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“Mi chiamo Elisa, sono un’esploratrice di suoni. Porto alla luce le armonie nascoste dell’anima per trasformarle in un ritratto musicale in cui puoi sentirti. Con il mio lavoro ti aiuto a esprimere l’essenza di ciò che ti rende speciale. Insieme, musichiamo il tuo silenzio”.  

Giornata dall’aria ancora frizzantina, direzione via Cisterna del Follo 33. Elisa mi aspetta all’angolo della via, mi è venuta incontro. Non è cosa abituale una simile attenzione e già questo gesto gentile mi fa entrare in forte empatia con una persona che, fino a quel momento, avevo sentito per telefono ed e-mail.

Sulla porta di entrata il cartello “Piffany, scuola di musica: da subito mi era piaciuto quel connubio sbarazzino fra il cognome di Elisa (Piffanelli) e quella meraviglia che è Tiffany, pensando ovviamente al mio film preferito con Audrey Hepburn. Da settimane cercavamo di incontrarci, lei vive fra Ferrara e Città di Castello, io fra Ferrara e Roma. Ma eccoci qui, finalmente. La sua scuola. E non solo. C’è molto altro. Elisa è musicista, pianista diplomata e perfezionata con maestri della scuola russa e italiana, con un amore per il pianoforte che risale all’età di sette anni. Da tempo si occupa di didattica musicale in relazione al movimento. Ha un metodo originale.

Appena entrata mi accoglie, maglione dai colori dell’arcobaleno, nella stanza che ospita un meraviglioso pianoforte a coda nero, uno di quelli che sanno di antico, dai tasti di avorio consumati da dita che scorrono veloci e sicure, tracciando sogni di note che si disperdono nel vapore tiepido dei raggi del sole che, timidamente, fanno capolino dalle finestre.

Fotografie di fiori alle pareti, la magnolia fiorita del vicino di casa, in primis. Piante verdi, un violino. E poi tanti libri, attentamente catalogati come in una biblioteca rigorosamente ordinata. Volumi di famiglia, ricordi cui Elisa tiene molto. La memoria per lei è tutto.

In questa stanza si entra per recuperare l’ascolto di sé stessi, quello che si sta perdendo. Quindi si entra in relazione con sé stessi e gli altri, “perché la relazione muove tutto, ci credo fermamente e tutto il mio percorso di ricerca parte da qui”, sorride Elisa.

“Ho iniziato con un’utenza di bambini dai 5 ai 10 anni ma poi la platea si è allargata agli adulti”, ci dice. “Ho sviluppato un mio metodo fatto di disegni musicali per insegnare ai bambini: il pianoforte, ad esempio, è un personaggio, un amico, i due tasti neri gli occhi. Il bambino vede sé stesso in relazione allo strumento, partendo dall’altezza del corpo rispetto ad esso, dalla grandezza della sua mano sulla tastiera”, continua. Ci si gira intorno, si guarda quante gambe ha, ci si piega per guardare come è fatto sotto. Picchiettando su di esso, sempre insieme al piccolo allievo, ci si accorge che esso è avvolto da un legno massiccio con un suono più sordo che ricopre la sua struttura e che ne ha poi un altro più sottile, ma dal suono più generoso, flessibile ed elastico, che si trova al suo interno. Questa è l’anima del pianoforte. Si esplora poi l’interno, a forma di arpa.

Arriva quindi il momento del giovane allievo, si cerca di capire quale personaggio vorrebbe essere in relazione a questo strumento, se è molto più grande o molto più piccolo di lui, si appoggiano le mani sulla tastiera… l’esplorazione inizia.

I tasti profumano? Sanno di vaniglia o cioccolato? Suono sia. Inizialmente non esistono i nomi delle note, i tasti bianchi sono biscottini alla vaniglia, quelli neri al cioccolato, o liquirizie. Si cercano occhi, ovvero i due tasti neri, e naso, in mezzo ad essi, di un personaggio. Tutti sorridono. Fino al bruco, al cane, all’ape, alla rana e al coccodrillo, agli intervalli musicali, al pentagramma, al ritmo e ai valori delle note e delle pause. Sempre giocando, con fantasia: il brano musicale, ad esempio, è un treno e le battute sono i suoi vagoni. Geniale. Non vi sveliamo oltre…

Un metodo pensato come strumento per indagare sé stessi in relazione alla musica, cui viene tolta la tipica finalità del saggio, delle performance a tuti i costi, l’incardinamento rigido nei generi. Un potente aggancio con creatività e immaginazione.

Ad un tratto parte, e allora, capisco tutto meglio: suona “Per Elisa”, non solo è bravissima – questo già lo avevamo capito, visto il pedigree – ma ci trascina in uno spazio e tempo lontani e che sanno di magia. Il contesto è qui legato al sentire: nelle note che scorrono, prima c’è una dolcezza che viene dalla semplicità e dalla melodia poi ci sono momenti di rabbia e di rifiuto. La mano sinistra ritma, la musica racconta tutto in due pagine, così come la letteratura. Il linguaggio interiore qui non è solo emozione ma è la storia di un amore fra un uomo e una donna. La delusione di Beethoven il brano la racconta: gentilezza, tenerezza, romanticismo, ricordo e spensieratezza fino a momenti di rabbia. L’uomo, in fondo, è impotente, c’è una reazione nel riconoscere come l’amore imprigiona. Dalla tecnica si passa al guardarsi dentro.

“Mi fido della pagina scritta”, riprende, “sono i modi per esprimere me stessa, il mio sentire porta alla luce la musica. La musica è movimento e meditazione, le dita sono come il corpo di un ballerino. Il danzatore esprime la danza perché parte dalla musica, il gesto invece è esso stesso importante per la musica. Lo strumento permette di fare fotografie del mio sentire. Ora voglio, infatti, fare dei ‘ritratti musicali’. Per fare un esempio, immagino due frammenti realizzati con le mani che ruotano capovolte. In essi, c’è il movimento suadente, sensuale ed enigmatico, e questa è la mia impressione musicale, la foto di un momento, per dare voce al sentire”.

Con immenso interesse e fede nella relazione, Elisa va verso le persone che ha di fronte e le accoglie per come sono, senza mettere barriere o strutture. Con i suoi collaboratori, oggi quattro e insegnanti di vari strumenti, oltre al canto, organizza dieci lezioni, due di ogni strumento per dare un orientamento su cosa scegliere puntando sempre sull’empatia.

“Mi interessa dare un’identità a livello sociale del musicista”, sottolinea, “dargli un ruolo per me è importante, fondamentale farne capire l’utilità sociale. Per questo ho anche creato un gruppo vocale che accompagna le cerimonie, anche funebri, dove la musica può avere uno spazio importantissimo. È un tema generale della cultura, quello di farsi riconoscere”.

Alleviare l’anima è per lei una missione. Anche pensando a questo, oggi è impegnata in un’esperienza in ospedale, nel reparto di neuropsichiatria, per essere vicina soprattutto alle famiglie che si chiedono perché e alla sua allieva Alice che ha avuto un terribile incidente. Creare un sentire comune è per lei ormai un’esigenza vitale, cerca un modo per essere in relazione. Slegati dai contesti veloci. “Unisco musica, gesto e creatività per dare voce a chiunque voglia raccontarsi attraverso il suono”, ci dice.

Elisa crede nella gentilezza, nell’empatia, nell’accoglienza, nelle scelte di coraggio, nella capacità di rinnovarsi giorno dopo giorno e crescere con consapevolezza, anche e soprattutto attraverso la musica. Per lei è fondamentale dare voce al silenzio. “Io sono suono” è, per lei, un concetto cardine, una sorta di mantra, insieme a essenzialità, semplicità, coralità, meditazione. Un essere un tutt’uno con il mondo. “Per questo donerò un ciliegio a palazzo Roverella, che ospita da tempo suoi pomeriggi musicali, simbolo della famiglia che è la sua scuola: un ciliegio è un albero vivo che resta, è un segno”, conclude.

L’amore per la natura lo si vede, peraltro, anche dal suo giardino colorato e fiorito.

Intanto c’è un nuovo progetto che prende forma: scherma e musica a Città di Castello, nella verde e verace Umbria. Ma questa sarà una nuova puntata.

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Simonetta Sandri

E’ nata a Ferrara e, dopo gli ultimi anni passati a Mosca, attualmente vive e lavora a Roma. Giornalista pubblicista dal 2016, ha conseguito il Master di Giornalismo presso l’Ecole Supérieure de Journalisme de Paris, frequentato il corso di giornalismo cinematografico della Scuola di Cinema Immagina di Firenze, curato da Giovanni Bogani, e il corso di sceneggiatura cinematografica della Scuola Holden di Torino, curato da Sara Benedetti. Ha collaborato con le riviste “BioEcoGeo”, “Mag O” della Scuola di Scrittura Omero di Roma, “Mosca Oggi” e con i siti eniday.com/eni.com; ha tradotto dal francese, per Curcio Editore, La “Bella e la Bestia”, nella versione originaria di Gabrielle-Suzanne de Villeneuve. Appassionata di cinema e letteratura per l’infanzia, collabora anche con “Meer”. Ha fatto parte della giuria professionale e popolare di vari festival italiani di cortometraggi (Sedicicorto International Film Festival, Ferrara Film Corto Festival, Roma Film Corto Festival). Coltiva la passione per la fotografia, scoperta durante i numerosi viaggi. Da Algeria, Mali, Libia, Belgio, Francia e Russia, dove ha lavorato e vissuto, ha tratto ispirazione, così come oggi da Roma.

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Ogni giorno politici, sociologi economisti citano un fantomatico “Paese Reale”. Per loro è una cosa che conta poco o niente, che corrisponde al “piano terra”, alla massa, alla gente comune. Così il Paese Reale è solo nebbia mediatica, un’entità demografica a cui rivolgersi in tempo di elezioni.
Ma di cosa e di chi è fatto veramente il Paese Reale? Se ci pensi un attimo, il Paese Reale siamo Noi, siamo Noi presi Uno a Uno. L’artista polesano Piermaria Romani si è messo in strada e ha pensato a una specie di censimento. Ha incontrato di persona e illustrato il Paese Reale. Centinaia di ritratti e centinaia di storie.
(Cliccare sul ritratto e ingrandire l’immagine per leggere il testo)

PAESE REALE
di Piermaria Romani


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