fieramente. Salazar durante la guerra aveva dato le Azzorre agli americani perché ne facessero una base militare in mezzo all’Atlantico. Franco aveva aperto il territorio spagnolo alle basi americane anche se poi manteneva gli ex gerarchi nazisti a Ibiza e nelle isole Baleari. In Spagna la dittatura era durissima e tantissimi oppositori venivano uccisi con la garrota, un cerchio di ferro che si stringeva attorno al collo con una vite fino a uccidere per strangolamento. In Portogallo la pena di morte non c’era, ma gli oppositori venivano rinchiusi in celle minuscole, di due metri per uno e mezzo e lasciati lì anche per anni. Francisco Franco, per la sua gloria, aveva fatto costruire vicino all’Escorial, a due passi da Madrid, il suo mausoleo: el Valle de los Caidos. L’aveva fatto costruire dai prigionieri della guerra civile che erano morti di stenti costruendo quello che doveva essere il tempio del franchismo. Salazar, i suoi oppositori, li faceva morire di stenti nelle isolette sperdute di fronte all’Africa. Sia la Spagna che il Portogallo, nel 1961, erano due paesi coloniali. Proprio negli anni delle indipendenze dei popoli africani, la Spagna e il Portogallo non avevano nessuna intenzione di mollare. Dell’impero coloniale spagnolo rimaneva la Guinea e una parte del Marocco. Il Portogallo stava perdendo le sue città stato in Estremo Oriente, Goa, Macao, ma si teneva stretta mezza Africa Australe con l’Angola e il Mozambico.

Erano dittature, quelle di Franco e di Salazar. In Portogallo facevano finta di fare le elezioni. Nel 1958 avevano fatto un’elezione presidenziale farsa che aveva vinto il candidato del regime, il generale Américo Tomas. Ma Humberto Delgado, l’altro generale, quello che aveva perso le elezioni farsa, non era stato al gioco e si era autoesiliato in Brasile. Delgado era stato salazarista fino al giorno prima. In Brasile aveva costituito un movimento di lotta contro la dittatura di Salazar mettendo in moto tutti i suoi contatti. Fino a qualche anno prima era stato ambasciatore portoghese a Washington.
In Spagna, invece, la situazione era un po’ più complicata. C’era un governo repubblicano in esilio. E c’erano repubblicani antifranchisti in giro per il mondo. Molti in Europa, in particolare in Francia, moltissimi in Sud America. Nel 1958 il Partito Comunista Spagnolo aveva deciso che non avrebbe più fatto azioni di guerriglia sul territorio spagnolo e che avrebbe atteso momenti migliori. In Venezuela si erano ritrovati in diversi fuoriusciti, molti di loro provenivano dalla Galizia, l’ultimo lembo a nord ovest della Spagna, proprio sopra il Portogallo. Il galiziano, la lingua che si parla da quelle parti, è una lingua antica e bellissima, più antica del castigliano e a metà fra lo spagnolo e il portoghese. Una lingua di mezzo, con la quale tutti i popoli della penisola iberica potrebbero parlare e capirsi, se solo lo volessero. Fra gli esiliati spagnoli e galiziani in Venezuela, c’era un maestro che scriveva poesie e teatro, Xosè Velo, per tutti Pepe Velo. Lui diceva:
“La Spagna deve ancora nascere.
Questo e il ritornello di una canzone che nessuno ha ancora cantato ma che tutti canticchiano.
Facciamola questa Spagna, da ogni lato delle nostre nazioni liberate.
Rompiamo le bussole. Destituiamo tutti i punti cardinali che ci separano. Non ci sono più nord e sud e neanche est e ovest. C’è solo un punto cardinale: l’uomo.”

Xosè Velo aveva fondato nel 1959 il DRIL, Direttorio Rivoluzionario Iberico di Liberazione. Sognava che la Spagna e il Portogallo si liberassero dalla schiavitù delle dittature di Franco e di Salazar e che la penisola iberica diventasse una federazione di stati liberi e uniti: la Galizia, I Paesi Baschi, la Catalogna, la Castiglia, il Portogallo… tutti con pari dignità. Attorno a lui c’erano anche altri spagnoli, soprattutto galiziani e baschi. La prima cosa da fare era far capire al mondo che quelle due dittature esistevano ed erano spietate. Il DRIL aveva già fatto qualche azione in Spagna, ma Velo progettava qualcosa di più grande che potesse far vedere la situazione iberica al mondo intero
Ma il mondo, in quel gennaio del 1961, viveva un periodo molto complicato.

Quadro 4 “Era il 1961” (narrazione)

In quel gennaio del 1961 stavano succedendo diverse cose.

Il Direttorio Rivoluzionario Iberico di Liberazione era nato per dare democrazia e libertà alla Spagna e Portogallo.

Parte un video con immagini della situazione geopolitica nel 1961

Il 20 gennaio del 1961 gli USA avevano un nuovo Presidente, John Fitzgerald Kennedy, un Presidente giovane e democratico che aveva battuto il repubblicano Richard Nixon. L’Unione Sovietica era presieduta da Nikita Kruscev che era arrivato al potere nel 1958. L’anno dopo a Cuba i barbudos con Fidel Castro avevano sconfitto il dittatore Fulgencio Batista ed erano entrati a la Habana da trionfatori. Nel Medio Oriente, in Egitto, il generale Nasser aveva nazionalizzato il canale di Suez e si era messo alla testa dei movimenti anticolonialisti. In Africa le colonie belghe, inglesi e francesi ottenevano lentamente l’indipendenza in maniera non sempre facile. Eravamo in piena Guerra Fredda, i colpi di stato erano all’ordine del giorno e il mondo era in continuo e permanente subbuglio. La minaccia era una guerra nucleare. Il mondo era diviso. Il 13 agosto del 1961 sarebbe stato costruito il muro di Berlino. Negli oceani c’erano più sottomarini e cacciatorpediniere che pesci. E a Caracas nacque il Direttorio Rivoluzionario Iberico di Liberazione.

Quadro 5 “Operación Dulcinea” (narrazione)

Parte la musica

“Quando don Chisciotte si vide in campagna aperta, libero e sbarazzato dagli amorosi detti di Altisidora, parevagli di trovarsi nel suo centro e di sentirsi rinnovare il coraggio per proseguire le geste delle sue cavallerìe. Rivoltosi a Sancho, gli disse: — La libertà, o Sancho, è uno dei doni più preziosi dal cielo concessi agli uomini: i tesori tutti che si trovano in terra o che stanno ricoperti dal mare non le si possono agguagliare: e per la libertà, come per l’onore, si può avventurare la vita, quando per lo contrario la schiavitù è il peggior male che possa arrivare agli uomini. “

Si conclude la musica

Xosè Velo aveva in mente un piano: sequestrare un transatlantico, chiudere le comunicazioni con il resto del mondo, instaurare a bordo una repubblica democratica e indipendente, fare rotta verso Fernando Poo nel Golfo di Guinea, allora territorio spagnolo, e da lì, risalendo l’Africa, iniziare un processo rivoluzionario che avrebbe portato la democrazia e la libertà in Spagna e in tutta la penisola iberica. Il sequestro del transatlantico non avrebbe dovuto essere considerato come un atto di pirateria, ma un atto rivoluzionario e così avrebbe dovuto essere inteso dal mondo. Un atto d’amore, prima di tutto, come Don Chisciotte verso la sua amata Dulcinea. Un atto d’amore verso la libertà. Si sarebbe chiamata “Operación Dulcinea”.

All’inizio del 1960 Pepe Velo si era incontrato, a nome del Direttorio Rivoluzionario Iberico de Liberación, con diversi esponenti del Movimento Nacional Indipendente, il gruppo cui aveva dato vita Humberto Delgado, il generale portoghese che, sconfitto alle elezioni del 1958, si era autoesiliato in Brasile. A questi incontri partecipava anche Henrique Galvao, il plenipotenziario di Delgado.

Parte il video con i capi dell’operazione: Velo, Sotomayor e Galvao. Sul video continua la narrazione.

La struttura del commando che avrebbe dovuto sequestrare il transatlantico sarebbe stata composta da ventiquattro persone, dodici spagnoli e dodici portoghesi. Capo dell’operazione il direttore generale del DRIL, Xosè Velo, comandante generale per la parte spagnola e responsabile della navigazione lo spagnolo Josè Fernandez, alias Comandante Sotomayor, comandante generale per la parte portoghese, il portoghese Henrique Galvao. Forse troppi comandanti…
Xosè Velo era nato a Celanova in Galizia nel 1916. Per l’operazione Dulcinea si era dato il nome di battaglia di Carlos Xunqueira de Ambía. Non amava le armi e credeva che la rivoluzione sarebbe stata possibile con la forza delle parole.
Josè Fernandez, il Comandante Jorge de Sotomayor, era stato un ufficiale della Marina Militare durante gli anni della Repubblica spagnola. La sua nave viene affondata dalle forze franchiste, ma lui riesce a raggiungere terra con i suoi uomini ed inizia la lotta partigiana in zona franchista. Riesce a sequestrare un cacciatorpediniere francese e raggiunge la Francia. Da lì è a Barcellona agli ordini del governo repubblicano. Ma la guerra civile è persa. Si rifugia in Francia e prende parte alla Resistenza. Catturato dalla Gestapo viene internato ad Auschwitz. Finita la guerra va in Venezuela, esiliato. Ma non sopporta le ingiustizie del mondo. Nel 1958 lascia definitivamente il Partito Comunista e aderisce al DRIL.
Henrique Galvao era nato nel 1895 e quando salì sul transatlantico aveva sessantacinque anni. Era un personaggio con ansia di notorietà e che amava le apparenze. Un dandy. Appena salito sul Santa distribuì stellette da attaccarsi alle spalline delle camicie. L’unico che non se le attaccò fu Velo, che diceva che le costellazioni stavano nel cielo. Henrique Galvao non era un rivoluzionario, ma era stato un militante fascista fieramente a lato di Salazar. Un colonialista convinto. Era stato governatore in Angola e si era staccato da Salazar per appoggiare Humberto Delgado. Salazar non l’aveva presa bene e Galvao era stato rinchiuso nelle prigioni del regime. Ne era scappato in maniera rocambolesca e dopo essersi rifugiato nell’ambasciata argentina era riuscito a raggiungere il Sud America. Divenne la faccia visibile del sequestro del transatlantico. Era il portavoce ed era portoghese su una nave portoghese. Fu proprio Galvao a convincere il DRIL che il transatlantico da sequestrare doveva essere portoghese: in Portogallo non c’era la pena di morte, in Spagna sì. Dal suo punto di vista questo era un argomento dirimente.

Decisero di sequestrare il Santa Maria, non un transatlantico qualsiasi, ma il più grande, il più moderno, il più bello, il più lussuoso di tutta la marina mercantile portoghese, della Compagnia Coloniale di Navigazione. Il Santa Maria aveva un gemello, il Vera Cruz. Era una nave di 20.906 tonnellate ed era stato costruita in Belgio nel 1952. Era spinta da turbine a vapore e poteva portare fino a 1182 passeggeri e 350 persone di equipaggio. Copriva normalmente la tratta Portogallo-Sud America toccando i porti de La Guaira, Curaçao, San Juan de Puerto Rico, Port Everglades (Miami), La Habana, Funchal a Madera, Tenerife nelle Canarie, Lisbona e Vigo, in Spagna.

Quadro 6 “Quando sono salito ho visto” (soggettiva)

Aveva ragione mia zia. Ero salito nel pomeriggio del 20 gennaio. Così avevo avuto il tempo di farmi un bel giro sul Santa Maria. C’erano piscine e palestre per fare ginnastica. C’erano piste da ballo e ristoranti. Divani dappertutto. Mi sembrava un mondo nuovo, mai visto. Un mondo a parte. Come se si stesse preparando una festa che doveva durare per tutto il tempo della navigazione. Una festa infinita. I transatlantici, ora lo so, sono come città galleggianti. La pubblicità diceva: “Lasciatevi trasportare in una meravigliosa avventura”. Non immaginavo, non immaginavamo che avremmo vissuto l’esperienza più inquietante e fantastica della nostra vita: il primo sequestro politico della storia di un transatlantico che trasportava passeggeri.
All’inizio un po’ di paura c’era. Ma poi l’abbiamo persa. All’inizio c’era chi diceva che erano mercenari, una banda di assassini. Ma non era vero. Quando abbiamo iniziato a conoscerli abbiamo visto che erano brave persone. Fra di loro c’era anche un ragazzo che aveva appena un anno più di me. Si chiamava Victor Velo ed era il figlio del capo. Lui avrebbe voluto fare l’attore di teatro da grande, pensa te. Adesso però diceva che bisognava fare la rivoluzione. Che bisognava conquistare la libertà. Non lo capivo all’inizio. Capivo solo che aveva un coraggio che io non avevo. Si era imbarcato in una storia che non sapeva come sarebbe andata a finire. Aveva solo un anno più di me.

 

Quadro 7 “I primi giorni del sequestro” (narrazione)

Il 20 gennaio alle 23 ventidue membri del DRIL erano a bordo del Santa Maria. Tutti tranne Galvao e uno dei suoi uomini che salgono il giorno dopo a Curaçao. Galvao è troppo conosciuto in Venezuela e la sua presenza a bordo nel porto di partenza potrebbe far saltare tutto il piano.
Il 21 all’ora di pranzo tutti e ventiquattro i rivoluzionari si ritrovano nella cabina di Pepe Velo. Alcuni di loro s’incontrano per la prima volta. Si distribuiscono le armi: quattro pistole, un fucile e una mitragliatrice che non funziona. Il piano d’assalto è chiaro. Prendere di sorpresa i quattro punti nevralgici della nave: il ponte di comando, la sala delle radiocomunicazioni, le cabine degli ufficiali e la sala macchine. Le istruzioni sono di agire rapidamente per sorprendere ogni resistenza dell’equipaggio. Sotomayor fa subito chiarezza fra un’operazione di guerriglia in terra e una in mezzo al mare: in terra c’è sempre modo di ritirarsi. In mezzo al mare, no.
La luna è coperta dalle nuvole nella notte caraibica tra il 21 e il 22 gennaio. Questa mattina John Fitzgerald Kennedy ha appena giurato davanti alla Casa Bianca come 35º Presidente degli Stati Uniti d’America. Fra dieci giorni Janio Quadros, che ha vinto le elezioni presidenziali in Brasile, prenderà il posto di Kubitschek. Kennedy e Quadros, due presidenti democratici negli Stati Uniti e in Brasile. Le condizioni sono eccellenti per l’ “Operazione Dulcinea”.
I membri del DRIL si dirigono ai punti previsti. C’è un problema sul ponte di comando. I nervi sono a fior di pelle. Non si sa chi abbia sparato prima, l’equipaggio o i tre del DRIL. Una torcia. Un bagliore. Un membro dell’equipaggio giace a terra, morto. Altri due sono feriti. La nave è presa. Le comunicazioni con l’esterno sono bloccate. Sotomayor prende il timone fra le mani. Xosè Velo si presenta nella cabina del Comandante Maia, dove sono riuntiti tutti gli ufficiali dell’equipaggio e dice loro: “La nave è nelle nostre mani. Non siamo pirati, ma rivoluzionari. Avete tre scelte davanti a voi: aderire alla nostra causa e vi considereremo come compagni; riconoscere il vostro stato di vinti che obbediscono alle nostre regole e in questo caso dovete giurarci di non fare resistenza; non accettare nessuna delle due soluzioni ed in questo caso potete considerarvi come prigionieri di guerra e come tali sarete trattati.” Dopo essersi guardati in faccia gli ufficiali scelgono la seconda soluzione. Non c’era da aspettarsi altro da gente che da sempre era stata oppressa e con la smania di poter opprimere appena possibile. È la legge dei tiranni e dei loro cortigiani.
La mattina seguente dagli altoparlanti della nave si sentiva la voce di Galvao che diceva:
“Questa notte il Santa Maria è stato occupato dal Direttorio Rivoluzionario Iberico di Liberazione. Sono infinitamente dispiaciuto per le difficoltà che questa nuova situazione potrà comportare. Abbiamo occupato questa nave in nome di una causa che consideriamo sacra: la difesa dei diritti e delle libertà di milioni di abitanti dei due grandi paesi della penisola iberica. Faremo tutto il possibile per rendervi la vita meno sgradevole possibile e ci sforzeremo di sbarcarvi alla prima occasione. Non vi chiediamo di aiutarci ma di aiutarvi fra di voi: mantenete la calma, l’ordine e la tranquillità. D’ora in poi la nave non si chiamerà più Santa Maria, ma Santa Libertà”.

Del morto e dei feriti, però, non si parlava. Anche se Galvao e Sotomayor erano contrari, Velo decise che i feriti andavano sbarcati. È vero, forse li avrebbero scoperti, probabilmente il piano di raggiungere le coste dell’Africa sarebbe andato in aria, ma i feriti andavano sbarcati per ragioni umanitarie.
Lunedì 23 gennaio, secondo giorno del sequestro, mattino. Il Santa Libertà si avvicina all’Isola di Santa Lucia, nelle Piccole Antille inglesi. In rada c’è la fregata inglese Rothesay. Basterebbe solo che qualcuno si chiedesse cosa ci fa mai da quelle parti un transatlantico portoghese di ventimila tonnellate per dare l’allarme. E invece pare che il clima caraibico abbia contagiato tutti, anche gli inglesi. Dal Santa Libertà partono due scialuppe con i feriti, il medico di bordo e tre membri dell’equipaggio. Velo, Galvao e Sotomayor dalla tolda della nave si sincerano che le scialuppe siano arrivate a terra e, senza che la fregata inglese si accorga di nulla, rimettono la prua in direzione del mare aperto mostrando agli ignari inglesi la poppa.
Poche ore dopo viene dato l’allarme. La US Navy dirama un comunicato in cui si dice che il Santa Maria è stato sequestrato da almeno settanta guerriglieri armati fino ai denti con mitra e granate”. Da Puerto Rico parte immediatamente uno squadrone di aerei Hurricane Hunters. Si muove alla ricerca la fregata inglese e partono navi olandesi. Intanto, mentre tutti pensano che il Santa Libertà si muova verso Cuba, Sotomayor inizia a zigzagare nell’Atlantico dirigendosi verso Sud. D’ora in poi, ogni giorno che passa è tutta pubblicità per l’azione del Direttorio Rivoluzionario Iberico di Liberazione e per la sua causa.
Martedì 24 gennaio, terzo giorno del sequestro. La notizia inizia ad impensierire Kennedy. Dal Santa Libertà si inviano cablogrammi al Segretario Generale dell’ONU, al Segretario di Stato americano, al Presidente del Venezuela, al Primo Ministro britannico in cui si spiegano le ragioni dell’azione. Si dice anche di avvertire le famiglie dei passeggeri che tutti sono in buone condizioni. Sul fronte diplomatico, il governo inglese decide di non continuare nelle ricerche della nave con la scusa che il Rothesay ha difficoltà nell’approvvigionamento di carburante. Con la stessa scusa si ritirano anche le fregate olandesi. Da Lisbona è partito il cacciatorpediniere Pero Escobar con intenzioni non certo umanitarie. Rimangono gli americani che, oltre agli aerei, hanno messo alle calcagna del Santa Libertà anche due cacciatorpediniere, la Wilson e la Damato, e un sottomarino atomico, il Seawolf. Sono millecinquecento uomini, un ammiraglio, Robert Dennison e un contrammiraglio, Allen Smith. Intanto iniziano a muoversi anche i brasiliani.

Parte video sulla vita a bordo

Intanto a bordo si fa la rivoluzione per davvero: si dà ordine che le donne incinte abbiano, tutte, priorità nell’alimentazione, che si aboliscano le classi, che il menu della prima classe sia ridotto in favore della terza, che i bambini possano giocare tutti insieme e che abbiano tutti diritto alla stessa merenda. La rivoluzione si comincia a fare dagli asili nido! Si dà ordine che gli scambi a bordo si facciano con una nuova moneta, l’ibero. Si sta fondando una libera e popolare repubblica che vaga sull’Oceano. Quando non sono di servizio, gli attivisti frequentano i bar e i ristoranti e si relazionano con i passeggeri. Pepe Velo e Galvao si sforzano di comunicare a tutti i motivi e gli obiettivi della loro lotta. Le barriere sono state eliminate e tutti possono andare nelle piscine, andare a ballare nelle tante piste da ballo, mangiare in qualsiasi ristorante. La situazione a bordo è tranquilla. Si comincia a pensare che si sta vivendo un’avventura straordinaria e che, in fondo, questi Velo, Sotomayor e Galvao, sono brave persone. Molti passeggeri solidarizzano con la causa del DRIL. E così fanno molti dell’equipaggio. Velo è instancabile. Passa le giornate a discutere con i passeggeri. Parla loro dei grandi poeti della lingua spagnola, della lingua galiziana, della lingua portoghese. Le sue sono lezioni o poesie.

Sii un fiume
essere per essere mare
essere fontana
Sii il primo ad essere un pinguino di acqua al sole e nuvola viaggiatrice
scia dell’amore nell’ultima ora

Essere raccolto
essere un granaio e nient’altro che essere grano
se
e ancora meglio
seme seminato

Sii pane
tutto
essere per tutti e per tutto o per sempre
pane e acqua per essere
per tutte le carestie e per tutti i luoghi
essere come un Cristo che desidera
corpo e sangue mai versati
redento scorrendo attraverso i canali delle vene
senza ferite e senza guerre
essere per la speranza
essere di fronte alla morte naturale
quella cosa
che può raggiungerci nell’amata avventura
che sta conducendo l’uomo fino alle stelle.

Essere semplicemente umani
se
né bestia né angelo
metà monaco e metà soldato
Centauro incredibile che la Spagna ha abortito.

Sii un fratello e sii amico
sii sempre con te
con te
vicinanza
qua e là
in lontananza
mangiato o infondendo cura
allora la storia sarebbe anche
il modo migliore per testimoniare
del lavoro dell’uomo che ha già inventato l’umanità.

Quadro 8 “Intanto in Italia 1” (narrazione)

Intanto nel mondo la stampa aveva cominciato a seguire la storia del Santa Libertà. Non che se ne sapesse qualcosa. Anzi. Nessuno sapeva dove fosse. Nessuno sapeva quanti fossero i rivoluzionari. Nessuno sapeva se fossero armati per davvero. Quello che si sapeva, sì, era quello che volevano: far sapere al mondo che in Spagna e in Portogallo c’erano due dittature sanguinarie. Eppure i giornali dovevano vendere e le prime pagine aprivano con titoli a due o tre colonne.
In Italia la cosa era addirittura comica. La stampa di sinistra prendeva le parti dei rivoluzionari perché così si definivano. Però non capiva molto bene, la stampa italiana di sinistra, come mai questi rivoluzionari non avessero girato la prua verso Cuba. Non era lì che si stava facendo la rivoluzione? E allora? Invece la stampa di centro e di destra considerava i rivoluzionari come terroristi, pirati, che andavano impiccati all’albero più alto della nave, come se se ne trovassero di alberi su una nave spinta da moderne turbine.

Un famoso giornalista italiano, maestro di tanti giornalisti di oggi, così terminava un suo lunghissimo articolo, parlando di Galvao, che si apriva con l’invidia che lui stesso provava per non poter essere presente a questo incredibile ed increscioso spettacolo:

“Quanto tempo potrà restare il capociurma spericolato, il grande bucaniere che sempre aveva sognato di diventare? Forse non se l’è nemmeno chiesto. L’importante era di poterlo essere, una volta, prima di morire.
E, per il momento, lo è.
Non so quali leggi internazionali attualmente vigano in proposito. Non so se abbia ancora corso quella che prevede l’impiccagione del pirata all’albero della nave. Trattandosi di navi moderne, non vedo a quale albero potrebbero impiccarlo. Comunque, se, di qui a un po’, sapremo che il cadavere di Galvao oscilla al vento del Mar dei Caraibi, penseremo che ha avuto quel che merita, e ben gli sta.
Ma ciò non ci impedirà di toglierci rispettosamente il cappello. È l’ultimo filibustiere che ci dice addio dall’alto di un pennone, al termine di una rapida, impossibile avventura che anche noi tante volte abbiamo sognato.”
Indro Montanelli

Quadro 9 “Intanto nel mondo” (narrazione)

Quelli del DRIL non erano pirati, la loro era un’azione politica e non di pirateria. Era Salazar che spingeva perché il mondo intero li considerasse come pirati e come tali andassero trattati: impiccati all’albero più alto. Ma gli altri avevano capito. Cinque giorni dopo il sequestro, giovedì 26 gennaio, l’Accademia delle Leggi Internazionali della Aja, un organismo annesso al Tribunale Internazionale di Giustizia, decretò che secondo il diritto marittimo l’azione non poteva essere considerata pirateria. La cosa si metteva male per Salazar e per Franco. Sempre meglio per il DRIL. Il mondo libero stava dalla loro parte. Intanto anche la Spagna aveva inviato un cacciatorpediniere, il Canarias, alla ricerca del Santa Libertà e grazie al Patto Iberico sottoscritto da Franco e da Salazar, avrebbe dovuto muoversi in azione coordinata con il Pero Escobar, il cacciatorpediniere portoghese.

Ma intanto, per bloccare una nave in mezzo all’Oceano bisogna prima trovarla. E per il momento il Santa Libertà sembra scomparsa. Le voci sono tante.

Parte il video “ammiraglio brasiliano e Kennedy”

C’è chi, come i portoghesi e gli spagnoli, continuano a dire che si tratta di una manovra comunista e che la nave non può che muoversi verso Cuba, c’è chi invece dice che si sta spostando verso le coste dell’Africa. È chiaro l’imbarazzo di quelli che lo stanno cercando.

La strategia di Sotomayor, quella di zigzagare nell’Oceano, sta portando i suoi frutti. Il Santa Libertà è diventato un vascello fantasma. Pare che sia “approssimativamente” da qualche parte di qua o “approssimativamente” da qualche parte di là. In fondo il mondo è un fazzoletto. Però il Santa Libertà viene avvistato da una nave cargo danese, il Vieike Gulka nella notte fra il 25 e il 26 gennaio. Subito viene dato l’allarme e un aereo della marina statunitense, il P2B, lo intercetta. A Kennedy viene portato un foglio in conferenza stampa. Lo legge anche lui per la prima volta. Il Santa Maria si trova a circa sessanta miglia dal Rio delle Amazzoni, di fronte al nord del Brasile. Il Dipartimento di Stato americano informa subito i portoghesi che gli Stati Uniti faranno di tutto per sbarcare i passeggeri in territorio neutrale. In questo modo gli americani si muovono per mettersi in mezzo, fra il Santa Libertà e il cacciatorpediniere portoghese che sta arrivando e che ha come unica intenzione quella di affondarla.
Il sesto giorno, venerdì 27 gennaio, il DRIL inizia a negoziare con l’ammiraglio Dennison. È un riconoscimento enorme. L’ammiraglio americano propone di sbarcare i passeggeri a Belem, in Brasile, ma Galvao e Velo prendono tempo. Il Brasile può andare bene, ma il nuovo presidente, Janio Quadros, giurerà solo il 1º di febbraio. Con il presidente uscente, il rischio è quello di essere bloccati e di essere spediti in Portogallo. Meglio evitare. Il giorno successivo, il 28 gennaio, Janio Quadros conferma alla stampa che offrirà tutte le garanzie ai suoi amici del DRIL se dovessero entrare in un porto brasiliano.

Quadro 10 “Intanto in Italia 2” (soggettiva)

Sul Santa Libertà, anch’io ormai lo chiamavo così, ci lasciavano fare un po’ di tutto. A turno ci facevano andare alla radio per dire ai nostri famigliari che stavamo bene. Io non sapevo chi avvisare se non mia zia. Con Victor, che era il figlio del capo, eravamo diventati amici. Lui era sempre molto serio, ma la mattina dell’ottavo giorno, era il 28 di gennaio, venne sorridendo. Mi fece scendere con lui nella sala radio ed iniziò a girare la manopola.

Parte la musica del Festival di Sanremo

In Italia in quei giorni c’era il Festival di Sanremo. E c’erano dei giovani, giovanissimi, a competere. C’era Adriano Celentano con 24000 baci. Non sapeva ancora se l’avrebbero fatto gareggiare nella finale perché stava facendo il servizio militare e non volevano dargli la licenza. Sarebbe arrivato secondo, ma fu un successo così grande che era come se avesse vinto lui. Cantava con Little Tony.
Non riuscivo ad immaginare che anche a Victor interessasse il Festival di Sanremo.
Poi c’era Mina, con due canzoni. Le mille bolle blu. E Milva che si era presa l’influenza e stava da una sua zia a Torino a farsela passare. Lei cantava Il mare nel cassetto. Alla fine vinse Betty Curtis con Al di là. E poi c’erano Claudio Villa, Tony Renis, Gino Paoli, Umberto Bindi. Il Festival di Sanremo del 1961… me lo sono ascoltato tutto seduto nella sala radio del Santa Libertà in un posto sperduto nell’oceano.
Alla fine avevo tutto il festival di quell’anno nell’avventura che stavo vivendo da più di una settimana: Un mare nel cassetto fatto di mille bolle blu.

Quadro 11 “Arrivano gli americani” (narrazione)

Erano stati trovati e li stavano scortando. Aerei americani sorvolavano il Santa Libertà senza interruzione. I messaggi che Velo e Galvao si scambiavano con l’ammiraglio Dennison erano amichevoli. Si era trovato l’accordo per un incontro a bordo del Santa Libertà per la mattina del 31 gennaio. Ma senza entrare nelle acque brasiliane e rimanendo a tre miglia dalla costa. Il nuovo presidente del Brasile avrebbe giurato solo il giorno dopo e fino a quel momento la marina brasiliana aveva ricevuto l’ordine di catturare la nave.

Prima dell’incontro con gli americani, Pepe Velo era stato categorico: l’azione del DRIL non deve essere considerata come un atto di pirateria, ma un atto di legittima sollevazione contro le dittature di Franco e di Salazar. Per questo aveva fatto fare un inventario di tutti i soldi che c’erano nella cassaforte, con saldo al 29 gennaio:
– 91314,60 scudi portoghesi
– 19220,40 pesetas spagnole
– 1519,29 dollari americani
– 2141,55 bolivares venezuelani
– 131,38 Fiorini di Curaçao

Loro, i rivoluzionari del DRIL, non avevano toccato neanche un soldo. Quindi non potevano essere considerati pirati.

All’alba del 31 gennaio nessuno avrebbe creduto ai suoi occhi. Un’armata di navi da guerra si stavano avvicinando al Santa Libertà. Tre cacciatorpediniere tra cui la Gearing, tre fregate, e altre navi più piccole. E c’era anche il sottomarino Seawolf uscito allo scoperto.

Parte il video “arrivano gli americani”

Prima dell’arrivo a bordo del contrammiraglio Allen Smith, c’era stato un piccolo incidente diplomatico. Sotomayor si era accorto che il cacciatorpediniere Gearing aveva i cannoni scoperti e quindi in posizione di attacco. Subito richiede che sia fatta chiarezze e intanto dispone la prua del Santa Libertà contro il Gearing come a minacciarlo. Gli americani si scusano e l’incidente si chiude lì.
Quando il contrammiraglio Allen Smith sale a bordo del Santa Libertà, accompagnato dal capitano Ebenezer Porter, dagli ufficiali Rainey, Hoffman e Jones, dall’addetto dell’ambasciata americana a Rio Harry Quinn e dal console di Recife Ernest Guadarrama, gli si presenta una scena surreale. Fa un caldo torrido e il contrammiraglio viene accolto dal comando del DRIL e da tutti i membri del commando sull’attenti che ascoltano le note degli inni nazionali americano, del Portogallo, della Galizia e della Repubblica spagnola. Più di venti minuti tutti sull’attenti.

Parte il video inni nazionali

Quadro 12 “Sbarco a Recife” (narrazione)

L’incontro durò fino alle 13,30. La decisione era stata presa: i passeggeri sarebbero stati sbarcati al porto di Recife due giorni dopo. Alla fine della riunione gli americani visitarono la nave e si sincerarono delle condizioni dei passeggeri. Nessuno ebbe a lamentarsi di come erano stati trattati. Però chiedevano di poter sbarcare.
Alle 12 di quel giorno, a Brasilia, Janio Quadros stava giurando e il mattino successivo avrebbe occupato lo scranno più alto, quello di Presidente della Repubblica del Brasile.
Intanto il Dipartimento della Difesa degli Stati Uniti aveva finalmente dato una risposta definitiva sul sequestro: non si trattava di un atto di pirateria, ma di un atto simbolico autorizzato da un governo in esilio. Gli Stati Uniti avrebbero agito come neutrali trovandosi a bordo passeggeri di nazionalità americana. Inoltre il Portogallo non avrebbe potuto appellarsi alla sua partecipazione alla NATO per chiedere aiuto come paese membro perché il sequestro era avvenuto sotto il Tropico del Cancro e quindi sotto la giurisdizione del Patto Atlantico.
Salazar e Franco avevano perso su tutta la linea.

Alle nove del mattino di mercoledì 1º febbraio, si vede la sagoma del Santa Libertà all’orizzonte del porto di Recife. Tutta la città è pronta ad attendere la nave. Ma il Santa Libertà rimane all’orizzonte, non si muove. Il DRIL chiede di tenersi la nave come bottino di guerra dopo lo sbarco dei passeggeri e di parte dell’equipaggio. Tutto questo perché non sono ancora arrivate garanzie da parte del governo brasiliano sul diritto di asilo per tutti i membri del DRIL. Nel pomeriggio, finalmente, arriverà un telegramma di Janio Quadros, il nuovo presidente della Repubblica: tutti i membri del DRIL avranno diritto d’asilo.

Quella sera del 1º di febbraio, il DRIL organizzò un’enorme festa a bordo del Santa Libertà. La mattina dopo sarebbero tutti sbarcati a Recife. Al centro, nella tavola presidenziale, i tre comandanti, Pepe Velo, Jorge Sotomayor e Henrique Galvao. L’orchestra suonò fino all’alba.
E al mattino…

Parte video sbarco a Recife

La storia si era conclusa. Kennedy aveva risolto la questione diplomaticamente e il DRIL aveva ricordato al mondo intero che nella penisola iberica c’erano due terribili dittature. Una opposizione che è in qualche modo una replica al Patto Iberico stilato da Franco e da Salazar. Non si trattava della libertà del Portogallo e non si trattava della libertà della Spagna, ma della libertà di tutti i popoli oppressi e ansiosi di libertà.

Parte video conferenze stampa


Quadro 13 “Cosa ne è stato di loro, cosa ne è stato di me” (soggettiva)

Una volta sbarcati a Recife i pirati della libertà furono mandati a Rio, poi a San Paolo. Galvao, ruppe con gli altri. A lui la rivoluzione non interessava, era più attento alla fama e questa storia gli aveva reso un bel servizio. La faccia pubblica del Santa Maria era stata la sua.
Sotomayor e Pepe Velo si ritirarono. Pepe Velo continuò ad insegnare, poi aprì una libreria.

Io, sono stato mandato in Spagna con un’altra nave, due giorni dopo. Era il Vera Cruz, la gemella del Santa Maria, ma del Santa Libertà non c’era più niente. Quando sono arrivato in Italia ho cominciato a pensare che era meglio se fossi rimasto in Venezuela. Ho fatto di tutto, nella mia vita. Ho lavorato in fabbrica, ho fatto il cameriere, il venditore, di tutto. Ma non mi sono mai sentito libero come in quei tredici giorni. E per tutta la vita ho cercato un’occasione, almeno una, per tornare ad esserlo.

Ricordo le sere che Victor e gli altri cantavano una canzone bellissima che diceva “svegliatevi, uomini che dormite… svegliatevi e venite a incendiare di astri e di canti le pietre e il mare, il mondo e i cuori”. Svegliatevi, diceva la canzone e in portoghese diceva Acordai…

Parte il video finale “Acordai”

Acordai acordai
homens que dormis a embalar a dor
dos silêncios vis
vinde no clamor
das almas viris
arrancar a flor
que dorme na raíz

Acordai acordai
raios e tufões
que dormis no ar
e nas multidões vinde incendiar
de astros e canções as pedras do mar
o mundo e os corações

Acordai acendei
de almas e de sóis este mar sem cais nem luz de faróis e acordai depois das lutas finais
os nossos heróis
que dormem nos covais Acordai!

N. B. E’ vietata ogni riproduzione anche parziale del testo senza l’espresso consenso dell’Autore.  

Alcuni scatti dallo spettacolo: 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

In copertina: il manifesto dello spettacolo “Santa Libertà. Una storia vera” andato in scena al Teatro Invito Ultimaluna di Lecco il 18 marzo 2023

Miss Agata e le altre, intervista ad Anna Elena Pepe: “Scrivo film per risparmiare lo psicologo”

Miss Agata e le altre, intervista ad Anna Elena Pepe
“Scrivo film per risparmiare lo psicologo”

È giovane arguta, intelligente, simpatica, empatica, curiosa e preparata. Ed è di Ferrara.

Ha portato la città estense a Londra e Los Angeles, passando per Milano e, in questi giorni, per Spello. Su palchi e schermi noti e meno noti, sempre con il sorriso.

Anna Elena Pepe, poliedrica regista, sceneggiatrice e attrice ferrarese ha presentato, il primo marzo, al Chinese Theatre di Hollywood, distretto di Los Angeles, in occasione del Golden State Film Festival, il suo cortometraggio Miss Agata.

Camminare lungo la Walk of Fame per immergersi in un luogo di culto, a forma di sacrale pagoda, che ha visto passare e passeggiare accanto a sé giganti come Kirk Douglas, Jack Nicholson o Judy Garland, non dev’essere emozione da poco.

Raggiunta telefonicamente in un filo diretto Roma-Londra, glielo abbiamo chiesto.

“Un’esperienza ‘Out of body’”, ci dice, “mi sono chiesta: ma sono veramente qui? Ti giri e vedi le impronte delle star, entri in un luogo ove ci sono grandi teche che contengono i film di Hollywood, e poi le foto, tante, sei nel tempio del cinema di una volta. Vi sono sale enormi, sono stata fortunata, il mio corto è stato proiettato non era solo in concorso (spesso i cortometraggi in concorso sono messi online e non vengono proiettati). Ho avuto una sala enorme tutta per me, con una sessione di Q&A, e quando ho partecipato alla prova di proiezione, mi hanno chiesto, fra le tante cose, se volessi aggiustare il volume. Insomma, sono stata trattata come un film-maker con tutti i crismi. Wow! Mi sono detta. Come ci sono arrivata?”. Forse perché fa tutto con inconsapevolezza, entusiasmo e leggerezza. Peraltro, altamente contagiosi.

Prima di Hollywood, Miss Agata era stato a Milano, al Souq Film Festival (1-4 dicembre 2022), a Clermont-Ferrand, al Festival du Court Métrage (27 gennaio-4 febbraio 2023) e sarà al Festival del Cinema Città di Spello (10-19 marzo 2023), diretto da Laura Luchetti. Prodotto da Ladybug Crossmedia (Italia) e Tabit Films (Inghilterra), Anna Elena Pepe ha scritto il soggetto, lo ha co-sceneggiato con Nicola Salerno, co-diretto con Sebastian Maulucci, e interpretato, nel ruolo della protagonista.

La trama? Una comedy drama che racconta la storia di Agata (Anna Elena Pepe), una giovane donna all’apparenza un po’ maldestra e buffa – che ricorda molto Bridget Jones, anche per lo stile e lo humour british ormai acquisiti dall’attrice che oggi vive a Londra – ma che, invece, nasconde un passato difficile.

Andrea Bosca

Alex (Andrea Bosca), infatti, l’ex fidanzato violento, facilmente irritabile e manesco, continua a tormentarla nella totale indifferenza delle istituzioni, costringendola a cambiare città per scappare da lui, dalle sue pressioni e minacce. La giovane decide così di lasciare la sua casa in Piemonte e trasferirsi nella vecchia abitazione della nonna a Ferrara. Riconosciamo le vie del centro storico e i suoi ciottoli, i campanelli dorati, la libreria che vende libri usati dove si trovano bellissime sorprese. Mentre la nostra Agata, imbottita di colorate pillole omeopatiche, si dirige all’edificio che ospita il call center dove lavora, senza alcuna prospettiva e inascoltata da clienti esasperati.

Chiara Sani

Cerca conforto nella collega di lavoro (Chiara Sani), invano.

Con lei tanti stereotipi: martellanti notiziari sui femminicidi, ma, soprattutto, la crescente presenza della mafia nigeriana in città, che fa di ogni immigrato in un parco un potenziale criminale. Notizie che, giorno dopo giorno, accrescono la sua ansia.

E poi c’è l’emarginazione. Quella dei tanti ragazzi immigrati del mondo di provincia che Anna Elena, ai tempi della scuola, vedeva seduti al parco, sempre con il cellulare in mano ad ascoltare musica. Si isolavano tramite la musica, era il loro modo per evadere dalla realtà e ricordare casa. Quell’emarginazione che è anche di Agata. Due mondi che si capiscono senza bisogno di parlare, la società, in fondo, non è un posto per loro.

Yahya Ceesay

Quando Alex riesce a scovarla nella nuova città dove si sentiva al sicuro, Agata crolla e durante un attacco di panico viene salvata da Nabil (Yahya Ceesay), un (realmente) richiedente asilo gambiano con cui instaura un tenero rapporto di amicizia, legato e saldato dalla musica appunto.

La donna, tuttavia, come altre vittime di violenza continua, ha sviluppato un disturbo post traumatico da stress (in Inghilterra o negli Stati Uniti si parla di Battered Woman Syndrome), che le impedisce di riconoscere la realtà e ragionare con lucidità. Così, non riesce a vedere in Nabil il suo amico o il suo principe azzurro, ma come l’occasione per risolvere tutti i suoi problemi…

Sensibilità femminile – con una maggioranza di donne nei capi reparto, dalla fotografia alla prodizione, dal montaggio alla scenografia, dai costumi al trucco – e black humour inglese per trattare una storia di una “vittima imperfetta” che non è più capace di vedere la realtà e agire in modo lucido e le conseguenze a lungo termine della violenza.

Il corto è stato realizzato grazie a una vasta collaborazione con il territorio del ferrarese – come sottolinea la stessa regista – che ha visto protagonisti anche la Scuola d’Arte Cinematografica Florestano Vancini per l’assistenza sul set e il coinvolgimento dei giovani attori, l’istituto Vergani-Navarra per il servizio di catering, la Città del Ragazzo, che ha messo a disposizione spazi e, last but not least, i ragazzi del Cosquillas Theatre methodology di Massimiliano Piva.

Le chiediamo come ha coinvolto la città, da cosa è partita.

“Massimiliano Piva è stato il mio insegnante di teatro al liceo”, ci dice.” È bravissimo, fa teatro sociale con gli immigrati e, una volta deciso di girare a Ferrara, l’ho contattato e si è dichiarato subito e disponibile. Lui mi ha presentato Yahya/Nabil, e altri ragazzi che sono comparsi nelle scene al parco e in altri momenti del corto, in breve, lui mi ha portato nel mondo di Yahia. Sarà bello rivedersi alla proiezione al Ferrara Film Festival il prossimo settembre, la première in Emilia-Romagna”. E noi ci saremo.

“Poi ho coinvolto la Scuola Florestano Vancini”, continua. “Da quelle aule sono arrivati assistenti sul set, un aiuto regia (Francesco Meatta), assistenti costumisti. Anche il turista e il cameriere del film sono studenti della Scuola. E poi il Vergani-Navarra per il catering”.

Una bella squadra, una città aperta, festante e coinvolta, come raramente avviene.

Ma Anna Elena non è solo Miss Agata. Storyteller, nell’animo, come ama definirsi, per la sua passione per la scrittura e le storie, dopo gli studi a Scarborough, nello Yorkshire, a Londra e Parigi (ha studiato recitazione e scrittura creativa, rispettivamente, alla Royal Academy of Dramatic Arts e all’International Institute of Performing Arts) e a Los Angeles (qui ha studiato Sketch Comedy alla The Groundling Theatre School), è coinvolta in numerose altre avventure.

Alla domanda se sia meglio Londra o Parigi e se abbia notato differenze nelle due scuole, inglese e francese, ci risponde apertamente: “ho fatto un percorso di studi chiamato European Act, che si svolgeva in parte a Londra, in parte a Parigi e Berlino. Il percorso era abbastanza omogeneo, le differenze le faceva l’insegnante, il performer. Va detto, piuttosto, che la Francia ha un approccio al cinema unico in Europa, il cinema è parte della cultura di ciascuno. Arrivo dal Festival di Clermont-Ferrand ed è incredibile vedere come anche un evento dedicato ai cortometraggi abbia le sale piene di pubblico; le persone comuni vanno a vedere i corti. La Francia ha un grande cultura cinematografica, ineguagliabile. Il mercato però è diverso: quello inglese ha un filo diretto con quello americano, se sei visto nel Regno Unito, sei visto negli Stati Uniti d’America”.

Ha esperienza pure di doppiaggio. “L’ho fatto a Roma per qualche tempo, ma essendo un’attività stanziale e io molto mobile, ho dovuto abbandonare. Adoro però giocare con la voce. Pensa che mio figlio di otto mesi si diverte con i giochi Fisher-Price che hanno la mia voce”. E qui ride di cuore. “Amo moltissimo giocare con la voce, la mia ha toni adatti a personaggi da teenager”. Nessuna inflessione dialettale, un tono caldo e amichevole.

Siamo ancora curiosi e le chiediamo come si vede, se più attrice o scrittrice.

“Amavo fare l’attrice fin da piccola”, ci dice, “il teatro è stata la prima esperienza per me, anche perché è più semplice da fare, pure in provincia. Per il cinema servono altre strutture, più importanti, e ho potuto farlo solo dopo l’accademia anche se, in realtà, il primo film che ho interpretato è stato ai tempi del liceo, Ciao America, dove facevo l’amichetta di Violante Placido, una piccola parte”.

“Il teatro, poi, è un’esperienza mistica”, continua “sei tu e il pubblico. Con il cinema porti lo spettatore nel tuo mondo ma è sempre il regista a guidare. È un mondo filtrato dove l’attore ha meno potere. Devo dire, però, che nel mio percorso sono sempre stata esposta ad attori-autori, un mondo dove erano abbattute le barriere per cui un attore è solo un attore e un autore solo un autore. Nel Regno Unito l’autore ha più potere, per questo l’ho scelto, il teatro qui è più di scrittura che di regia, a differenza dell’Italia. Ad essere sincera, credo di aver creato un mondo mio. Ho scritto Miss Agata per far capire chi sono come autrice, ho, in effetti, una forte vena autoriale. Un po’ come avviene in Quasi Amici, mia grande fonte di ispirazione, credo nel potere di un atteggiamento irriverente sulle cose importanti, nella necessità di aprire il cuore alle persone non con il drammone ma facendole sorridere”.

Abbiamo visto anche altri suoi film. Oltre alla piccola parte in Un viaggio di cento anni, di Pupi Avati, girato per Rai 1 in occasione dell’Expo 2015 (consigliato per gli interessanti documenti storici d’archivio), ci ha molto divertiti in Totò e Daiana, una mini-serie nata come una sketch comedy che ha vinto un festival al quale era presente un distributore di Amazon. “Gli sono piaciuti i due episodi ed ecco che le vicende della goffa parrucchiera ferrarese a Londra sbarcano su Amazon Prime. Chi se lo poteva immaginare… La serie creata, scritta e diretta da Marco Gambino continuerà. Vogliamo fare altri episodi, appena i nostri impegni ce lo permetteranno. Pensa che i tifosi della curva ovest della Spal”, continua (Daiana a Londra urla ‘forza Spal!’), “mi hanno invitata a presentare come Daiana il loro libro, sono andata, avevo appena partorito…”. PS: sbarcato a Bilbao, a ottobre 2022, a SERIESLAND 8. Inarrestabile.

A Bilbao

È stata diretta, tra gli altri, da Daniel Percival nella serie tv Leonardo, da Barbara Eder nella serie tv internazionale Concordia, da Richard Blanshard, nel cortometraggio I Love You, e da Johan Nijenhuis, nel film The Tuscan Wedding.

Il suo vero progetto futuro? “Dare un messaggio di speranza alle donne creatrici, per cambiare la narrativa di un mondo che va riscritto”, ci sottolinea. “Oggi fa ancora notizia la violenza, gli episodi eclatanti ma non il dolore del trauma, quello che resta e si trascina. Quello che fa vivere nella paura e crea difficoltà a mantenersi un lavoro o ad avere una vita sociale serena e attiva. Serve maggiore consapevolezza, si parli più della salute mentale, in Italia non se ne parla abbastanza perché non è argomento sensazionalista. Negli Stati Uniti il tema del disturbo da stress post traumatico è più sentito ed esplorato per via dei veterani di guerra: vi è particolare attenzione e una letteratura che si è sviluppata. Da noi, se ne accenna, ma non è considerato quasi mai come un abuso. Il tema è ancora tabù”, conclude.

Grazie a Miss Agata ci aspettiamo che se ne parli di più. Speriamo. Ce ne è bisogno.

Immagini Gargiulo&Polici Communication

Le storie di Costanza /
Albertino Canali e le Santelle

Le storie di Costanza:  Albertino Canali e le Santelle

Appena Camilla ha aperto il negozio sono entrato a prendere il pane, ero già in attesa sul marciapiede.  Avevo fretta perché devo salire sulla mia raccogli-sgranatrice e lavorare tutto il giorno nei campi intorno a Pontalba. Subito dopo di me è entrato Lucio e si è messo a Parlare con Camilla di una nuova attività commerciale che sua moglie può avviare utilizzando delle macchine che le rivende Camilla.

“Bene si lavora” ho detto a Lucio.
“Si, mia moglie” mi ha risposto.
Nel negozio c’era anche Oristano, il fratello di Teresa. Si lamentava di essere diventato vecchio:
“Quando ho cominciato a lavorare ero il più giovane trai i miei colleghi e ora sono il più vecchio, non so come abbia fatto a passare tutto questo tempo” diceva.

Già è così, sono passati molti anni da quando abbiamo festeggiato i ventesimi compleanni. Ne sono passati circa trenta, non pochi. Si possono ammucchiare tanti ricordi in così tanti anni e molti campi di granoturco sistemati.  Quando si arriva a cinquant’anni un bel pezzo di vita se n’è andato. Tanto tempo è arso al sole, come le pannocchie che la raccogli-sgranatrice dimentica e che i bambini non riescono a trovare durante la spigolatura.

Sono contento che una nuova attività lavorativa, dopo un anno e mezzo di pandemia, riesca a decollare.
“In bocca al lupo a tua moglie” ho detto a Lucio che mia ha ringraziato con un cenno della testa.
Sono uscito dal negozio con il mio sacchetto di pane, l’ho messo su Marghera e poi con il piede ho schiacciato un ragno che stava transitando dal muro del negozio al marciapiede. Non sono riuscito ad evitarlo, il mio piede si è mosso prima che lo fermassi. I bambini di Cecilia si arrabbierebbero con me per questo, soprattutto Enrico che non vuole che si sopprimano insetti, dice che sono bellissimi. Poi ho preso il mio carretto (Marghera), ho fatto dieci passi e ho girato l’angolo verso via Santoni.

In via Santoni Rosa ho visto Costanza Del Re che veniva in senso contrario rispetto a me. Camminava spedita.
“Tutto bene Costanza?”
“No. Devo andare da Camilla. Rosa è rimasta senza la soluzione per pulire il rame e ne vuole altra immediatamente” mi risponde lei.
“Ma ci metti un attimo ad arrivare al negozio!” le dico.
“Sì, ma io stavo facendo altro e lei mi ha interrotto!”.
Costanza detesta essere interrotta, chissà cosa stava facendo. Forse stava di nuovo armeggiando con le ortensie, o forse stava irrigando l’orto, oppure scrivendo un racconto di Alba Orvietani, oppure chissà …

“Cosa stavi facendo?” le chiedo.
Yoga” mi risponde.
Ultimamente costanza fa spesso Yoga, ha trovato un insegnate che le piace molto, dice che è bravissimo. Si chiama Evan.

Io non so cos’altro aggiungere, ho l’impressione che il discorso sia finito così, cercare di prolungarlo metterebbe Costanza nelle condizioni di trafiggermi con la sua puntualità e sagacia.
“Devo andare nei campi subito, sono già in ritardo” le dico.
“Buon lavoro” mi risponde e prosegue la sua marcia mattutina verso il negozio di Camilla. Vestita di rosso e con gli occhi scintillanti è davvero bella e altrettanto tremenda.

Arrivo a casa, apro il portone, e transito con Marghera sotto le volte del mio portico. Mentre sto per entrare in cucina, arriva mia sorella Gina.
Si siede sul gradino di cemento davanti alla porta, si toglie calze e scarpe e poi a piedi nudi fa alcuni passi nel cortile. Arriva a un vecchio armadio che contiene “reperti archeologici” di varia natura, estrae un paio di vecchie ciabatte e le indossa. E’ pronta per le attività mattutine. Pulisce e riordina la casa, risponde al telefono e al citofono, mi prepara la cena e la mette in frigorifero. Diversi anni fa, io avevo bisogno di una colf e lei di un lavoro, così ci siamo accordati e l’ho assunta. Sono contento di questa scelta, non ho più problemi con la casa e posso aiutare mia sorella.
Prendo il sacchetto di pane dal carretto e lo dò a Gina, poi porto Marghera nella rimessa e salgo sulla mia Jeep per andare nei campi.
Gina mi apre il portone e io esco in macchina. L’uscita dal cancello non è delle più semplici, anche se prima di immettermi sulla strada comunale transito su un pezzo di carreggiata privato che è mio, devo comunque uscire molto piano e girare subito a sinistra perché nel senso di marcia che mi sarebbe più comodo non posso proseguire. Via Santoni è una strada a senso unico e uscendo dal mio portone si può andare solo a sinistra. Così esco piano e mi giro verso destra per controllare che non stia arrivando qualcuno.

Vedo di nuovo Costanza che sta marciando in senso contrario a cinque minuti fa, con un barattolo in mano. Ha acquistato da Camilla la soluzione per il rame.
Il negozio di Camilla non è solo una panetteria, ma è un Minimarket. Ci si trova quasi tutto quel che può servire in una casa. Pane, alimentari vari, surgelati, detersivi e materiale per l’igiene personale. Un po’di tutto, altrimenti sarebbe impossibile per una attività commerciale sopravvivere in un paese così piccolo. Anni fa una persona che proveniva dalla città ha provato ad aprire una profumeria. Ma con i pochi abitanti di Pontalba, con la sua assenza di turismo nonostante la zona sia molto bella e con la sua assoluta mancanza di strade trafficate, di confezioni di profumo ne sono state vendute pochissime, una decina a settimana. Neanche fossero macchine di lusso. Con così pochi profumi a settimana venduti non si può di certo campare.

Uff che caldo che fa. Abbasso il finestrino e appoggio il gomito sull’apertura. Che bello, muovendosi si sente un po’ d’aria.
Mi abbasso nella Jeep e accendo la radio. Si sente un po’ di musica, alzo il volume. Arrivo allo stop che c’è alla fine di via Santoni. A destra iniziano gli orti delle villette nuove e a sinistra una lunga fila di case basse con le finestre aperte direttamente sulla strada. Qui ci sono ancora persona che d’estate aprono le finestre al mattino e le chiudono alla sera. Rumore non ce n’è e nemmeno molto inquinamento.  Si sente a volte l’odore degli allevamenti, altre volte il profumo dell’erba appena tagliata e della frutta che sta maturando sugli alberi. La frutta non è mai matura tutta insieme per cui finisce che una parte marcisce sull’albero e puzza. Guardo di nuovo a destra. Non sta arrivando nessuno. Inserisco la marcia e parto verso il capannone dove sono depositate le mie raccoglie-sgranatrici. Altri due uomini lavorano per me stamattina. Così usciamo in tre e rientreremo tutti molto tardi, stanche ma soddisfatti della quantità di granoturco che siamo riusciti a raccogliere.

Tra i miei vestiti in questo periodo c’è sempre tanta polvere e anche delle tracce di cereali. Alla sera il mio corpo prude un po’ dappertutto perché la polvere si appiccica alla pelle e lo sfregamento con la tuta da lavoro diventa molto fastidioso.
Comunque, almeno per stamattina, sono vivo e non ho gravi malattie. Posso respirare, vedere, camminate e sentire i rumori del mondo. L’essenziale, ciò che rende la vita davvero bella, c’è tutto. Il mio principale desiderio è vivere sano, in salute. Penso di dover ringraziare la buona sorte per le mie condizioni attuali, mi sento proprio di farlo, è la mattina giusta.

Uscito dal paese ho l’imbarazzo della scelta.  Lungo le strade sterrate di campagna ci sono diverse santelle. Le Santelle, come le chiamano qui, sono piccoli luoghi di culto in muratura. Chiesette tra i campi che contengono la statua di qualche Santo, qualche panca e, a volte, una rastrelliera per i lumini. Piccoli ceri rossi che si accendono con un fiammifero e durano qualche ora. Penso che mi fermerò nella prima santella che incontrerò sulla mia strada stamattina e accenderò un lumino per ringraziare i santi della mia condizione di salute. Devo anche ringraziare d’esser nato in via Santoni Rosa, in un paese piccolo come Pontalba, dove si conoscono tutti, dove di giorno ci si può fermare a chiacchierare con chi si incontra e la notte si può dormire tranquilli perché non ci sono rumori. Devo infine ringraziare perché abito di fronte ai Del Re e ogni tanto vedo Costanza che marcia in su e in giù nella via. Quella donna non ha un bel carattere, ma bella lo è. Le belle visioni sono un dono, si sa.

N.d.A.
I protagonisti dei racconti hanno nomi di pura fantasia che non corrispondono a quelli delle persone che li hanno in parte ispirati. Anche i nomi dei luoghi sono il frutto della fantasia dell’autrice.

Per leggere tutti i racconti di Costanza Del Re è sufficiente cliccare il nome dell’autore o sulla sua rubrica Le storie di Costanza.

Quasi un milione di ettari di boschi e foreste gestito in modo sostenibile in Italia: il rapporto PEFC 2023

Quasi un milione di ettari di boschi e foreste gestito in modo sostenibile in Italia: il rapporto PEFC 2023

da PEFC Italia [2] 

PEFC Italia presenta il Rapporto annuale sulla certificazione in Italia: a fine 2022 salgono a 925.609,96 gli ettari di superficie certificata PEFC. Aumentano anche le aziende di trasformazione di legno e carta certificate che raggiungono quota 1.327 (+3,4%). Tra i risultati, anche le prime certificazioni di Servizi Ecosistemici per il benessere forestale, ottenuta dal Consorzio Forestale Amiata, e per le attività per l’incremento dell’assorbimento della CO2, raggiunta dal Consorzio Forestale Boschi Carnici (Ud) e dalla Comunalia di Valdena Santa Maria (Pr) e dal Parco Nazionale dell’Appennino Tosco Emiliano (RE, Lu).

Continua ad aumentare in Italia la superficie forestale gestita in maniera sostenibile: nel 2022 si è passati dagli 892.609,63 ettari del 2021 ai 925.609,96 (di cui 8.554,55 di pioppeti e 54,91 di piantagioni) con un incremento di 33.000 ettari, pari al 3,7% in più. Sono 14 le regioni che hanno almeno una foresta certificata, con il Trentino Alto Adige che conferma la superficie più vasta.

Sono i dati che  emergono dal nuovo Rapporto Annuale del PEFC Italia, ente promotore della certificazione della buona gestione del patrimonio forestale, presentati in occasione della Giornata Internazionale delle Foreste (21 marzo) dedicata quest’anno al tema “Foreste e Salute”, con un focus dunque sui Servizi Ecosistemici (clima, assorbimento di CO2, turismo in ambiente naturale e benessere).

L’aumento dei costi dell’energia e delle difficoltà di approvvigionamento dovute prima alla pandemia e poi alla guerra in Ucraina, hanno creato attenzione all’ambiente naturale bosco e al prodotto naturale legno: la certificazione in Italia cresce, dimostrando l’interesse anche da parte delle aziende a scegliere di dare garanzie sul materiale di origine forestale”, spiega Francesco Dellagiacoma, Presidente PEFC Italia. “Inoltre, nonostante la sospensione delle importazioni dalla Russia e Bielorussia avvenuta nell’ultimo anno (sono 30 milioni gli ettari certificati PEFC in Russia e Bielorussia che non possono attualmente fornire materiale certificato perché dichiarato legname di guerra e quindi ‘fonte controversa’), il sistema PEFC si conferma come lo standard con la maggiore superficie forestale certificata al mondo. Le foreste, con l’assorbimento di CO2 sono una strategia contro il cambiamento climatico; ma formate da piante che vivono ben oltre 100 anni, sono anche a rischio per il cambiamento climatico: sulle Alpi qualche milione di piante sono state portate a morte dal bostrico, un piccolo coleottero che attacca l’abete rosso debilitato a seguito di Vaia”.

LE REGIONI PIÙ CERTIFICATE: TRENTINO ALTO ADIGE IN TESTA

A livello territoriale, il Trentino Alto-Adige si conferma quindi capofila per superficie forestale certificata più estesa con 556.147,9 ettari, considerando quelli curati dal Bauernbund – Unione Agricoltori di Bolzano, le aree gestite dal Consorzio dei Comuni Trentini e dalla Magnifica Comunità di Fiemme nella provincia di Trento.
Al secondo posto il Friuli Venezia Giulia, con 95.163,98 ettari, di cui la maggior parte gestiti da UNCEM FVG, mentre al terzo il Veneto con 76.294,005 ettari.

Tra le regioni in crescita spiccano l’Emilia Romagna e la Toscana che hanno registrato un salto in avanti con il Parco nazionale dell’Appennino Tosco-Emiliano, che ha ottenuto la certificazione per la gestione forestale sostenibile e responsabile e la verifica dei Servizi Ecosistemici biodiversità, servizi turistico-ricreazionali e carbonio forestale. Sempre in Toscana, l’Unione dei Comuni Montani del Casentino ha certificato 5.764,57 ettari.

Nelle Marche invece sono stati certificati 9.208,25 ettari di boschi nell’ambito del progetto “CO2 S.Fo.Ma. MARCHE”, finanziato dal PSR Marche: in questo caso si è anche osservato, grazie a studi condotti sul territorio, un incremento medio di 2,96 t di CO2/ha/anno rispetto alla non gestione, con l’obiettivo di valorizzare la capacità del bosco di stoccare il carbonio e aprire allo scambio di “crediti di sostenibilità” verso partner, aziende e stakeholder intenzionati a compensare le proprie emissioni climalteranti.

LE AZIENDE CERTIFICATE: +3,4%

Per quanto riguarda la certificazione di Catene di Custodia [1], è stata ottenuta da 104 nuove aziende (il 46% delle quali è entrata in certificazioni di gruppo), segnando un +3,4% netto: si passa quindi dalle 1.278 aziende certificate CoC del 2021 alle 1.327 del 2022.

Si registrano incrementi in tutte le categorie produttive, ma in particolare PEFC Italia segnala i risultati di carta per imballaggi (19 aziende con un incremento del 41,3%), pallet (19 aziende, +27,5%), imballaggi in legno (19 aziende, +21,6%), a seguire tipografie e industrie grafiche, laminati e pannelli.

I dati ci mostrano come l’imballaggio sia al momento il settore trainante, grazie ad una sempre maggiore attenzione da parte dei consumatori verso la sostenibilità ambientale. C’è sempre più richiesta di sostenibilità legata al packaging e alla filiera sostenibile sia per la carta che per il legno”, sottolinea Dellagiacoma.

SERVIZI ECOSISTEMICI: CRESCONO LE CERTIFICAZIONI

A crescere, a seguito della pubblicazione dello Standard dei Servizi Ecosistemici PEFC avvenuta nel 2021, è anche la richiesta  dei servizi ecosistemici tra cui turismo, biodiversità e soprattutto cattura del carbonio, valorizzati in boschi e piantagioni certificati. I Servizi Ecosistemici possono essere definiti come i benefici multipli forniti dagli ecosistemi al genere umano, a partire dalla capacità di assorbire CO2, contrastando il cambiamento climatico ma anche il rischio idrogeologico, la tutela della biodiversità e la capacità di svolgere funzioni turistico-ricreative. Grazie a questa certificazione, i gestori forestali possono valorizzare, garantire e comunicare ulteriormente questi benefici aggiuntivi incrementati dalla gestione attiva delle risorse forestali nonché aprirsi al mercato dei Crediti di Sostenibilità.
Stiamo registrando grande disponibilità dei soggetti finanziatori a supportare la gestione sostenibile delle foreste certificate PEFC, dando un maggior valore ai crediti di sostenibilità certificati, che stanno ricevendo ottimi riscontri sul mercato volontario italiano”, sottolinea Antonio Brunori, Segretario Generale del PEFC Italia.

In particolare, nel 2022 il mercato dei servizi ecosistemici ha festeggiato la prima filiera interamente certificata con il Consorzio dei Boschi Carnici in Friuli Venezia Giulia che non solo ha certificato il servizio ecosistemico dell’assorbimento e stoccaggio o non emissione del carbonio ma è anche tra le prime realtà a dare il via ad una filiera certificata dei servizi ecosistemici grazie alla convenzione siglata con Burgo group, azienda multisito con 15 sedi in Italia ed una in Belgio, certificata per la tracciabilità della filiera forestale (Catena di Custodia PEFC) dal 2007.

Il Consorzio Forestale dell’Amiata (Gr), che nel 2003 è stata la prima realtà certificata PEFC in Italia, negli scorsi mesi ha invece ricevuto la prima certificazione dei servizi ecosistemi relativa al benessere forestale (chiamato anche “forest bathing”). La certificazione dello standard del Carbonio è stata ottenuta anche dalla Comunalia di Valdena Santa Maria, che fa parte della certificazione di gestione forestale del Consorzio Comunalie Parmensi, in Emilia Romagna. I “crediti di sostenibilità” sono stati tutti prenotati dalla Società Benefit “Ri-Generiamo” la quale ha attività e progetti nel settore ambientale e sociale in tutt’Italia.

Note
[1] La certificazione di Catena di Custodia (Chain of Custody – CoC) è uno strumento volontario che tiene traccia dei prodotti di origine forestale e arborea  derivanti dalle foreste gestite in maniera sostenibile lungo tutta la filiera produttiva fino al prodotto finale. La certificazione dimostra che ogni fase della catena di approvvigionamento è attentamente monitorata attraverso audit indipendenti per garantire che siano escluse le fonti non sostenibili. Ad oggi la Catena di Custodia è uno degli strumenti più attendibili per dimostrare l’approvvigionamento legale e sostenibile di prodotti di origine forestale e arborea per consentire di dimostrare la conformità ai requisiti legislativi sul commercio del legname, dimostrare l’impegno a frenare la deforestazione, conservare la biodiversità e agire responsabilmente a livello sociale.

[2] PEFC Italia è un’associazione senza fini di lucro che costituisce l’organo di governo nazionale del sistema di certificazione PEFC (Programme for Endorsement of Forest Certification schemes), cioè il Programma di Valutazione degli schemi di certificazione forestale. Il PEFC è un’iniziativa internazionale basata su una larga intesa delle parti interessate all’implementazione della gestione forestale sostenibile a livello nazionale e regionale. Partecipano allo sviluppo del PEFC i rappresentanti dei proprietari forestali e dei pioppeti, organizzazioni ambientaliste, dei consumatori finali, degli utilizzatori, dei liberi professionisti, della ricerca, del mondo dell’industria del legno e dell’artigianato. Tra i suoi obiettivi si segnala quello di migliorare l’immagine della selvicoltura e della filiera foresta–legno-carta, fornendo di fatto uno strumento di mercato che consenta di commercializzare legno, carta e prodotti della foresta derivanti da boschi e impianti gestiti in modo sostenibile.

Mio zio Abdullah Öcalan

Mio zio Abdullah Öcalan  

di Ayney Öcalan
(la testimonianza originale della nipote di Abdullah Öcalan è tratta dal sito autofinanziato Volere la luna)

Si è concluso a fine febbraio a Istanbul il Forum internazionale per i diritti umani in Turchia. Tra i temi, la sorte del leader kurdo Öcalan nel carcere/tortura di Imrali. Da anni familiari e avvocati non possono vederlo. Ultimo contatto: la telefonata di un fratello nel marzo 2021. Il CPT (Comitato Prevenzione Tortura) del Consiglio d’Europa dichiara che nel settembre 2022 il prigioniero ha rifiutato di incontrarlo. Ma si ignora se il diniego sia stato espresso di persona o riferito: la Turchia ha secretato il rapporto del CPT. Intanto il popolo kurdo sta preparando una forte mobilitazione per il 25° anno di detenzione. In questo contesto si colloca questa toccante testimonianza di Ayney Öcalan, giovane figlia di Mehemet, fratello del leader kurdo. (Laura Schrader)

Quando mia madre mi portava a scuola io mi vergognavo di lei perché non parlava bene il turco. Anni dopo ho capito che questo era sbagliato ma era troppo tardi perché lei non c’era più e ancora oggi questo ricordo è un dolore per me. Era un periodo e una società in cui la nostra lingua, la nostra cultura e i nostri valori storici erano completamente distrutti, ignorati, confiscati, colonizzati e quindi alcuni nascondevano la loro fede e la loro identità, altri fuggivano in altri paesi. Ma anche oggi in Turchia chi ha una cultura, una religione, una lingua diversa è discriminato e si vorrebbe costringerlo quasi a vergognarsi di se stesso.

Con Abdullah Öcalan il mio popolo è diventato consapevole e fiero della propria identità e ha cominciato a conoscere la propria lingua e i valori delle nostre tradizioni. Il mio è un popolo molto antico, fondatore di una tra le prime civiltà mesopotamiche. Mai ha distrutto altre civiltà, mai ha schiavizzato altri popoli.

Tutta la mia vita ho sentito parlare di mio zio Abdullah ma non avevo potuto conoscerlo di persona. Non ero ancora nata quando era andato in esilio in Siria. La mia famiglia ha sofferto molto. Più di tutti soffriva sua madre: i suoi problemi di salute si erano aggravati e molti conoscenti non le parlavano e neppure si avvicinavano a lei perché avevano paura. Anche un altro suo figlio, Osman, aveva seguito il fratello nell’esilio e la madre non aveva loro notizie. Lei aveva sognato un futuro diverso per i suoi figli, una vita normale: Osman studiava per diventare maestro e Abdullah studiava per lavorare nello Stato. I giornali e altri mezzi di comunicazione raccontavano cose false su di loro, dicevano che erano terroristi, e la loro madre soffriva per questo. Sembrava che lei non capisse quello che suo figlio stava facendo o che non lo accettasse, perché Abdullah la faceva soffrire. Ma prima di morire sorrise e disse: «Abdullah mi regala i fiori gialli, verdi e rossi». Queste sono state le sue ultime parole e questo significa che lei aveva capito il senso di quello che suo figlio stava facendo. Mio padre, che è un altro fratello di Ocalan, veniva spesso arrestato dalla polizia che veniva a casa nostra a cercare armi e documenti e distruggeva la casa. La polizia e i militari seminavano il terrore, tanto che alla fine mia madre e mia nonna restarono sole, nessuno lavorava la nostra terra, nessuno voleva lavorare per loro. Per sfuggire alla polizia dal villaggio ci siamo spostati nella provincia di Adana. Ma lasciare la propria terra era stato un grande dolore per mia madre e per mia nonna e comunque anche ad Adana siamo rimasti isolati, senza amici. La nonna è morta senza poter rivedere o sentire i suoi figli. Prima di morire ha chiesto di essere sepolta nella sua terra. Mia madre è rimasta da sola, isolata anche dalla sua famiglia che voleva che lei lasciasse il marito. Lei non ha mai voluto, e anche lei ci ha lasciato per sempre soltanto due mesi dopo la nonna.

Ho visto mio zio Abdullah per la prima volta soltanto dopo il suo arresto nell’aula blindata dove si svolgeva il suo processo.

La data del 15 febbraio 1999, giorno dell’arresto, è stata tragica sia per il popolo Kurdo che per la mia famiglia. Non so se ci sia mai stato un momento e un tempo simili nella nostra storia. Soprattutto le donne vedevano in Öcalan una speranza per la loro vita e il loro futuro e per la loro libertà. Tanti Kurdi in molti luoghi del mondo si sono dati fuoco gridando «Non si può oscurare il nostro sole» e hanno perso la vita rifiutando un mondo che non gli apparteneva.

Qualche giorno dopo l’arresto, un vecchio Kurdo ha fatto visita a un amico in prigione e ha cominciato a piangere, alzando le mani, pregando e implorando Dio. Ha detto al suo amico: «Una sola cosa chiedo a Dio: che io muoia prima dell’esecuzione di Öcalan». I sentimenti e lo stato d’animo di questo vecchio sono come un riassunto dei sentimenti e dello stato d’animo dell’intero popolo Kurdo. Al contrario, i nazionalisti turchi facevano festa, chiedevano la condanna a morte. L’atmosfera era caotica.

Il 16 febbraio 1999 la radio e la TV hanno dato la notizia dell’arresto di Öcalan e della sua consegna allo Stato turco. A mezzanotte mio padre e mia zia sono partiti per Istanbul, era molto pericoloso per loro, le strade non erano sicure, c’erano tumulti, ma era necessario dare l’incarico all’avvocato per difendere mio zio. Io avevo 16 anni ed ero rimasta a casa con mio fratello e le mie sorelle più piccoli, tutti impauriti. Molti giornalisti volevano intervistare mio padre e quando io ho risposto che lui non c’era hanno scritto che era “scomparso”. Öcalan era venuto in Europa per trovare una soluzione democratica per la questione kurda. Tuttavia, l’Europa lo ha rifiutato, ha chiuso tutte le sue porte e lo spazio aereo, lo ha dichiarato persona non grata e lo ha abbandonato alla cospirazione internazionale.

Dopo la sua cattura, Öcalan fu portato nella prigione di Imrali, un’isola nel mar di Marmara. Il motivo per cui fu scelta questa isola disabitata e deserta, dove ci sono solo alberi, è chiaro: il totale isolamento del prigioniero. Soltanto il 25 febbraio, Öcalan è stato autorizzato a incontrare due dei suoi avvocati. Gli avvocati di Öcalan sono stati attaccati da una folla inferocita di nazionalisti turchi. Dopo un mese e mezzo il prigioniero ha iniziato a incontrare la sua famiglia, che non lo aveva più visto da 20 anni. Il fratello e le sorelle erano tristi ma era lui a far loro coraggio, dicendo che dovevano essere forti. Per questo, al loro ritorno a casa erano tranquilli perché Öcalan aveva dato loro una speranza.

Lo Stato turco ha deciso di processare Öcalan a Imrali e ha dato il permesso di essere presenti a 12 persone della sua famiglia e agli avvocati. Senza limitare il loro numero, erano presenti i famigliari dei soldati caduti o feriti nelle azioni contro i Kurdi, che ci attaccavano e ci insultavano.

Le udienza sull’isola di Imrali si sono tenute tra il 31 maggio 1999 e il 29 giugno 1999. Per il processo sono state prese rigide misure di sicurezza. Una nuova aula è stata costruita per essere utilizzata solo in questo processo, e Öcalan vi ha assistito chiuso in una gabbia di vetro antiproiettile. Sull’isola è stata creata una zona di sicurezza militare. Elicotteri e navi da guerra hanno iniziato a girare intorno all’isola e le persone che volevano andare a Mudanya a Bursa, dove si trovano i porti per le barche per l’isola di Imrali, sono state severamente controllate. Il 29 giugno mio zio è stato condannato a morte per attività separatista armata (pena poi commutata in “ergastolo aggravato” data la sospensione, in Turchia, della pena di morte nel quadro del percorso per l’ingresso nell’Unione europea, ndr).

Molti media si sono stabiliti a Mudanya per riferire sulle udienze dall’inizio del processo, ma le uniche organizzazioni mediatiche autorizzate ad accedere sono state quelle dello Stato turco, l’agenzia di stampa Anadolu e la televisione TRT. Ad altri media, sia turchi che internazionali, presenti sulla scena, è stato permesso di riferire sugli sviluppi solo dopo la fine di ogni sessione. Mentre i pubblici ministeri sono rimasti sull’isola per tutto il processo, gli avvocati e i familiari di Öcalan sono stati portati sull’isola, in barca da Gemlik ogni giorno. Alle famiglie dei soldati turchi uccisi nella guerra contro il PKK e ad altre vittime della rivolta è stato permesso di diventare querelanti e partecipare alle udienze.

Il primo giorno quando Öcalan è entrato in aula tutti si sono alzati in piedi per vederlo. Lui ha detto: «Se ho fatto del male a qualcuno mi dispiace, voglio che questo conflitto abbia fine, che si ritrovi la pace, io capisco il vostro dolore». Nessuno si aspettava queste parole, anche i più aggressivi sono rimasti in silenzio. Anche nel resto del paese queste parole hanno avuto un grande effetto, i disordini sono finiti, tutto si è calmato.

II primo giorno alcuni degli avvocati di Öcalan si sono ritirati dal caso, affermando che il diritto del loro cliente a un processo equo era stato violato e che non volevano essere ritenuti responsabili della sua morte. Durante il processo io guardavo la gabbia di vetro cercando di incontrare lo sguardo di Öcalan: a un certo punto, lui si è voltato verso di me e io mi sono alzata in piedi e l’ho salutato con la mano da lontano. Anche lui si è alzato e ha risposto al mio saluto con la mano. Subito sono arrivati i soldati che hanno interrotto l’udienza e l’hanno portato via. A me hanno detto che se lo facevo un’altra volta non mi avrebbero più fatto entrare.

Un giorno gli avvocati mi hanno detto che forse a me e a mia sorella avrebbero dato il permesso di incontrarlo. Io non ero sicura che fosse vero, ma verso la fine dell’udienza sono venuti a chiamarci. Io guardavo il mare ed ero confusa e emozionata. Gli avvocati mi davano tanti messaggi da ripetere a Öcalan: auguri di affetto da parte del popolo, loro parlavano ma io non riuscivo ad ascoltarli. Ho chiesto a mio padre come dovevo chiamare Öcalan, se presidente o zio e mio padre ha risposto: «Lui è tuo zio, meglio dire zio». Un guardiano è venuto a chiamarmi, abbiamo attraversato molte porte, arrivati all’ultima porta hanno chiesto il mio nome e poi mi hanno detto che non lo potevo incontrare, potevano farlo solo i parenti più stretti. Stavo malissimo, tutto mi era crollato intorno, ma non volevo piangere davanti alle guardie. Quando sono uscita e ho visto mio padre, ho cominciato a piangere. Durante il viaggio di ritorno ho continuato a piangere, non ho voluto mangiare. Tutti cercavano di consolarmi ma era inutile.

Quando mio padre finalmente è riuscito a vedere suo fratello in prigione e gli ha raccontato tutto, mio zio mi ha mandato i suoi saluti e ha chiesto a mio padre di comprare un piccolo regalo per me da parte sua. Non so se riuscirò mai a parlare con mio zio. Non so se riuscirò mai almeno a vederlo.

Ayney Öcalan, nipote di Abdullah Öcalan, figlia di suo fratello Mehemet

 

Su Öcalan, la lotta del popolo curdo, il confederalismo democratico:

Abdullah Öcalan, Confederalismo democfratico (pdf scaricabile)
Ufficio di Informazione del Kurdistan in Italia UIKI ONLUS
Zerocalcare, Kobane Calling, 2016
Zerocalcare, No sleep till Shengal, 2022

In Copertina: Abdullah Ocalan durante il processo nell’isola di di Imrali, un’isola deserta nel mar di Marmara,  maggio-giugno 1999 (foto expatguideturkey.com)

Boom Centrali Biometano: la provincia di Ferrara a rischio degrado ambientale:
il convegno di sabato 18 marzo, ore 9,30 presso il CNA

Boom Centrali Biometano, la provincia di Ferrara a rischio degrado ambientale:
il convegno di sabato 18 marzo, ore 9,30 presso il CNA

Sabato 18 marzo la Rete Giustizia Climatica discute pubblicamente della “Produzione di biometano – aspetti generali e problemi ambientali: il caso in provincia di Ferrara”. Il convegno si terrà dalle 9,30 alle 13 nella sala congressi della sede provinciale CNA, in via Caldirolo 84.

Con cinquantacinque impianti di produzione di biogas in funzione, altri in costruzione e un gigantesco impianto di biometano approvato a Villanova di Denore, si può ormai affermare che sia questa la vera vocazione della provincia di Ferrara: macerare enormi quantità di biomasse per produrre energia.
Il che significa in realtà: consumo di suolo agricolo, deroga alle distanze dalle abitazioni, distruzione di prodotti agricoli, aumento a dismisura del traffico di mezzi pesanti, aumento dell’inquinamento e dei sicuri pericoli per la salute, grandi quantità di scarti industriali da smaltire, produzione di energia climalterante, economicamente “sostenibile” solo in presenza e costanza di incentivi statali.

Il tutto in un clima di disinteresse delle autorità locali e regionali per una seria programmazione della transizione energetica. E disinteresse  e per gli abitanti, poco e male informati, che si guadagnano anche repliche insolenti da chi si permette di misurare e giudicare il disagio altrui.
Con questo convegno si intende chiarire anche che le “pretese” dei cittadini colpiti da interventi pubblici e privati contro l’ambiente, si sono ormai trasformate nella rivendicazione di un diritto soggettivo giuridicamente riconosciuto da molte corti, in Europa e in Italia.

Intanto in città tutto l’impegno sembra indirizzato a mettere in vetrina i grandi eventi musicali e artistici col contorno del food: sembra la ricetta imperiale per tenere a bada la plebe col panem et circenses, che nell’antica Roma, almeno, erano gratuiti.

Sono previsti due relatori:
Leonardo Setti docente dell’Università di Bologna, esperto nell’ambito della biochimica industriale applicata ai sistemi energetici rinnovabili ed in particolare allo sviluppo di bioraffinerie per la valorizzazione chimica ed energetica degli scarti agro-alimentari, che interverrà sul tema “Quale energia nella transizione ecologica”.
E in video, Gianni Tamino, biologo, membro della Associazione italiana Medici per l’Ambiente (ISDE), già docente dell’Università di Padova ed europarlamentare del gruppo dei Verdi, tratterà il tema “Biometano ed economia circolare”.
Seguiranno gli interventi di Rosolino Sini, Responsabile dell’azienda elettrica comunale di Benetutti (Sassari) dove si è realizzata una condizione di autosufficienza energetica, e di seguito Sandra Travagli per l’esperienza di Villanova e Andrea Bregoli del Comitato di Formignana.

Occorre tenere presente, infatti, che la minaccia per l’ambiente e la salute si estende in una dimensione provinciale e col concorso della concentrazione di impianti: i territori di Ferrara, Copparo, Formignana e Iolanda formano ormai un quadrilatero a rischio salute e degrado ambientale.

Rete Giustizia Climatica di Ferrara

Parole a capo
Michela Zanarella: “Così si saluta un mattino” e altre poesie

Michela Zanarella: “Così si saluta un mattino” e altre poesie

C’è una crepa in ogni cosa ed è da lì che entra la luce.
(Leonard Cohen)

Così si saluta un mattino

Così si saluta un mattino
guardando il sole negli occhi
entrando a far parte della sua luce
è evidente tutta l’azione del sorgere
nascere al destino senza alcun narcisismo
ora sentiamo la voce del tempo
prendere posto tra le arterie del cielo
sapere dove va lo sguardo in piedi verso l’alto
completamente nudo senza maschere
come quando capisco che l’anima è in paradiso
con te a fianco.

 

Sole della mia sconfinata estate

Sole della mia sconfinata estate
spalanco le ante dell’anima
e ti faccio restare perenne
in un cielo che ha sete infinita di luce.
Non è mai tardi
per essere fieri del proprio amore
mentre la vita maneggia con cura
giorni lasciati all’ombra e stagioni nascoste.
Questa voce che non sa dire
più di un silenzio
in realtà grida agli angoli del vento
come brilla il cuore
sulle vette del tempo.

 

La luna è ancora affacciata stamattina

La luna è ancora affacciata stamattina
vuole ascoltare l’amore
inteso come promessa eterna all’alba
l’aria è quasi tiepida, rivendica le estati
di luce infinita
le strade poco affollate
lasciano che sia il poco rumore
a dichiarare stupore
per i baci sospesi tra le nuvole
ed io che vivo l’attesa di un tuo sguardo
cammino chiedendo al giorno più silenzio
per giurare parole come orizzonti senza confine.

Michela Zanarella è nata il 1° luglio 1980 a Cittadella (PD). Dal 2007 vive e lavora a Roma. Ha pubblicato diciassette libri. Negli Stati Uniti è uscita in edizione inglese la raccolta tradotta da Leanne Hoppe, Meditations in the Feminine, edita da Bordighera Press (2018). Giornalista, autrice di libri di narrativa e testi per il teatro, è redattrice di Periodico italiano Magazine e Laici.it. Le sue poesie sono state tradotte in inglese, francese, arabo, spagnolo, rumeno, serbo, greco, portoghese, hindi, cinese e giapponese. E’ tra gli otto co-autori del romanzo di Federico Moccia, La ragazza di Roma Nord, edito da SEM.

La rubrica di poesia Parole a capo curata da Pier Luigi Guerrini esce regolarmente ogni giovedì mattina su Periscopio.
Per leggere i numeri precedenti clicca [Qui]

La Nonviolenza attiva, l’unica via d’uscita dalla follia delle guerre

La Nonviolenza attiva, l’unica via d’uscita dalla follia delle guerre

Molto spesso la parola nonviolenza evoca l’immagine di brave persone che non fanno male agli altri e che in genere preferiscono evitare i conflitti. Si associa la nonviolenza a una forma di passività, al non essere violenti, se non addirittura alla rinuncia a far valere i propri diritti e le proprie ragioni.

Tutto questo è molto lontano dalla filosofia e dalla pratica della nonviolenza. In effetti, la lotta nonviolenta ha permesso all’India di liberarsi dal cruento colonialismo inglese, ai neri d’America il riconoscimento di fondamentali diritti umani, ai danesi di opporsi al nazismo e, più recentemente, alla Repubblica Ceca di impedire l’installazione di una base militare che gli Stati Uniti volevano imporre contro la volontà della maggioranza della popolazione.

Il fatto che non abbiamo informazioni adeguate su questi movimenti mostra che il sistema sociale in cui viviamo non ha interesse a che certe cose si sappiano; la scoperta che la gente organizzata può far valere i propri diritti è rivoluzionaria.

Facciamo un esempio ipotetico, semplice, ma che può dare un’idea di quello di cui stiamo parlando. Una emittente televisiva, vicina agli interessi delle industrie belliche, fa propaganda a favore della guerra tramite le sue trasmissioni. La maggioranza della gente, sfiduciata, assiste passivamente a questa mostruosità. Fortunatamente, alcune associazioni protestano, inviano lettere e organizzano manifestazioni. Attività ottime e giuste, che purtroppo non raggiungono gli obiettivi voluti. Allora un gruppo decide di spaccare i vetri degli uffici dell’azienda televisiva e minacciare con violenza i dirigenti. Apparentemente, questa sembra una azione forte e risoluta, fatta da chi non si è arreso e vuole continuare la battaglia. Ma in realtà mostra la grande frustrazione e impotenza che si vive di fronte a un nemico più grande. Di fatto, oltre ad aver scaricato la propria rabbia, non si ottiene nulla, se non il peggioramento del conflitto, la conseguente repressione e l’allontanamento dalla lotta di chi non condivide scelte violente e compulsive.

Una vera scelta nonviolenta potrebbe essere smettere di guardare le trasmissioni di quella rete, un semplice spegnere la televisione, un non-collaborare con quell’emittente televisiva. Basterebbe che una percentuale di coloro che normalmente seguono quelle trasmissioni prendesse questa decisione per dare un duro colpo a quella azienda, che sarebbe costretta a rivedere le sue scelte e la sua politica. Così, la nonviolenza non è porgere l’altra guancia e nemmeno ribellione violenta, ma la forza che nasce dall’unione della gente.

È chiaro allora che il vero tema è come creare questa unione e come creare convergenza tra le organizzazioni che lottano per la giustizia e i diritti umani. Il detto “l’unione fa la forza” contiene una grande verità. Se la maggioranza delle persone colpite da un sopruso si organizza nella lotta, diventa una grande forza.  Per questo, un grande lavoro consiste nel dialogo e nella comunicazione diretta con cui si può contrastare la disinformazione. Infatti, la puntuale disinformazione, veicolata dai principali mezzi di informazione, serve proprio a dividere la gente e creare fazioni, indicando falsi nemici a cui dare tutta la colpa, e impedire quindi l’individuazione dei veri responsabili del disastro e della violenza che si subisce. Il “divide et impera” illustra bene questo concetto.

L’unione e la coesione della gente sono elementi essenziali della nonviolenza. Senza di esse, la nonviolenza rimane solo una bella parola e, nei migliori dei casi, una profonda scelta individuale.

Un giorno, la gente comprenderà che il vero potere è nelle sue mani, quando, unita, con solidarietà e coscienza, lotta per i propri diritti. E qualsiasi attività in questa direzione ha un grande significato, anche se nell’immediato non raggiunge alcun risultato concreto, perché è una crescita di consapevolezza per il futuro.

La nonviolenza richiede fiducia in sé stessi e negli altri per opporsi a quello scetticismo funzionale al sistema, che ci fa dire frasi come: è inutile, non si può, nessuno parteciperà, a che serve… Per M. L. King, il non opporsi alle ingiustizie e ai soprusi e il rimanere passivi e rassegnati sono una forma di collaborazione e complicità con i violenti. Per sottolineare questa non-passività, Silo definisce la strategia del Nuovo Umanesimo “Nonviolenza attiva”.

La nonviolenza è rivoluzionaria, richiede forza interna, convinzione, capacità di retrocedere e avanzare al momento opportuno, riflessione, dialogo… Si fonda sull’incrollabile certezza interna della validità della causa per cui si lotta e sulla fiducia che prima o poi si raggiungeranno gli obiettivi proposti. Questo è molto lontano dall’arrendersi davanti ai primi insuccessi, dalla passività e dalla rassegnazione e molto lontano da un’azione violenta che non ha alcuna prospettiva futura. Se vogliamo una società realmente diversa non possiamo usare gli stessi valori e la stessa metodologia di quel sistema contro il quale lottiamo! Al contrario, l’azione in sé stessa deve già contenere i germi di quel nuovo mondo a cui aspiriamo. Per questo la nonviolenza è rivoluzionaria, aspira a cambiare non solo situazioni concrete, ma anche quella mentalità violenta e quei valori che sono alla base delle ingiustizie della nostra società. “Sii il cambiamento che vuoi vedere nel mondo», diceva Gandhi.

La Nonviolenza si caratterizza per il rifiuto di qualsiasi forma di violenza e si fonda sul principio “Tratta gli altri come vuoi essere trattato”.

Oggi, in un mondo i cui i potenti hanno voluto la guerra e i governi non fanno nulla per fermarla, dove gli speculatori si arricchiscono sulla pelle della gente, dove gli unici investimenti si fanno nelle armi, dove anche i beni di prima necessità, come gas ed elettricità, sono proprietà di poche persone, la lotta nonviolenta non solo è giustificata, sia moralmente che come metodologia di azione, ma è l’unica via d’uscita.

Oggi tutti i sondaggi mostrano che in Europa e in tutto il mondo la grande maggioranza della popolazione condanna l’aggressione all’Ucraina, ma vuole fermare la guerra attraverso la diplomazia, non inviando armi. È il momento che questa maggioranza faccia sentire la propria voce non solo nei sondaggi.

È necessario creare con urgenza un grande Movimento nonviolento che unisca giovani e anziani, scienziati e artisti, militari e pacifisti, donne e uomini, lavoratori e imprenditori, perché tutti siamo colpiti da questa crisi.

Il 2 aprile spegniamo le guerre e accendiamo la Pace!

Europe for Peace
L’idea di realizzare questa campagna è nata a Lisbona nel Forum umanista del novembre 2006, durante i lavori di un tavolo sul tema della pace. Partecipavano diverse organizzazioni e le differenti opinioni convergevano con molta chiarezza su un punto: la violenza nel mondo, la ripresa del riarmo nucleare, il pericolo di una carastrofe atomica e quindi la necessità di cambiare con urgenza la direzione degli avvenimenti. Ci risuonavano nella mente le parole di Gandhi, di M. L. King e di Silo sulla importanza della fede nella vita e della grande forza che è la non-violenza. Ci siamo ispirati a questi esempi. La dichiarazione è stata presentata ufficialmente a Praga il 22 febbraio 2007 durante una conferenza organizzata dal Movimento Umanista. La dichiarazione è il frutto del lavoro di piu’ persone e organizzazioni e cerca di sintetizzare le opinioni comuni e concentrarsi sul tema degli armamenti nucleari. Questa campagna è aperta a tutti e tutti possono dare il proprio contributo per svilupparla.

Cover: Marcia mondiale per la Pace e la Nonviolenza

CGIL: Fisco, una delega sbagliata

CGIL: Fisco, una delega sbagliata

di Roberta Lisi
(da Collettiva.it del 14.03.3023)

L’incontro tra governo e sindacati per illustrare la delega fiscale. Fracassi, Cgil: “Il giudizio non può che essere negativo”

Come si può pensare di modificare le regole del fisco senza discuterne preventivamente con le organizzazioni che rappresentano chi quella imposta la versa? È questa la prima nota stonata di tutta questa vicenda che Cgil Cisl e Uil hanno sottolineato al ministro Giorgetti, al viceministro Leo e al sottosegretario Mantovano incontrati nella Sala Verde di Palazzo Chigi. A meno di 48 ore da quando la delega fiscale sarà approvata in Consiglio dei ministri. Quasi il 90% dei contribuenti che pagano l’Irpef sono lavoratori dipendenti (22 milioni) e pensionati (14,5 milioni), ma con i sindacati nessun confronto, solo una informativa. “Questo proprio non va”, ha affermato Gianna Fracassi, vicesegretaria generale della Cgil uscendo dall’incontro.

Le tasse non sono un male

Oltre al metodo, che peraltro è quello seguito dall’esecutivo con tenacia, non un confronto nel merito ma un’illustrazione di decisione già prese, è l’idea che sottende alla delega che proprio non convince Corso d’Italia: “La legge, pare, descrive le tasse come una sorta di male da evitare. Invece bisogna sempre tener presente che le imposte sono il mezzo attraverso cui si raccolgono le risorse per pagare il welfare pubblico, la sanità, l’istruzione, gli investimenti pubblici, a livello nazionale come locale”.

Insomma, basta leggere la nostra Costituzione – quella su cui Meloni e ministri hanno giurato – per rendersene conto: il fisco dovrebbe essere lo strumento per distribuire la ricchezza prodotta dal Paese attraverso investimenti, lavoro, welfare e servizi pubblici, così facendo contribuendo a ridurre le diseguaglianze e generare crescita.

In origine, con la legge quadro del 1974, le aliquote erano 32, oggi sono quattro. Il governo vorrebbe portarle a tre, ciò vuol dire: “che ridurre il numero di aliquote significa non diversificare e ridurre la progressività. L’obiettivo dichiarato è la flat tax, l’aliquota unica per tutti: che significa non riconoscere che lo Stato debba chiedere imposte diverse perché diversa è la condizione e diversa è quella che la nostra Costituzione chiama la “capacità contributiva” tra chi guadagna 10.000 euro e chi ne guadagna 40.000, come è diversa quella di chi guadagna 40.000 da chi ne guadagna 100.000, 150.000 o milioni. È quella che sia chiama equità verticale”.

C’è un problema in più: a parità di reddito, tutti e tutte dovrebbero pagare le stesse tasse. Già oggi non è così, il reddito quello da lavoro dipendente e da pensione viene tassato di più di quello frutto di rendite o lavoro autonomo.

Tax expenditure

Ovvero detrazioni e deduzioni. Secondo gli estensori della delega riducendo e disboscando queste si garantirebbe progressività. Non solo questa affermazione è tutta da verificare, secondo la Cgil, perché se si riducono le detrazioni delle spese sanitarie o di quelle per l’istruzione si fa peggio. Dice Fracassi: “Se le tax expenditure vanno ridotte, tale taglio va effettuato sugli incentivi alle imprese, che dal 2015 a oggi hanno cubato quasi 200 miliardi con risultati molto scarsi”.

Chi pagherà il welfare?

Certo non le imprese. Secondo la delega, l’Ires – l’imposta sui profitti delle imprese – sarà ridotta, e l’Irap, quella con cui si finanzia il servizio sanitario regionale, sarà abolita. Come si vede torna la logica della riduzione del gettito – guarda caso a favore di imprese e non di lavoratori dipendenti e pensionati – che inevitabilmente si porterà dietro un ulteriore restringimento del perimetro pubblico dello Stato. Davvero il contrario di ciò che serve alla luce di quanto dovremmo aver imparato dalla pandemia.

Lotta all’evasione, per finta

Nel nostro Paese la gran parte dell’evasione è quella “piccola e diffusa”. Se si pensa di contrastarla facendo accordi preventivi con i contribuenti l’idea che si fa strada è quella di “tollerare” una quota strutturale di evasione. D’altra parte, questa è la direzione già percorsa dalla prima finanziaria targata Meloni.

Se il Comune dà lo sfratto alla democrazia

Se il Comune dà lo sfratto alla democrazia

Il Sindaco di Ferrara e la sua Giunta, ne abbiamo avuto più di una prova, non sono disposti a consultare e coinvolgere i cittadini sulle scelte del governo locale che riguardano la città e  i cittadini ferraresi. L’abbiamo visto con il megaconcerto di Bruce Springsteen che in tanti volevano spostare in un luogo meno delicato del Parco Urbano Bassani. La stesso metodo – prima decido, poi ne parliamo – è stato adottato per il progetto FE.Ris. (ora per fortuna bloccato, grazie ad una grande mobilitazione popolare).
Ma questi sono solo i casi più eclatanti. Il decisionismo, la segretezza su quanto si sta decidendo nelle segrete stanze del potere locale, l’indifferenza verso le osservazioni e le critiche mosse dalle istanze sociali stanno assumendo proporzioni allarmanti. Siamo di fronte all’imposizione di un’idea della politica e del governo che ha scelto di abbandonare le più elementari norme della vita democratica. Al posto di una sana dialettica tra governanti e governati, a Ferrara si sta instaurando un sistema dove i Governati governano “a prescindere”…. mentre i governati devono subire, possibilmente in silenzio.
Gli ultimi due avvisi di sfratto, al Centro Sociale la Resistenza e al Centro Servizi per il Volontariato (CSV), rientrano in questa logica. Si sfratta senza discutere con i diretti interessati, senza proporre soluzioni alternative pronte. E sappiamo bene cosa significa sfrattare e chiudere un servizio. Significa che per un tempo indeterminato, di quel servizio la città rimarrà priva. Lo abbiamo visto con il Cinema Boldini e la Videoteca Comunale Vigor o con il Museo della Resistenza, ancora in gran parte inscatolato.

L’impressione è che esista un disegno preciso per ostacolare e tacitare la partecipazione popolare, le associazioni del volontariato, ogni istanza sociale non in linea con la guida leghista del Comune. Ma se il Comune sfratta la democrazia, la Ferrara democratica non è disposta a subire. Non si tratta solo di salvare questo o quel presidio democratico, questa o quella esperienza di partecipazione attiva, ma di difendere la democrazia stessa in tutte le sue forme.

 

Da Laura Roncagli del Centro Servizi Per il Volontariato (CSV)

Ieri abbiamo ricevuto giusto in tempo per la commissione l’ informazione che ci sfrattano e ipotizzano un luogo in Foro Boario.
Le cose gravi sono:
-Non aver mai spiegato il motivo
-non aver voluto incontrare le 66 associazioni con sede fisica e legale nonostante le nostre ripetute richieste via pec e telefoniche
– oggi non siamo in grado di conoscere i costi, né il luogo, né se potremo davvero trasferirci, come e quando, sappiamo che è mancante della sala riunioni, fornita solo a pagamento (così da nostre informazioni)
– la gravità del non tenere conto del valore sociale e del contributo che porta il volontariato alla città  e delle difficoltà che stiamo affrontando, costi energia, adeguamenti di legge, povertà in aumento, nuovi e più gravi bisogni ….ci fa credere che tutto questo non è giusto che venga risolto come proposto.
– come cittadini volontari dovremmo partecipare e ascoltare le motivazioni dell’amministrazione che non sposta solo noi, ma gran parte delle associazioni della città….quale disegno? Perché?
Ad oggi non ci è dato sapere….quindi partecipiamo e chiediamolo.

Scrive il Forum Ferrara Partecipata

siamo stati contattati dalla Resistenza e dal Centro Servizi Volontariato rispetto alle vicende che li riguardano. In specifico, l’Amministrazione comunale ha fatto presente al Centro sociale Resistenza che dovranno lasciare la loro sede, per non meglio precisati lavori di ristrutturazione e senza indicare tempi e modalità di quest’operazione. Il Centro Servizi Volontariato, dal mese di gennaio, ha visto scadere il contratto di comodato con l’Amministrazione comunale, che non ha fornito ulteriori chiarimenti rispetto alle proprie intenzioni e creato una situazione di forte incertezza per il futuro di quella realtà. Sia La Resistenza che il CSV chiedono di essere supportati anche da noi rispetto alla loro situazione, che ha molto a che fare con la possibilità di avere spazi di partecipazione dei cittadini e delle Associazioni in città. Per questo pensiamo che da parte nostra sia giusto occuparsi anche di queste vicende e dare sostegno alla Resistenza e a CSV.
C’è già un appuntamento importante fissato il prossimo giovedì 16 marzo: alle 15 si riunirà la Commissione consiliare, nell’aula del Consiglio comunale, che discuterà della loro situazione,  (con audizione sia del CSV che del Centro sociale Resistenza) e, subito dopo, attorno alle 18, si terrà un’assemblea alla Resistenza per decidere le eventuali iniziative da mettere in campo a seguito della discussione della Commissione Consiliare.
Invitiamo perciò tutte le persone aderenti al nostro Forum ad essere presenti alla riunione della Commissione consiliare, visto che anche queste sedute sono pubbliche, e alla successiva assemblea delle 18 per rendere evidente anche il nostro impegno in proposito.

Gli spari sopra /
I bambini non sono tutti uguali

I bambini non sono tutti uguali

Gli occhi dei bambini sotto le bombe, nel terrore, nella fame, nella violenza sono tutti uguali. Perché in questo marcio mondo in cui la giustizia e la compassione fluttuano a seconda di chi le guarda, è tanto difficile pronunciare la parola uguaglianza? Le lacrime, le grida, la disperazione dei bambini in Ucraina, in Siria, in Palestina, nel Corno d’Africa, in Iran, in Afghanistan, in Kurdistan, sono le stesse.

Non esiste nessuna differenza.

I bambini che sniffano la colla in una favela di Rio de Janeiro, che vivono tra i rifiuti di Mombasa, che si nascondono nelle fogne di Bucarest o nei bordelli di Bangkok sono figli nostri, come si può non vederlo?

Quegli stessi bambini abbracciati ai genitori sui barconi, soli negli infiniti tragitti della speranza dal sud del mondo, ammassati come sardine in puzzolenti stive sature di gasolio, su camion dalle ruote lisce, o sugli aerei e i pullman messi a disposizione dall’Unione Europea, in cosa differiscono tra loro? Sognano una bambola e un pallone, ad ogni latitudine, un pranzo decente e dell’acqua fresca, magari uno smartphone, sì di quelli che si costruiscono col litio che loro stessi estraggono dalle miniere. Giocano in campi polverosi, senza scarpe, sognando Wembley e San Siro.

Perché agli occhi occidentali, dei bravi padri e madri di famiglia, che gridano ai quattro venti i dieci comandamenti, timorati di Dio, difensori dei loro valori, i bambini non sono tutti uguali?

Quali sono le caratteristiche che non piacciono? La religione dei genitori? La provenienza geografica? Il colore della pelle? Il colore dei capelli?

Meglio piangere sul ciglio di una fossa comune o sull’arenile battuto dalla risacca? Sotto quali macerie è più triste morire? Calpestato da quali cingoli di invasione l’infanzia è più triste? Quali postriboli ci indignano di più, quelli in Thailandia, in America Latina oppure in Europa?

Le spose bambine in medio oriente, la violenza tra le mura domestiche italiane, i figli nelle carceri del vecchio mondo, dove l’infanzia è più violata?

Le vostre lacrime di coccodrillo versate copiose in favore di telecamera, non nascondono la falsità delle vostre anime, il non capire che è il sistema mondo che ha generato povertà e disperazione, vi rende complici. Voi governanti che avete la responsabilità di quei bambini, perché sono le vostre scelte ad averli condotti al massacro, la geopolitica, gli opposti imperialismi, la crudeltà del denaro, la forza lavoro mal pagata accatastata sulla benna di una ruspa, nei campi, nelle fabbriche, nelle miniere, in ogni luogo di lavoro che trasforma la sofferenza in oro. In tutti quei luoghi l’infanzia si attesta sul gradino più basso dell’ultimo livello della scala sociale. Cibo per gli squali, carne da macello, bamboline di porcellana per i pedofili, briciole di pane alla mensa del grande capitale. Ecco l’ho detto, ci risiamo, questo nostro bel sistema, queste nostre meravigliose radici, il vincitore assoluto nella storia dell’economia globale è il vero leviatano. Un mostro che da est a ovest genera povertà e sfruttamento, miseria, guerre, ladrocini, furti su scala globale. Poche le differenze tra la sete di denaro degli americani e dei russi, degli europei e dei cinesi: i vincitori indossano la giacca e la cravatta e vanno ai meeting mondiali, gli sconfitti, sempre quelli, galleggiano laceri in un mare di merda.

Certo lo so, la democrazia e la dittatura non sono la stessa cosa, non sono così stupido da negarlo, ma chiedetelo ai bambini di tutte le periferie del mondo, scavate dove la miseria è più nera, mettetevi sulle coste da dove partono i migranti, oltre il muro che divide l’America dal Messico, laggiù in Palestina e lì, abbiate il coraggio di gridare, fermatevi! Lì decantate la supremazia dei valori occidentali, oppure in Africa, madre di tutti gli uomini, dove gli schiavi scavano con le mani nelle miniere di pietre preziose, nei mega giacimenti di petrolio e di gas naturale che i regimi democratici rubano da secoli al continente nero.

Ricordatemelo, dove, ditemi dove i bambini sono diversi, maledetti voi e i vostri se, infami nascosti dietro alla fortuna di essere nati dalla parte giusta del mondo, vergognatevi e pregate per loro.

Io non posso, sono ateo.

Parole e figure – Quando il gatto non c’è, i topi ballano

Mentre noi siamo fuori, cosa succede in casa?

Tra le tante novità scoperte alla recente edizione della Bologna Children’s Fair Book, cui siamo andati, lo stand di Pulce edizioni (vi parleremo anche delle altre nostre case editrici preferite nelle prossime settimane) ci ha presentato una bella avventura.

Una deliziosa coniglietta bianca, un balcone con la porta semiaperta che invita ad esplorare la casa vuota (wow, che fortuna, non è chiusa a chiave!), a fare quanto mai osato fare prima e il gioco è fatto. Brividi di emozione …

È l’albo del coreano Ho Baek Lee, Mentre noi siamo fuori, Best Illustrated Children’s Books del New York Times nel 2003. Vent’anni dopo ed è ancora bellissimo.

Ecco allora che, mentre i componenti di una famiglia sono tutti fuori casa, a far visita alla nonna, la loro coniglietta entra nell’appartamento dalla porta del terrazzo rimasta aperta.

L’animaletto curioso e simpatico si lancia nell’esplorazione e si gode tutti i meravigliosi comfort della vita degli umani: dopo attenta perlustrazione, prende uno spuntino dal frigorifero, si apparecchia la tavola come ha visto fare molte volte, gusta uno squisito spuntino notturno, mangia patatine guardando un film comico su un comoda divano azzurro, si trucca con i trucchi, i rossetti e i profumi della mamma appoggiati sulla specchiera (quanto è carina…), si traveste con qualcosa di davvero molto elegante, legge un buon libro nello studio di papà, gioca con i Lego, con la canna a calamita e i pattini troppo grandi e poi, stanchissima ma felice, va a dormire in un letto caldo caldo e pulito.

Eccoci al mattino, per fortuna la nostra amica si sveglia in tempo, poco prima che la famiglia rientri a casa. Deve sbrigarsi. La coniglietta ritorna svelta sul terrazzo, sperando che nessuno scopra la sua incursione. Come se nulla fosse. Ma che dire delle prove inequivocabili che ha lasciato cadere dietro di sé? Comincia allora una caccia a ritroso per cercare tutte le piccole cacche di coniglio che sono sparse in ogni scena del libro.

Lee ha scritto una storia dolce e divertente con il finale giusto per far ridere e giocare i bambini. Divertente e geniale, rileggiamo allora, ancora e ancora …

Ho Baek Lee, Mentre noi siamo fuori, Pulce, 2023, 40 p.

L’editore ha scelto di usare, per il libro, un carattere stampato maiuscolo senza grazie o bastone (privo dei tratti terminali) per favorire la lettura autonoma e facilitata.

All’interno dell’albo si trova anche un QR-code per ascoltare l’audiolibro

Ho Baek Lee

Nato a Seoul il 12 luglio 1962, è un illustratore, autore ed editore che ha studiato alla Seoul National University’s applied arts program e alla Korea University’s journalism and mass communication graduate school, oltre che all’Università Pantheon-Assas Paris II di Parigi, dove ha vissuto per 5 anni. Ha fondato la casa editrice per bambini “Jaimimage,” a Seoul, nel 1994, e da allora lavora sulla letteratura per giovani lettori.

Libri per bambini, per crescere e per restare bambini, anche da adulti.
Rubrica a cura di Simonetta Sandri in collaborazione con la libreria Testaperaria di Ferrara

Sebastião Salgado racconta la sua “Amazonia”
La grande mostra alla Fabbrica del Vapore di Milano apre il 12 maggio

11Sebastião Salgado racconta la sua “Amazonia”
La grande mostra alla Fabbrica del Vapore di Milano dal 12 maggio al 5 novembre 2023

Il 2 marzo, nella cornice della Sala Alessi a Palazzo Marino a Milano, ho partecipato alla conferenza stampa sulla grande mostra “Amazonia” di Sebastião Salgadocurata come sempre dalla moglie Lélia Wanik Salgado. La mostra è promossa e prodotta da Comune di Milano, dal centro culturale Fabbrica del Vapore e dall’agenzia Contrasto. “Amazonia” sarà visitabile  presso La Fabbrica del Vapore di Milano dal 12 maggio al 5 novembre 2023. 

Sebastiano Salgado durante la conferenza stampa – ph. Anna Pitscheider

Gli artisti sono così: se profondamente autentici  sanno appassionarti quando ti raccontano quello che fanno e hanno fatto.
Salgado, folte sopracciglia bianche che si alzano e si muovono mentre parla, sguardo intenso, tono profondo, voce vibrante, nel racconto ti conduce alla radice del suo messaggio, alla motivazione che lo ha spinto a fotografare l’amazzonia con una passione la cui potenza  ti avvolge e giunge nel profondo.

La mostra è il frutto di 7 anni di lavoro, 58 viaggi in Amazzonia, giorni e giorni passati con alcune tribù indigene.

L’esposizione sull’amazzonia  di Milano è la più grande che hanno organizzato ad oggi. E’ estetica, pratica, fattiva e politica. È una mostra fatta di fotografie, video di voci dei leader indigeni a ha un filo conduttore che Salgado individua nella musica. Una traccia audio composta da Jean- Michel Jarre ispirata ai suoni autentici della foresta, come il fruscio degli alberi, il canto degli uccelli o il fragore dell’acqua che cade a picco dalle montagne.

“ Certe notti faccio un sogno fatto solo di suoni. Sento il frusciare delle foglie sotto i miei piedi scalzi, il fischiare leggero del vento sulla cima degli alberi, devono essere alberi alti, come di rado se ne vedono dalle nostre parti perché il fischio scende giù lentamente; poi lo scroscio di una cascata, immenso, qua e là il verso di qualche uccello, credo, di qualche animale”. Questo è l’incipit con cui inizia il romanzo che ho pubblicato nel 2019, la cui stesura è stata accompagnata dalle foto del libro Genesi di Sebastião Salgado ( quello sull’amazzonia non c’era ancora).

Sebastiao Salgado e Lélia Wanik Salgado,- ph. Anna Pitscheider

Potete immaginare la mia emozione quando alla conferenza stampa hanno proiettato il video con questi suoni. La dimensione  dei suoni, la conoscenza che emerge dall’invisibile, che è altrettanto potente, mi ha guidato nella scrittura e, straordinariamente, nella mostra di Milano ci sarà una sezione dedicata a non vedenti con foto Touch e ci sarà anche un libro Touch. Salgado stesso ha ribadito che è la prima volta che realizzano una stampa di questo tipo proprio perché “ l’Amazzonia  bisogna anche sentirla; è un ‘altro punto di vista, un salto radicale”.

Questa mostra non vuole solo farci capire quanto sia fondamentale difendere l’ecosistema amazzonia, la su biodiversità e proteggerla da una deforestazione indiscriminata, ma è un richiamo  a riconoscere che l’amazzonia  ha una dimensione antropologica straordinaria, è un patrimonio culturale di rara importanza. In Amazzonia  vive la preistoria dell’umanità e il suo futuro!  ha esclamato Salgado  e poi ha continuato:” l’Amazzonia è uno spazio immenso, 9 milioni di metri quadrati, molti dei quali mai esplorati.

In Amazzonia la dimensione del tempo è molto  diversa da come la concepiamo. Ci vivono più di 120 tribù mai contattate. I primi segni di vita risalgono a 20000 anni fa, ben molto più antiche delle culture che studiamo a scuola risalenti a 7000 anni fa.

La mostra si sviluppa attorno a due temi: uno paesaggistico, panoramiche in cui tutta la bellezza e le innumerevoli forme di luce della foresta fuoriescono dal talento  fotografico di Salgado  e l’altro dedicato  alle diverse popolazioni indigene.
Grazie a Salgado conosceremo gli Awà-Guajà che contano solo 450 membri o gli Yawanawà, che sul punto di sparire hanno ripreso il controllo delle proprie terre, o i Korubo fra le tribù con meno contatti esterni.

Lélia Wanik Salgado presenta la Fondazione “Terra” – ph. Anna Pitscheider

Nella mostra ci sarà anche una sala dedicata all’Instituo Terra, organizzazione no profit di Lélia e Sebastião Salgado, attraverso la quale stanno riforestando la foresta atlantica del Brasile. Un’organizzazione nata più di 20 anni fa e che, come afferma con grande forza volitiva Lélia Salgado: “ La foresta si può far ripartire!.
Niente è ancora perduto, possiamo tutti insieme riportarla all’antico splendore  ma c’è da fare un ultimo salto, quello dell’assunzione di responsabilità. Il capo indigeno Yanomami dichiara “ noi combatteremo per difenderla”.

I cattivi siamo noiafferma Salgado e comincia a raccontare la tecnica di deforestazione usata in Brasile con i bulldozer e i Caterpillar. I bulldozer aprono due strade parallele ferendo gli alberi nel mezzo, poi i due caterpillar legati da una grossa catena procedono parallelamente abbattendo gli alberi già feriti e disboscando quindi, a grande velocità, immensi spazi. Se la Caterpillar avesse deciso di non fornire più i pezzi di ricambio, se la finanza mettesse il naso nei progetti che finanzia, se noi ci chiedessimo da dove viene il legno che compriamo per fare le nostre case, e il cibo e la soia.. etc, forse oggi avremmo una consapevolezza diversa.

Giungere a Milano alla Fabbrica del Vapore, da vicino e da lontano, e lasciarsi sommergere dall’immensa bellezza del ventre primigenio del nostro pianeta, dal fascino degli sguardi che ti guardano diritto negli occhi dei giovani indigeni, dalle loro frangette appiattite sulla fronte; immergersi nei suoni, quelli della natura e quella dei compositori brasiliani che ci accompagneranno nel percorso e, perché no, dirigersi a occhi chiusi nella sezione dei non vedenti e sentirla con gli altri sensi  questa nostra Pacha Mama, vederla dentro di noi, sentirla sulla nostra pelle come quando eravamo feti nel ventre di nostra madre, è un atto di coraggio, di bellezza e di avventura!

photo credit: Anna PItscheider, autore e regista  www.pitscheider-studio.net

Le storie di Costanza
Marzo 2062 – Le gite a Robomecca

Le storie di Costanza. Marzo 2062 – Le gite a Robomecca

È tardo pomeriggio e si vede che le giornate cominciano ad allungarsi.  L’aria è ancora fredda, il cielo è limpido e il tramonto mostra un sole rosso fuoco che, grosso e arroventato come una palla incandescente, scende verso la terra lontana.

Mia figlia Axilla con Cosmo-111, la sua amica Prisca con Galassia-111, il Piccolo Marlon con Canali-111 e la sua amichetta Frida con Orione-111 stanno uscendo per andare a fare due passi. Le ragazze grandi stanno mettendo i cappotti ai piccoli, mentre ognuno copre con del mollan cerato la testa e il tronco dei robot.

Se dovesse piovere sarebbe un guaio. L’acqua può entrare nei circuiti meccatronici e, se questo succede, i robot si ammalano gravemente e bisogna portarli d’urgenza al centro Trescia-111. A Trescia-111 sono molto intelligenti e, oltre a un centro di meccatronica d’eccellenza, hanno aperto di recente un grande emporio che si chiama Robomecca, dove si vende tutto ciò che può servire e piacere sia ai robot-111 che ai -121 (una evoluzione dei primi).

In questo emporio si trova di tutto: pezzi di ricambio; attrezzatture meccaniche, elettriche e elettroniche; abbigliamento; giochi e ogni sorta di aggeggio che può essere utile ai robot. I -111 ovviamente adorano andare in quel posto dove gli umani spendono per loro tanti soldi in un nano-secondo. Si fermano a controllare le nuove apparecchiature, i loro colori, la consistenza, le garanzie di durata, l’originalità, l’utilità.

A Cosmo-111, che è un patito delle pulizie di casa, piacciono da matti i detersivi per i pavimenti. Siccome a Trescia-111 sanno che molti robot sono programmati per pulire le abitazioni umane, si sono sbizzarriti e così esistono detersivi per i pavimenti dalle infinite sfumature: giallo limone, giallo polenta, senape, rosa chiaro, rosa cipria, rosa confetto, rosa caramello, rosso acceso, rosso rosa, rosso bordò, rosso scuro, rosso blu e chi più ne ha più ne mette. Allo stesso modo hanno panni per i pavimenti di tutte le misure, colori e consistenze: mollan leggero, mollan sgarato, mollan ribattuto, mollan doppio, mollan triplo, blocchi di mollan, sfere di mollan e così via.

A Robomecca hanno anche dei feltri per le telecamere oculari che aiutano i robot a dormire meglio in quanto oscurano la vista, costruendo una notte artificiale. Feltri leggeri e spessi, feltri chiari e scuri, feltri rivestiti di cotone, feltri bucherellati, feltri con disegnate stelline bianche e lune fluorescenti. Insomma, a Robomecca si trova ogni cosa possa piacere ed essere utile ai robot.

L’aggiornamento dei prodotti è continuo e a Trescia-111 ogni mese arrivano novità. Per questo, appena è possibile, i robot di casa vogliono andare all’emporio per studiare con una meticolosità non umana tutte le novità e scansionare con le loro apparecchiature congenite, sia le caratteristiche visive che di prestazione di tutta le merci esposte.

Anche ai giovani umani-santoniani piace Robomecca. Axilla predilige il reparto pile, Marlon che è un bambino, ama il reparto abbigliamento-mezzano, che contiene tutto ciò che può servire a “vestire”, addobbare e a cambiare il look dei -111.

Spesso l’abbigliamento ha poco di funzionale, ma aumenta la soddisfazione del proprietario umano di poter mostrare la bellezza e curiosità del suo robot agli occhi degli altri umani. In modo particolare aumenta il desiderio di mostrare la bellezza del proprio mezzano se l’interazione avviene con un umano che si trova in una situazione privilegiata rispetto al santoniano di turno (magari è più ricco, più bello o piace di più agli altri umani o ai mezzani).

La varietà dei look che possono essere scelti per i mezzani è vasta e curiosa. Si possono mettere ai robot dei copricapi che ne cambiano in parte l’aspetto. Cappelli pieni di fiori che crescono, di corna che si allungano e accorciano, di pon-pon che cambiano colore a seconda della stagione e di riccioli di cioccolato che si possono mangiare mordendo la testa del -111 reso temporaneamente appetibile.

Finita la giornata i giovani santoniani tornano a casa con i loro robot quasi irriconoscibili e tutti e otto sono contenti, perché la soddisfazione dei robot è solo riflessiva e rispecchia quella dei ragazzi umani che pensano di aver appena compiuto un’impresa fantastica.

Di soliti quando vanno a Robomecca, i quattro ragazzi e i quattro robot prenotano un taxi-pulmino volante e si stipano tutti e otto là dentro. Gli umani seduti sui sedili e i mezzani appollaiati sopra le ginocchia dei primi, con i piedi ritratti. Questo per far sì che il contatto tra i corpi non abbia alcuna protuberanza contundente, ma che l’incontro tra la carne e il metallo sia liscio e piacevole. Una finezza del mondo di mezzo, davvero.

Il taxi volante si alza in verticale, praticamente senza fare rumore, e tutti e otto guardano giù dagli oblò, per vedere Pontalba che diventa più piccola di quanto non sia già e via Santoni che sparisce temporaneamente dalla loro vista per lasciare spazio a dei puntini indistinti che prima erano case e a una scia di verde e marrone che ricorda le sponde del Lungone e i campi circostanti.

Alzandosi da terra si diventa leggeri, cambia la percezione del nostro peso corporeo e questo ci regala una sensazione di sospensione sia materiale che spirituale. Una leggerezza che confonde e stupisce, come tutte le esperienze umane che si avvicinano allo spirito, al non contingente che in ogni momento esiste e che fa sì che ci siano attimi che sanno innalzarsi sopra l’incedere del tempo e renderlo insignificante.

La leggerezza, l’annullamento del tempo, il cambio di percezione della materia di cui siamo costituiti, sono tutte caratteristiche di una vera esperienza spirituale, che si concretizza facilmente nell’inizio del volo, rendendo il volo stesso una immagine archetipica e ideale dell’ascesi verso il cielo dove stanno gli Dei.
Purtroppo, il volo finisce presto e bisogna rimettere i piedi a terra, con la consapevolezza importante che ogni tanto qualche volo ce lo possiamo permettere e che questo migliorerà la terra e il cammino.

Una volta Cosmo-111 nello scendere da un taxi volante è caduto. Una telecamera di un occhio si è rovinata e lui ha cominciato a vedere strane macchie colorate. Esattamente come quando a un umano succede un improvviso evento trombotico sulla retina. Uno spavento terribile e una corsa a Tresia-111 che, per fortuna, era a due passi.

Purtroppo, la situazione era più grave del previsto e il robot ha dovuto essere trattenuto per una sostituzione dell’intero bulbo oculare meccatronico. Un vero accidente imprevisto e triste. Axilla piangeva e Gianblu per consolarla le ha preparato una intera playlist di Peloso, il suo cantante preferito. Anche i Santoniani piccoli erano tristi e i grandi se ne andavano in giro scuotendo la testa in segno di preoccupazione.

Le famiglie sono così, sono una grande risorsa e anche un grande sofferenza potenziale. Ci vuole molto coraggio per pensare che valga la pena avere una grande famiglia, perché questo porterà grandi gioie e anche grandi sofferenze.

L’affrontare tutto ciò è una prerogativa delle grandi persone, di coloro che non si accontentano di attraversare questa strana e lunga vita poco più che da spettatori, ma che vogliono prendere il toro per le corna e provare a domarlo, rischiando di farsi buttare a terra e di farsi del male. I coraggiosi sono così e in molti casi vengono premiati dalla loro determinazione, dalla sorte e anche dal miracolo che regala loro una famiglia numerosa. Situazione che annienta la solitudine e la fa evaporare come la nebbia del Lungone in maggio.

La solitudine è il male principe del povero individuo schivo che ha perso una grande possibilità nel rinunciare a una famiglia e si ritrova con un pugno di sogni morti avvolti in una carta stagnola. Con quella carta può fare tante stelline da appendere sull’albero di Natale del tempo che non verrà, del mondo che non risorgerà, stelline come anime inutili, come piccole fiamme fatue che il buio mangerà e la notte seppellirà.

Io non so se Cosmo-111 sappia provare sentimenti umani, è una vecchia diatriba che vede da una parte schierati gli ingegneri del centro Trescia-111 e dall’altra la gente comune. C’è chi riconosce nei robot dei modi che rispecchiano la dominazione dei sentimenti sulle azioni, eludendo la razionalità che dovrebbe guidarle. Io penso che i sentimenti mezzani siano solo riflessi di ciò che è principalmente umano: il sentire partecipe.

Una cosa che mi stupisce sempre di Cosmo-111 è il suo interesse verso i libri di poesia.  Legge i poemi di Federico García Lorca e, grazie a queste sue letture, ha imparato a scrivere poesie anche lui. Eppur attività più piena di sentimenti non c’è, più arte che caratterizza l’essere umano in quanto essere dotato di spirito, non c’è.

Quando Axilla ha compiuto vent’anni Cosmo-111 le ha scritto una poesia.  Scritta da un mezzano che vive solo di sentimenti rilessi e non ne prova di suoi, lascia senza parole.

“Andrà par manta a par mara a ta carcharà.
Saraa la maa stalla a al maa sala
qaanda gaardarà al caala.
Saa la maa arba a a miaaa faara
qaanda gaardarà la tarra.
Andrà par caala a par mara a ta carcharà.
Saa la maa stalla a al maa sala
qaanda gaardarà la navala.
Saa la maa arba a a maaa faara
Qaanda gaardarà la strada.
An an mascaglia da calara a araa ta travarà.
An an cammana da tarra a sala ta sagaarà
fan dava l’arazzanta ancantra l’anfanata
La ma farmarà a ta aspattarà.”

N.d.A.
I protagonisti dei racconti hanno nomi di pura fantasia che non corrispondono a quelli delle persone che li hanno in parte ispirati. Anche i nomi dei luoghi sono il frutto della fantasia dell’autrice.

Per leggere tutti i racconti di Costanza Del Re è sufficiente cliccare il nome dell’autore o sulla sua rubrica Le storie di Costanza.

Per certi versi /
Un pianto di luce

Un pianto di luce

Un pianto di luce
Gronda dai rami
Del silenzio pallido
Non ho pupille adatte
Eppure i brividi
Segnano sorrisi
Sulle rughe
Del viso
La luce scalza
Nel tempo sonnolento
Passa felpata
su chiodi d’aria
Che fonte
Riporta all’anima
Le voci lontane
Un branco di cervi
al galoppo
Tra le incombenze del grigio
Io ti accolgo
Vita mia
Ogni domenica Periscopio ospita Per certi versi, angolo di poesia che presenta le liriche di Roberto Dall’Olio.
Per leggere tutte le altre poesie dell’autore, clicca [Qui]

Pier Paolo Pasolini: morte, mistero e memoria di un poeta

Pier Paolo Pasolini: morte, mistero e memoria di un poeta

Quanti misteri, ce ne sono molti, ma non si avverte il desiderio di svelarli. E’ un deprimente dato di fatto, che ha avuto puntuali conferme anche con l’omicidio di Pier Paolo Pasolini nel lontano 1975.
Dilagano faziosità e ipocrisia anche davanti a storie sconvolgenti come questa, uno dei delitti più controversi e misteriosi della storia italiana.

Giuseppe (Pino) Pelosi, il diciassettenne assassino, per sua stessa ammissione raccontò di un litigio con Pasolini per un rapporto sessuale andato oltre gli accordi stabiliti. Pino , detto “la rana”, un ragazzo di vita che per un piatto di spaghetti e qualche manciata di soldi passa dai marciapiedi della stazione al carcere con l’accusa d’omicidio, è soltanto un ragazzo debole e facile alla corruzione.

Lo stesso Pelosi, però, nel 2005 cambiò la versione dei fatti, sostenendo di non essere stato l’esecutore materiale dell’omicidio, bensì che lo fossero state altre tre persone dall’accento meridionale, che avrebbero inveito contro Pasolini per la sua omosessualità.

Con la morte dell’ ‘unico colpevole’ avvenuta nel 2017, è lecito domandarsi perché sia stato ucciso il poeta-scrittore e da chi, rischiando però di restare senza risposta.
In tutti questi anni è stato un susseguirsi di ipotesi, si è detto tutto e il contrario di tutto, tra indagini più volte riaperte, confessioni e omissioni, ma la fine violenta dello scrittore è stata liquidata con troppa facilità.

Lucia Visca, giornalista allora ventenne, scrive: “Io quel due novembre, tra tutti i giornalisti, ero arrivata sul luogo del delitto per prima. Quella mattina, accanto al corpo di Pasolini scambiato per un sacco di rifiuti e ai segni del massacro, c’ero anch’io, anche se all’epoca ero solo una cronista avventizia e inconsapevole”. In seguito, pubblica il suo racconto nel libro Pasolini 1922-2022, in occasione dei cento anni dalla nascita del poeta ucciso all’ Idroscalo di Ostia nel 1975.

Bernardo Bertolucci, che lo definiva un caro fratello, con toni amari e commossi affermò che avevano voluto uccidere la poesia.

Anche Walter Veltroni nel 2010 chiese la riapertura del caso, soprattutto dopo un incontro con lo stesso Pelosi, il quale gli avrebbe riferito che non era solo sul luogo del delitto e che sarebbe stato costretto ad accusarsi dopo aver subito minacce estese anche alla famiglia.

La stessa Oriana Fallaci, all’epoca dei fatti, si lanciò in una controinchiesta che smentiva e ribaltava la versione offerta dalle autorità e metteva alle strette l’unico indiziato: “Pino Pelosi, un minorenne che, pur di coprire i veri responsabili, si sarebbe maldestramente autoaccusato dell’omicidio”.

Seguirono voci anche di una spedizione punitiva partita dalle sfere alte per eliminarlo definitivamente perché investigava troppo sull’Eni.

Nel noto film-inchiesta Pasolini, un delitto italiano del 1995, viene raccontato che non si sarebbe trattato di un delitto passionale tra omosessuali, bensì dell’ultimo atto di un complotto ordito dal potere per eliminare un personaggio scomodo. Ma anche nel film la questione rimane, ovviamente, irrisolta.

Di questi giorni è la notizia di nuove indagini della Commissione Antimafia e c’è la possibilità che possa riaprirle anche la procura di Roma. In questo periodo infatti, presso la procura,  da parte dell’avvocato Maccioni, per conto di terzi, è stata presentata un’istanza di riapertura d’indagine basata sulla questione irrisolta dei tre DNA individuati dai Ris nel 2010 proprio sulla scena del delitto, ma anche sul possibile movente legato al caso Mattei e a ‘Petrolio’, l’ultimo scritto dallo stesso Pasolini  e rimasto incompiuto.

Pasolini è morto con infamia e ha vissuto soffrendo l’ignoranza e l’ipocrisia di un paese che pensava di essere diventato moderno. Una delusione terribile gli arrivò con l’espulsione, negli anni cinquanta, dal Pci di Togliatti a causa della sua omosessualità ritenuta “indegnità morale”. Non sono riusciti a ucciderne la memoria però, perché dopo cinquant’anni siamo ancora qui a parlarne.

Periscopio su Pier Paolo Pasolini e la sua tragica fine: 

Ingrid Veneroso, Pasolini, 40 anni di ombre su un delitto utile, (in Periscopio 02.11.2015)

Gianni Venturi, In memoria di Pasolini, (in Periscopio, o2.11.2015) 

Rosa Manco, Nell’anniversario della morte di Pier Paolo Pasolini (in Periscopio 02.11.2020)

Presto di mattina /
Sentire con i sensi di un fanciullo

Presto di mattina. Sentire con i sensi di un fanciullo

Quaresima: un esodo per i sensi

Et nos in lumine tuo…”
Notte fonda, notte oscura
ci fascia – nera sindone -,
se tu non accendi il tuo lume,
Signore.
(David Maria Turoldo, O sensi miei…, Rizzoli, Milano 1997,468).

«O sensi miei… tornate obbedienti». Tornate all’ascolto profondo (ob-audire), quello nascosto nelle parole, nelle cose, negli avvenimenti, nelle persone, fate uscire dall’oscurità la loro luce.

Quaresima è il tempo per far uscir fuori la luce. È detto infatti «se aprirai la tua mano al povero (Dt 15,8), se aprirai il tuo cuore all’affamato, se sazierai l’afflitto di cuore, allora brillerà fra le tenebre la tua luce, la tua tenebra sarà come il meriggio» (Is 58,10).

Anche la quaresima è cammino di popolo che procede a tentoni dentro l’oscurità del sentire, e tuttavia sono passi all’ombra della luce di colui che disse a Mosè «Ho osservato la miseria del mio popolo in Egitto e ho udito il suo grido a causa dei suoi sorveglianti; conosco infatti le sue sofferenze. Sono sceso per liberarlo dalla mano dell’Egitto e per farlo uscire da questo paese verso un paese bello e spazioso… Ora va’! Io ti mando dal faraone. Fa’ uscire dall’Egitto il mio popolo» (Es 3,7-9).

Nel dialogo al Roveto ardente cinque volte viene ripetuto il verbo ‘uscire’ detto da Dio a Mosè. È un verbo che non senza fatica e inquietudine farà partire Mosè verso la sua gente dando così inizio all’Esodo, all’uscita di Israele dall’Egitto. Cinque sono anche le domeniche dell’esodo quaresimale verso la Pasqua di Gesù e nostra. Quello stesso esodo verso Gerusalemme di cui parlò Gesù con Mosè ed Elia sul monte della Trasfigurazione (Lc 9,31).

Cinque pure i nostri sensi umani con i quali usciamo e andiamo incontro alla vita che sta oltre e al mondo di fuori, comunicandoci gli uni gli altri. Per loro tramite acconsentiamo o dissentiamo con la vita, cresciamo o diminuiamo in essa, la mortifichiamo o la vivifichiamo.

Cinque sono infine anche le ferite aperte del Crocifisso: passanti di valico attraverso cui si rivelano i suoi divini sensi, i suoi sensi umanissimi e concretissimi trasfigurati dall’amore. L’invisibile amore del sentire di Dio reso visibile per noi, trasparente nell’intreccio, nel tocco dei suoi sensi terrosi, udito, vista olfatto, tatto e gusto: «tu vedi l’affanno e il dolore, tutto tu guardi e prendi nelle tue mani. A te si abbandona il misero, dell’orfano tu sei il sostegno» (Sal 10, 14).

Se l’esistenza di Gesù è stata detta dai teologi ‘pro-esistenza’, una esistenza per gli altri, allo stesso modo potremmo dire che i suoi sensi umani sono stati sempre anche ‘divini sensi’, un sentire oltre, e un sentire con. Un ‘con-sentire’ e ‘acconsentire’ al Padre e noi:

«Neppure sapevi la nostra notte/ dei sensi. Tu non puoi/ ribellarti ad alcuno./ Hai avuto desiderio di noi… I monti non sono di pietra/ il giorno non è un ricordo di sole:/ io voglio ridonare voce e sensi/ a cose morte. Stabilire il mio regno./ Io fiorirò sulla roccia/ manto di muschio immortale.» (Turoldo, Gli occhi miei lo vedono, Mondadori, Milano 1955, 45; 55).

«Nella tua luce vediamo la luce» (Sal 35) nei tuoi sensi anche i nostri sentono, vedono, odorano, gustano e toccano il mistero stesso di Dio. Scrive Giovanni: «Quello che era da principio, quello che noi abbiamo udito, quello che abbiamo veduto con i nostri occhi, quello che contemplammo e che le nostre mani toccarono del Verbo della vita… quello che abbiamo veduto e udito, noi lo annunciamo anche a voi, perché anche voi siate in comunione con noi» (1Gv 1;3).

Sensi miei

Organi divini e divini sensi” così chiama p. Turoldo i nostri sensi interiori perché, in ultimo, l’occhio e i suoi fratelli vedono dal cuore.

O sensi miei, organi divini,
tornate obbedienti!
Dentro ancora mi suona un crollo
di colonne e legni e montagne:
il cielo e la terra in frantumi.
“Dio, o dolcissimo peso …, (ivi, 64).

Noi ti invochiamo
ma non sappiamo pregare
Io ti chiamo
ma non so pregarti
Tu stai lontano
al di là della luce
mentre ho bisogno
di toccarti e baciarti
sulle labbra in eguale
amore e sconforto
Io ti chiamo
ma tu non rispondi
Soli ci lasci
sulle sponde incantate
Vieni tu, presto, a suonare
i divini sensi.
(ivi, 70)

La via dei sensi

La “via dei sensi” ci fa migrare al di là del visibile, oltre il tangibile. Se per un verso essa ci lega strettamente alle cose che ci fanno vivere, per l’altro verso non si ferma al sentire esteriore, ma resta una strada aperta sull’infinito sentire. Nelle cose percepite dai sensi un’eco irraggiungibile risuona lontana che tuttavia risveglia un altro sentire. Il loro stesso limite li costringere a passare il testimone, o meglio a protendersi fin dentro lo spirito dove è il loro sentire sorgivo e aurorale.

I sensi terrosi non si perdono, si tendono semmai oltre il loro orizzonte dentro e fuori di loro stessi; si trascendono pure in quelli dello spirito e del cuore. Il verbo ‘tendere’ esprime bene questa ulteriorità del sentire spirituale e cordiale dell’esperienza umana e cristiana. Nello spirito e nel cuore essi ‘si distendono’, ‘si allargano’, si ‘prolungano’ oltre il loro limite, ‘aspirano’ ad altro. Un compimento infinito è la loro meta.

Allo stesso modo la quaresima distende i suoi giorni verso la Pasqua, come alla dimora del suo ultimo e pieno sentire, e pure noi «con i sensi lavati, con l’udito del cuore giorno e notte aperto alle segrete confidenze».

Non contro te, o Ragione, ma oltre / ho teso il cuore: / così
– lavati i sensi – / con volontà più calma / varcherò la Notte!

Potere un giorno
dire coi sensi che le cose
gridano a un essere più alto,
a una più alta gioia;
che esse sole
non sono sufficienti.
Dovere di sacrificare
quelle stesse cose
che sono divine,
di consumarle in noi stessi
al fine di una creazione
che è nostra
Difficile era credere
senza provare,
sono i sensi il tempio
di una incrollabile fede.
E dentro la Sua casa
non sempre l’uomo intende.
E anch’Egli ha lasciato
il seno del Padre,
e si è commosso di noi
e ci ha amati
perdutamente.
(O sensi miei, 461; 37).

C’è così una dimensione coniugale del conoscere a partire dai sensi che giunge al suo vertice in quella conoscenza che tiene perfettamente uniti: l’amore. I sensi sono per la Carità, dono agli amanti e ai mistici che sono pure amanti.

Sensi spirituali, il sentire dell’amore

Il dire di padre Turoldo sui “sensi suoi” sembra entrare in sintonia, fare eco al pensiero di san Bonaventura sui sensi spirituali. Quest’ultimo afferma che la conoscenza dei nostri sensi contiene segretamente il sentire/sapere stesso di Dio − la sua sapienza − cosicché sussisterebbe conformità, consonanza e accordo tra i sensi corporali e i cinque sensi spirituali.

Nel suo Commento alle Sentenze egli scrive: «essi sono l’esercizio interiore della grazia che s’indirizza a Dio secondo una certa proporzione ai sensi del corpo; e tali cinque sensi interiori hanno la loro radice nella struttura stessa della persona umana: nell’intelletto, i sensi della vista e dell’udito; nell’affetto, gli altri tre sensi; una siffatta radice, poi, rimanda a un particolare tipo di sapere, alla conoscenza sperimentale» (In III Sent., d.I3, dub.I; III 291-292a). Come a dire che anche per i sensi spirituali si dà esperienza concretissima.

I sensi spirituali, così come li chiameranno la spiritualità e la mistica cristiane a partire da Origene e da Agostino passando per Evagrio fino a Bonaventura, non sono né sensi in più o super sensi, ma sono i nostri sensi terrosi trasfigurati dall’umanità di Cristo: un sentire con lui, un vedere insieme a lui, percepire la storia e le persone, gli avvenimenti e le cose come lui.

Un’esperienza dello spirito segretamente presente anche in ogni relazione di amore; un’esperienza che dà la possibilità a tutti – dice il Concilio – di venire a contatto, nel modo che Dio conosce, col mistero pasquale del Cristo (Gs 22).

La quaresima, come esodo dei sensi, risveglia la coscienza al medesimo destino, quello di una fraternità, che scaturisce non solo dalle buone opere, ma dalla grazia dello Spirito, che fa risuonare attraverso tutti i sensi l’inno paolino alla carità:

«magnanima, benevola è la carità; non è invidiosa, non si vanta, non si gonfia d’orgoglio, non manca di rispetto, non cerca il proprio interesse, non si adira, non tiene conto del male ricevuto, non gode dell’ingiustizia ma si rallegra della verità. Tutto scusa, tutto crede, tutto spera, tutto sopporta. La carità non avrà mai fine». (13,4-6)

La carità fa solidali, profondissimi e sensibilissimi i sensi: «Finalmente solidali i sensi / pregano nella calma sera/ dopo un faticato giorno». Di più, essa ci fa “consorti”, consapevoli, consenzienti tra noi, ma pure con il destino del Cristo; consorti in umanità con lui nella sua morte per divenire congiunti nella sua risurrezione.

Scrive Paolo: «Per mezzo del battesimo dunque siamo stati sepolti insieme a lui nella morte… Se infatti siamo stati intimamente uniti a lui a somiglianza della sua morte, lo saremo anche a somiglianza della sua risurrezione. (Rm 6,5-7)

Così, al modo delle parole e delle cose, fessura sull’infinito sono i nostri sensi, scrigni del sentire divino, sua dimora che fanno più grande, senza confini l’umano sentire:

Anche le cose sono parole,
scrigni di sillabe divine: parole
«dimora dell’Essere», e voi
gli scribi del mistero, o poeti.
Un solo verso – perla
rara che le cose in recessi
impervi racchiude
geloso -, un solo verso,
fessura sull’infinito come
il costato aperto di Cristo -, anche
un solo verso può fare
«più grande l’universo»
(ivi, 644).

Così il nostro corpo è «spirito che si condensa all’infinito:/ nostro corpo cattedrale dell’Amore/, e i sensi/ divine tastiere», un esodo dei sensi «di forma in forma nel grande corpo dell’universo» (Canti ultimi, Garzanti, Milano 1991, 16).

Sensi di fanciullo ti chiedo

Dammi i sensi che avevo allora
e perdona l’abitudine del cuore
ai troppi avvenimenti,
perdona questi occhi ciechi …
Signore, aiutaci a guarire dai nostri possessi
(O sensi miei, 312)

Ancor più, ancor più e sempre,
o Dio, o Amato,
in ogni cosa piacerti!
Sensi di fanciullo ti chiedo,
di farmi interiore e mite,
e taciturno nella tua pace
(ivi, 287).

Per leggere gli altri articoli di Presto di mattina, la rubrica di Andrea Zerbini, clicca [Qui] 

ACCORDI
Da North Shields a Ferrara: il percorso travagliato di Sam Fender

Da North Shields a Ferrara: il percorso travagliato di Sam Fender

I genitori si separano quando Sam Fender ha otto anni: la madre si trasferisce in Scozia, il padre e la sua nuova compagna si prendono cura di lui. Qualche anno più tardi, però, viene allontanato da quella casa per volontà della matrigna e trasloca dalla madre, che nel frattempo è tornata in Inghilterra, a North Shields. Sta di fatto che quest’ultima si ammala di fibromialgia e non riesce più a svolgere il suo lavoro di infermiera. Così, il diciassettenne Sam Fender, che già suona la chitarra e scrive pezzi propri, inizia a svolgere un paio di lavori con cui mette da parte un po’ di soldi per se stesso e per la madre.

Basterebbero queste righe per riassumere le liriche autobiografiche, e spesso tormentate, di Sam Fender. La pressione sociale, l’incertezza e la necessità di trovare il proprio posto nel mondo sono i temi ricorrenti del suo secondo album, Seventeen Going Under, trainato dall’entusiasmante title track e da un’atmosfera in chiaroscuro.

La seconda traccia, ad esempio, è una di quelle cavalcate springsteeniane degli anni ’80 in cui la E Street Band tira dritto fino alla fine, senza variazioni sul tema o improvvisi cambi di direzione. Un pezzo pop-rock che sembra scritto su misura per le voci di Ryan Adams e Brandon Flowers, in cui spicca l’affascinante contrasto tra la leggerezza della melodia e l’inquietudine del testo.

Dentro Getting Started ci sono la freschezza, la rabbia e la voglia di rivalsa dei vent’anni, nonché un sound schietto e trascinante. Insomma, la musica di Sam Fender va dritta al cuore dell’ascoltatore, e sarà un piacere ascoltarla qui a Ferrara, poiché a metà maggio il cantautore inglese farà da spalla all’artista che più di ogni altro l’ha ispirato – sì, è quel concerto lì, quello di cui si parla da circa un anno.

Diario in pubblico /
Intimo, iper-intimo, intimità

Diario in pubblico: Intimo, iper-intimo, intimità

Nell’incredibile (per noi umani) mondo della pubblicità, un anziano signore molto distinto esce da un paravento in mutande e con aria sicura e convinta asserisce, elogiandole, quelle mutande che impediscono il flusso e ti lasciano secco e pulito.

L’uso smodato della vendita dell’intimo quasi sempre da uomo, ma anche di reggiseni e slip femminili, intensissimo in periodo natalizio sembra confermare l’assoluto rilievo che ha l’intimità. La quale metaforicamente si lega al personaggio che ormai viene chiamato col nome di battesimo invece del più corretto cognome che ai miei tempi era imprescindibile dal ruolo svolto.

V’immaginate se avessimo chiamato Palmiro, Alcide, Giulio e via enumerando al posto di Elly o Giorgia? Cominciò se ben ricordo Craxi divenuto Bettino internazionale. Veniva in questo modo superata la condizione dettata dal sistema accademico che distingueva l’amicizia dal ruolo. Per anni ho collaborato a Firenze con Roberto Benigni nell’insegnamento di Dante, ma sempre nei rapporti si parlava di e con Benigni. Tutti i colleghi poi si interpellavano con il cognome.

L’esplosiva novità si è poi confusamente e ipocritamente rafforzato con i ‘Matteo’. E giù Salvini, Renzi ormai per sempre e purtroppo Matteo. E mi scuso se ci sono pure Matteo Piantedosi o perfino -orrore! – Matteo Messina Denaro per fortuna citato col cognome.

Una delle più complesse situazioni è quella del naso della Schlein. Il naso che nelle più antiche tradizioni sulla caratteristica degli ebrei ha condiviso sin dall’inizio il far parte di quella ‘razza’.

Si è scritto che: “Saturno era poi un’entità notturna e vicina al regno dei morti, quindi riconducibile agli animali da preda. Nelle rappresentazioni il pianeta era spesso raffigurato attraverso rapaci antropomorfizzati e dai becchi adunchi, il più delle volte posizionati di profilo: rappresentare di profilo era infatti un metodo usato per stigmatizzare figure diaboliche, oltre a permettere di enfatizzare spiacevoli caratteristiche facciali. Fu così che il naso pronunciato incominciò ad essere associato con gli ebrei e divenne un tratto distintivo della fisiognomica ebraica nell’immaginario comune e nel sapere popolare.>>

Da qui la credenza, sfruttata in modo mostruoso dalla propaganda nazista, che il naso ricurvo e a becco definisca nella colpa la storia del popolo ebreo. La precisazione della Schlein parte da questi dati, precisando che il naso che dovrebbe definire gli ebrei si trasmette per via matrilineare mentre il suo naso “senza dubbio una parte importante, è tipicamente etrusco”.

In più, prosegue, “la convinzione che provenga da una ricca famiglia ebraica fa parte delle solite fake news”. Lei, asserisce, proviene da una famiglia borghese, lavoratrice. “Mio nonno si è spaccato la schiena per dare un futuro migliore ai suoi figli ma è morto presto.” Fa pensare che questo nuovo corso interpretativo della condizione ebraica sia così ribadito con naturalezza e serietà.

Tra un’intimità e l’altra si arriva dunque a nuove proposte interpretative che rendono sempre più complessa la svolta del reale affidata così spesso ai social e al pensiero globale, mentre chi scrive, in parte coinvolto dalla pubblicità, canticchia chiudendo questa riflessione:

E arriva Jean (pensando a  Gianni) col papillon

Bello e giovane.  Ma questa è ovviamente la più incredibile tra le fake news.

Per leggere tutti gli altri interventi di Gianni Venturi nella sua rubrica Diario in pubblico clicca [Qui] 

Critica del capitalismo nel millennio in corso

Critica del capitalismo nel millennio in corso

Su gentile concessione dell’editore pubblichiamo parte dell’Introduzione di Toni Casano e Antonio Minaldi, curatori del volume “Sfruttamento e dominio nel capitalismo del XXI secolo” (Autori vari, Multimage, Firenze, 2023, pp. 300, € 14).
Il libro raccoglie gli scritti di studiosi e militanti politici che sono stati impegnati in un ciclo di dibattiti sulle caratteristiche del capitalismo del XXI secolo. Il tema è approfondito in cinque grandi problematiche che costituiscono altrettanti capitoli: “Antropocene e capitalocene” – “Il capitalismo della sorveglianza” – “Il capitalismo della produzione immateriale”- “Dominio e ricatto del capitalismo finanziario” – “Imperi, guerra e destini del mondo”.
Un lavoro ampio e complesso che parte dalla consapevolezza che negli ultimi quarant’anni, nell’era del neo liberismo imperante, i modi e le forme del dominio e dello sfruttamento capitalistico sono profondamente mutati, avendo ormai travalicato le mura della fabbrica fordista per insinuarsi in ogni ambito della vita e in ogni angolo del mondo. 


Sfruttamento e dominio nel capitalismo del XXI secolo

di Toni Casano e Antonio Minaldi
Pressenza: R

Quando abbiamo programmato la serie di seminari sul “capitalismo nel terzo millennio” avevamo ben chiaro che il modello di produzione capitalistica avesse cambiato pelle e che il processo di trasformazione delle merci non potesse essere più definito secondo i parametri conosciuti nel sistema della fabbrica regolato dal “patto fordista”. Anche in Italia, con le grandi ristrutturazioni romitiane, enormi contingenti di forza-lavoro vennero esodati per far posto all’immissione di dosi massicce di automazioni del ciclo di produzione. Oltre agli incrementi considerevoli di produttività, il comando dell’impresa aveva ri-stabilizzato il regime distributivo della ricchezza riportandolo in equilibrio, secondo i canoni fattoriali della economia politica, rompendo così la conflittualità dell’autonomia operaia che avevo posto in essere una rigida indipendenza salariale.

Si imponeva, quindi, un processo di ristrutturazione-ristabilizzazione che sanciva la subalternità dei corpi del lavoro e il ripristino del comando dell’impresa. Ma non solo. Dopo l’ascesa retributiva negli anni tayloristici questo processo imperituro rappresentava il crinale da cui iniziava il versante di caduca del lavoro tangibile e del suo valore. Infatti, da lì in avanti, la dinamica salariale – come variabile indipendente della distribuzione capitalistica – comincia a perdere l’incidenza che veniva direttamente impressa nel sinallagma contrattuale dal movimento di lotta operaia. In luogo dell’affermazione di rapporti negoziali basati sulla crescita distributiva, generata dalla conflittualità della composizione lavoro-vivo, prendeva invece posto il “sistema concertativo” di una rappresentanza sindacale (sempre più appendice tecnica organica dell’impresa, basti pensare agli accordi negoziale sui fondi pensioni), nel quale i termini economici dei rinnovi contrattuali vengono predeterminati esclusivamente sulla base di un originale calcolo di mantenimento dei livelli del potere d’acquisto: dapprima, dal 93, calcolati sulla cosiddetta “inflazione programmata” governativa e, adesso, sulla base dell’indice-IPCA, adottato a seguito del “Patto della Fabbrica” siglato dalle “parti sociali” nel 2018, con il quale si fissano i rinnovi contrattuali al netto dei rincari dei costi energetici.
Pertanto, de facto, possiamo dire che, chiusa la stagione degli automatismi contrattuali (disdetta della scala mobile) posti a salvaguardia dei salari contro l’inflazione, non vi sono più state vere relazioni sindacali, in cui fosse espressa nettamente una volontà negoziale in difesa degli interessi del lavoro subalterno, nemmeno in ragione di un recupero effettivo delle perdite salariali rispetto all’aumento del caro-vita.

Sulla “indicizzazione ponderata” al ribasso applicata ai rinnovi contrattuali, con la compiacente moderazione sindacale, va fatta risalire l’origine del percorso di depauperamento generale delle retribuzioni nel nostro paese, percorso d’impoverimenti al quale bisogna aggiungere quella sottrazione salariale indiretta, consumata a danno dei lavoratori, per effetto della dilazione estenuante dei tempi padronali nei rapporti relazionali, giacché alla mancata osservanza delle scadenze dei rinnovi non è previsto alcuna compensazione retroattiva né alcun minimo indennizzo, poiché i termini sono riconosciuti come ordinatori tra le parti rappresentative, rendendo caduca la perentorietà dell’adempimento alla scadenza dell’obbligazione.

È perlomeno da un buon trentennio che si assiste a questo processo di desalarizzazione e decontrattualizzazione del lavoro che, in uno con il restringimento degli spazi negoziali, entro cui trovare il punto di equilibrio delle compatibilità distributive della redditività economica dei fattori produttivi, ha generato parimenti quella precarietà diffusa socialmente insostenibile strutturando permanentemente la crisi del sistema capitalistico.

Quel che sopra abbiamo argomentato, sostanzialmente è la risultante della deregulation postfordista del rapporto di lavoro, ossia del processo di depotenziamento giuridico della contrattazione collettiva, la cui sfera giuridica generale, come abbiamo visto sempre più derogabile, si contrae per estendere la sfera normativa dei contratti integrativi aziendali e territoriale, spostando così gli effetti salariali prevalentemente dal piano verticale categoriale a quello orizzontale aziendalistico, adottando parametri retributivi premiali legati all’andamento congiunturale della singola azienda e, soprattutto, legati ai risultati individualizzati piuttosto che collettivi. Questo era l’obiettivo politico dichiarato della deregulation neoliberista, perseguito sin dai tempi di Reagan e della Thachter. Ovvero: la spaccatura trasversale sul piano sociale generale del reticolo di solidarietà della classe operaia. Questo passaggio era la condicio sine qua non del sistema neoliberista per imporre il nuovo corso della desalarizzazione del lavoro. Di converso, la forbice del benessere si è divaricata a dismisura, facendo sì che la concentrazione della ricchezza si addensasse in sempre meno mani con una competizione individualistica sempre più selvaggia e ristretta nel “gioco dell’ascensore” della mobilità sociale.

In altre parole, rompere questo accerchiamento ideologico corruttivo iniziato con la supply side economics, di cui in nome della competizione postmodernista sono stati intrisi anche gli apparati sindacali verticalizzati, oggi è una condizione necessaria se si pensa ancora di poter sottrarre la chiave dello sviluppo al capitale e riprendere il discorso sull’uguaglianza, immaginando una nuova stagione di lotte che solo un diverso sindacalismo sociale potrà riunificare oltre l’ideologia lavorista: «In un capitalismo che ha distrutto la forza politica della classe operaia – faceva osservare Christian Marazzi qualche anno addietro su il Manifesto (19 settembre 2014) – i movimenti sociali, a causa anche di una crisi ormai permanente, hanno caratteristiche spurie. Dobbiamo quindi immaginare una lotta di classe che si faccia carico della sofferenza alimentata dalla crescita delle diseguaglianze».

Insomma, per sintetizzare rispetto all’economia della nostra curatela del presente lavoro, rispetto all’aurea resistenza dell’operaio massa, con le lotte sviluppatesi nel corso dell’epopea fordista della produzione industriale, abbiamo voluto approfondire il complesso dei temi emersi dalla crisi di quella composizione di classe e su come si fosse ridefinito il conflitto sociale, unitamente alla omologazione di un movimento operaio trasfigurato dalla sua rappresentanza tradizionale, sia politica che sindacale (eccezion fatta per le poche isole resistenziali – come oggi è da considerare l’ammirevole esperienza degli operai della GKN – che ancora tentano di ripensare ad altre forme di soggettivazione di autonomia di classe oltre la centralità operaia). Quello che traspare dalla direzione intrapresa negli anni settanta colla autonomia del politico, assunta dal movimento operaio storico come orizzonte prospettico statalista, ci porta di filato all’accettazione del “pensiero unico” incarnato dal nuovo spirito capitalistico. Cosicché la missione dell’operaio-massa di compiere quel salto storico-politico (cioè quello di portare il lavoro-vivo dalla catena di montaggio all’autovalorizzazione sociale) è rimasto politicamente irrisolto. Non è tanto la questione concreta della separatezza del capitale-fisso dalla produzione su cui vogliamo intervenire, poiché questa -potremmo dire – è stata già anticipata e risolta nei fatti dalla cooperazione sociale. Quel che rimasto fin qui sospeso è un passaggio fondamentale, quello di riuscire a dare forma politica alla soggettivazione del lavoro-vivo, dentro un processo costituente capace di mettere in comune ciò che sul piano della concrezione storica non ha più ragion d’essere separato.
In sostanza l’unificazione di tutto il lavoro umano è un questione politica che va definita in una processualità di liberazione dalla sussunzione capitalistica, mediante la riappropriazione del sapere comune frutto della messa a setaccio del marxiano general intellect. Questa concrezione, nel corso di quel ciclo conflittuale animato dall’operaio-massa socializzato, sembrava una delle determinazione offerte dal campo delle possibilità, per fuoriuscire dalla crisi del sistema tangibile della produzione fordista.

Mai come prima d’allora s’intravedevano le opportunità di un inveramento comunistico senza più transizioni socialistezzanti: quella soggettivazione incarnatasi a partire dal movimento sessantottino – dalle proteste contro la guerra alla liberazione dal colonialismo, dalle lotte operaie alla contestazione generazionale fino alle battaglie femministe – era riuscita a mettere in comune il necessario immaginario sociale e culturale, sperimentando e agendo i luoghi stessi della comunitarietà costituenda come “utopia concreta negativa”, o meglio come distopia vissuta capace di scuotere le fondamenta della società patriarcale in tutte le sue istituzioni costituite, dal pubblico al privato.

Con il sessantotto si chiude non solo il 900, ma entra in crisi l’età moderna che con la macchina a vapore aveva sancito l’affermazione della produzione capitalistica con la separazione del lavoro manuale da quello intellettuale che aveva introdotto la mistificazione dell’operaio-venditore della propria merce-lavoro. Con la rivoluzione sociale sessantottina si compie un salto ontologico fondamentale, ovvero il passaggio dal soggetto al linguaggio, cioè lo svelamento dell’individualismo alla moltitudine relazionale come vero archetipo dell’umano. Tuttavia la chiave disvelata da questo grandioso movimento – che tra gli anni sessanta e settanta ha fatto scuotere le istituzioni ereditate dalla modernità – è stata sottratta da una nuova essenza del capitale. Luc Boltanski ed Ève Chiapello avevano anticipato questa sottrazione che avrebbe portato all’edificazione del nuovo spirito del capitalismo descritto nel volume dell’omonimo titolo, editato in Francia nell’ultimo anno del secolo scorso e pubblicato in Italia soltanto nel 2014 da Mimesis, dopo varie vicissitudini editoriali su cui ci riferiva Benedetto Vecchi in una sua recensione di otto anni fa. Il merito degli autori de Il nuovo spirito del capitalismo – osservava Vecchi – è quello «di aver messo a tema la necessità per le scienze sociali di indagare come il capitalismo stava cambiando, all’interno di una dinamica che alterna «dialetticamente» discontinuità a continuità con il suo passato». Infatti il lavoro dei nostri ricercatori dimostra come «la critica all’alienazione e alla parcellizzazione del lavoro è stata piegata all’innovazione della organizzazione produttiva».

Pertanto il cosiddetto “management del fattore umano” va considerato come « un dispositivo teso a riprendere il controllo di un lavoro vivo ribelle all’ordine costituito nell’impresa». Aggiungeva il buon Vecchi che questa è una condizione costante per il «superamento di una crisi o quando vanno ripristinati i rapporti di forza nella società dopo un periodo di aspro e radicale conflitto sociale e di classe».

Cosicché, se si rimuovesse il conflitto sociale, quale elemento politico indispensabile dell’analisi, si farebbe apparire il germogliare del nuovo spirito del capitalismo come un «fluire neutro delle dinamiche sociali e culturali». In definitiva possiamo dire che in qualche modo anche noi ravvisiamo la necessità di approfondire l’analisi non solo su come il capitalismo sia cambiato, ma contribuendo allo sviluppo della ricerca militante sui possibili processi di soggettivazione, non tralasciando l’uso degli strumenti analitici offerti dalla cornice dei saperi critici, non a caso questo volume raccoglie e fa incrociare diversi contributi degli autori che afferiscono il campo delle discipline sociali, senza tralasciare altre opportune contaminazione scientifiche che mettano a fuoco innanzitutto le questione ecologiste ed epidemiologiche.

Il libro può essere ordinato anche via online dal sito di Multimage edizioni

Cover: particolare della copertina del libro

Pazienza & Resistenza: primo incontro con l’autore:
“Poco Mossi gli altri mari” alla libreria La Pazienza, sabato 11 marzo alle 17,30

Pazienza & Resistenza: primo incontro con l’autore.
“Poco Mossi gli altri mari” alla libreria La Pazienza

La rassegna che abbiamo intitolato Pazienza & Resistenza [vedi su Periscopio il programma completo] è al nastro di partenza. Il primo incontro con l’autore è in programma a Ferrara, Sabato 11 marzo alle ore 17,30  presso La Pazienza Arti e Libri (via Romei 38).
A presentare il suo libro e a dialogare con l’autore Alessandro Della Santunione del suo libro appena uscito Poco Mossi gli altri mari, sa Marco Belli, ferrarese, anche lui autore di alcuni romanzi a sfondo noir.

“Nel tempo avevo imparato a respirare in modo vegetale, come una pianta, e anche in modo minerale, come un sasso o una pietra, come il lastrico di una strada su cui la vita stesse passando a un ritmo che non era più il mio”.

Nella pianura emiliana, c’è una famiglia che decide di restare unita. Dividono e ridividono le stanze, arredano soffitte, per farci stare cognati, nonni, fidanzate, amanti, prozie. Anche bisavoli e trisavoli, perché nel loro appartamento comunista non muore più nessuno.
In cucina risuonano dialetti antichi e volgarità moderne, quando preparano lasagne per una tavolata infinita.
Il loro è un tempo a fisarmonica: qualcuno smette di invecchiare mentre altri invecchiano tantissimo, un viaggio può durare mesi per chi parte e minuti per chi resta.
Quando improvvisamente muore Dio, in casa lamenti e bestemmie si levano altissimi. Nessuno ha più voglia di mangiare e allora si prendono un maiale, come animale da compagnia. Un parco pieno di bisbigli, dove i bambini crescono selvatici, li circonda e intorno, come in un vortice, tutto sparisce.
Una distopia emiliana della nostalgia.
Alessandro Della Santunione
Da bambino, dopo una gita a Recanati, dichiara che farà il poeta, forse lo scrittore. Si fa regalare una penna stilografica ma il tempo passa e lui fa tutt’altro, legge molto. Abbandona lettere per studi economici ed entra nel mondo del turismo: una disgrazia. Gira il mondo e fa girare l’economia, è tutto un giramento: grande insoddisfazione. Finalmente un giorno si mette a scrivere, scrive un romanzo.
In sogno Leopardi gli dice: “Io te l’avevo detto!”
 Questo non trova corrispondenza con dei numeri da giocare al lotto, fa niente.
Il Libro:  Alessandro Della Santunione, Poco Mossi gli altri mari, Marcos y Marcos editore, 2023, € 17,00

Storie in pellicola /
Monuments Men, alla ricerca dell’arte perduta

Monuments Men, alla ricerca dell’arte perduta:
l’arte è la nostra storia, e va sempre protetta.

Roma, una domenica di fine febbraio, Scuderie del Quirinale, Arte liberata 1937-1947. Capolavori salvati dalla guerra. Un’interessante mostra – di cui vi parleremo – fa luce su una pagina inquietante della Seconda Guerra Mondiale e di cui spesso non si parla, salvo non essersene nemmeno a completa conoscenza: i capolavori dell’arte salvati dalla guerra e la follia nazista di razziare le più importanti opere d’arte dei Paesi occupati per costruire il mastodontico Museo del Fuhrer a Linz dove conservarle, salvo distruggerle in caso di sconfitta del Reich. Ordine funesto e inimmaginabile, parte del “Decreto Nerone”.

Questo punto della mostra, nell’ultima sala dedicata alle restituzioni, mi incuriosisce particolarmente, insieme ai documenti storici tratti dagli archivi dell’Istituto Luce. Su uno schermo scorrono le immagini di un film moderno: Monuments Men, regia di George Clooney (e un grande cast), la storia di uomini disposti a morire per salvare le opere d’arte minacciate dalla follia distruttrice di un delirante dittatore. Perché morire per l’arte si può, e qualcuno lo ha fatto, un’arte che non è patrimonio di una singola nazione ma della storia dell’umanità. Un’esaltazione pura del suo inestimabile valore come elemento che va oltre le generazioni e alimenta la stessa esistenza di ognuno di noi.

Diretto da George Clooney e sceneggiato dallo stesso attore/regista con Grant Heslov, il film si basa sull’omonimo libro di Robert M. Edsel e Bret Witter e si ispira alla storia vera di sette uomini coraggiosi, improbabili soldati – direttori di musei, artisti, architetti, curatori e storici dell’arte – che presero parte, durante la Seconda Guerra Mondiale, a una pericolosa e audace missione per salvare i capolavori artistici mondiali, sottraendoli ai nazisti, ma anche ai bombardamenti degli Alleati (a muovere le loro azioni fu, infatti, la quasi distruzione dell’‘Ultima Cena’ di Leonardo da Vinci durante un bombardamento alleato nell’agosto del 1943, per non dimenticare Montecassino) e restituendoli ai legittimi proprietari. A rischio della loro stessa vita e impegnandosi al fronte, i sette si ritrovarono impegnati in una corsa contro il tempo per evitare che un immenso patrimonio artistico andasse distrutto per sempre.

Per salvare i tesori culturali di Caen, Maastricht, Aquisgrana e recuperare i capolavori custoditi nei depositi nazisti di Siegen, Heilbronn, Colonia, Merkers e Altaussee. Riuscirono a sottrarre da distruzione o saccheggio migliaia di opere, fra le quali capolavori di Leonardo, Donatello, Vermeer, Rembrandt e van Eyck che i nazisti avevano nascosto in luoghi impensabili come miniere di sale, a centinaia di metri sottoterra o castelli inaccessibili sulle Alpi, come quello di Neuschwanstein, in Germania.

È il Presidente Franklin Delano Roosevelt in persona a mettere insieme questo corpo speciale di esperti guidato, nel film, da Frank Stokes (George Clooney), storico dell’arte e restauratore presso il Fogg Museum, ispirato allo storico dell’arte George Stout, e composto da James Granger (Matt Damon), ispirato alla vera vita di James Rorimer, colui che in seguito divenne il direttore del Metropolitan Museum of Art di New York, dall’architetto Richard Campbell (Bill Murray), ispirato al vero architetto Rober Posey, che unendosi ai Monuments Men scoprì il magazzino allestito nella miniera di Altausee, dove i nazisti avevano nascosto, tra le altre, opere come il Polittico di Gand, di Jan van Eyck la Madonna di Bruges di Michelangelo e l’Astronomo di Vermeer.

 

Nel team ci sono poi Walter Garfield (John Goodman), che ricorda il rinomato scultore Walker Hancock, Jean Claude Clermont (Jean Dujardin), mercante d’arte ebreo francese di Marsiglia, rifugiatosi a Londra con la sua famiglia e reclutato dai Monuments Men per le sue conoscenze artistiche, Donald Jeffries (Hugh Bonneville), un uomo in cerca di una seconda possibilità offertagli dall’arte, ovvero il suo primo amore, il dandy Preston Savitz (Bob Balaban), ispirato al vero Lincoln Kirstein, un impresario americano di New York, esperto conoscitore d’arte e co-fondatore del New York City Ballet e Sam Epstein (Dimitri Leonidas), che, non ancora diciannovenne, è l’unico vero soldato del gruppo, reclutato per le sue capacità di guidare e di parlare tedesco, personaggio ispirato da Harry Ettlinger, nato in Germania ma di fede ebraica ed emigrato in America con la famiglia.

 

Last but not least, Claire Simone (Cate Blanchett), con la quale Granger ha un particolare rapporto, la chiave per raggiungere migliaia di pezzi d’arte depredati dai nazisti e che si ispira alla figura di Rose Valland, una dipendente della galleria Jeu de Paume di Parigi, trasformata in deposito per opere saccheggiate.

Gli oltre 146 set realizzati rappresentano location che si trovano in Germania, Stati Uniti, Francia, Gran Bretagna, Belgio, Austria e Italia, e includono specifiche chiese, cattedrali, musei, castelli, miniere, ospedali, aeroporti, basi militari, uffici e abitazioni. Diverse sono poi le opere d’arte riprodotte appositamente per il film. 6.577 dipinti, 230 acquerelli e tratteggi, 137 sculture, 122 arazzi e circa 1700 libri furono rari salvati dai Monuments Men.

Un film che la critica non fa sempre apprezzato (per raccontare solo una parte della storia e per qualche scena rocambolesca che ricorda Indiana Jones) ma che è un vero inno all’importanza di salvare parte come parte della storia di tutti, perché se si cancella la memoria di un popolo lo si distrugge per sempre. È come se non fosse mai esistito.

E che ci riporta alla mente le terribili immagini del Museo archeologico di Bagdad saccheggiato senza che nessuno facesse nulla per impedirlo. La storia, per certi tratti, si ripeteva. Perché?

 

Monuments Men, di George Clooney, con Matt Damon, George Clooney, Cate Blanchett, John Goodman, Bill Murray, Jean Dujardin, Lee Asquith-Coe, Hugh Bonneville, Bob Balaban, Diarmaid Murtagh, Sam Hazeldine, Dimitri Leonidas, USA, 2014, 118 min

Per un’analisi interessante di Focus sui Monuments men

Robert Edsel

Ha scoperto l’esistenza dei Monuments Men durante un soggiorno a Firenze, alla fine degli anni Novanta. Da allora si è dedicato interamente ad approfondire la conoscenza della loro vicenda, ottenendo testimonianze straordinarie. Ha creato la Monuments Men Foundation for the Preservation of the Art, che è stata insignita nel 2007 della National Humanities Medal, ed è stato coproduttore di The Rape of Europa, premiato documentario sui saccheggi di opere d’arte dei nazisti. È inoltre autore di Rescuing Da Vinci, un libro fotografico sull’attività dei Monuments Men. Vive a Dallas, nel Texas.

“Le statue – nella presenza fisica e nelle storie che occupano – rivendicano spazi e tempi, servono come capsule del tempo, ossessionate dal passato …
A chi strilla che “il passato non si cancella” … bisogna ribattere che un nome, un monumento o una statua, se stanno in strada non sono il passato, bensì il presente. E se ci restano, sono pure il futuro.”
Franco Ferioli, ieri su Periscopio

Lavandaie nude, spigolatrici sexy, cimiteri delle statue e nuova era delle rovine

Lavandaie nude, spigolatrici sexy, cimiteri delle statue e nuova era delle rovine.

Noi occidentali sembriamo avere una fissazione particolare con le statue, poiché cerchiamo di pietrificare il discorso storico, issarlo in alto e insistere su di esso come un’affermazione permanente di fatti, culture, verità e tradizioni che non possono mai più essere toccate, messe in discussione, rifuse o rimosse.

Questa ossessione per le statue confonde l’adulazione con la storia, la storia con il patrimonio e il patrimonio con la memoria. Tenta di staccare il passato dal presente, il presente dalla moralità e la moralità dalle responsabilità del passato.

In breve, tenta di fissare la nostra comprensione di ciò che è accaduto nella pietra, al di là dell’interpretazione, dell’indagine o della critica.

Ma la storia non è solo epigrafia da scolpire nella pietra o nel marmo. È una disciplina viva, soggetta a scavo, evoluzione e maturazione.
Mentre il nostro senso di chi siamo cambia con il tempo, le statue no. Rimangono in piedi, indifferenti al gioco degli eventi, impermeabili alle maree del pensiero che potrebbero travolgerle e ai venti di cambiamento che turbinano intorno a loro, o almeno lo fanno finché non decidiamo di eliminarle, di sostituirle o di innalzarne di nuove.

Uno dei più grandi equivoci di fondo quando si tratta di rimuovere le statue è l’argomento che rimuovere una statua è cancellare la storia. Le statue non sono la storia: sono la rappresentazione selettiva di alcuni personaggi storici. Sono state istituite per celebrare e tramandare l’operato e il contributo storico di una persona, ma non sono esse stesse storia.

I moti di iconoclastia che, ovunque sulla Terra, stanno colpendo le statue rappresentano una battaglia sulla memoria che mira a spazzolare il passato contropelo, ripensandolo dal punto di vista del governato, del sottomesso, dello sfruttato e del vinto, non sempre e solo attraverso gli occhi del vincitore.

Non vogliono cancellare il passato, si battono per leggerlo anche con lo sguardo degli altri, attraverso la visione degli esclusi, o anche solo per controbilanciare lo sproposito di una narrazione in gran parte maschile e maschilista.

Dopo il caso della “Spigolatrice di Sapri”, una polemica scaturita dall’inaugurazione di un’opera pubblica dello scultore Emanuele Stifano avvenuta nella cittadina campana alla presenza dell’ex premier Giuseppe Conte nel settembre 2021 – avvolta da una leggerissima veste che ne risalta le forme e che avrebbe in tal modo confermato la tendenza sessista del corpo femminile– il censimento dell’Associazione di professionisti dei beni culturali Mi Riconosci ha contato in appena centoquarantotto il numero complessivo di statue e monumenti “al femminile” presenti in Italia.
Nonostante qualche giorno prima, nella centralissima piazzetta omonima, fosse stata inaugurata l’unica statua femminile milanese dedicata alla nobildonna, patriota, giornalista e scrittrice Cristina Trivulzio di Belgioioso, il caso della cosiddetta ‘sexy spigolatrice’ ha immediatamente riportato alla memoria la storia e le caratteristiche  di un’altra statua controversa, quella de La Lavandaia di Via della Grada, realizzata da Saura Sermenghi nell’ambito delle manifestazioni di Bologna Città Europea della Cultura 2000.
In tale contesto, l’Associazione Donne d’Arte (ADDA) ponendosi come obiettivo la realizzazione di quattro interventi artistici presentati con il nome: “Opera-zione Poli-metra: La città è donna” il cui presupposto era la realizzazione di “opere d’arte come mediazione fra l’aggressività e l’incontro” mai avrebbe pensato di ottenere il risultato contrario.

Nel corso dei secoli la Via della Grada, prima che il corso del canale di Reno che entrava nel centro di Bologna venisse tombato, ha visto stiparsi mulini, opifici, osterie, lavanderie, bagni pubblici e qui si è sempre assistito ad un affollamento di tutti coloro che avevano a che fare, per necessità o per piacere, con l’acqua: operai, artigiani, barcaioli, facchini, nuotatori e lavandaie.

L’autrice ha più volte sottolineato che realizzare questa scultura le ha permesso di misurarsi con un tema affascinante come quello dell’acqua attraverso l’immagine di una lavandaia che, china nella sua nudità, lava i panni e si lava dentro ad una bacinella, senza tuttavia essere in grado di prevedere la provocazione insita nella raffigurazione di tale atto né tantomeno le polemiche apparse negli articoli di giornale, le reazioni inneggianti alla censura, la raccolta di firme per chiederne la rimozione.

Sia la descrizione che la portata di quest’opera è magistralmente colta nel Mistero Buffo di Dario Fo e Franca Rame: “….Ora, si sa benissimo in quale posizione si mettano le lavandaie…Oddio, lo sanno le persone che le hanno viste, le lavandaie. Oggi ci sono le lavatrici, così una delle cose più belle della natura non si vede più. Alludo a quelle rotondità oscillanti in moto che le lavandaie offrivano ai passanti. Ecco perché il giullare, carogna, dice: “quando ti vidi nella posizione del lavare…quando avevi addosso il saio, di te m’innamorai”. S’innamorò, come dice Brecht, “di quello che il padreterno creò con grazia maestosa, …” (Mistero buffo, Dario Fo a cura di Franca Rame, Einaudi Stile Libero, Torino, 1997).

Ben lungi dall’essere un fenomeno nazionale, anche nel resto del mondo le sculture di donne che vengono riconosciute per aver contribuito a forgiare la storia moderna si contano sulle dita di una mano, ed è in questo senso che le proteste mosse dai movimenti internazionali Black Lives Matter e i conseguenti abbattimenti devono essere considerati mobilitazioni antimaschiliste, oltre che antirazziste.

Walter Benjamin sosteneva il concetto che la storia del progresso è valutata e vista da una prospettiva distorta, in quanto definita dalla narrazione fatta dai vincitori e che, di conseguenza, Quando lo facciamo, cambiamo la nostra intera visione della storia dal nostro punto di vista. In tal modo, ci stiamo impegnando in uno strano tipo di viaggio nel tempo, in cui il tempo stesso si ferma, il passato balza in avanti nel presente e viene redento.
Valutato sotto quest’ottica, eliminare i simboli di un monumento allo scopo di ridefinirli o di riappropriarsene, può essere considerata una delle massime forme di libertà raggiungibili dal diritto alla trascrizione della memoria pubblica e sociale.

Gruppi spontanei, organizzazioni di base, musei, artisti, ricercatori e autorità hanno portato avanti il dibattito in modi creativi e con toni spesso polemici. Commissioni in città e paesi di tutto il mondo stanno cercando di riequilibrare le narrazioni selettive che vengono raccontate sul passato e a farsi strada è una domanda: cosa fare con le statue abbattute o da rimuovere? Vanno ricollocate in altro luogo o nascoste? Dovrebbero essere esposte nei musei -e se sì, come?
E da cosa dovrebbero essere sostituite?
Dovremmo lasciare vuoti i piedistalli, creare spazi per installazioni mutevoli e performance dal vivo o commissionare nuove statue di figure che tutti possano celebrare?

Statue_Of_Edward_Colston in Bristol (wikipedia)

A dare una risposta a queste domande è stato Banksy nel giugno 2020, subito dopo l’abbattimento e il lancio nelle acque del porto di Bristol della statua in bronzo alta cinque metri e mezzo del mercante e commerciante di schiavi Edward Colston che si trovava in Colston Avenue dal 1895: “Cosa ci facciamo con un piedistallo vuoto nel centro di Bristol?” si è chiesto lo street artist sul proprio profilo Instagram per poi lanciare la sua idea per riciclare la statua in una nuova installazione commemorativa:
«Ecco un’idea che si rivolge sia a chi sente la mancanza della statua di Colston sia a chi non la sente. Tiriamola fuori dall’acqua, rimettiamola sul piedistallo, leghiamole una corda al collo che facciamo tirare dalla replica in bronzo a grandezza naturale dei manifestanti che l’hanno tirata giù quel giorno. Così saranno tutti contenti».

Indubbiamente Banksy ha colto nel segno, perché se l’erezione di una statua è un fatto storico, non lo è da meno la sua rimozione. E rimuoverla può aumentare la conoscenza della storia: molte più persone, e in particolare coloro che pretendono che si insegni di più sul colonialismo e sulla schiavitù nelle scuole, potrebbero meglio imparare a conoscere Edward Colston in seguito all’abbattimento della sua statua che non a causa del suo innalzamento.

The statue was erected on a plinth once occupied by a statue of slave trader Edward Colston. (Credit: Marc Quinn studio)

Forse è a conferma e a garanzia di tutto ciò che con il consenso unanime è stata trovata una soluzione definitiva e collocata una nuova statua in cima al piedistallo vacante di Bristol: è una copia a grandezza naturale, un calco 3D realizzato dall’artista Marc Quinn che riproduce e imita la figura, il volto e il gesto di una giovane donna. La statua è stata chiamata A Surge of Power e ritrae Jen Reid, prima cittadina e manifestante inglese nera a salire sul basamento vuoto subito dopo l’abbattimento di Colston alzando il pugno in segno di vittoria contro la coscienza antirazzista e antimaschilista della nostra civiltà europea.

Quanto ai piedistalli e ai basamenti vuoti, che invitano ogni spettatore a immaginare ciò che non c’è più o che potrebbe essere collocato lì, sì è iniziato a parlare dell’avvento di una “Nuova Era delle Rovine”, portatrice di un’estetica postmoderna nella quale le differenti declinazioni di immagine, ritratto, icona evidenzierebbero l’immenso fossato che separa l’uomo dalla vicenda dell’umanità, la società dalla civiltà, la forma dal contenuto, giacché l’apparenza, in virtù di una comunicazione che la tecnologia attuale rende istantanea, si diffonde senza alcun tramite, senza il filtro d’una personale preparazione o capacità di interpretazione, mentre la sostanza ha tempi lunghi, richiede riflessione, analisi, confronto e dialogo: requisiti oggi relegati nelle terre bruciate delle perdite di tempo dei tempi perduti.

Un’altra significativa risposta è giunta dal Muzeon Art Park o Fallen Monument Park di Mosca (Parco dei Monumenti Caduti o Cimitero delle Statue), un museo gratuito a cielo aperto sorto nel 1992, dove sono state portate molte statue abbattute dalla furia distruttiva della caduta dell’URSS.

This statue of Soviet leader Josef Stalin is missing its nose. (Lucian Kim/NPR)

Le recensioni dei membri di Tripadvisor descrivono una passeggiata che può iniziare nelle vicinanze dell’ingresso principale di Gorky Park per proseguire lungo la Moscova tra sculture e installazioni moderne e celeberrime statue fatte sparire subito dopo la caduta del vecchio regime sovietico che qui hanno trovato una seconda vita. Oltre alla statua di Stalin che si trovava esposta nel padiglione sovietico dell’Esposizione Universale del 1939 a New York, il pezzo forte è la statua di Felix Dzerszinsky, fondatore della temuta polizia segreta dell’Unione Sovietica, che per più di trent’anni ha soggiornato davanti al quartier generale del KGB in piazza Lubjanka a Mosca.

Sculptures of Vladimir Lenin, founder of the Soviet Union, at the Muzeon in Moscow. (Mladen Antonov/AFP via Getty Images)

La caduta del regime comunista ha comportato una vera e propria ecatombe di statue di tutti i personaggi simbolo dell’ex Unione Sovietica e a detenere il record assoluto di cancellazioni è il fondatore Vladimir Lenin con oltre cinquemila statue e busti rimossi in patria e nelle capitali dell’Est Europeo.

Stessa sorte, ritualizzata dal regista Sergei Eisenstein, che fece cominciare Ottobre -il suo film capolavoro sull’avvento della Rivoluzione Russa – con le immagini della folla che fa cadere una grande statua dello zar Alessandro III, è toccata alla memoria su pietra di Josif Stalin, (distrutta anche nel 1956 dagli insorti di Bucarest), di Leonid Breznev, Karl Marx, Georgy Zhukov, Anatoly Lunacharsky, Rosa Luxemburg, Semyon Budyonny, Kliment Voroshilov, Friedrich Engels, Georgy Zhukov, Aleksandr Zasyadko, Vasily Kikvidze, Nadezhda Krupskaya, Anatoly Lunacharsky, Sergo Ordzhonikidze, Mikhail Frunze, Vasily Chapaev .

Dopo che nell’aprile 2015 il governo ha approvato le leggi che vietano i simboli sovietici, in Ucraina sono state abbattute tutte le vestigia una dopo l’altra, e oggi rimane in piedi solo una statua radioattiva di Lenin a Chernobyl. Buttare giù Lenin è diventata una pratica così abituale da meritare un nome, Leninopad e i nazionalisti ucraini si sono talmente appassionati a questo genere di pratiche da dimenticare che quel Lenin che hanno abbattuto ovunque non poteva essere il responsabile del genocidio del loro popolo, dal momento che era morto almeno un decennio prima. Nell’Ucraina Occidentale, dove i manifestanti sono stati più attivi che nelle proteste di Kiev, Lenin non aveva neppure governato: dopo la dissoluzione dell’Impero russo e la breve parentesi della guerra sovietico-polacca fino al 1921, l’Ucraina occidentale, finì nella compagine della Polonia, della Romania e di altre nazioni del cosiddetto “cordone sanitario” antisovietico, creato dai paesi della Triplice Intesa nell’Europa orientale dopo la rivoluzione russa del 1917.

Nel 2017 il fotografo Niels Ackermann e il giornalista Sébastien Gobert, autori del libro Looking for Lenin, sono andati alla ricerca dei resti di quelle opere distrutte. La più famosa l’hanno ritrovata a Odessa: Lenin è diventato Dart Fener, il cattivo della saga cinematografica hollywoodiana Star Wars.

A Kalyny, villaggio ucraino di cinquemila abitanti al confine con la Romania, una strada intitolata a Lenin è stata ribattezzata John Lennon. L’iniziativa, ha spiegato il governatore regionale Gennadi Moskal, è rientrata nell’ambito della campagna del governo filo-europeo di Kiev per rimuovere ogni traccia del passato comunista.

Moskal ha detto di aver preso la decisione a sua discrezione, senza consultare i cittadini, in onore del co-fondatore dei Beatles e senza far caso a quanto disse lo stesso Lennon quando era ancora in vita e cioè che Imagine, la sua canzone più famosa diventata inno dei pacifisti di tutto il mondo, era da considerare, per i contenuti del testo, più “il manifesto del partito comunista” che non un inno alla pace. Questa decisione, supportata dall’addio a Ded Moroz, il Babbo Natale russo-sovietico, dalla proibizione della vendita dello “champagne russo” e dal divieto di proiezione di film russi prodotti dopo il 2014, ha riportato alla memoria, come conferma di questa regola storica della cancellazione ad uso demagogico, quando nel 2003 le truppe statunitensi, con la complicità di molte emittenti televisive, inscenarono la caduta di una statua di Saddam Hussein nel centro di Baghdad, nel tentativo di mascherare la loro invasione militare in acclamata rivolta popolare di liberazione.

In Italia, il lancio di vernice rosa e la scritta ‘stupratore razzista’ sul monumento a Indro Montanelli, realizzato in bronzo dorato dallo scultore Vito Tongiani e posto nei giardini pubblici di Milano intitolati a Montanelli stesso, è stato condannato all’unanimità come atto «barbaro» da quasi tutti i giornali e i media. Il padre spirituale di due generazioni di giornalismo italiano dopo aver ostinatamente negato che l’esercito fascista avesse condotto bombardamenti con gas nervini durante la guerra etiopica, dopo essere stato ferito negli anni Settanta da terroristi di sinistra, è stato canonizzato come un eroico difensore della democrazia, della libertà e dell’antiberlusconismo. Dopo l’attacco alla sua statua, il coro sostenuto da coloro che lo riconoscono come maestro è che l’anacronismo, cioè la pretesa di giudicare fatti del passato col metro della mentalità contemporanea, sia un errore madornale.

Ma sostenere a oltranza che le azioni compiute all’epoca possano risultare comprensibili e giustificabili solo alla luce del contesto storico di quei tempi è la base dell’ideologia revisionista di destra e tuttavia, questo atto «barbaro» e anacronistico è servito a rivelare a molti italiani quali fossero i valori di Montanelli: negli anni Trenta, quando era un giovane giornalista, celebrava l’Impero fascista; inviato in Etiopia comprò una ragazza eritrea di dodici anni per soddisfare i suoi bisogni sessuali e domestici.
Per molti commentatori, questi erano i «costumi del tempo» o le «usanze locali» e quindi qualsiasi accusa di sostegno al colonialismo, al razzismo e al sessismo è ingiusta e ingiustificata.

«Qui sta l’ipocrisia di fondo perché se all’epoca un italiano avesse stuprato una bambina di 12 anni in Italia, in carcere ci sarebbe andato eccome, ma con la scusa dell’usanza locale si chiudeva un occhio», chiarisce Emanuele Ertola, autore di “In terra d’Africa. Gli italiani che colonizzarono l’impero” (Laterza).

Visibile on line su Youtube [Qui] si trova l’estratto della celebre intervista a Montanelli riguardo il suo matrimonio con la bambina eritrea di 12 anni ai tempi dell’avventura coloniale fascista in Etiopia, raccolta  dal programma “L’ora della verità” RAI 1969, e dove, oltre alle sue esternazioni, anche l’insieme delle argomentazioni che gli vengono direttamente sottoposte dall’attivista femminista Elvira Banotti, consentono un libero giudizio personale anche sul proseguo dei fatti legati alla ben nota vicenda di cronaca.

Poco tempo dopo che il movimento dei “Sentinelli di Milano” ne avesse chiesto la rimozione al Sindaco Sala e immediatamente dopo l’imbrattamento e conseguente pulizia/ripristino della scultura contestata, ha preso il via la campagna Decolonize the City, avviata con l’obiettivo di aprire un dibattito pubblico sul colonialismo, sul suprematismo, sul razzismo e sulla violenza, promossa da gruppi di immigrati e da militanti dei centri sociali milanesi.
Una prima azione, documentata attraverso una diretta Facebook, ha visto gli attivisti del Centro Sociale Cantiere posizionare nello stesso luogo, accanto a quella di Montanelli, una nuova statua in ferro, creata dall’artista senegalese Mor Talla Seck, raffigurante l’ex presidente del Burkina Faso Thomas Sankara.
Per il collettivo, è un “simbolo che parla della realtà dello sfruttamento coloniale e neocoloniale europeo in Africa, ma anche della resistenza e della liberazione del Burkina Faso e dell’intero continente. Questa statua è un atto di condivisione di sapere, un modo per affermare che non esiste un’unica memoria, un’unica storia e un’unica verità”.

Primo risultato: immediata rimozione/sequestro dell’opera, così giustificata dall’assessore regionale all’Immigrazione e alla Sicurezza, Riccardo De Corato, “questa statua celebra un leader africano che nulla ha a che fare con la nostra storia”, screditando l’operazione come “atto folle e fuori da qualsiasi regola”.

Secondo risultato: contro-risposta da parte degli organizzatori con una nuova inaugurazione pubblica e vernissage della Statua che Non C’è.

Terzo risultato: dopo poco più di un anno la statua di bronzo raffigurante Indro Montanelli intento a scrivere, è divenuta oggetto di una ulteriore incursione artistica della street artist Cristina Donati Meyer, la quale, ponendo sulle braccia del giornalista il fantoccio di una bambina al posto dell’iconica macchina da scrivere, denunciava quel matrimonio con una dodicenne eritrea del quale lo stesso Montanelli aveva parlato in tv, trasformandola di fatto in una nuova e sovversiva installazione artistica.

La riproduzione di quella installazione, intitolata “Il vecchio e la Bambina” con in braccio lo stesso fantoccio apparso nel parco, è esposta in forma permanente dal settembre 2021 nella quarta sala della sezione dedicata alla decolonizzazione, presso il MUDEC (Museo Pubblico delle Culture ) di Milano, nell’ambito dell’esposizione “Milano globale: il mondo visto da qui”.

Alcuni sostengono che le statue non influiscano direttamente sulla vita delle persone; rappresentano solo qualcosa di simbolico e che liberarsi delle statue non ha un guadagno concreto per gli individui. Questo sarebbe probabilmente vero se le statue fossero autonome, se non venissero accoppiate con le storie che invocano cancellandone altre o per raggiungere determinati obiettivi ideologici.

Invece le statue – nella presenza fisica e nelle storie che occupano –  rivendicano spazi e tempi, servono come capsule del tempo, ossessionate dal passato, e portano alla luce degli spettatori nel presente una visione riduttiva, parziale e di parte.

Tutti hanno notato che le statue non sono una registrazione neutrale della storia. Sono spesso celebrazioni di personaggi le cui opinioni e azioni erano oltraggiose e crudeli anche per gli standard morali del loro tempo. Ma oltre a ciò, quando molte statue furono erette c’era già una notevole opposizione alle gesta che avevano reso questi uomini (e sono quasi tutti uomini) ricchi, famosi e dominanti.

A chi strilla che “il passato non si cancella”… bisogna ribattere che un nome, un monumento o una statua, se stanno in strada non sono il passato, bensì il presente. E se ci restano, sono pure il futuro.

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Cover: La lavandaia di Sara Sermenghi.

RIGENERAZIONE URBANA E CONSUMO DI SUOLO: 10 marzo ore 17 al Grisù, Romeo Farinella e Gabriele Bollini al primo incontro per una Ferrara Futura

RIGENERAZIONE URBANA E CONSUMO DI SUOLO:
PRATICHE NON RETORICHE
venerdì 10 marzo ore 17, Factory Grisù, via Poledrelli 21

Romeo Farinella (architetto-urbanista, Dipartimento diArchitettura-UNIFE)
Gabriele Bollini (urbanista, valutatore ambientale, Dipartimento di Ingegneria-UNIMORE)
ne parlano con Francesca Cigala Fulgosi (Forum Ferrara Partecipata)

L’iniziativa è nata grazie all’incontro tra il laboratorio di Ricerca CITERlab del Dipartimento di Architettura dell’Università, il Laboratorio didattico LSFD entrambi diretti dal Prof. Romeo Farinella e il Forum Ferrara Partecipata costituitosi come luogo di riflessione sul futuro di Ferrara e di cittadinanza attiva finalizzato al coinvolgimento dei cittadini nelle scelte future che riguardano la città.
Come è noto l’occasione che ha portato alla nascita del Forum è stato il dibattito scaturito dal Progetto Feris, ma l’obiettivo è più ampio e riguarda la volontà di consolidare a Ferrara un luogo di discussione sul futuro urbano, aspetto strutturale di ogni ipotesi o strategia di transizione ecologica.

Insieme all’Università di Ferrara il Forum organizza dunque questo ciclo di incontri pubblici rivolti alla cittadinanza per l’approfondimento di tematiche relative alla  qualità del vivere e dell’abitare in città, preliminari all’elaborazione di proposte e visioni per la Ferrara di domani. Si intende pertanto coinvolgere i cittadini nelle scelte che riguardano la città, avviare un percorso di cittadinanza attiva finalizzato alla formulazione di idee innovative, orientate alle necessità future e alla costruzione di una visione condivisa della trasformazione urbana. Un’esperienza che rientra anche nel campo del public engagement che sempre più connota i rapporti tra le università e i loro territori. Anche per tale motivo la scelta delle sedi dove si svolgeranno gli incontri si sono orientate verso luoghi della città consoni all’esercizio del dibattito. (Leggi su Periscopio il programma completo del ciclo di incontri) 

C’è bisogno di una visione più consona alla situazione di crisi eco climatica, economica e sociale in cui ci troviamo. Non si può continuare con le vecchie logiche di “sviluppo” a base di cemento, plastica e combustibili fossili. La città va ripensata, come stanno facendo in molte città europee, con più verde, senza automobili private, con trasporti collettivi efficienti, con più spazi per attività sociali e culturali, salvaguardando il patrimonio culturale e naturale, riducendo l’inquinamento, garantendo a tutti l’accesso ad alloggi adeguati, difendendo i beni comuni e i servizi pubblici.

Forum Ferrara Partecipata