Gli effetti dei dazi di Trump
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Gli effetti dei dazi di Trump
Coi dazi sembra sia davvero finita la globalizzazione americana, la delocalizzazione di molte imprese in Cina e altri paesi poveri per fare più profitti, ma che ha reso anche più poveri gli operai americani e quasi completamente dissolto la manifattura in patria. Trump cerca di tornare al passato: far tornare le fabbriche.
I dazi sono calcolati in base al rapporto tra surplus commerciale del singolo Stato con gli Usa (export meno import) e l’import dagli Usa. L’Italia esporta in Usa 76 miliardi, ne importa 22 e il suo surplus è di 54. Se fosse da sola avrebbe un dazio del 24%. Poiché siamo nella UE è di 20. Una formula che avrebbe l’intento di portare il surplus a zero. Come? Facendo tornare molte imprese che se ne sono andate.
Dalla tabella dei dazi si capisce dove è avvenuta la delocalizzazione delle imprese americane: Cina, Vietnam, Cambogia, Messico, Irlanda, India, SriLanka, Bangladesh, Taiwan,...
I dazi dovrebbero fornire circa 500 miliardi di maggiori entrate agli Stati Uniti (80 dalla UE). Secondo le banche d’affari e molti economisti faranno crescere anche l’inflazione (fonte Università di Yale) del 2,3%, circa 3.800 dollari a famiglia e si ridurrà il PIl di un punto nel 2025.
Molto però dipenderà da quanti continueranno ad acquistare merci straniere e quante imprese torneranno. Un azzardo enorme e senza confronti storici.
Per fare un esempio, il parmigiano italiano sale da 44 euro al kg. a 52 (da noi costa 15 euro al kg.), ma se le ditte straniere calano i prezzi, l’inflazione sale meno. Sostituire con beni americani l’agroalimentare straniero di qualità è impossibile, ma per altri prodotti (come le auto) è più facile, anche se per le stesse ditte americane ci saranno aumenti in quanto molti semilavorati provengono dall’estero.
Per questo l’obiettivo vero pare sia riportare più lavoro possibile delle stesse ditte americane negli Stati Uniti. Ciò spiega il calo del 44% in borsa di Nike nell’ultima settimana, ma anche di Apple e molte altre. Un secondo obiettivo è avere delle concessioni negoziali o assicurazioni di acquisto dello stratosferico debito pubblico americano che ha raggiunto i 23mila miliardi e che necessita ogni anno di una sottoscrizione monstre.
La speranza è che altre imprese estere investano negli Stati Uniti pur di vendere e non subire i dazi, bloccando la crescita mostruosa del deficit commerciale salito dai 396 miliardi del 2016 ai 1.130 del 2024, causato dalla globalizzazione americana, ma anche dalle politiche di austerità dell’Europa che da 20 anni basa la sua crescita su export e austerity (contenimento dei redditi, della domanda interna e dell’import).
Se funziona nel medio periodo (non certo subito) ci sarà un aumento dell’occupazione e della manifattura made in Usa, la riduzione del deficit commerciale, del debito pubblico, maggiori entrate. Molto dipenderà dal livello dell’inflazione e se il dollaro si svaluterà, come, peraltro, sta avvenendo, (passato da 1,08 a 1,10 euro).
I dazi nascono dagli effetti disastrosi descritti dal vicepresidente USA J. Vance nella sua autobiografia di successo (Hillbilly, Elegia americana) che racconta le sofferenze degli operai della “rust belt”, la periferia americana colpita dalla globalizzazione e delocalizzazione della manifattura industriale. Questo spiega perché erano presenti operai e sindacalisti all’annuncio dei dazi.
La finanza (borse e Wall Street) non tifa certo per i dazi e hanno avuto un forte calo nei primi due giorni dall’annuncio, ma è curioso che molti (anche a sinistra) tifino per le borse e la finanza che ci “penserà lei a far rinsavire Trump con un bagno di realtà”. Il calo delle borse è una minaccia seria per Trump in quanto molti americani, investendo i propri risparmi in finanza (molto più di europei e italiani), possono avere perdite che incidono sulle assicurazioni sanitarie, i mutui casa, le pensioni.
Nessuno sa davvero cosa succederà nel medio periodo anche perché dazi universali di questa entità sono una novità storica (la legge protezionistica Smoot-Hawley Act del 1930 aveva dazi molto minori). In Europa i paesi più colpiti saranno Germania e Italia che hanno un surplus in USA di 83 e 54 miliardi nel 2024. Molto dipenderà anche dalla capacità di trovare altri mercati. L’Italia nel 2024 aveva già perso (sul 2023) 2,4 miliardi di fatturato in Usa, 3,8 in Cina, 5 in Germania, ma aveva guadagnato altri 12 miliardi di export sul 2023, in quanto era cresciuto verso altri paesi meno “avanzati”: Turchia, Arabia Saudita, Emirati Arabi, Messico, Brasile, etc. e anche in occasione dei primi dazi di Trump del 2018 l’export italiano era cresciuto negli stessi Stati Uniti, a dimostrazione della grande flessibilità dei nostri imprenditori nel diversificare le esportazioni.
Potrebbe quindi essere che alcune previsioni pessimistiche (per Italia: Pil -0,6%, recessione, 60mila occupati in meno, imprese che chiudono; per USA recessione e inflazione alle stelle) si rivelino fallaci. Di certo è che si avvia una nuova fase commerciale nel mondo del tutto inedita in cui c’è minor libero scambio, ma non è detto che ciò incida negativamente sull’occupazione in quanto potrebbe crescere il consumo dei prodotti del proprio paese. E’ anche la prima volta da 30 anni che la “Politica” prende decisioni in contrasto con l’élite finanziaria ed economica che ha guidato la globalizzazione e che puntava sul libero scambio.
L’idea di ritorsioni europee immediate (altrettanti dazi) non è buona, in quanto gli Stati Uniti sono una sorta di “monopsonio” (monopolio dal lato del consumatore), esportano molto meno rispetto all’Europa (10% del loro Pil rispetto, per esempio, al 30% dell’Italia). Il saldo commerciale (export USA meno import da tutto il mondo) è negativo per 934 miliardi, ancor più per le sole merci, mentre in attivo è l’export di finanza e tecnologie digitali (anche verso l’Europa).
Gli effetti della globalizzazione si sono tradotti in una devastazione di intere comunità industriali (Hillbilly…), mentre il surplus di finanza e digitale ha arricchito una ristretta oligarchia di ricchi (passata dai Democratici a Trump) che non sarà molto contenta, da qui il possibile licenziamento, prima che poi, di Elon Musk. E’ sulla base di ciò che il “bullo” Trump piace ai suoi elettori (per ora).
Per l’Europa (se si fosse costruita come Stato federale) sarebbe stata un’occasione straordinaria di accrescere la propria indipendenza, il proprio mercato interno aumentando i salari (a partire dalle fasce più povere), avvantaggiando le proprie imprese, l’occupazione, i redditi, le entrate fiscali e il proprio welfare. Ma questo implica una visione del bene comune e della comunità locale (che usa anche Trump) su base umanistica, egualitaria alla Adriano Olivetti e Jacques Maritain e non individualistica e “funzionale al sistema” come nella cultura anglosassone.
La Commissione europea ha deciso di rispondere ai dazi entro un mese, evitando ritorsioni immediate, cercando di negoziare e rafforzando i rapporti commerciali con altri paesi (Brics inclusi che ora diventano una risorsa) e decidere solo dopo aver visto quello che accadrà.
Si è aperta una nuova era internazionale cui sono in discussione non solo la pessima globalizzazione americana, ma una nuova regolazione dei mercati, le valute di riserva, la sicurezza reciproca e la necessità di creare nuove Istituzioni a livello internazionale di cooperazione e multilateralismo in cui non ci siano solo i 5 Stati vincitori della 2^ guerra mondiale (Stati Uniti, Inghilterra, Francia, Cina e Russia, membri permanenti dell’ONU), ma anche altri (l’Europa dov’è?).
Una fase in cui la via diplomatica è la più saggia per evitare una escalation della guerra commerciale.
L’Europa, in enorme ritardo per farsi Statualità, anziché riarmare i singoli Stati nazionali, potrebbe favorire l’enorme domanda interna europea inevasa (investimenti in infrastrutture, dissesto idrogeologico, politiche di risparmio energetico -dalle case al resto-, salute, scuola,…).
Cover: immagine da The Watcher Post
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Andrea Gandini
PAESE REALE
di Piermaria Romani
Ogni giorno politici, sociologi economisti citano un fantomatico “Paese Reale”. Per loro è una cosa che conta poco o niente, che corrisponde al “piano terra”, alla massa, alla gente comune. Così il Paese Reale è solo nebbia mediatica, un’entità demografica a cui rivolgersi in tempo di elezioni.
Ma di cosa e di chi è fatto veramente il Paese Reale? Se ci pensi un attimo, il Paese Reale siamo Noi, siamo Noi presi Uno a Uno. L’artista polesano Piermaria Romani si è messo in strada e ha pensato a una specie di censimento. Ha incontrato di persona e illustrato il Paese Reale. Centinaia di ritratti e centinaia di storie.
(Cliccare sul ritratto e ingrandire l’immagine per leggere il testo)
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