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Credit Suisse e il fondo pensioni svedese Alecta: altro fallimento. Quale apprendimento?

Al di là dei tecnicismi che usano i banchieri e gli economisti il fallimento di Credit Suisse è un caso paradigmatico di come è cambiato il ruolo delle banche negli ultimi 30 anni, che è una delle ragioni della crisi attuale dell’Occidente. Il valore di Credit Suisse è sceso in 15 anni da 80 franchi a 1,5. La sua crisi non è recente e negli ultimi tempi se ne sono andati alcuni grandi azionisti sostituiti da fondi arabi.

Fondata nel 1856 da Alfred Escher, politico e dirigente d’azienda, è vissuta per 130 anni come banca locale, per finanziare lo sviluppo delle ferrovie svizzere. C’era un legame diretto con la produzione e il paese. Dal 1990 si è trasformata in una banca globale con l’obiettivo di fare i massimi profitti anche a costo di riciclare denaro sporco e sostenere i peggiori affaristi nel mondo. Col 23% della raccolta dei risparmi era la più grande banca svizzera seguita da UBS (22%). Essendo considerata una banca “troppo grande per lasciarla fallire”, senza avere gravissimi effetti sull’intero sistema globale, è intervenuto lo Stato e poi UBS, la concorrente, ad acquistarla per 3 miliardi.

I soci principali erano la Saudi National Bank (9,9%), il fondo sovrano del Qatar (Holding 7%), il fondo americano Dodge & Cox, l’impresa multinazionale del saudita Suliman Saleh Olayan (Olayan Group), la società di investimento di Chicago Harris Associated, il colosso finanziario BlackRock e la società Silcehester International (Londra).

Negli ultimi anni Credit Suisse ha privilegiato le attività di investment banking e wealth management (anglicismi per dire di far fruttare al meglio i soldi dei ricchi) a scapito dei servizi e degli investimenti in vere imprese.  Si tratta di investimenti ad alto rischio – alcuni dei quali costati miliardi di euro ai clienti, come quelli nella società finanziaria britannica Greensill Capital e nella statunitense Archegos Capital Management, crollate nel 2021 – che nel corso di un decennio hanno minato il suo bilancio, fino al buco di 7,3 miliardi di franchi nel bilancio 2022.

Alcuni analisti hanno parlato di una «cultura del rischio autodistruttiva» che ha alla base la ricerca del massimo profitto ad ogni costo, non badando ai pericoli – più di cento secondo l’autorità di vigilanza elvetica – che già da alcuni anni giungevano al suo management. In mezzo, una serie di scandali che hanno pregiudicato la credibilità. Dallo spionaggio a danno di collaboratori, alla condanna in sede penale per riciclaggio di denaro da traffico di droga, fino all’inchiesta «Suisse Secrets», condotta da 160 giornalisti di 39 paesi, nella quale si parla di clienti accusati di violare i diritti umani, di un trafficante accusato nelle Filippine di commercio di esseri umani, i prestiti al Mozambico per comprare navi della guardia costiera e per la pesca del tonno, poi finiti in traffico d’armi. D’altra parte, parliamo della stessa banca dove trovarono «riparo» le ricchezze che i nazisti scappati in Argentina avevano sottratto agli ebrei.

Il fattore scatenante della crisi di Credit Suisse è stata la svalutazione dei titoli di Stato dovuta all’aumento dei tassi delle Banche centrali (Usa e UE, la più rapida storicamente) che preoccupa anche altre banche: le europee pare abbiano oltre 3mila miliardi di euro di titoli di stato, il cui valore è sceso per il rialzo dei tassi d’interesse, che potrebbe portare a perdite di bilancio preoccupanti e che la crisi di Credit Suisse potrebbe ingigantire (ecco perché la salvano). Ma la cosa incredibile è che per farlo hanno deciso di non far perdere gli azionisti ma gli obbligazionisti (per 15 miliardi), violando regole secolari. Ciò porterà a vertenze giudiziarie e mina la credibilità delle banche “svizzere” (ora globali).

Siamo ormai arrivati a quella «vertigine del capitale», come la chiamò per primo Marx, di voler «far denaro senza la mediazione del processo di produzione», che è il “cancro” della modernità. Da fenomeno limitato alle banche d’affari com’era sino al 1990, è diventato il modo di funzionare “standard” di quasi tutte le banche, da quando è stata abrogato lo Steagall Act che aveva introdotto nel 1933 Roosvelt, proprio per dividere le banche d’affari (che speculavano) da quelle tradizionali (che prestano a imprese e famiglie). Roosvelt le divise per evitare che il fallimento di una banca d’affari travolgesse l’economia reale. La “modernità” ha poi spinto centinaia di migliaia di cittadini a “giocare” e speculare su tutto via internet.

Lo stesso prezzo stratosferico del gas è il frutto di una speculazione di 50 banche d’affari e 150 fondi finanziari che in primavera 2021 (un anno prima dell’invasione russa), ben informati, hanno acquistato “tutto e di più” nel mercato Ttf di Amsterdam (gestito dagli Usa).

Questa finanziarizzazione dell’economia è alla base delle crisi (2008, 2023) che poi colpiscono occupazione, redditi, risparmi, pensioni. Se però le cose vanno male c’è sempre la possibilità (essendo troppo grandi per fallire) che lo Stato (in questo caso la Svizzera) ci metta una “pezza”, anche se oggi è una banca globale, con un profilo speculativo molto marcato, che di «svizzero» ha solo il nome.

Due altri  fallimenti  – la Silicon Valley Bank e la Signature Bank, entrambe Usa – hanno azzerato i conti invece degli azionisti, tra cui il fondo pensioni svedese Alecta che ha perso 1,15 miliardi e altri 728 milioni per la vendita della quota in First Republic Bank (altro fallimento Usa). Un danno enorme per i 2,6 milioni di pensionati svedesi per la pensione integrativa a quella pubblica.

Anche questa storia è significativa dello ‘spirito dei tempi’. Le pensioni in Occidente sono messe sempre più a rischio con il passaggio dalla previdenza pubblica ad una privata (per ora integrativa), dal desiderio di guadagnare a cui spinge la finanza.
Il fondo Alecta veniva da 4 anni di utili crescenti e l’ultimo consuntivo è zeppo di tutte le parole chiave della modernità: etica e integrità, sostenibilità, efficienza, più forti verso il futuro, più energie rinnovabili, minor inquinamento, inclusività, cibo sostenibile, maggior numero di donne, contro ogni razzismo e corruzione e per la diversità etnica. La tradizionale verniciatura di cui si fregiano quasi tutte le imprese multinazionali, i fondi finanziari, le banche (tanto nessuno può controllare oppure fanno anche questo tipo di investimenti ma sono una minoranza rispetto a quelli speculativi).
Ovviamente sono sempre certificati da un Istituto indipendente “prestigioso” (Ernst & Young AB). Leggere il consuntivo del fondo Alecta 2021  fa impressione e dimostra ormai l’impossibilità per un lavoratore, pensionato, cittadino di capire e fidarsi di quelle che una volta erano stimate “Istituzioni”. Il desiderio di guadagnare e la globalizzazione mettono a rischio tutti.

Il responsabile della gestione azionaria del fondo Magnus Billing è stato licenziato, sperando di mitigare le proteste degli imbufaliti pensionati svedesi che hanno perso 2 miliardi di dollari. Ma ovviamente il problema non è del Ceo (che può perdere o guadagnare), ma della logica che spinge anche le pensioni Occidentali ad un’ottica speculativa.
Per fortuna si tratta (per ora) del “pilastro” integrativo e privato della pensione (avviato nel 2000), perché quella pubblica (garantita dallo Stato sulla base dei contributi versati) dà un importo medio pari al 55-60% dell’ultimo salario. C’è poi un secondo “pilastro” formato dalla previdenza professionale, che viene coperta dai contributi versati dai datori di lavoro, sulla base di accordi che dipendono dai settori. Infine, la previdenza privata (tipo Alecta), che lo Stato incentiva con vantaggi fiscali, concepita come parte integrante del sistema pensionistico.

Per Credit Suisse è intervenuto lo Stato Svizzero ma se succede in Europa?
Possiamo continuare con banche e fondi il cui fine è il massimo profitto? Una volta c’era la coscienza che non si poteva generare denaro senza lavoro e il mestiere del bancario era prestare (a rischio) a imprese (vere) e famiglie nell’interesse dello sviluppo reale e del territorio. Ma oggi la modernità cosa vuol far diventare le banche… e noi?

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Andrea Gandini

Economista, nato Ferrara (1950), ha lavorato con Paolo Leon e all’Agenzia delle Entrate di Bologna. all’istituto di studi Isfel di Bologna e alla Fim Cisl. Dopo l’esperienza in FLM, è stato direttore del Cds di Ferrara, docente a contratto a Unife, consulente del Cnel e di organizzazione del lavoro in varie imprese. Ha lavorato in Vietnam, Cile e Brasile. Si è occupato di transizione al lavoro dei giovani laureati insieme a Pino Foschi ed è impegnato in Macondo Onlus e altre associazioni di volontariato sociale. Nelle scuole pubbliche e steineriane svolge laboratori di falegnameria per bambini e coltiva l’hobby della scultura e della lana cardata. Vive attualmente vicino a Trento. E’ redattore della rivista trimestrale Madrugada e collabora stabilmente a Periscopio.

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