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Vite di carta. Paolo Bricco al Liceo Ariosto. Imparare dai ragazzi – 1. parte

Troppi libri da leggere, non sto tenendo il passo. Primo perché la beata età della pensione me lo deve questo ritmo più calmo, il piacere di leggere con tempi adeguati. Poi perché leggo spesso i libri scelti dai gruppi di lettura di cui faccio parte, e così facendo vado oltre i confini della narrativa contemporanea italiana su cui ho lavorato per anni insegnando al Liceo Ariosto.

La narrativa italiana però non lascia me. Gli scrittori continuano a venire a scuola a presentare i loro libri ultimi usciti, scelgono anche un’opera che li ha segnati nella loro carriera di lettori e dunque i ragazzi e le colleghe del gruppo Galeotto fu il libro lavorano su almeno due opere per preparare la conversazione con l’autore.

A ogni incontro, come quello di inizio marzo o a quest’ultimo di mercoledì 13 aprile, non resisto al loro invito e metto piede dentro il Liceo. So che vengo a imparare, a imparare dai ragazzi.

Il 10 marzo siedo in prima fila e ho a pochi metri sul palco Paolo Bricco, attualmente inviato speciale del Sole 24 ore, che porta il suo AO. Adriano Olivetti, un italiano del Novecento, uscito lo scorso anno presso Rizzoli e ultimo di una serie di studi dedicati all’industriale di Ivrea.

Le domande che i ragazzi pongono, alzandosi uno alla volta dalle loro poltrone, vedo bene che pungolano Bricco. Prende vistosamente fiato e comincia  a dare risposta: dice di cosa è fatta l’utopia di Olivetti, la perimetra con chiarezza punto per punto; richiama il fondale della storia che si agita alle spalle, i rapporti col Fascismo, i limiti del suo capitalismo di famiglia pur nella grandezza di idee con cui ha progettato la comunità della sua fabbrica e ci ha messo al centro la Persona.

La retribuzione che supera del 40% quella degli altri operai metalmeccanici ne è un esempio, come pure la apertura nel 1942 dell’asilo nido dentro la fabbrica di Ivrea, come le misure a sostegno delle lavoratrici madri con lo stipendio intero fino al settimo mese del bambino.

Non è un ritratto agiografico di Adriano Olivetti, ma una serie ragionata di considerazioni sulla sua visione della attività industriale, sul suo interesse per l’innovazione tecnologica, sui percorsi di crescita personale e lavorativa che ha realizzato per i dipendenti, sui motivi della crisi che dalla fine degli anni Cinquanta investe l’intero settore della elettronica italiana priva del supporto di una politica industriale che fosse al passo con i tempi.

Non è nemmeno una lezione quella che Bricco sta tenendo con le sue risposte, perché i ragazzi hanno trovato la giusta chiave da dare ai discorsi, da quando Chiara, aprendo l’incontro, ha letto la lettera che ha scritto a suo padre, metalmeccanico, e gli ha esposto le condizioni in cui hanno lavorato i dipendenti di Adriano Olivetti. Ha chiamato “umanesimo industriale” quello di cui è stato promotore, dando spunti per un confronto con l’oggi. E auspicando che ogni lavoratore possa, come accade a suo padre, provare passione nel lavoro che fa.

Il che consente a Bricco di raccontare anche degli stralci dalla propria storia personale: la nascita a Ivrea, un non-luogo che entra nella Storia con la fabbrica Olivetti, i genitori che ci lavorano come impiegati, con le cure dentistiche gratuite anche per i figli, lo sbarco all’Università di Torino e la scoperta della gerarchia sociale che nella Ivrea di Olivetti “non si respirava”.

Poi il discorso vira sulla letteratura che si muove attorno alla vita della fabbrica, sugli autori che ci hanno lavorato e scritto. Sfilano  figure come quella di Geno Pampaloni che fu per anni assistente di Adriano, di Paolo Volponi che pubblicò il suo Memoriale nel 1962 e intanto si occupava di pubblicità e delle relazioni commerciali dentro la fabbrica.

Di Ottiero Ottieri e della nascita nel secondo dopoguerra di un nuovo genere narrativo in Italia, un tassello importante di quella che potremmo chiamare la “letteratura industriale”, in cui si denuncia la alienazione dell’uomo e in cui trova posto il tassello del “romanzo olivettiano”, come costruzione di un immaginario sulla vita della fabbrica “a misura d’uomo”.

Ancora. Mentre ascolto mi viene in mente più volte Lessico famigliare, quando Natalia Ginzburg parla della sorella Paola Levi e della sua storia con Adriano, il “grande e famoso industriale” che conserva tuttavia “nell’aspetto qualcosa di randagio, come da ragazzo” con “gli occhi perduti nei suoi sogni perenni, che li velavano di nebbie azzurre”. Natalia racconta l’incontro di Paola con Adriano e il fidanzamento, le nozze e la vita da sposata.

Oggi Paolo Bricco ne riprende la figura, la definisce come la prima amatissima moglie di Adriano e le riconosce di averlo “sprovincializzato”, di avere portato nella sua vita il vento della cultura torinese e non solo italiana, ma della Mitteleuropa e parigina e londinese. Resterà un’eco di tutto questo dentro la fabbrica a Ivrea, anche dopo il divorzio, anche negli anni del secondo matrimonio di Adriano con la giovane Grazia Galletti.

Mentre i ragazzi chiedono a Paolo Bricco per quali ragioni ha scelto come suo “libro galeotto” Memorie di Adriano della Yourcenar, per me è ora di lasciare l’incontro. Faccio in tempo ad avvertire un sottile senso di colpa per non avere ancora completato la lettura di tanto capolavoro, poi mi metto a elencare mentalmente le suggestioni che ho raccolto oggi, i libri da leggere che sono usciti dalla conversazione con Bricco e ci aggiungo questo altro Adriano Imperatore.

Percorro il lungo corridoio che porta dall’Atrio Bassani all’uscita dal Liceo e a chi mi incrocia e mi guarda con aria interrogativa dico la consueta frase “Sono qui per il Galeotto” e sorrido.

Tornerò presto, l’incontro con Marco Malvaldi di metà aprile è già nei miei programmi.

Nota bibliografica:

  • Paolo Bricco, AO. Adriano Olivetti, un italiano del Novecento, Rizzoli, 2022
  • Paolo Volponi, Memoriale, Garzanti, 1962
  • Natalia Ginzburg, Lessico famigliare, Einaudi, 1963
  • Marguerite Yourcenar,  Memorie di Adriano, Einaudi, 1963 (traduzione di Lidia Storoni Mazzolani)

Immagini nel testo e cover di Chiara Flori.

Per leggere gli altri articoli e indizi letterari di Roberta Barbieri nella sua rubrica Vite di cartaclicca [Qui]

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Roberta Barbieri

Dopo la laurea in Lettere e la specializzazione in Filologia Moderna all’Università di Bologna ha insegnato nel suo liceo, l’Ariosto di Ferrara, per oltre trent’anni. Con passione e per la passione verso la letteratura e la lettura. Le ha concepite come strumento per condividere l’Immaginario con gli studenti e con i colleghi, come modo di fare scuola. E ora? Ora prova anche a scrivere

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Ogni giorno politici, sociologi economisti citano un fantomatico “Paese Reale”. Per loro è una cosa che conta poco o niente, che corrisponde al “piano terra”, alla massa, alla gente comune. Così il Paese Reale è solo nebbia mediatica, un’entità demografica a cui rivolgersi in tempo di elezioni.
Ma di cosa e di chi è fatto veramente il Paese Reale? Se ci pensi un attimo, il Paese Reale siamo Noi, siamo Noi presi Uno a Uno. L’artista polesano Piermaria Romani si è messo in strada e ha pensato a una specie di censimento. Ha incontrato di persona e illustrato il Paese Reale. Centinaia di ritratti e centinaia di storie.
(Cliccare sul ritratto e ingrandire l’immagine per leggere il testo)

PAESE REALE
di Piermaria Romani


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