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PER CERTI VERSI
Un giorno Pericle

UN GIORNO PERICLE

Un giorno Pericle
Decise
Che la democrazia
Dovesse essere esportata
Con ogni mezzo
Nessuno più rinunciò
A questa idea
Anche quando
La democrazia
Sprofondò
Nel suo stesso sangue
Venne sostituita
Da altri termini
Guerra santa
Impero
Civiltà

A un certo punto
La democrazia
Ricomparve
E immancabile
Come fosse una merce
La sua esportazione
Con ogni mezzo
Ancora una volta
Perché ciò che è giusto
È giusto
Ci mancherebbe

Questi trapianti
Perlopiù
Finiscono col rigetto
Con nuovi nemici
Da estirpare
Con ogni mezzo

E le vite umane
La natura…
Quelle vengono dopo
Dopo quando?
Dopotutto

Con rispetto…

Ogni domenica Ferraraitalia ospita ‘Per certi versi’, angolo di poesia che presenta le liriche del professor Roberto Dall’Olio.
Per leggere tutte le altre poesie dell’autore, clicca
[Qui]

Fuoco, fiamme e gas letali contro i curdi

 

di Gianni Sartori

Un video diffuso recentemente sembra dare ulteriore conferma a quanto si vociferava da tempo. Ossia che l’esercito turco – oltre che di droni, aerei e bombe – fa uso di sostanze chimiche, gas proibiti dalla Convenzione di Ginevra. Contro i curdi, ça va sans dire.
Non è una novità naturalmente. Ankara opera in tal modo – impunemente – da qualche decennio. Ora – per la precisione dai primi di giugno – anche nel Kurdistan del Sud (nord dell’Iraq), soprattutto per colpire i tunnel scavati dai guerriglieri. Le immagini del video realizzato da elementi delle HPG (Hêzên Parastina Gel – Forze di Difesa del Popolo, braccio armato del PKK) si riferiscono alla zona di Werxelê (regione di Avasin) e appunto mostrano in maniera evidente la fuoriuscita dei gas dai tunnel dove si riparano i combattenti curdi.
Da due mesi Ankara cerca – finora invano – di impadronirsi delle aree montagnose controllate dai guerriglieri. A quanto sembra per ottenere i suoi scopi non si fa scrupolo di commettere crimini di guerra. Stando ai dati forniti dalla resistenza curda, in questi due mesi i gas (di vario genere) sarebbero stati utilizzati decine di volte. Quello dei gas è solo un elemento della guerra pressoché totale – praticamente di sterminio – condotta da Erdogan sia contro i curdi che contro la natura del Kurdistan. Un’associazione ambientalista curda quantifica in più di un milione e trecentomila dunum (unità di misura corrispondente in genere a mille metri quadri, ma che in Iraq può corrispondere a 2500 metri quadri) le aree boschive incenerite dal fuoco. Praticamente il 35% delle foreste del Kurdistan del Sud. Distruggere l’ambiente naturale, incendiare le foreste, bombardare le montagne… rientra a pieno titolo nelle pratiche criminali – propedeutiche al genocidio – adottate da Ankara per risolvere manu militari la questione curda.
Ricordiamo che dal 2015 al 2019 l’aviazione turca ha bombardato – devastandolo – il Kurdistan del Sud circa 700 volte.
E nel solo 2020 già altre 300 volte. Oltre a causare morti e feriti, gli attacchi hanno costretto migliaia di persone a fuggire altrove. Incalcolabili poi i danni subiti dall’agricoltura e dalla fauna locale.Per esempio i recenti bombardamenti sulla regione di Bencewin avevano innescato rovinosi incendi che hanno ridotto in cenere centinaia di campi con la produzione agricola indispensabile per la sopravvivenza delle persone.
Di fronte a questa aperta violazione della sovranità nazionale, il sostanziale silenzio adottato dalle autorità curde locali (sia del governo che del Parlamento del Kurdistan del Sud) appare quantomeno criticabile (se non addirittura vergognoso).

Pubblicato su www.kurdistan.it il 9 settembre 2021

CONTRO VERSO
La svergognata

 

Scegliere era un dilemma insolubile per questa ragazza. Su un piatto della bilancia l’appartenenza, le radici, la visione del mondo offerta dai genitori; sull’altro il proprio progetto di vita, per quanto imperfetto, con un ragazzo non esemplare e non musulmano ma che lei amava e con cui aveva concepito un bambino.

La svergognata

Mi ci han proprio costretto
qui, dentro casa mia.
Mi hanno dato un biglietto
per andarmene via.
Mio papà mi ha strappato
la carta di soggiorno
e così si è accertato
non facessi un ritorno.

C’è in Italia un fagotto
concepito per sbaglio
in un giorno d’agosto,
ed è stato un abbaglio.
Non dovevo sperare
che ci fosse l’amore,
non dovevo contare
su un domani migliore.

Io non sono credente
lui non è musulmano.
Il Corano è stringente
non darà la mia mano
a un ragazzo infedele
che oltretutto ha sbagliato,
mi seduce col miele
ma ha un destino segnato.

So che è stato in galera
per reati da poco.
Lui mi ha detto che aveva
cominciato per gioco.
Io lo amo ma ammetto
che è uno scavezzacollo.
Ora gli credo e lo aspetto,
il giorno dopo lo mollo.

Ho voluto abortire
ma non ero più in tempo.
Ho dovuto mentire
ed è stato un tormento.
Ero incinta quel giorno
quando m’han fidanzata.
Si è saputo al ritorno
ch’ero già svergognata.

Libertà non è data
libertà non esiste.
Sono stata avventata
e mio padre insiste
che la sua preferita
l’ha distrutto per sempre.
La sua vita è finita
e il Corano non mente.

Io l’ho ormai rovinato
demolito, travolto
con quel bimbo che è nato
di cui non so più il volto.
Non dovrebbe avvenire
che un bambino è un ingaggio.
Non dovrebbe servire
tutto questo coraggio.

Amputarmi il passato
tutto ciò a cui appartengo
o abbandonare un neonato
che è quel figlio a cui tengo?
Affrontare il rigore
l’ostracismo la rabbia
o congelare il dolore
e restarmene in gabbia?

È una scelta feroce
e ho vent’anni appena
non ho cuore né voce
e non sono serena.

Gli adolescenti stranieri di seconda generazione portano su di sé un compito gravoso. Costretti a scegliere tra identità e appartenenza, attanagliati dal senso di colpa per la sofferenza che infliggono ai genitori semplicemente osando immaginare un futuro diverso da quello pensato per loro, qualche volta vengono intercettati dalla giustizia minorile – che nella mia esperienza lavora in un’ottica di mediazione ogni volta che si può, e con un taglio netto verso comportamenti inaccettabili quando il pericolo è alto e la mediazione è rifiutata dalle persone in causa.

CONTRO VERSO, la rubrica di Elena Buccoliero con le filastrocche all’incontrario, le rime bambine destinate agli adulti, torna su Ferraraitalia  il venerdì. Per leggere i numeri precedenti clicca [Qui]

Se i lavoratori rialzano la testa…
Una risposta popolare all’Italia disuguale di Bonomi e Draghi

 

Il dibattito pubblico, se si eccettuano le vicende afgane, continua ad essere dominato dalle questioni legate alla sindemia [Vedi qui] e ai vaccini. Si presta, così,  troppa poca attenzione a cosa sta avvenendo in sfere fondamentali della vita delle persone. L’adagio ripetuto a più riprese che “niente sarà più come prima” viene confermato, con il rischio concreto però che “il dopo sia peggio del prima”, che non si torni alla normalità precedente, ma ad una ancora più brutta.

Ci sono alcune vicende emblematiche che ci dicono come sul tema del lavoro e dei diritti dei lavoratori il peggio sia già arrivato. La prima è senz’altro quella della GKN di Campi Bisenzio , che riguarda circa 500 lavoratori investiti da uno spregiudicato processo di delocalizzazione con conseguente chiusura da parte della proprietà, il Fondo speculativo inglese Melrose, che non si ritiene soddisfatto dei risultati aziendali e che ha aperto via WhatsApp la procedura di licenziamento per tutti i lavoratori che scade il prossimo 22 settembre.
Ora, quello che lascia interdetti, a fronte di una forte mobilitazione dei lavoratori e della creazione di un ampio fronte di solidarietà attorno ad essi, è il silenzio assordante della politica, che oscilla tra pensare a blande misure di contrasto alle delocalizzazione selvagge sulla base del modello francese (un modello che non ha funzionato per niente) e offrire qualche limitato periodo di ricorso alla cassa integrazione. L’unico che fa sentire forte la propria voce è l’immancabile presidente di Confindustria Bonomi, che spiega che questa è la normale logica di mercato e che non ci si può opporre ad essa, pena la scarsa attrattività del nostro Paese nei confronti dei capitali stranieri.
Sulla vicenda GKN e sulla grande mobilitazione in atto rimando al reportage di Marina Carli recentemente apparso su questo quotidiano. [leggi qui]

Altrettanto emblematica è la vicenda della nascitura ITA, la nuova compagnia aerea di bandiera che sta prendendo il posto di Alitalia. Qui siamo in presenza non solo di un piano industriale molto debole e di una grave mancanza di volontà di affrontare il tema dei cosiddetti ‘esuberi’, visto che la nuova società assorbirà circa 2500 addetti, 8000 in meno rispetto agli attuali 10.500 dipendenti Alitalia (a cui si aggiungono gli oltre 600 del call center Almaviva, anch’esso soggetto ad un destino di delocalizzazione ), e a cui si prospetta semplicemente un periodo più o meno lungo di ammortizzatori sociali.
In più, ITA non intende applicare il contratto nazionale del settore aereo, preferendo avvalersi di un contratto aziendale (o regolamento?) che peggiora le condizioni in essere dei lavoratori.
Non paga di tutto ciò, ITA ha chiesto a chi fosse interessato ad essere occupato a quelle nuove condizioni di mandare appositi curricula, ricevendone più di 20.000. Una scelta inequivocabile, che esprime precisamente un modo per bypassare o, perlomeno, fortemente condizionare la trattativa sindacale e per mandare in soffitta il principio basilare del passaggio dei lavoratori dall’azienda cessata a quella subentrante. 

In questo breve excursus, di cui si potrebbe dire, seguendo Agata Christie, che se due coincidenze formano un indizio, tre diventano una prova, non si può non fare riferimento al tema della mancata copertura economica nel 2021 per i lavoratori del settore privato, nel caso in cui essi siano soggetti a quarantena perché colpiti dal Covid o essere stati in contatto con essi. Oltre alla forte perdita economica (parliamo di circa 500 euro per 10 giorni), colpisce la ‘dimenticanza’ in materia da parte del governo, visto che si ragiona di una necessità di alcune centinaia di milioni di euro.
Nel momento in cui si continua a legiferare velocemente con decreti o, addirittura, a costruire soluzioni con DPCM, è solo un pensiero malevole quello che suppone che, anche qui, si voglia dire all’insieme del modo del lavoro che si può dimenticare le ‘protezioni’ di cui finora aveva goduto?

Potrei continuare, citando altre vertenze in atto, come quella che vede impegnati i lavoratori della Whirpool di Napoli, della Gianetti di Brescia o quella scandalosa della Texprint di Prato, dove la polizia ha sgomberato con la forza gli operai (stranieri) e i sindacalisti che sono ricorsi allo sciopero della fame per rivendicare l’applicazione del contratto nazionale di lavoro (8 ore per 5 giorni la settimana anziché 12 ore sette giorni su sette) – come giustamente segnalato da Nicola Cavallini su questo quotidiano [Vedi qui] – oppure ragionando sulla discussione che si sta aprendo su reddito di cittadinanza, pensioni e riforma degli ammortizzatori sociali, ma tutto ciò a me pare sufficiente per affermare che non siamo in presenza di singoli episodi, ma ad un’impostazione complessiva che guarda alla riduzione dei diritti dei lavoratori e al fatto di considerare gli stessi come merce, come tante altre, soli di fronte al mercato e ai suoi idoli.

E infatti, se ce ne fosse bisogno, ulteriore conferma arriva da quanto sta succedendo nel mercato del lavoro e rispetto all’occupazione. Da una parte, assistiamo alla celebrazione di una forte crescita nel 2021: il ministro Franco ha annunciato che siamo al +5,8% rispetto al 2020, con la possibilità di arrivare al +6%, risultato salutato come indicatore di una sorta di nuovo boom economico, anche se, molto probabilmente, non siamo di fronte a nient’altro che ad un forte rimbalzo rispetto al calo di quasi il 9% nel 2020 rispetto al 2019.
Dall’altra, la situazione dell’ occupazione appena diffusa dall’ISTAT rende conto che da gennaio di quest’anno gli occupati sono sì cresciuti di 550mila unità, ma ne mancano ancora circa 265mila per tornare ai livelli pre Covid. Soprattutto, nel periodo luglio 2020 – luglio 2021, la gran parte dei nuovi occupati, pari a 440mila, sono il prodotto di un calo dei lavoratori indipendenti e di una crescita di quelli dipendenti (+ 502mila), ma di questi ultimi solo 125mila sono contratti a tempo indeterminato, mentre ben 377mila appartengono alla categoria dei contratti a termine.
Insomma, tutte le tendenze e le scelte concrete in atto disegnano un quadro per cui i tratti della precarietà e della concorrenza tra i lavoratori diventano sempre più la normalità del lavoro, che essi segnano le modalità con le quali si affrontano le situazioni di crisi e di ristrutturazione aziendale, che lo stesso contratto nazionale va considerato uno strumento che appartiene più al passato delle relazioni industriali, destinato ad essere superato da regolamenti aziendali e dalla contrattazione tra le aziende e i singoli lavoratori.

Del resto, lo stesso scontro sulla questione del blocco dei licenziamenti aveva come posta in gioco esattamente questo: non si trattava tanto di una questione legata alla possibile devastazione di un crollo occupazionale, quanto piuttosto alla determinazione delle forze che decidono sulle dinamiche dell’occupazione e sui vincoli che la regolano. Mano libera dell’impresa e primato del mercato: sembra questo il mantra che viene ripetuto ancora oggi, dopo che esso è all’opera da molti anni, e che viene agitato con un’intenzione di arrivare ad una sorta di resa dei conti finale, scommettendo tutto sulla ripresa della crescita e sulla quantità ragguardevole di risorse pubbliche che provengono dal PNRR.
Può sembrare un paradosso, ma la più grande mole di investimenti pubblici che viene messa a disposizione da molti anni in qua è finalizzata a ricostruire la centralità del mercato e delle sue logiche. Se ci pensiamo bene, questa è la cifra del governo Draghi e del suo ‘ordoliberismo’, e cioè di un intervento pubblico volto a ricostruire e rilanciare il mercato. Peccato che esso sia destinato a produrre disastri sociali, a costruire possibilità per alcuni a prezzo della competizione tra le persone, chiamando tutto ciò meritocrazia, ma, in realtà, lasciandole sole di fronte al mercato e, soprattutto, generando situazioni in cui molte saranno ‘lasciate indietro’, a dispetto di quanto recita la propaganda ufficiale.

Fa decisamente tristezza, per non dire altro, sentire Enrico Letta dire che questo è il governo del PD.

Serve, invece, uno scatto di consapevolezza, che ad oggi manca anche anche al sindacalismo confederale, che non sembra comprendere le dinamiche che si stanno sviluppando e che non vede la necessità di unificare le varie vertenze che sono in corso.
Serve anche, un di più di ‘insorgenza’, come ci ricordano i lavoratori di GKN, che hanno ben chiaro che la loro non è una solo una lotta per la difesa dei posti di lavoro, ma una battaglia di valore nazionale – e per questo chiamano ad una giornata di mobilitazione il 18 settembre a Firenze, cui sarà bene partecipare in molti – , per la democrazia – e non a caso stanno scrivendo, con il supporto di numerosi giuristi, una legge per contrastare le delocalizzazioni -, per un altro modello sociale e produttivo.

In copertina: Campi Bisenzio (FI), 28 agosto, 2021: il palco della manifestazione davanti alla fabbrica GKN occupata (foto di Marina Carli)

ANTROPOLOGIA DEL VAXLEBANO

 

Voi siete di quelli per i quali il mondo, benché a colori, viene meglio fotografato in bianco e nero?
Di quelli che, pur consapevoli della sfuggevolezza della verità assoluta, si sentono di norma in grado di attingere con discreta sicurezza quella relativa?
Se sì, sentiamo diversamente. Più passa il tempo e più mi sembra di comprendere intimamente il senso del socratico sapere di non sapere: non la semplice ammissione del fatto che il volo della conoscenza è costellato di sistematiche turbolenze; piuttosto, l’affermazione radicale di un corto circuito tra conoscenza e consapevolezza, il cui rapporto autentico è sorretto da un ‘non’, cioè sospeso positivamente su una cavità essenzialmente incolmabile.
Immaginate, dunque, come possa sentirmi nel frastuono incontrollato del dibattito attuale su covid, vaccini, società.

Come tutti, mi auguro senz’altro che la situazione possa ben presto migliorare dal punto di vista sanitario, nonché da quello psicologico. Come tutti, spero che le vaccinazioni possano effettivamente avvicinare questo traguardo, e che altri strumenti possano concorrere nella stessa direzione.
Mi sento dunque molto lontano dai cosiddetti no-vax, ovvero da quelle persone che rifiutano le vaccinazioni per convinzioni a priori sottratte a ogni ragionevole dubbio.
Me ne sento lontano sulla questione specifica – le vaccinazioni – e almeno altrettanto sull’insensibilità di fondo verso il più longevo e forse nobile strumento del pensiero occidentale: quel dubbio radicale anch’esso edificato su una cavità, come il logos socratico.
Per fortuna, i veri no-vax sono piuttosto pochi, e il loro conflitto fideistico contro il dubbio sfocia nel clamore stridulo del settarismo.
A qualcuno però, nella situazione della pandemia, questa esiguità pare dar fastidio. Qualcuno sente l’esigenza di moltiplicare il numero dei no-vax, vedendone ovunque. Il meccanismo è semplice: chiunque nutra in qualsivoglia modo un dubbio a proposito delle vaccinazioni anti-covid è, ipso facto, no-vax.

Si tratta di una manipolazione alla quale si è dedicato lo stesso Ministero dell’Istruzione quando, in una pagina del sito istituzionale (si spera ora rivista) ha definito appunto ‘no-vax’ gli oltre centomila lavoratori della scuola ai quali non risultava ancora somministrato il siero anti-covid.
Indubbiamente, tra questi centomila vi saranno anche dei veri no-vax, ma la grande maggioranza è certamente composta da persone che, in circostanze diverse, si sono sottoposte a pratiche vaccinali e hanno ad esse sottoposto i propri figli, ma che dubitano, magari a torto, del reale beneficio degli specifici prodotti in questione.
In conseguenza della manipolazione, l’espressione di un dubbio determinato, e dunque a certe condizioni oltrepassabile, viene stigmatizzata e ingigantita nella professione di una fede superstiziosa e oscurantista.
Ciò che ci si rifiuta di esporre al dubbio è il dogma biopolitico della provvidenzialità dei vaccini anti-covid. Qualsiasi esitazione o riflessione in proposito sconfina di per sé nella blasfemia, nel quadro di una reazione allergica verso il dubbio equiparabile a quella che offusca l’autentico no-vax.

A questi sembra dunque opporsi, nel nostro tempo asfissiante, il devoto vaccinale, l‘integralista del siero: il vaxlebano.
Il vaxlebano contrappone instancabilmente a ogni proposizione di dubbio la mozione autoritaria: come fai a dirlo tu, che non sei virologo? Dimentica di non esser virologo neanche lui, ma soprattutto che la Costituzione italiana non assicura solo ai medici la facoltà di decidere dei trattamenti sanitari che riguardano la propria persona, perché la democrazia è diversa dalla tecnocrazia – e in particolare dalla iatrocrazia – in quanto, laddove la legge non disponga diversamente, i cittadini sono liberi di abitare il proprio corpo e di prendersene cura in base a convinzioni e sentimenti soggettivi.
Il vaxlebano si fa un selfie con dei cucchiaini da caffè rovesciati sugli occhi e un ghigno alieno. Poi, naturalmente, posta il tutto, irridendo nel commento il dubbio eretico (coltivato anche dall’EMA) sugli effetti indesiderati a medio e lungo termine e, nel contempo, le non poche persone che di reazioni avverse gravi, persino mortali, hanno sofferto anche nell’immediato.
Il vaxlebano lancia anatemi sui non vaccinati perché per colpa loro non si raggiungerà mai l‘immunità di gregge. Quando si fa chiaro che l’immunità di gregge è un sogno, lancia anatemi ancor più densi, perché i non vaccinati sono il cardine della diffusione del contagio. Quando si fa chiaro che il passaggio del virus non è così frenato dall’avvenuta vaccinazione, escogita anatemi supremi ed esige che il non vaccinato non usurpi il posto in terapia intensiva di chi se lo è guadagnato onestamente fumando due pacchetti al giorno, sfondandosi di superalcolici o cibandosi forsennatamente di grassi saturi. E, se proprio lo deve occupare, almeno se lo pagasse di tasca sua! (Quest’ultima, purtroppo, non è di un vaxlebano anonimo, bensì dell’Assessore alla Sanità della Regione Lazio).

A proposito di quattrini, il vaxlebano arriva a chiedere persino forme di persecuzione tributaria. Ho visto con i miei occhi sui social post in cui si proponeva di avviare accertamenti fiscali a tappeto sui non ancora vaccinati, quindi no-vax, .
Il vaxlebano plaude al fatto che un quattordicenne sia messo, a scuola, nella posizione di chi impedisce al resto della classe di eliminare la mascherina, determinandone una condizione di etichettamento che, se discendesse da ragioni razziali o di orientamento sessuale, farebbe giustamente inorridire il vaxlebano stesso.
Il fatto, poi, che se il quattordicenne in questione vivesse nel Regno Unito, il paese che più tempestivamente e forse più intensamente di tutti ha pigiato sull’acceleratore delle vaccinazioni, non verrebbe oggi ‘immunizzato’ [vedi l’articolo su La Stampa] non riconcilia minimamente il vaxlebano con il dubbio.

Perché, dunque, il vaxlebano non dovrebbe anche plaudere al fatto che il suo vicino di casa o sua cugina vengano privati del lavoro, del reddito e, quindi, della dignità, per non essersi sottoposti a un trattamento sanitario al momento facoltativo secondo la legge?
Dunque, si plaude. Così, se il no-vax vero genera il clamore stridulo del settarismo, il vaxlebano produce il fragore sinistro del conformismo nichilistico, il quale di solito accompagna il passo della massa.
Speriamo non sia così, speriamo che anche i vaxlebani siano meno di quel che appaiono nel caleidoscopio mediatico, perché se no la domanda sarebbe: ne usciremo in questo modo?
Perdonatemi il vizio: ne dubito.

Parole a capo
Roberto Paltrinieri: “L’amore delle donne innamorate” e altre poesie

“Coloro i quali affermano che la parola, il suo profilo, il suo aspetto fonico condizionano lo sbocciare della poesia hanno diritto di vivere. Costoro hanno scoperto la strada che conduce all’eterna fioritura della poesia.“
(Vladimir Vladimirovic Majakovskij)

L’AMORE DELLE DONNE INNAMORATE

Le donne innamorate
ti guardano
appena sveglie
al primo mattino
con occhi che ridono di sogni
La risacca del mare
è la loro voce
riempie le orecchie
Come il frangersi
di spumose onde
su alte scogliere
sommerge l’anima
il loro amore
Sanno del profumo
di asfalto bagnato
dalla pioggia d’estate,
di erba falciata,
del corpo
appena fatto l’amore
Trattengono nei pugni chiusi
sempre la stessa innocenza
della prima volta
Le senti ridere
di giorno
fino nella pelle
ma non senti mai
il sale delle lacrime
asciugate in tutta fretta
di notte
Il loro amore
vince anche il Tempo…
quando amano
e quando lasciano
è per sempre.

GRAZIE PER L’ AMORE

Grazie per l’amore
che scende
a sigillare tutte le fessure
Grazie per le mani aperte
strette
sull’ultimo saluto
per i piedi che scappano
noia e banalità
Per le parole sempre nuove
per quelle della notte
non trattenute
Grazie per le passeggiate
nel bosco dei silenzi
Per gli accostamenti
di sospiri
Per la casa senza specchi
senza porte
Grazie perché invecchi
Perché ti fermi
per farti trovare sempre
sui battiti del cuore

GIULIETTA E ROMEO
(out of order)

Ho perduto la mia Giulietta
è rimasto solo
il tuo Romeo
I dottori hanno tentato
ma nulla han potuto contro
il pugnale del tuo male
Te lo avevo promesso
con mille baci
tenendoti per mano
in ospedale
non ti lascio sola
ti raggiungo subito
dovunque andrai
Ma poi dopo di te
mi son perduto
anch’io
e non mi rimane che
aspettare tutto il giorno
fuori nella via
il tuo impossibile ritorno
Nella notte
il cuore
rimbalza sempre più forte
sul pavimento
e sbatte sul soffitto
al pensiero di te
adesso cosi lontana
Perdonami Giulietta
non sono stato un buon Romeo
non ho avuto il tuo coraggio
non sono riuscito a bere
il mio veleno
E diventar vecchio
senza di te
mi è insopportabile
Adesso i baci
li posso mettere solo
nelle parole
per far baciate
almeno queste rime
mentre provo
a ritrovare coraggio
con questa poesia
per te

PUOI ENTRARE QUANDO VUOI

Sarò fuori
ma è sempre aperto
La porta è solo accostata
puoi entrare quando vuoi
Ho messo da parte
i tuoi colori preferiti
quelli sfumati
quelli del cielo
Sono accanto
alle essenze
dei profumi fioriti
dal bosco ricavati
Di silenzio poi
ne trovi quanto ne vuoi
Appena arrivo
travolgimi
abbracciami
raccoglimi
Vorrei farti subito
ridere di gusto
prima che il tuo sguardo
si faccia triste
come sempre
al calar della sera
Lo so
si è fatto tardi
Non dimenticarti
i tuoi colori preferiti
e i tuoi profumi fioriti
ma non chiudere
accosta solo
prima di partire…
è il mio cuore
non c’è nulla
da rubare

IL PIU’ BEL COMPLEANNO

Nel giorno del tuo
più bel compleanno
ti auguro
la Notte di Natale
Ti auguro un amico
che porti  gentilezza
Ti auguro l’aurora
Ti auguro i vespri cantati
e subito dopo il silenzio
Ti auguro di perderti
e poi perduto di ritrovare
le follie fatte per amore
Ti auguro
una lunga camminata
Ti auguro una mano stretta
ma stretta forte
Ti auguro che ti manchi
sempre qualcosa
e pochi soldi per comprarlo
Ti auguro davanti a te un padre
e a fianco una madre
di avere dei figli
per sapere che esiste qualcosa di più del sole
Ti auguro di non rubare nulla
Ti auguro di non venderti mai
e di perdonare sempre
di non conoscere la violenza
di essere di aiuto almeno
per un po’
Ti auguro di essere buono
o di diventarlo presto
Ti auguro di girarlo questo mondo
ma anche di stare bene a casa tua
Ti auguro di accontentarti
Ti auguro di accompagnare i sentimenti
con le parole
e ti auguro di usarle con Dio
di sentirlo vicino
e quando non lo sentirai più
di essergli vicino tu

Roberto Paltrinieri (1958), docente di scuola superiore a Ferrara, collabora a Ferraraitalia scrivendo articoli, racconti e poesie.

La rubrica di poesia Parole a capo curata da Gian Paolo Benini e Pier Luigi Guerrini esce regolarmente ogni giovedì mattina su Ferraraitalia. Per leggere i numeri precedenti clicca [Qui]

“Il punto di dio”?
Spirito e ragione, da che parte pende la bilancia

 

Pare che abbiamo “il punto di dio”: non dimostrerebbe l’esistenza di un dio, ma spiegherebbe perché abbiamo la tendenza a porci le cosiddette “domande ultime”.

Secondo le ricerche condotte alla fine degli anni Novanta da un team dell’Università della California esisterebbe nel nostro cervello un “punto di dio”, una sorta di centro spirituale, incorporato tra le connessioni neurali nei lobi temporali del cervello. Il punto si attiva alla menzione di dio, ma le reazioni variano tra Occidente e Oriente, tra Cristiani, Buddisti e Musulmani a seconda dei simboli significativi per ciascuno.

Al punto di dio si aggrappano i sostenitori del SQ, il quoziente di intelligenza spirituale. Il secolo scorso si era aperto con la scala Binet-Simon [Qui] per misurare il QI, il quoziente di intelligenza. Da allora è stato tutto un misurare le intelligenze fino al blasonato Mensa [Qui].

Con la metà degli anni ’90, però, i neuroscienziati hanno complicato le cose, scoprendo che l’EQ, il quoziente di intelligenza emotiva, è altrettanto importante del QI. Anzi, secondo Daniel Goleman [Qui], autore di “L’intelligenza emotiva”, l’EQ è un requisito fondamentale per un uso efficace del QI. Insomma, non ci sarebbe ragione senza cuore, come scrive l’autore del Piccolo principe: “Non si vede bene che col cuore. L’essenziale è invisibile agli occhi.”

Già Howard Gardner [Qui] ci aveva spiegato che le intelligenze sono multiple, almeno sette, ma pare che non sia del tutto così. Ora un libro, che ha inaugurato il secolo nuovo, SQ.Spiritual Intelligence.The Ultimate Intelligence di Danah Zohar [Qui] e Ian Marshall ci spiega che c’è uno stato più alto di intelligenza che comprende sia il QI che l’EQ, si tratta dell’SQ: l’intelligenza spirituale.

L’intelligenza con cui collochiamo le nostre azioni e le nostre vite in un contesto più ampio, ricco, dotato di significato, l’intelligenza con cui attribuiamo valore al nostro agire. SQ è la base necessaria per il funzionamento efficace sia del QI che dell’EQ. È la nostra ultima intelligenza.

Il Dizionario Webster, quello di Noah Webster [Qui], considerato il padre dell’educazione e della scuola americana, definisce lo spirito come “il principio animatore o vitale; ciò che dà vita all’organismo fisico in contrasto con i suoi elementi materiali; il soffio della vita “. Gli esseri umani sono essenzialmente creature spirituali, perché sono spinti alla ricerca dei significati fondamentali della loro vita.

Alcuni antropologi e neurobiologi sostengono che è stata questa ansia di significato a premere sull’evoluzione, a spingere gli esseri umani a lasciare gli alberi circa due milioni di anni fa. Il bisogno di significato, dicono, ha dato origine all’immaginazione simbolica, all’evoluzione del linguaggio e alla straordinaria crescita del cervello umano.

L’intelligenza spirituale non ha nulla a che fare con la religione, ci sono atei con un SQ molto alto e religiosi con un SQ molto basso. Si può testare il proprio SQ. Un’intelligenza spirituale altamente sviluppata include la capacità di essere flessibili, attivamente e spontaneamente adattivi. Un alto grado di consapevolezza di sé. La capacità di affrontare e utilizzare la sofferenza, di affrontare e trascendere il dolore, essere ispiratiti da visioni e valori, insomma una sorta di ‘Giovanna d’Arco’.

C’è la riluttanza a causare danni inutili, che evidentemente non è una qualità spirituale particolarmente diffusa nella nostra epoca. Avere una visione olistica delle cose, essere in grado di creare connessioni. Possedere una marcata tendenza a porre domande ‘Perché?’ o ‘E se?’, a cercare risposte agli interrogativi fondamentali, lavorare contro le convenzioni.

Pare che una persona con un alto SQ sia anche un servant leader, custode di visioni e valori superiori, capace di mostrare agli altri come usarli, in altre parole una persona che ispira gli altri. Magari Gandhi, Martin Luther King, ma poi basta, il SQ deve essersi esaurito.

Uno si chiede come curare i suoi tre Quozienti. Passi per QI che puoi allenare con i giochini di logica e la Settimana Enigmistica, ma per gli altri due, quello Emotivo e Spirituale le cose si complicano.

La società moderna in cui viviamo risulterebbe avere un SQ piuttosto basso, la nostra cultura sarebbe spiritualmente stupida. Secondo i sostenitori del SQ ad essere spiritualmente stupido è soprattutto il mondo occidentale.

A detta del drammaturgo americano John Guare [Qui] manchiamo di immaginazione, scrive nel suo Six Degrees of Separation: “Una delle grandi tragedie dei nostri tempi è la morte dell’immaginazione. Perché cos’altro è la paralisi? Credo che l’immaginazione sia il passaporto che creiamo per portarci nel mondo reale. È un altro modo di esprimere ciò che è più singolare in noi. Per affrontare noi stessi…. l’immaginazione è il luogo in cui stiamo tutti cercando di arrivare …”

Detta così l’intelligenza spirituale non sembra tutta questa novità. L’élan vital di Bergson [Qui] è qualcosa di simile, ritorna in auge con il New Age, il prana, il Ki, delle filosofie orientali, energie fondamentali dell’universo, energie residuali della creazione, che si trovano in ogni essere umano.

Tra i tre Quozienti quartum non datur. QI, EQ e SQ, non contemplano necessariamente il QR che non è quello del code. Il QR è il Quoziente Razionale, che è quello che pare mancarci più di tutti, la propensione al pensiero riflessivo, ovvero la capacità di fare un passo indietro rispetto al nostro modo di pensare usuale, per correggere le tendenze difettose.

Intelligenza e razionalità sono attributi cognitivi separati, con il vantaggio che la razionalità, se esercitata, si migliora e ci migliora, aiutandoci a non cadere nelle fallacie cognitive.

Per leggere gli altri articoli di Giovanni Fioravanti della sua rubrica La città della conoscenza clicca [Qui]

PER CERTI VERSI
8 Settembre

8 SETTEMBRE
Otto settembre
Tutte le volte
Con intonsa
Puntualità
Il rigurgito
Acido
Gastroesofageo
Si certo
L’apogeo
Della meschinità

Cover. Korfu, soldati italiani dopo l’8 settembre 1943 (Foto Cuno, licenza Wikimedia Commons)

Ogni domenica Ferraraitalia ospita ‘Per certi versi’, angolo di poesia che presenta le liriche del professor Roberto Dall’Olio.
Per leggere tutte le altre poesie dell’autore, clicca
[Qui]

… a Mantova … al Festivaletteratura!
Un’emozionante lezione en plen air

 

Apre oggi la 25° edizione del Festivaletteratura di Mantova [qui il programma completo]. Di festival è ormai piena l’Italia, ogni borgo e città si inventa una materia, un argomento, e chiama a raccolta scrittori, critici e professori di chiara fama. Il Festivaletteratura è qualcosa di più e di diverso. E non solo perché è il capostipite, il primo di tutti i festival sorti sulla scia del suo successo, o per l’inarrivabile ricchezza degli appuntamenti in programma, ma per quello che ci sta dietro. Non uno scaltro manager culturale, o un assessore in cerca di gloria riflessa, ma un gruppo di lavoro appassionato e competente. Da qui nasce un’offerta culturale – sociale e culturale – che riesce a parlare tante lingue per tanti pubblici diversi: lettori resistenti, appassionati di libri, bibliotecari, studenti, insegnanti, adolescenti, fino ai piccoli e piccolissimi.
Si va a Mantova per assistere a quel particolare incontro, evento, reading, per ascoltare dal vivo l’autore preferito, per partecipare a un’intrigante iniziativa collaterale. Ma si va, e si ritorna ogni anno, anche per respirare un’aria tutta particolare, un garbato profumo di cultura che sembrava scomparso, fagocitato dal divismo o dallo sciocchezzaio dei media.
Roberta Barbieri, assieme ad altri due redattori inviati di
Ferraraitalia, seguiranno il festival nei prossimi giorni. Ma Roberta è una veterana, per oltre 10 anni ha partecipato attivamente al Festivaletteratura, andando regolarmente a Mantova assieme ai suoi studenti del liceo. Ecco il suo racconto.
( Francesco Monini)

– Arrivati! Forza ragazzi, bisogna scendere.  L’ho detto per molti anni di seguito all’arrivo a Mantova, o l’ho sentito dire alla mia collega, ogni volta che siamo sbarcati dal treno alla stazione ferroviaria. Sempre di mercoledì, nella tarda mattinata del primo giorno del Festival.
– E’ lontana la palestra, profe?
– No, ci carica i bagagli un pulmino dell’accoglienza volontari che è già fuori dalla stazione. Noi lo seguiremo con le bici fino al Piazzale Gramsci, la palestra è lì vicino. Ci staremo poco, il tempo di sistemare le nostre borse; poi dobbiamo passare in Piazza Leon Battista Alberti a ritirare la lista dei nostri servizi per i cinque giorni e di corsa in mensa, che non è vicina. Qualcuno di noi potrebbe avere già il primo servizio oggi nel primo pomeriggio. Coraggio.
– Chi ci dirà cosa dobbiamo fare, profe?
– Il vostro capo squadra vi darà gli incarichi. In genere si accoglie il pubblico stando all’entrata, si  gestisce la cassa, oppure si rassetta la platea ogni volta e la si prepara per l’incontro seguente. Cose così. Chiamate pure se avete bisogno, ma vedrete che vi inserirete bene nella squadra a cui sarete assegnati.

Volontari Festivaletteratura
Mantova, settembre 2019: Foto ricordo di un gruppo di ragazzi volontari del Festivaletteratura

Il gruppo si muove, in media sono quindici tra ragazze e ragazzi del nostro Liceo, che anche quest’anno abbiamo scelto con fatica tra i tanti che si sono candidati, più noi due docenti che li accompagnamo. Lo dico meglio: ogni anno, almeno dal 2003, siamo diciassette appassionati di lettura, che vengono qui a fare i volontari, con la voglia di essere dentro agli ingranaggi del Festival:  incontrare autori già conosciuti tramite le letture, oppure autori nuovi e chiedere loro un contatto telefonico o una mail per invitarli a venire a scuola durante l’anno scolastico, fare la conoscenza di altri relatori e delle loro idee sul mondo e di altri giovani volontari, perché no.
C’era da dormire (poche ore) sui letti di cartone pressato nella palestra che ci veniva assegnata ogni anno; tutti insieme a esibire i nostri pigiamini leggeri per le prime notti fresche di settembre; a darci il cambio per le docce con spugne e biancheria di ricambio tra le mani. Non ricordo che ci fosse tutto questo imbarazzo: si parlava fitto fitto di eventi già avvenuti e di come era andata.
Chi aveva avuto incontri carismatici, o era rimasto folgorato da un autore nuovo non la finiva più di dare dettagli. L’anno in cui ci venne dato un buono acquisto per i libri esposti in piazza Castello, sotto il tendone della libreria del Festival, fu tutto un citare titoli o mostrare gli acquisti già fatti, anche se era la mezzanotte passata e alcuni crollavano per la stanchezza accumulata in dieci ore di servizio, più le lunghe corse in bici per spostarsi in città.

Non ricordo alcuna lamentela. L’unica, ma è successo di rado, quando la postazione assegnata a qualcuno di noi era un po’ defilata e non dava l’opportunità di fare grandi incontri. Una volta mi sono lamentata io perché mi era toccato il servizio all’evento delle 5.30 al Campo Canoa e la sveglia andava puntata alle 4.30. La sera, però, ho dovuto ritrattare il mio disappunto. Avevo visto sorgere il sole dietro le torri della città, una meraviglia, attraversando a piedi il ponte sul Mincio insieme al gruppo dei visitatori. Molti, in realtà, venuti in quella mattina di settembre del 2008 ad assistere a Sottosopra Mantova e a seguire la guida mirabile di Stefano Scansani.

Voglio ricordare così tutti i ragazzi che sono venuti a Mantova insieme a me, come dei lettori appassionati e adulti e voglio sperare che abbiano percepito noi docenti come delle giovani e appassionate lettrici.
Avevano sedici anni o poco più. Scavalcate le ansie delle famiglie, che prima di partire chiedevano dove dormirete, dove mangerete, starete insieme o sarete sparsi per la città; superate le enormi difficoltà del viaggio per ferrovia, neanche Mantova fosse di là da un oceano; trovate in loco o portate in qualche modo le bici da Ferrara, i cinque giorni del Festival, dal mercoledì alla domenica della prima o seconda settimana di settembre, erano un intenso tempo magico, uno spazio magnetico, in cui ad avere importanza erano prima di tutto gli eventi.

Qualcuno posso ricordarlo.
Per esempio quella volta al Blurandevù, di sera tardi. Tutti di corsa verso la Piazza Virgiliana sulle bici stanche come noi alla fine dei rispettivi servizi in diverse postazioni nella città.
C’è David Grossman [Qui] e due delle nostre ragazze sono nel gruppo che ha preparato l’intervista. Arriviamo e ci sediamo a terra, ai margini della siepe che il pubblico ha formato con le schiene accalcate. E comincia un dialogo intenso tra lui e i giovani che gli fanno domande, un dialogo che ascoltiamo nel silenzio totale che si è fatto.
Grossman estrae uno alla volta dei bigliettini da un’urna di vetro che i suoi intervistatori hanno preparato: ogni foglietto contiene una parola chiave, che diventa una domanda. Quando l’ospite risponde alla parola pace siamo tutti rapiti dalla profondità delle sue parole, dalla semplicità con cui si apre a noi.

Era forse l’edizione del 2006: ricordo a flash che parlando della situazione in cui si trovava l’area arabo palestinese si disse molto preoccupato per i suoi figli; che lo scrivere romanzi gli permetteva di allontanarsi dalla sua città, Gerusalemme, e dalla bruttezza del mondo circostante e di cercare nella dimensione dell’immaginario la propria identità. Ricordo la sua intensità nel dare le altre risposte su parole come amicizia, diritti e altre così. Alla fine fu un applauso liberatorio per tutti, lungo e bello. Che bravi i ragazzi a fare così l’intervista, continuavamo a dirci nel fresco della notte tornando più tardi del solito, tutti in fila indiana verso la palestra.

Per esempio quella volta che ritrovai nel ruolo di capi squadra, nonché responsabili della postazione al teatro Ariston, due ragazzi che erano venuti inizialmente col nostro gruppo dell’Ariosto, poi avevano ‘fatto carriera’ e ora da universitari continuavano ogni anno a esserci. Che bei ricordi abbiamo rispolverato insieme, ricordando gli aneddoti della loro prima volta al Festival.
Poi non posso non ricordare in parata le esperienze del mio servizio presso il Cortile della Cavallerizza, quando era ancora agibile, e in seguito a Palazzo San Sebastiano. Lì ho conosciuto e ascoltato tanti intellettuali, scrittrici e scrittori, economisti, giornalisti, attori e interpreti bravissimi, che hanno non solo fatto la traduzione simultanea in italiano, ma hanno animato il dialogo tra ospite e pubblico.
E un compositore, che mi avevano tanto invidiato i ragazzi; avevo l’incarico di raccontare come si era svolto l’evento per filo e per segno, al rientro in palestra. Era Giovanni Allevi [Qui], di cui poi ho ascoltato quasi tutto.

Festivaletteratura volontari
Mantova, settembre 2019: Foto ricordo di un gruppo di ragazzi volontari del Festivaletteratura

Non posso tacere dei pranzetti alla mensa, e perché no delle cene. Quando si arrivava alla spicciolata e ci si cercava con lo sguardo se i posti liberi erano sparsi tra i tavoloni che occupavano il cortile della scuola alberghiera. Quando si mise al tavolo accanto al nostro Stefano Rodotà [Qui], che aveva appena finito di parlare in Piazza Castello. Fu un momento: ci vide preparare le mani per applaudirlo e con un cenno ci fece no, continuate a mangiare. Vengo a pranzo dove pranzate voi. E i ragazzi per primi lo lasciarono essere uno di noi, che mangiava alla mensa del Festival.
Devo chiudere con due ricordi personali, ai quali tengo particolarmente. Del primo non so dire la data: finisco il mio ultimo servizio la domenica mattina e mi precipito a sentire Gianni Clerici [Qui], che parla della sua carriera di commentatore sportivo e di scrittore. Trovo anche posto a sedere ed è da lì che verso la fine, quando la parola passa al pubblico, mi vedo alzare la mano e mi sento dire che leggo da talmente tanti anni i suoi articoli sul tennis nella pagina sportiva di Repubblica da avere assorbito alcuni suoi modi di dire. Il che fa di lui nella mia carriera di lettrice un compagno di viaggio, e di questo vorrei ringraziarlo. Si alza e si mette la mano sul cuore guardando nella mia direzione. La gente applaude. Mi alzo e sul cuore metto la mia. Quando viene portato il microfono a Beppe Severgnini, che si è prenotato dopo di me, non sento quello che dice e non sentirò nient’altro fino alla fine dell’incontro.

Dell’ultimo ricordo dico invece luogo, data e ora esatta: Teatro Bibiena, ore 11.30 di sabato 6 settembre 2008. Una delle sue allieve, Elia Malagò [Qui], dialoga con Ezio Raimondi [Qui] “della sua avventura di insegnante e dell’ininterrotta pratica della lettura”, così recita il programma. Che dice anche: “Ezio Raimondi è uno dei pochi intellettuali italiani di respiro davvero europeo”.

Sono cose che so dal primo giorno in cui ho seguito la sua lezione delle 9.00 alla Facoltà di Lettere di Bologna, all’aula 2 del primo piano. Erano gli ultimi anni Settanta e io per due anni accademici mi sono seduta in prima fila: arrivavo con grande anticipo, dopo avere preso un treno all’alba e riguardavo gli appunti della lezione precedente mentre aspettavo.

Mentre ci parlava e ci affascinava (e ci dava saggi su saggi da leggere, tanto da venire soprannominato il libridinoso) le lunghe mani del professore si muovevano davanti a me. Gliele ho anche strette: il giorno della laurea quando ha proclamato il mio voto e una volta per strada a Ferrara, molti anni dopo. Era venuto per una Lectura Dantis alla Biblioteca Ariostea, nell’incontro casuale che ne era seguito lungo la Via Mazzini mi aveva riconosciuta e salutata. E ora ero qui, seduta ad applaudirlo nel teatro gremito di suoi ex allievi, in una atmosfera così struggente da essere elettrica. Durante l’applauso finale che non finiva mi sono scese due belle lacrime e le ho lasciate scorrere.

Di mercoledì, quest’anno il giorno 8 settembre, comincia l’edizione n.25 del Festivaletteratura e io, anche se da un anno non insegno più e non posso portarci i ragazzi, non posso nemmeno mancare.

Per leggere gli altri articoli e indizi letterari della rubrica di Roberta Barbieri clicca [Qui]

#INSORGIAMO
Si allarga la lotta degli operai licenziati GKN:
il 18 settembre a Firenze la Manifestazione Nazionale

 

Sono passate diverse settimane da quando, in prima pagina o in modo meno evidente, tutti i giornali hanno riportato il caso degli operai di GKN Driveline, cioè la vergognosa comunicazione della chiusura dello stabilimento di Campi Bisenzio (FI) ai 422 lavoratori attraverso il messaggio email del 9 luglio scorso. [Vedi qui] la cronaca sul giornale La Nazione di Firenze.
Non sempre però è stata riportata la grande reazione dei lavoratori, non solo degli operai metalmeccanici, ma di tutti i lavoratori coinvolti: le operatrici delle pulizie, gli addetti alla mensa, gli attrezzisti, gli elettricisti, eccetera:  80 persone tutte coinvolte nella chiusura dello stabilimento e oggi impegnate nell’occupazione della fabbrica. Fabbrica che non ha mai smesso di essere “a regime e perfettamente funzionante, pronta per riprendere la produzione in qualsiasi momento”, come riferiscono gli stessi lavoratori occupanti.
Da quel 10 luglio scorso in cui tutti i lavoratori dello stabilimento di Campi Bisenzio hanno deciso di occupare immediatamente la fabbrica senza più abbandonarla, come prima e spontanea reazione alla lettura della mail del padrone, le ragioni e gli obiettivi della lotta sono stati subito chiari: il ritiro dei licenziamenti e necessità d’imporre un cambio di passo nelle scelte della politica aziendale. 

Campi Bisenzio (FI), 28 agosto, 2021: il palco della manifestazione davanti alla fabbrica GKN occupata

La maledetta mail è partita a seguito del provvedimento di sblocco dei licenziamenti approvato con il con Decreto Legge del 30/06/2021 [Qui], dettato dalla linea confindustriale di Bonomi e fatto proprio dal governo Draghi senza colpo ferire, come se fosse inevitabile e necessario, come se fosse terminata l’emergenza pandemica. grazie anche – occorre dirlo – il benestare dei sindacati confederali che in cambio hanno preteso una inutile (e naturalmente inascoltata) “raccomandazione” sull’attivazione di tutti gli ammortizzatori sociali esistenti.
Quando, puntualmente, è arrivata la raffica di licenziamenti, tutti (governo, sindacati confederali, perfino Confindustria) si sono detti sorpresi e indignati (Sic!) per i licenziamenti a sorpresa. Lacrime di coccodrillo? No, non credo che nessuno dei firmatari di quell’accordo scellerato abbia versato una lacrima.
Sui licenziamenti e gli effetti scellerati della globalizzazione liberistica vedi il bellarticolo di Nicola Cavallini, pubblicato qualche giorno fa su questo giornale [Qui]

Intanto la GNK ha fatto subito scuola. In una gara di velocità, impressionante ma prevedibilissima, diverse aziende dislocate nelle diverse aree industriali del Paese, naturalmente più a nord che a sud, senza distinzione di stile, cioè quasi sempre con comunicazioni rigorosamente ‘a distanza: la Henkel a Lomazzo, la Gianetti Ruote a Ceriano Laghetto, la Whirlpool a Napoli, la Shiloh a Verrès, in Valle d’Aosta, eccetera [vedi servizio su Internazionale].
Da subito le manifestazioni di solidarietà con gli occupanti la fabbrica GKN sono state numerose. I primi a farsi avanti sono stati i lavoratori che maggiormente hanno risentito del lockdown per la pandemia, come i lavoratori dello spettacolo, sempre presenti a tutte le iniziative, ma anche i disoccupati, i lavoratori atipici e precari, gli studenti, i cittadini impegnati, i pensionati e gli amministratori pubblici locali. Ognuno ha dato il suo contributo alla riuscita della lotta.
Ma per capire e condividere gli obiettivi concreti e le modalità che stanno caratterizzando tutte le iniziative del Collettivo di Fabbrica della GKN, abbastanza atipiche nel panorama delle lotte sindacali che normalmente vengono messe in atto in casi analoghi, bisogna andare a parlare con loro, con gli occupanti, partecipare ai momenti di lotta e di presidio dello stabilimento, raccoglierne le testimonianze e le preoccupazioni.

festa operaia
Campi Bisenzio (FI), 28 agosto 2021. Il gruppo fiati in azione: quando la lotta diventa una festa

Per questo sabato 28 agosto sono andata con la mia bicicletta alla stazione di Borgo San Lorenzo e con un biglietto treno+bici sono arrivata a Firenze S. Maria Novella. Poi ho proseguito pedalando verso Careggi e da lì tutto a diritto fino a superare il ponte sul torrente Marina  per entrare nel territorio di Campi Bisenzio, in prossimità del Centro Commerciale I Gigli, proprio a fianco dello stabilimento GKN.
Quando sono arrivata davanti alla fabbrica occupata, nel piazzale di via Fratelli Cervi, c’era già moltissima gente e dal palco eretto al centro grazie alla collaborazione volontaria dei lavoratori dello spettacolo. Dario Salvetti introduceva la serata di musica e di lotta animata da 4 gruppi musicali e dalle testimonianze dei lavoratori e delle lavoratrici, dei sindacalisti della RSU della fabbrica e delle realtà solidali, che sono l’altra anima della lotta [Vedi qui],
Poteva essere l’occasione ideale per porre alcune domande ai protagonisti della serata. Il primo con cui ho parlato è Claudio, operaio GKN, che riassume gli antefatti e mi spiega l’origine del motto “insorgiamo” che ha dato significato fin dall’inizio questa lotta. Ecco la storia: nell’agosto 1944, dopo 20 anni di regime, i partigiani si ribellarono all’occupazione fascista di Firenze e liberarono la città chiamando tutti i lavoratori, i cittadini e le cittadine, tutte le forze antifasciste a partecipare attivamente a quella che sarà in seguito ricordata come “la battaglia di Firenze”  a lottare contro il nazifascismo, proprio  al grido: INSORGIAMO!  Oggi, mi dice Claudio, dopo 20 anni di leggi e decreti con cui tutti i governi, indistintamente, non hanno fatto altro che favorire gli interessi e i profitti della grande imprenditoria a scapito dei diritti dei lavoratori che sono andati via via riducendosi progressivamente, abbiamo pensato a quell’antica storia, e come allora i partigiani difesero le fabbriche dalla distruzione nazista, oggi tocca a noi, agli operai, lottare per difendere le fabbriche dall’attacco padronale che le vuole chiudere per delocalizzare.

Claudio spiega come la mossa di Melrose industries PLC, la finanziaria inglese che 3 anni fa ha acquistato la GKN Driveline, sia del tutto speculativa: la produzione di componentistica per auto (il settore di produzione dello stabilimento fiorentino) non è un settore in crisi; ha subito alti e bassi, come tutto il comparto auto, ma a periodi di cassa integrazione hanno fatto seguito periodi di contrattazione per straordinari. GKN Driveline non versa in difficoltà economiche e non ha fatto alcuna segnalazione relativa alla Unità di Crisi del lavoro della Regione Toscana. Anzi, di recente ha acquistato, anche con l’aiuto pubblico, macchinari nuovi e nuovo software, pertanto le prospettive non erano certo quelle di chiudere lo stabilimento.
Quindi, se GKN ha goduto di fondi pubblici, la soluzione del contenzioso non può essere che lo Stato metta a disposizione altro denaro per sostenere i lavoratori che poi diventano disoccupati. L’avviso di chiusura dello stabilimento è arrivato del tutto inaspettato per tutti, la modalità di prendere e scappare in pochissimi giorni testimonia la volontà della proprietà di voler semplicemente delocalizzare la produzione in un altro Paese, magari dell’Est-europeo, dove i vantaggi fiscali, gli stipendi  bassi e le normative che regolano i rapporti di lavoro sono ancora, se possibile, più vantaggiosi per la proprietà, che vedrebbe accrescere i profitti contraendo semplicemente le spese.
Del resto una finanziaria è fatta per garantire profitti sempre più alti agli azionisti e non certo per condurre al meglio gli impianti industriali.  Alla proprietà non importa  se i risultati dello stabilimento di Campi Bisenzio sono stati raggiunti con un sostanzioso contributo pubblico, cioè di tutti, operai compresi, non importa che la chiusura dello fabbrica causerebbe una ferita grave a tutto il tessuto sociale della zona, oltre che al comparto automobilistico italiano.
Chi invece dovrebbe cambiare strada dovrebbe essere il governo e le sue scelte di politica economica. Ma perché questo succeda, cioè che si cambi direzione e si metta al primo posto la difesa dei posti di lavoro e le condizioni di tutti i lavoratori,  la lotta dovrà continuare e diventare sempre più diffusa. Non sarà un percorso facile, qui alla manifestazione ne sono tutti consapevoli. Ma. si sente nell’aria, si legge nella faccia della gente, da qui può davvero incominciare una nuova stagione di lotta.

manifestazione operaia
Campi Bisenzio (FI), 28 agosto 2021. Davanti al palco della manifestazione contro i licenziamenti alla GKN

Ad esempio,  c’è bisogno di una legge  che penalizzi la delocalizzazione, che preveda congrue sanzioni per le aziende che vengono sul territorio, incassano aiuti pubblici e poi scappano, che imponga un giusto preavviso da parte delle imprese quando intendono chiudere. Il Collettivo dei lavoratori GKN sta già lavorando con giuristi ed esperti costituzionalisti ad una proposta in questo senso, “per scrivere una legge con le proprie teste, e non subire una legge sulle proprie teste!”

“Per la prima volta –  racconta Claudio –  non siamo stati noi operai a doverci muovere per andare a Roma a trattare, ma abbiamo chiesto ed ottenuto che fosse il MISE (Ministero dello Sviluppo Economico) a venire qui per seguire la vertenza. Questo è solo un piccolo esempio per far capire cosa intendiamo per il ‘cambiamento di passo’ che pretendiamo dalla politica. Il MISE si è incontrato con l’azienda a Firenze in prefettura una prima volta il 14 luglio, quando abbiamo chiesto il ritiro dei licenziamenti, a cui è seguito un nulla di fatto, e una seconda volta il 5 agosto, quando a seguito di una trattativa lunga ed estenuante GKN ha chiesto alcune ore di riflessione. La riflessione è tuttora in corso. Nel frattempo abbiamo fatto iniziative importanti, come la manifestazione in piazza S.Croce, quella del 14 agosto in piazza della Signoria proseguita con il corteo di 3000 persone sui lungarni; tanti gli incontri e le assemblee per coagulare le realtà vicine e solidali con la nostra lotta. Vogliamo stimolare gli amministratori pubblici a prestare maggiore attenzione  a quello che sta succedendo nel mondo del lavoro in generale, non ci interessa solo il nostro caso ma vogliamo dare voce a tutti i problemi e alle diverse situazioni in giro per l’Italia: durante la pandemia sono stati persi almeno 1.000.000 di posti di lavoro, vogliamo evitare che le aziende prendano e chiudano dall’oggi al domani e lascino per strada i lavoratori. La nostra lotta non vuole rimanere chiusa dentro i cancelli della GKN ma la vogliamo portare dappertutto in Italia e far convergere su di essa tutte le realtà perché la lotta sarà vincente se coinvolgerà tutte e tutti le lavoratrici e i lavoratori.”.

Lasciato Claudio al suo compito di servizio d’ordine della manifestazione, incontro Giovanna, un’amica mugellana, pensionata ex lavoratrice dell’azienda urbana di raccolta rifiuti, anche lei sempre presente alle diverse lotte dei lavoratori e cittadini dell’area metropolitana di Firenze. Condivido con lei l’impressione positiva sull’affluenza di persone di tutte le età alla manifestazione. Ci sono anche le famiglie dei lavoratori e delle lavoratrici al completo dei bambini, che si addormentano appesi al collo dei babbi e delle mamme,  cascati nel sonno nonostante il rumore della folla e la musica ad alto volume, mentre altri, i più grandicelli, ballano e si scatenano seguendo il ritmo dei fiati o della batteria. E’ una serata eccezionale per loro, ma anche per noi che, armati di mascherina, ci aggiriamo tra i banchetti di libri e di gadget partecipando alla festa.
A serata inoltrata, quando, nonostante sia tardi, diverse persone stanno ancora arrivando (in fondo è l’ultimo sabato sera di agosto) mi avvio al parcheggio, per rientrare a casa.

Due giorni dopo la manifestazione, Il 31 agosto, l’incontro per l’avvio della fase amministrativa della procedura di licenziamento collettivo avviata da GKN Driveline, convocato dal Ministero del lavoro, e a cui hanno partecipano l’azienda, Fiom, Fim e Uilm, il MISE e la Regione Toscana, si conclude con un niente di fatto: sindacati e Regione continuano a chiedere il ritiro dei licenziamenti, l’azienda ribadisce la volontà di chiudere lo stabilimento e accusa i sindacati di fare muro. [cronaca del 1 settembre, La Nazione]  
Il tempo stringe, il 22 settembre scadono i 70 giorni previsti per il primo tavolo dove si sta trattando. Dopo, se non verrà decisa una proroga, partiranno le lettere ufficiali di licenziamento.
Gli operai di GKN danno appuntamento a tutti i lavoratori e le lavoratrici per unire le vertenze in atto e proseguire assieme la lotta, perché solo uniti si può cambiare il corso delle cose, il 18 settembre a Firenze per una grande Manifestazione Nazionale.
Cover: Striscione all’ingresso dalle fabbrica occupata GKN, Campi Bisenzio (FI)

Non governare la globalizzazione: quando le persone diventano cose

“Governare la globalizzazione” è un proposito che, in Italia, non viene nemmeno preso in considerazione dalle politiche industriali. Gli esempi si stanno snocciolando davanti ai nostri occhi. L’ultimo:  Andrea Ghezzi è l’AD della Gkn Italia (produzione assi e semiassi per auto). Ha appena confermato alla stampa il licenziamento di tutti i dipendenti dello stabilimento di Campi Bisenzio. Vi prego di guardare questo video natalizio di un minuto, nel quale fa gli auguri ai lavoratori “per un 2021 ricco di soddisfazioni e salute” dopo averne lodato l’opera che ha permesso di garantire la “sostenibilità finanziaria” dell’impresa:

guarda qui

Ghezzi quindi a dicembre 2020 conferma l’equilibrio finanziario della GKN, e a luglio 2021 annuncia il licenziamento di tutti e la chiusura dello stabilimento di Campi Bisenzio. Contestualmente chiede 12 mesi di cassa integrazione per chiusura attività e propone un advisor per la riconversione industriale del sito. Con chi, per fare cosa, sono dettagli fastidiosi. Il giornalista gli chiede perché nel bilancio di responsabilità scrivono di mettere al primo posto il benessere dei dipendenti e poi tagliano tutti i posti di lavoro, e lui risponde: “considero responsabilità sociale proprio il piano proposto al sindacato che va ben oltre quanto previsto dalla legge”. Tradotto: per la legge noi possiamo fare quello che ci pare, ma siccome siamo buoni, proponiamo di mettere a casa tutti con un anno di stipendio (tagliato e pagato dallo Stato), ma con una adeguata formazione vedrete che saranno tutti ricollocabili. Dove, presso chi e per fare cosa, ancora una volta, sono dettagli fastidiosi. Poi smentisce che la decisione sia della Melrose, il fondo che detiene il controllo dell’azienda: “Le motivazioni sono indicate nella lettera trasmessa a sindacati e istituzioni e hanno carattere industriale. Il riferimento a Melrose non è pertinente”.

Quindi uno pensa: se la scelta è locale e i problemi sono localizzati, sarà lo stabilimento di Campi ad essere stato amministrato male. Il primo a rimetterci le penne dovrebbe essere proprio il suo Amministratore Delegato. Invece Ghezzi non solo resta in sella, ma si permette di rilasciare interviste contrite dichiarando la decisione della chiusura “dolorosa” (per chi?) ma definitiva. Il motivo è semplice: la decisione non è locale, ma è centrale. Ghezzi si limita a fare la sua parte in commedia, e probabilmente per questo sicariato verrà anche ricompensato. Ha una grave responsabilità, sia chiaro, quella di eseguire ordini manifestamente criminosi, almeno sotto il profilo sociale: ma si tratta della responsabilità di un luogotenente della globalizzazione, uno dei tanti. La globalizzazione in nome della quale alla Texprint di Prato (stamperia tessile) la polizia sgombera con la forza gli operai (stranieri) e i sindacalisti che fanno sciopero della fame chiedendo l’applicazione del contratto nazionale di lavoro (8 ore per 5 giorni la settimana anziché 12 ore sette giorni su sette); lavoratori che, per inciso, incassano l’ostilità di molti impiegati della stessa azienda, preoccupati che la conflittualità non faccia uscire la merce e faccia crollare gli ordinativi.

“Governare la globalizzazione” è un proposito che, in Italia, non è mai stato preso in considerazione dalle politiche industriali, ora come in passato. Il risultato è sotto gli occhi di tutti: guerra tra poveri. Indeterminatezza dei padroni. Totale arbitrio nelle scelte strategiche aziendali. Precarietà sistematica del proprio lavoro. Frattura tra lavoratori. Tavoli di crisi funzionali al meno peggio, non al meglio. La stragrande maggioranza delle forze politiche che compongono il Parlamento ed il Governo stesso, davanti a questi focolai di crisi sociale, reagiscono in piena continuità con il presupposto ideologico che ha prodotto la legislazione sul lavoro a partire dagli anni novanta: le imprese devono essere libere di fare i loro comodi, altrimenti aprono altrove, oppure chiudono quello che c’è. Ma come è possibile pensare che l’unico modo per stare nella catena globale della produzione sia quello di lasciare mano completamente libera alle imprese, demolire gli istituti di stabilizzazione del lavoro, continuare a sussidiarle senza alcun vincolo di strategia industriale? Come è possibile che nel dibattito su questo le istanze radicali siano confinate nel territorio di Sinistra Italiana? (leggi qui ). Dov’è finito il Draghi libero dall’incarico in BCE che scrive sul Financial Times articoli keynesiani sull’uscita dalla crisi epidemica mondiale?

leggi qui

Tutti immaginiamo quanto sia più semplice scrivere ricette economiche su un foglio di giornale piuttosto che governare un Paese. La distanza tra le due imprese è incolmabile, e tuttavia l’autorevolezza riconosciuta all’attuale premier è un elemento che il medesimo dovrebbe spendere in prima persona per orientare scelte economiche e gestire situazioni calde. Per adesso, la sensazione è che di quel Draghi visionario di maggio 2020 si sia visto ben poco. Si vede invece Giorgetti, il suo ministro dello Sviluppo Economico, dichiarare con candore che le imprese “vogliono evitare fastidi e confusioni sindacali e quindi vanno a investire in qualche terreno vergine”. Vergine di cosa? Di diritti per chi lavora, evidentemente. Sembra passato un secolo – in realtà solo nove anni – da quando l’AD di Ikea Italia affermava che l’art.18 non è un problema, ma è “l’incertezza dei tempi della burocrazia e della politica” a rendere difficile investire in Italia. Se l’epidemia mondiale da Covid-19 doveva costituire l’occasione per ripartire utilizzando parametri nuovi per lo sviluppo economico, sul fronte dei diritti per chi lavora sembra di moda un salto all’indietro: la concorrenza si gioca sul massimo ribasso dei costi e delle tutele per i lavoratori. Una battaglia non solo scellerata, ma destinata alla sconfitta: quando milioni di lavoratori nel mondo (in Cina, in India) si stanno appena affacciando sulla soglia dei diritti minimi, appare chiaro che l’unico modo che ha l’Italia di non perdere il proprio tessuto industriale non è quello di abbassare salari e diritti al loro livello, ma quello di creare filiere di produzione di qualità. Invece si continua a perseverare sulla strada della riduzione delle tutele e dei diritti, fino a prendersela addirittura col reddito di cittadinanza, come se il problema fosse garantire cibo agli indigenti, anziché restituire dignità e giusto salario al lavoro.

DIARIO IN PUBBLICO
La scomparsa di Fiamma Nicolodi

 

Mi giunge la notizia della scomparsa di una cara amica: Fiamma Nicolodi, grande musicologa e studiosa. Le due sorelle Nicolodi, Fiamma e Daria erano tra le personalità più in vista della Firenze colta. La loro villa era tra i luoghi frequentati dalla cultura fiorentina. Di Fiamma sono onorato in questo Diario di postare il ricordo che la professoressa Anna Dolfi ha composto e che qui riproduco:

Fiamma Nicolodi, una presenza senza età
di Anna Dolfi

Fiamma Nicolodi
Fiamma Nicolodi nel novembre 2017

” Era una strana scuola la media Carducci di via Borgo Pinti. Di sicuro una delle più quotate di Firenze, con professori che brillavano, non so se per bravura, certo per severità e per un’acuta sensibilità al ceto sociale. Non c’è dunque da stupirsi che fosse frequentata per lo più da rampolli di famiglie importanti, che vivevano in classe e fuori in una complicità che fatalmente funzionava ad excludendum.
Solo un paio di ragazze di quel gruppo facevano eccezione, e Fiamma era tra queste. Il suo distacco non aveva niente di intenzionale, legato com’era a una specie di svagatezza, a una naturale eleganza, a una precoce urbanità alimentata da una storia di cui niente si sapeva, ma che si intuiva difficile.
Incontrandola con sorpresa e piacere quasi vent’anni dopo in casa di amici, scoprii che anche lei non aveva amato quegli anni, e che il nostro giudizio su insegnanti e compagni non era molto diverso. Non fu dunque sul ricordo di un mondo, ma per la distanza da quello, che cominciammo a incontrarci con piacere, a parlare di università e di cultura, di libri, di città, di vacanze, di musica.
Soprattutto di musica: dei concerti ai quali le capitava di invitare me e Laura, specie se con programmi e con intrepreti di nicchia da andare poi magari a trovare in camerino, o delle prime al Comunale o al Teatro del Maggio dove era facile incontrarla, sì che la si cercava con lo sguardo raggiungendola durante gli intervalli quando passava sorridendo da un’autorità all’altra.
E poi la si vedeva in Facoltà, o per le strade di Firenze, dove sfrecciava sulla sua bicicletta con cestino, muovendosi dalla bella casa di S. Niccolò – piena di libri e di dischi, dove non mancava uno splendido pianoforte a coda – per andare in centro, ai teatri, a lezione.
Laura, mia sorella, che era stata compagna di scuola di Daria, l’aveva frequentata piuttosto a partire dagli anni di Salerno e mi portava lo spaccato di un pendolarismo universitario faticoso, attenuato proprio dalla condivisione. Così eravamo in due a lanciare il suo nome quando si organizzava una cena con amici che si pensava potessero piacerle. Anche la mamma era contenta di vederla: Fiamma, che aveva avuto una madre difficile e lontana, aveva nei suoi confronti un’attenzione tutta particolare, che diceva molto della sua sensibilità.
Ma se penso oggi a qualche giorno o momento del passato legato a lei, mi tornano a mente in particolare un pomeriggio e una serata a Forte dei Marmi, con i suoi racconti di un mondo semi scomparso di esuli e di spiagge deserte, conclusosi con una cena in una sala poco illuminata della mitica Villa Elena; una grigliata settembrina da noi, a Viareggio, che ci siamo riproposte più volte di ripetere, e alcuni incontri parigini in presenza, ma perfino in assenza, visto che mi capitò di entrare notte tempo, su suo incarico, munita solo di una torcia elettrica, in un appartamento chiuso che aveva in affitto a due passi da Notre Dâme per recuperarle, in un secretaire dai molti cassetti, documenti che le erano rimasti a Parigi.
Abbiamo scherzato a lungo su quella mia impresa da agente segreto e su altre, letterarie e no, nelle quali tentavo di coinvolgerla. Mi piace ricordarla così, con il suo serio sorriso, perennemente giovane, nonostante le vicissitudini di salute, equilibrata, talmente incapace di lamentarsi da sparire all’improvviso in una notte di agosto, portando con sé la sua straordinaria capacità di leggere come pochi gli spartiti, non solo della musica, ma della vita.”.

A questa figura è inevitabile associare quella della sorella Daria, la dark Lady delle scene italiane, compagna e attrice in tanti film di Dario Argento e madre di Asia, anche lei attrice. Per la biografia di Daria Nicolodi (1950-2020) [Vedi qui].
Fiamma fu talvolta suggestionata dall’avventurosa esperienza di vita e di lavoro della sorella, ma la sua straordinaria formazione culturale le impedì di essere coinvolta in questo giro, anzi! si rafforzò la sua acribia filologica e la sua severa ma appassionata difesa dei valori di una cultura di cui fu esempio straordinario.

Per leggere tutti gli altri interventi di Gianni Venturi nella sua rubrica Diario in pubblico clicca  [Qui]

PRESTO DI MATTINA
Il vento raggiante del tuo linguaggio

 

Il «vento raggiante del tuo linguaggio» – che sale dalle profondità cosmiche dell’universo e della coscienza umana, che ha percorso le distese sconfinate dei deserti e degli oceani per spazzare via la chiacchera delle parole inautentiche – resta un «cristallo di fiato», capace di testimoniare con chiarezza la diafania della tua esistenza: «In fondo al crepaccio dei tempi, presso il favo del ghiaccio attende, cristallo di respiro, la tua irrefutabile testimonianza», (Paul Celan [Qui], Poesie, Milano 1998).

In quel pellegrino dell’assoluto che è stato Pierre Teilhard de Chardin [Qui], il linguaggio assume i lineamenti di una metafora dell’esistenza; anzi ne è la sua trasparente diafania. L’esistenza viene da lui colta nell’atto dell’attraversamento, del viaggio, della cura, della ricerca di un senso. Il linguaggio ne assume le espressioni, i tratti, le luci e le ombre; ne penetra la densità materiale, ne sonda il mistero profondo. Si contrae e si espande come i ritmi del suo cuore, esplode o implode, avanza o si ritira, assecondando i tempi e gli spazi, i pieni e i vuoti dell’azione o delle passività. Esso esprime l’esigenza di comunione o di distacco in base alla scoperta e all’orientamento trascinante della “più vita”, della “super-vita”: ne condivide il gusto o l’amarezza secondo che ci sia da condividere il pane o il calice amaro.

Il linguaggio, per Teilhard, è una mimesi. Imita, riproducendole creativamente, l’intuizione e la visione interiore, manifestandole attraverso le realtà simboliche del mondo. È specchio dell’interiorità nel suo schiudersi, immagine del pensiero nel suo scaturire. Attraverso la creazione di segni e immagini simboliche, dell’esperienza interna ed esterna, offre alla persona la possibilità di conoscere e riconoscersi, di sperimentare e sperimentarsi, comunicandosi così al di fuori di sé nella narrazione. Il linguaggio, pertanto, è dimensione dell’esperienza itinerante, della sua vita “vagabonda”, nel suo andare sempre oltre se stessa. È trama ed insieme sforzo per rigenerare il senso della vita, la sua comprensione e le nuove scoperte.

Non è solo imitazione creativa, mimesi appunto. Il linguaggio ha pure una sua singolarità, possiede una sua realtà ed oggettività: è cultura, è dono che viene alla persona nell’atto stesso di esperire la realtà, o meglio – come direbbe Guardini [Qui] – «costituisce il disegno preliminare per il verificarsi dell’incontro personale, […] spinge alla realizzazione dell’incontro io-tu» (R. Guardini, Mondo e persona, 168).

In Teilhard il linguaggio riflette i movimenti del cuore, intelligenza senziente, per modularli su quelli di un universo sentito dappertutto in formazione, in evoluzione, sicché, trascinato in un’ascesa irresistibile verso il personale, diventa, in modo significativo, linguaggio che orienta e stimola la libertà verso l’azione.

È sentito non solo come mezzo, come tecnica, ma come un vissuto nell’atto di esprimersi, di affidarsi ad altri; come un’esistenza nell’atto di dire se stessa, come lo spazio in cui si formano e si dànno l’intuizione, il pensiero, il senso del vivere, il lavoro intellettuale e spirituale. L’intero esercizio dello spirito e il sentire della coscienza si attuano e si dicono nell’evento del linguaggio.

Il linguaggio, in Teilhard, si origina, plasma ed è plasmato nell’esperienza della sua vita; l’interiorizza, la riflette e insieme la comunica; è l’esperienza delle battaglie nelle foreste dell’Aisne ed a Verdun, nella prima Guerra mondiale, a cui partecipa come portaferiti, passando sotto il filo spinato, vicino alle trincee nemiche per recuperare i soldati colpiti dopo ogni assalto (Genèse d’une pensée, 1914-1919).

È l’esperienza dei suoi viaggi tra gli altipiani, nei deserti, nelle steppe dell’Asia (Lettres de voyage 1923-1955) e quella profondissima del suo mondo interiore, spirituale e mistico scritta ai suoi amici (Lettres d’Egypte 1905-1908 e Lettres intimes. À Auguste Valensin, Bruno de Solages, Henri de Lubac, André Ravier, 1919-1955 e Accomplir l’homme, 1926-1955; Lettres à Léontine Zanta e a Jeanne Marie Mortier).

Le sue parole si riempiono di stupore, si svuotano nella lotta, sono messe alle strette nelle fatiche. Sono parole che si piegano e gemono nelle trincee – egli scrive, tra il fango delle trincee, appunti e racconti da cui poi nasceranno i suoi testi – parole che passano sotto i reticolati, scavalcano le fortificazioni, sussultano tutte e trattengono il respiro al sibilo dei proiettili e al fragore delle esplosioni; vibrano insieme alla terra e imparano così a dire cosa siano l’assalto e il ritirarsi, il coraggio e la paura, la vita che irrompe, quella ferita e quella che si nasconde, si rialza o che muore.

Teilhard scopre tra i morti e i feriti, a migliaia lungo la linea del fronte, l’essenzialità di parole che cercano un varco e una direzione verso la vita, le mescola al grido, al rantolo di vite immolate e ferite, immergendole nell’onda d’urto della prima linea, e su tutto intravede compiersi il mistero della croce. Impara ad affrontare il rischio dell’amore e ad esprimerlo; innestato agli altri linguaggi per ferita, egli così entra ogni volta nella morte per risorgere vivo.

«Questa volta ci hanno dunque spediti sulla riva destra tra Thiaumont e Fleury; e in questa terribile zona siamo rimasti per una decina di giorni. Mi è vietato qui scendere nei particolari delle operazioni a cui ho assistito, ma ti posso rivelare se non altro che laggiù ho passato ore insieme penose e straordinarie, funzionavo si può dire come una macchina, ero quasi spersonalizzato. La cornice è quella dei peggiori campi di battaglia di Verdun. Oltre gli avvallamenti dove si trovano ancora tracce di boschi e dove gli alberi sono ridotti a pali, rimane un po’ d’erba. Al di là, non c’è praticamente vegetazione; ma solo pietrame sconvolto o, più spesso argilla che sembra arata fino a due o tre metri di profondità: un vero paesaggio lunare. È una zona dove non esistono più trincee, dove ci si nasconde nelle buche fatte dalle granate collegate alla meglio; e tante volte per entrarci bisogna prima tirar fuori il cadavere di un tedesco o di un francese. […] In compenso i bombardamenti, gli attacchi, i tiri di sbarramento, erano continui. Ho passato due giorni in una buca, bersagliato per ore da granate che cadevano fino a meno d’un metro da me. In questo genere di vita, i nervi diventano un po’ tesi. NS, tuttavia, ha tenuto alto il mio morale», (Genesi di un pensiero, 23.8.1916, 101).

Il linguaggio in Teilhard è pure come mulattiera impervia tra le montagne della Cina; è distesa e spazio aperto, possibilità di infinite vie in cui provare ad orientarsi nell’altopiano desertico degli Ordos in Mongolia; è orizzonte sconfinato in navigazione in mezzo all’oceano, unica guida le stelle. Imparando la scienza del tempo e della durata, diventa anch’esso un martello come quello che egli usava per aprire le rocce e dischiudere fossili, pure mano sapiente, attenta e premurosa per raccogliere selci e indizi preziosi per la storia dell’uomo nel passato; egli dirà di quella stagione della sua vita: «Il Passato mi ha rivelato la costruzione dell’Avvenire» (Lettere di viaggio, 8.9.1935, 151-152).

Linguaggio, il suo, che sperimenta l’obbedienza della fede come la necessità di un ascolto profondo e che attende nel silenzio operoso la riuscita finale; dice ancora la fedeltà e la dignità dell’amicizia come la sua propria dignità, vive l’amore alla Chiesa con parole di dialogo e di pazienza, nonostante essa non comprenda anzi rifiuti il suo sforzo di declinare insieme fede e scienza; egli continuerà a riconoscendola come il vincolo necessario per «amorizzare il mondo e salvare la sua stessa vita».

Un linguaggio che porta alla luce una «fede che opera»; si nutre della Provvidenza operante nell’universo che lo istruisce sulla sua piccolezza aperta all’infinitamente grande ed insieme lo rassicura, portandolo, amorevole, in un più grande abbraccio di sicura speranza di buon futuro. Linguaggio che impara così l’armonia nel raccoglimento e, nei ritiri spirituali, è messo di fronte all’unica grandezza necessaria: è posto in seno a Dio sempre più grande, al quale egli chiede che gli conceda di «udire e far udire fino all’ebbrezza l’immensa musica delle cose».

«L’aria e il mare; spesso lenzuolo vivente, dove formicola e scivola la vita, fluida e densa come l’ambiente che la contiene… Le sere acquistano un incanto delizioso nel mezzo di questo vasto lago senza sponde. Ieri non mi stancavo di guardare ad est l’uniformità lattiginosa del mare, verde di un’opalescenza dove nulla traspare, chiaro più del fondo del cielo. D’un tratto, sull’orizzonte, un nembo diffuso s’è tinto di rosa, e allora le piccole ondulazioni oleose dell’oceano, restando opaline da una parte e trascolorando dall’altra nel lilla, hanno trasformato per qualche istante l’intero mare in un serico moerro (moir soyeuse). Poi la luce s’è spenta e le stelle hanno cominciato a specchiarsi intorno a noi, quietamente, come nelle acque di un bacino tranquillo…

Lasceremo questi boschi; prevedo che rimpiangerò un rifugio così adatto a farci sentire immersi nel fitto delle esistenze. Nella foresta di Compiègne ci sono alberi ad alto fusto persino più belli che in quella di Laigue: si può vagare per ore tra un colonnato interminabile di tronchi diritti e lisci su un tappeto di foglie secche e sotto vere e proprie ogive di rami. Non è possibile immaginare tempio migliore per il raccoglimento. Ho sentito spesso al pari di te che la Natura dà più inquietudini che soddisfazioni: la Natura è palesemente la base di Qualcosa d’indefinibile, la faccia di Qualcuno non definibile e non ci potremo riposare in lei, almeno io sento così, se non si arriva al Termine nascosto», (Dalle Lettere di viaggio).

Da queste frequentazioni e visioni ardenti il linguaggio di Teilhard riparte rigenerato, aurorale, capace di una resistenza nuova quella della rinascita, che conosce la meraviglia e la gioia della scoperta e del possesso della vita che avanza, nascosta tra le pietre e le pieghe del tempo. Pure essa immersa in Colui che è all’origine di tutte le cose, presente alla nascita e allo sviluppo dell’apprendimento e di ogni linguaggio in esse. La Parola: potenza spirituale della materia che ne provoca la comprensione, nell’atto di plasmare con le sue mani la creazione e l’uomo in essa.

È linguaggio così che si riveste dell’attesa di un compimento, di futuro, si protende verso la luce di un volto e l’intravede, prolungando in avanti le profondità del passato che ha scoperto. Si bagna nell’attraversamento dei fiumi e impara così l’immergersi nella realtà, l’avvolgersi in essa e l’uscirne fuori. Si nutre del silenzio delle vette, si forgia sperimentando l’aridità dei deserti nel caldo torrido e nel raggelante freddo delle steppe attraversate nella famosa Crociera Gialla.

È linguaggio che vive “cosmicamente” il Fenomeno umano con un «interesse palpabile grande quanto il cuore». È linguaggio che narra le profondità, le altezze, l’ampiezza dell’«Ambiente divino e mistico» abbracciante, dentro e fuori, abbracciante il Fenomeno umano. Non rifugge neppure la complessità, anzi la riconosce come la sua sfida: il compito di attraversare il deserto della modernità, ricostruendo i frammenti che la scienza scopre e analizza nel passato in una sintesi nel Cristo-universale. Le sue parole sono un «Inno alla Materia», un «Inno all’Universo» e «al Cristo, sempre più grande» in essi.

Il linguaggio di Teilhard è “vento raggiante” perché in-formato dalla Scrittura e dallo Spirito in essa; incarnandosi nella sua vita, genera in lui il “suo” vangelo e la “sua” missione. Prende la forma di “preghiere nella durata”, ne innerva la vocazione, informa e forma, in una sintesi prospettica sempre aperta, intuizioni, pensieri e riflessioni, appunti e schemi annotati su taccuini, durante le soste forzate o le traversate in mare, come trama segreta e offertorio del mistero della fede celebrato e vissuto: un’occasione, un accadere “permanente” per comunicare con il Cristo attraverso tutte le forze della terra, quelle di crescita e quelle di diminuzione, che mortificano e che vivificano.

Un lessico di parole – infine – per il rendimento di grazie, per trasformare la vita in celebrazione, e la celebrazione in vita: una “messa sul mondo” in un chiesa senza pareti, oltre e al di là di ogni confine e orizzonte; rendimento di grazie per prolungare di nuovo la grande eucaristia della creazione, convergente nel corpo del Cristo mistico e cosmico che continua a formarsi attraverso tutti gli accrescimenti e le diminuzioni, le gioie e le speranze, i lutti e le angosce di un universo in evoluzione:

«Poiché ancora una volta, o Signore, non più nelle foreste dell’Aisne ma nelle steppe dell’Asia, sono senza pane, senza vino, senza altare, mi eleverò al di sopra dei simboli sino alla pura maestà del Reale; e Ti offrirò, io, Tuo sacerdote, sull’altare della Terra totale, il lavoro e la pena del Mondo. Lì in fondo, il sole appena incomincia ad illuminare l’estremo lembo del primo Oriente. Ancora una volta, sotto l’onda delle sue fiamme, la superficie vivente della Terra si desta, vibra e riprende il suo formidabile travaglio. Sulla mia patena, porrò, o Signore, la messe attesa da questa nuova fatica e, nel mio calice, verserò il succo di tutti i frutti che oggi saranno spremuti. Il mio calice e la mia patena sono le profondità di un’anima ampiamente aperta alle forze che, tra un istante, da tutte le parti della Terra, si eleveranno e convergeranno nello Spirito. Vengano pertanto a me il ricordo e la mistica presenza di coloro che la luce ridesta per una nuova giornata», (La Messa sul Mondo, in Inno dell’universo).
Anche oggi: “presto di mattina” appunto.

Per leggere gli altri articoli di Presto di mattina, la rubrica di Andrea Zerbini, clicca [Qui]

CONTRO VERSO
L’ingorda

 

Era una bella ragazza e aveva imparato come fare soldi. Si faceva adescare da adulti ignari della sua minore età, otteneva regali o denaro, poi svelava il mistero e con l’aiuto del fidanzato iniziava il ricatto. Il tribunale per i minorenni ne è venuto a capo dopo una fase iniziale di preoccupazione per quella che sembrava a tutti gli effetti una vittima.
Lo era davvero – essere costretta alla prostituzione prima dei 18 anni è una condizione di vittimizzazione non da poco e richiama alle responsabilità dei genitori più o meno all’oscuro – ma certo era una vittima molto diversa da come siamo abituati a immaginarla quando pensiamo alla prostituzione minorile.

L’ingorda

Io non mi capisco
non mi riconosco
non lo concepisco
però poi colpisco.

Rubo un po’ per vizio
sfida o forse sfizio.
Vedi là, quel tizio?
Gli farò un servizio.

Non ne faccio un vanto,
non pretendo tanto.
Un cappello, un guanto
se mi passa accanto.

Ho un papà normale,
sgobba, è manovale.
Mamma poi è gioviale
ma non sa parlare.

Lui non può seguire
lei non può capire
e se voglio uscire
chi lo può impedire?

Esco per ballare,
amo esagerare,
feste a non finire
buone per stordire

e se lui mi abborda
io non lo allontano,
chiedo, sono ingorda
e nella mia mano

scivola un gioiello
rotola un assegno
svelo sul più bello
qual è il mio disegno.

Sono minorenne!
Ora sei sorpreso?
Lo dirò a tua moglie
Mah… Ti vedo teso.

Vedi quel mio amico?
Eccolo, è il cassiere.
Dagli quel che dico
e proverò a tacere.

Mi è capitato di incontrare adolescenti – maschi o femmine indifferentemente – che avevano assunto il comando ed erano difficilissimi da aiutare. Avrebbero avuto bisogno di un adulto in grado di scardinare la loro logica, ma non per autorità e neppure per dovere. Un sovvertimento benedetto e amoroso di cui i ragazzi avevano nostalgia mista al terrore di ritrovarsi piccoli, disarmati e non più padroni delle loro esistenze.
Per ognuno di noi in alcuni periodi c’è distanza tra il vissuto e il desiderato, e per chi pretende tutto e subito è uno iato insopportabile. Odioso, ma non incolmabile. Le strategie si trovano. Anche al prezzo del rispetto di sé.

CONTRO VERSO, la rubrica di Elena Buccoliero con le filastrocche all’incontrario, le rime bambine destinate agli adulti, torna su Ferraraitalia  il venerdì. Per leggere i numeri precedenti clicca [Qui]

L’ESPERIENZA
Immergersi nel “Bagno di Foresta”: una gita spazza-timori ancestrali

 

Avete mai camminato a piedi nudi nel bosco? Il muschio è incredibilmente morbido, vellutato e con un sottofondo elastico e soffice che accoglie il piede meglio di qualsiasi materiale tecnologicamente avanzato. Il piacere di toccare con mani e piedi questa tenera moquette prodotta dalla natura, viene poi aumentato –  all’interno della foresta – dal profumo legnoso di abete che si respira e da quello balsamico della resina che ci si ritrova incollata a mani e piedi. È stato tanto sorprendente quanto gioioso, per me, godere dell’accoglienza del bosco senza pensare a vipere, lupi e orsi che da qualche parte di sicuro ci saranno stati, agli insetti che ci vivono e che in realtà in quel momento mi hanno lasciato in pace, alle favole ascoltate da bambina prima di addormentarmi e agli avvertimenti ricevuti da ragazzina prima e durante ogni escursione.

Così, seduta su un ceppo tappezzato da uno strato muschioso e con la schiena appoggiata a un larice, ho dimenticato gli avvertimenti dati dalla mamma a Cappuccetto Rosso prima che partisse per andare a trovare la nonna, ho lasciato in disparte la memoria di Pollicino disperso nel labirinto selvaggio e mi sono concentrata ad ascoltare le indicazioni dell’accompagnatore che ha portato me e altre cinque persone a sperimentare il “Bagno di foresta”.

Tra le tante proposte di passeggiate ed esplorazioni che venivano offerte durante il mio soggiorno in Val di Non, in Trentino, ho infatti deciso di accogliere questa attività di cui avevo sentito parlare e che non avevo chiaro esattamente in cosa consistesse. “Il bosco è formato da organismi vegetali in grado di comunicare tra loro – ha spiegato la guida Antonio Poletti – perché attraverso le radici e utilizzando le spore dei funghi (che sono ottimi trasmettitori) recepiscono e diramano informazioni su ciò che accade a loro e intorno a loro. E se arriva, ad esempio, un cervo che si mette a mangiare i loro teneri germogli o una persona che strappa rami e foglie, le piante diffondono messaggi di allerta che rimbalzano in tutto il gruppo di organismi viventi, vegetali e animali. Succede così che un’aggressione vada a sollecitare la produzione di sostanze repellenti e ad allertare insetti e animali, che diventano più fastidiosi con il comune intento di difendere la foresta”.
Il muschio, invece – prosegue a spiegare la guida – contiene spore che hanno una forte proprietà immunitaria. Stando nel bosco respiriamo queste sostanze e le facciamo entrare in circolo nel nostro corpo; mentre la resina è un fortissimo antisettico, che i montanari usavano portare con sé e masticare di tanto in tanto.

Non mastico la resina, ma ne aspiro l’odore e mi tengo ben stretto questo contatto appiccicoso. In altre circostanze avrei potuto percepire la presenza resinosa come invasione nefasta e sporcante, da eliminare, e ora invece mi rallegro di potermene sentire addosso un poco.

Guidata dalle indicazioni del nostro accompagnatore, mi metto quindi in ascolto per districare i suoni che mi avvolgono: cinguettii provenienti da alberi vicini e lontani, qualche voce umana che si percepisce a distanza, il fruscio delle fronde. Il “Bagno di foresta” prosegue con diverse attività che coinvolgono ciascuno dei nostri sensi. Dopo avere annusato e ascoltato con attenzione, insieme a ciascun partecipante vengo dotata di una cornice in cartone per isolare immagini e dettagli.

Mi concentro allora sulla superficie rugosa di una corteccia e su quelle incredibili composizioni floreal-vegetali che il bosco produce, mettendo insieme dei bouquet selvatici dentro ai vecchi tronchi recisi, che si trasformano in contenitori di abeti in miniatura, ciuffi di felci, campanelle, steli di fiori gialli, minuscole piante di nocciolo, muschio e altre piantine che neanche il più ardito compositore di bonsai o decoratore floreale avrebbe saputo accostare con tanta variegata armonia.

“È stato provato che rimanere almeno tre ore all’interno di un bosco o comunque vicino a una varietà di alberi – spiega Poletti – aumenta le nostre difese immunitarie per una settimana. Se si ripete l’esperienza una seconda volta, la copertura immunitaria viene prolungata per un mese”.
Quando Poletti ci esorta a raccogliere un oggetto da lasciare alla base degli alberi dove ci congederemo dal bosco, mi rendo conto che le tre ore di durata dell’esperienza sono volate. Annuso allora la resina che sento sulle dita e mi appresto a fare le ultime operazioni guidate, con una riflessione, un saluto e quindi il passaggio simbolico in mezzo ai due alberi accostati come i cardini di una porta da cui la guida ci ha fatto entrare nel cuore della foresta e dalla quale ora tornerò fuori.

“Anche quando sarete in città – consiglia la guida – ricordate di trascorrere del tempo vicino a un albero e se avete persone care accompagnatele lì. Portatevi magari dietro un libro e così farete scorrere con facilità il tempo che vi consente di immagazzinare tutte le sostanze tanto utili e preziose che la natura elargisce, a partire dall’ossigeno che ci regala in cambio dell’anidride carbonica che noi doniamo loro; sì, perché per le creature vegetali è un dono”.

Rifletto che dopo aver ricercato per anni luoghi che evocassero artificialmente il bosco – magari con pareti affrescate alla boschereccia, tende con canne di bambù, soffitti di nuvole, tappeti d’erba artificiale e casette fatate nello stile scenografico della Melevisione – stavolta il bosco l’ho trovato per davvero senza incorrere in pericoli né smarrendomi. Il tappeto di aghi di pino e i sedili di tronchi sono stati quanto mai accoglienti e rigeneranti, luoghi dove non ci si perde ma, anzi, ci si può ritrovare.

Un respiro profondo e via, con questo bagaglio di verde negli occhi, nelle orecchie e nei polmoni.

Per approfondimenti sull’idea dello “shirin-yoku” sulla quale si base la pratica del Bagno di Foresta si può leggere anche l’articolo pubblicato qualche tempo fa su Ferraraitalia da @simonetta.sandri.1 e consultabile cliccando questo link al nostro giornale:  www.ferraraitalia.it/calendario-dellavvento-shinrin-yoku-immergersi-nei-boschi-163277.html

Parole a capo
Roberto Dall’Olio: Cinque poesie da “Monet cieco”

“Ciò che tiene sveglio il mio cuore è il silenzio colorato.”
(Claude Monet)

Monet è cieco

Monet è cieco
Perché non vede il nero
Non lo ama
Non lo capisce
Lui il cercatore della luce
Delle sue sfumature
Aveva il pregiudizio del nero
No maestro
Il nero si ama
Se non si hanno pregiudizi
come il tuo nero
di donna
Che muta
In ogni momento

 

Vorrei che tu mi gettassi il tuo giallo addosso

Vorrei che tu mi gettassi
il tuo giallo addosso
Per farmi girasole
Mettermi i binocoli
Per varcare i confini degli occhi
Spargerti il mio liquore chartreuse
Come crema antirughe
Nonostante la tua pelle liscia
Da biliardo
Da luna
In un miliardo
Di stelle
Io vorrei
I tuoi caffè
Sentire
La adrenalina
Del tuo volto che riaffiora
Dal riso
Come una mondina

 

Io sono

Io sono
Resto
E voglio rimanere
Un marginale
Quanta vita
Nelle ore spente
Mai morte
Assopite
Trovo la pagina bianca
Il tuo bianco
Miniera apuana
remo
in un canale
Tu porti la bianchezza
All’estremo
All’ideale

Novembre

novembre
Rubino
Rosso
Rubizzo
Un guizzo
Di primavera
Dei suoi morti
Colori
In breve risorti
Addosso
A te
A noi
Novembre
Giallo
Marrone
Un burrone
Di lampi
Di saette
Nel sereno sbiavido
Pallido
Di cera
Il vento
allacca
Le miti foglie
La luce
non le intacca

 

Non sarebbe mai ora

Non sarebbe mai ora
Di scrivere
Ancora
Dopo il miracolo
Dell’aurora
Di una marea di luce
Rovescia
Una pinta di birra
Tra le umide tavole
Di un pub sul mare
Sabbia azzurra
E la rosolia del cielo
Un amaro dei certosini
Quasi la pioggia
Di zecche isolate
Gocce
Sganciate
Da chissà quale vento
Il nostro
Distratto
Sempre attento

(Tutte le poesie sono tratte dalla raccolta  fresca di stampa “Monet cieco”, edizioni Pendragon, disponibile nelle migliori librerie, in particolare a Bologna e Ferrara)

Roberto Dall’Olio (1965), bolognese, docente di filosofia e storia al Liceo Classico Ariosto di Ferrara. Ha pubblicato diversi volumi di poesia. E’ del 2015 il poema “Tutto brucia tranne i fiori” Moretti e Vitali editore- nota di Giancarlo Pontiggia postfazione di Edoardo Penoncini – con il quale ha vinto il premio Va’ Pensiero 2015. Con l’editore L’Arcolaio ha pubblicato il poema Irma con note di Merola, Muzic, Sciolino, Barbera e la raccolta di poesie “Se tu fossi una città” con nota di Romano Prodi. Nel 2021 ha pubblicato Monet cieco (Ed. Pendragon). Vive a Bentivoglio nella pianura bolognese dove è presidente della sezione locale dell’ANPI.

La rubrica di poesia Parole a capo curata da Gian Paolo Benini e Pier Luigi Guerrini esce regolarmente ogni giovedì mattina su Ferraraitalia. Per leggere i numeri precedenti clicca [Qui]

Le storie di Costanza /
Settembre 2060 – Amori

31Ad Axilla piace Dylan, ma non sappiamo se a Dylan piace Axilla.
Cosmo-111 detesta Dylan, dice che è brutto e antipatico. Cosa non vera a detta di tutti i Santoniani. I Santoniani sbagliano raramente, a maggior ragione se si confrontano tra loro e raggiungono una visione unitaria della questione in discussione. Cosmo-111 è geloso, strano per un mezzano distinto e intelligente come lui.

Dylan è alto circa un metro e ottantacinque, non altissimo vista l’altezza media dei ventenni attuali che si attesta intorno al metro e novanta, con punte che superano abbondantemente i due metri e numeri di scarpe che superano il cinquanta.

Intorno alle altezze medie dei nostri giovani si sono diffuse le leggende metropolitane più svariate. “Hanno mangiato troppa carne contenente ormoni da piccoli, oppure hanno mangiato troppe proteine. È colpa del clima che è cambiato, della gravità della terra che è leggermente diminuita, della luna che ha aumentato il suo influsso sull’altezza (come se far crescere più o meno un bambino sia come determinare il flusso di una marea). Oppure dipende da una mutazione genetica iniziata non si capisce né come né quando, è un accidente della vita e non ha nulla a che fare con tutto ciò, oppure, al contrario, ha a che fare con tutto ciò, ma non con uno solo di questi eventi scatenati che quindi non possono essere considerati tali”.

Mia madre Cecilia racconta che quando mio fratello Enrico era piccolo una volta mi ha detto:
“Valeria devi smettere di crescere, tutti gli esseri viventi molto rari e grossi sono a rischio di estinzione, pensa a quel che è successo ai dinosauri. Alcuni erano talmente grossi e talmente grandi che mangiavano tantissimo, a un certo punto non hanno più trovato sufficienti alimenti e sono morti di fame. Altri sono stati uccisi da un grande meteorite e altri ancora si sono sbranati tra loro. Il fatto che fossero così grossi ha sicuramente influito sulla loro estinzione, sono spariti dalla faccia della terra”.

Poi Enrico era andato a prendere una delle sue ottanta statuine di dinosauro e aveva aggiunto: “Lo vedi questo? è un triceratopo, il mio preferito, non so cosa darei per vederlo vivo e invece è morto da milioni di anni e mai lo vedrò.”
Mia madre racconta che ero scoppiata a ridere ma Enrico, sempre più serio, aveva continuato imperterrito: “Ti consiglio di mangiare di meno e di stare poco al sole”.
“Poco al sole?”  gli avevo chiesto” “Si, poco al sole” aveva risposto.
“Come le piante, più stanno al sole e più crescono. Come i frutti più stanno al sole e più maturano. Vai a vedere i pomodori nel nostro orto, sono rossi ma proprio rossi e verdi non lo diventeranno più. Non devi crescere troppo perché finirai per estinguerti”.

Quando ricordano questa storia dei dinosauri, mia madre e mio fratello Enrico ridono di gusto.
“Quando saranno più grandi, dovrò raccontare questa storia a Marlon e a Gyanny. Secondo me si divertiranno anche loro” ho detto a mio fratello.
“Assolutamente no!” mi ha risposto lui.

Credo che, almeno per ora, non voglia che i suoi figli sappiano che lui era un appassionato di dinosauri con un forte dispiacere per la loro estinzione e una forte preoccupazione per la conseguente estinzione degli esseri umani che, secondo lui, stavano diventando troppo grandi.
Comunque, aldilà di questo aneddoto casalingo, i nostri attuali giovani sono molto alti, e per ora, non si sono estinti.

Dylan, il preferito di Axy, ha i capelli ricci e neri, gli occhi scuri e la pelle chiara. Credo che piaccia ad Axilla perché, oltre al buon aspetto fisico, è gentile e intelligente. Fa il terzo anno di Giurisprudenza a Trescia. Impara tutto velocemente. Un possibile secondo avvocato in famiglia. Uno lo abbiamo già, non avremmo difficoltà ad accogliere il secondo. Tutti noi ci imparenteremmo con lui volentieri, tranne Cosmo-111.“Dylan nooo. Non sa niente, non mangia il gelato, non pulisce la casa, non sa cantare!. Io non lo voglio”. Cosmo-111 è gelosissimo di Axilla, senza attenuanti. Davvero una strana storia, considerando che Cosmo-111 è un robot di nuova generazione.

Eppure l’apprendimento per imitazione scatena anche questo. Si instaura una forma di attaccamento con l’umano, di riferimento primario che assomiglia ad un matrimonio d’intenti, non programmato, ma vissuto ogni giorno. Naturalmente la relazione che si genera utilizza le modalità “possibili” dai mezzani e non prevede sesso e riproduzione. Si concretizza in una forma di affettività fatta di necessità per la sopravvivenza. Sicuramente i nostri robot-111 sono molto dipendenti da chi interagisce con loro, dà loro da mangiare, li copre e protegge dai temporali, passa qualche ora con loro giocando, oppure cantando canzoni bizzarre.

Nel mondo dei mezzani non esiste alcun legame tra attaccamento e riproduzione. La riproduzione è un fattore meccanico e basta. Negli esseri umani questo modus sembrerebbe inaccettabile, ma di fatto è prossimo a quello che a volte succede, a quello che a volte è sempre successo anche nel ‘cristallino’ mondo degli umani. Non credo che si possa parlare di riproduzione umana ‘meccanica’  ma, di riproduzione ‘necessaria’ e indipendente dai sentimenti, sicuramente sì.

Quante volte i matrimoni sono stati e sono combinati per questioni politiche, legate al rango, al ceto sociale, all’appartenenza ad una casta (in pectore o davvero esistente e riconosciuta). Quante spose bambine ci sono, quanti matrimoni combinati dalla mafia perché un mafioso sposi la figlia di un altro mafioso e i panni sporchi si possano continuare a lavare in casa.

Il progresso ha eluso alcune tradizioni, ma ha anche ingessato dentro il silenzio alcune abitudini malate. Ogni tanto qualcuno prova a raccontare cosa sia l’omertà, ma raccontandola la fa emergere e l’emersione trasfigura la mostruosità.

Ogni tanto qualcuno racconta qualcosa di drammatico ma questo qualcosa è una ricostruzione mediata dalle poche e mal ricostruite informazioni circolanti e da un misto di pietismo, luoghi comuni, culture superate, trattati di antropologia di basso livello e anche un po’ di considerazioni qualunquiste, senza alcun valore.

Dylan ovviamente non c’entra con queste mie riflessioni e con la gelosia che Cosmo-111 nutre nei suoi confronti. Non sa che Cosmo-111 è geloso di lui e forse, se lo sapesse, se ne stupirebbe, visto che non sa nemmeno di piacere ad Axy.

Però Axilla e Dylan sono amici, vanno in giro in biciletta insieme, qualche volta in gelateria con un gruppo di coetanei, frequentano l’oratorio di Pontalba e si scambiano idee sulle feste parrocchiane, sulle iniziative pastorali e sulle funzioni religiose che li vedono spesso coinvolti come lettori ufficiali delle preghiere diffuse dal pulpito ai convenuti in preghiera.

Ho imparato con l’esperienza che tutto questo ‘fare insieme’ potrebbe cementare l’amore, ma potrebbe anche avvenire il contrario. Potrebbe succedere che un bel giorno, arrivi a Pontalba un Legolas (Il più bello degli Elfi, un personaggio di Arda, l’universo immaginario fantasy creato dallo scrittore inglese J. R. R. Tolkien) a cavallo con la sua lunga chioma bionda e Axilla si metta a rincorrere il sogno che lui incarna.

Una nuova vita, nuove conoscenze, nuove abitudini e nuove speranze. L’amore scoppierà e Dylan verrà dimenticato insieme a tutto il resto. Questo potrà succedere o non succedere, dipende dagli accidenti della vita, dal caso e anche da come è fatta (dentro) una persona. C’è chi rincorre i sogni e non può vivere senza di essi e chi ama la (sua) quotidianità e non la potrebbe lasciare per nessuna ragione al mondo.

Chissà da che parte andrà il cuore di Axilla, se sceglierà Dylan, a patto che lui scelga lei, oppure incontrerà qualcun altro con altre caratteristiche che sembreranno quelle giuste, impellenti, necessarie e miracolose.

E poi, cosa sceglierà Dylan? Vorrà una ragazza come Axilla, bella, determinata, costante, diligente, con un carattere forte e dei programmi strutturati per il futuro. Potrebbe essere, ma potrebbe anche non essere. Magari arriverà una ragazza bionda con gli occhi azzurri che sa giocare a tennis, volare come una libellula e parlare di sport e di vacanze. E allora Dylan proverà a volare lontano verso il sogno e verso l’avventura che la bella tennista sembrerà incarnare. Oppure no, sceglierà Axilla e questo per sempre sarà.

Mi diverte molto pensare a quei due giovani e fare ipotesi su cosa succederà. Mi piace perché è una favola viva, un romanzo che qualcuno sta scrivendo e che prima o poi una conclusione avrà. Di fronte alla vita che evolve e porta novità, nuovi visi da studiare, nuovi discorsi da cercare di capire, nuove timidezze da eludere e nuovi dolori da confortare, mi stupisco sempre. Mi fermo sempre a guadare con discrezione le novità, come se fossi nascosta dietro una tenda. Sto là per capire come sarà il mondo nuovo, quali amori arriveranno, quali dolori ci annienteranno, quali saranno le persone che in punta di piedi entreranno sul palcoscenico della nostra vita e quali se ne andranno senza salutare e senza disturbare.

Povero Cosmo-111 che continuerà a essere geloso. Ad un certo punto dovrà rassegnarsi al fatto che Axilla non è solo sua e che la dovrà dividere con il principe dei principi e ricavarsi in questa nuova dimensione un nuovo spazio per vivere con la sua eroina. Anche per Cosmo-111, dopo un po’ di sofferenza, uno spazio continuerà ad esserci, perché Axy ama fraternamente Cosmo-111 e questo sentimento, che li ha visti crescere insieme, non cambierà. Anche Cosmo-111 maturerà una certezza: anche per lui esiste una forma strana d’eternità.

Costanza e il suo mondo sono solo apparentemente diversi e distanti dal mondo che usiamo definire “reale”, e quasi sovrapponibili ad ogni mondo interiore. Chi fosse interessata/o a visitare gli articoli-racconti di Costanza Del Re, può farlo cliccando [Qui]

AMERICA, CHIUDI GUANTANAMO!
Firma la Lettera Aperta al Presidente del Consiglio

Firma anche tu la lettera al presidente del Consiglio Mario Draghi.
L’Italia chieda agli Stati Uniti la chiusura della prigione americana di Guantanamo dove si torturano i prigionieri e dove vengono violati sistematicamente i diritti umani.
La tua firma apparirà pubblicamente sul sito web di PeaceLink [Vedi qui]

 

 

 

Al Presidente del Consiglio Mario Draghi

Gentile Presidente,

in questo delicato momento in cui si invoca il rispetto dei diritti umani in Afghanistan, noi crediamo che sia importante dare il buon esempio chiedendo al tempo stesso che venga posta fine alla violazione dei diritti umani nella prigione di Guantanamogestita dagli Stati Uniti a Cuba.
E quindi le scriviamo affinché lei richieda formalmente al Presidente degli Stati Uniti, Joe Biden, un gesto importante e altamente significativo come la chiusura della prigione di Guantanamo.
Amnesty International non solo ne chiede la chiusura ma chiede che vengano processati i responsabili di quella vergognosa e criminale esperienza di sospensione del diritto umanitario. Noi concordiamo con tale richiesta di Amnesty International.
Non si può essere credibili nel chiedere ai talebani il rispetto dei diritti umani se poi noi quel rispetto non lo chiediamo agli Stati Uniti.
Quella prigione è come la Bastiglia e non ha più ragione di esistere. È il simbolo odioso delle torture e degli abusi, in aperta violazione delle Convenzioni di Ginevra, compiuti in nome della lotta al terrorismo. Quell’orribile prigione, quella vergogna della storia non ha più alcun appiglio per restare in piedi.
Le chiediamo pertanto di rispondere a questa nostra richiesta di giustizia internazionale. Oggi – in questo contesto di grandi cambiamenti – la chiusura del carcere di Guantanamo ha molta più possibilità che in passato di avvenire. Farebbe onore all’Italia, a cui tra l’altro era stato affidato il compito di riformare il sistema giudiziario in Afghanistan, farsi promotrice, anche in seno all’Unione Europea, di un passo verso la giustizia e il rispetto dei diritti umani.
Per essere credibili in Afghanistan bisogna dare il buon esempio a casa propria.

Distinti saluti
Vittorio Agnoletto, Gianni Alioti, Lino Balza, Angelo Baracca, Mauro Biani, Patrick Boylan, Annamaria Bonifazi, Tiziano Cardosi, Chiara Casella, Adelmo Cervi, Marcella Costagliola, Fabrizio Cracolici, Giorgio Cremaschi, Massimo de Magistris, Adriana De Mitri, Alessio Di Florio, Irma Dioli, Antonino Drago, Domenico Gallo, Lidia Giannotti, Agnese Ginocchio, Fulvia Gravame, Francesco Iannuzzelli, Mimmo Lucano, Linda Maggiori, Gianfranco Mammone, Fabio Marcelli, Alessandro Marescotti, Aniello Margiotta, Francesco Monini, Moni Ovadia, Elio Pagani, Domenico Palermo, Maria Pastore, Gaia Pedrolli, Enrico Peyretti, Maurizio Portaluri, Olivier Turquet, Laura Tussi, Alex Zanotelli

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Adesioni: n. persone: [vedi l’aggiornamento]   n. associazioni: [vedi l’aggiornamento]

Campagna promossa dalla Associazione PeaceLink

Cover: Prigionieri incappucciati nel Carcere Speciale di Guantanamo (Flickr – licenza Creative Commons) 

Ogni Strada

 

Pensieri senza metrica né rima come suture senza anestesia.

Ogni strada

Ascolto le notizie dall’Afghanistan.
Gli aerei che fuggono da Kabul.
Le bombe e le esplosioni
che fanno strage di civili.
Vorrei poter fare qualcosa,
ma posso fare poco, troppo poco,
piccola goccia in un mare di siccità.
Ma questo mi ricorda che, in fondo,
anche gli oceani son fatti di gocce.
Fino a pochi giorni fa, almeno,
c’era un chirurgo di guerra,
che conosceva bene quella terra
e poteva indicare una via.
Ma anche lui è partito:
il suo cuore, dopo tante bombe,
alla fine ha detto basta.
Immagino che ora, a fatica,
bisognerà trovare una strada,
come fanno quelle lacrime sul viso
di un bambino triste che ha paura.
Qualcuno potrà imbrattare un murale,
ma io posso solo dire che, da oggi,
ogni strada porterà il suo nome.

Nota al testo: L’anagramma di “ogni strada” è il nome di Gino Strada

In Copertina: Murale della street artist Laika su una strada di Roma: “le lacrime di Kabul” (omaggio a Gino Strada)

Nota di redazione: L’ULTIMA IDIOZIA – Sfregiato il murale della street artist Laika dal titolo ‘Le Lacrime di Kabul. (Omaggio a Gino Strada)’. L’opera era apparsa in via Provana a Roma, nei pressi di piazza San Giovanni. Qualcuno ha cambiato nella notte la scritta in omaggio al fondatore di Emergency in “Fuck You”.

LECTIO MAGISTRALIS
Tre allieve speciali per una scuola Normale

 

Hai mai immaginato di fare un bel discorsino al tuo professore, al tuo capo, al tuo Rettore, per toglierti qualche sassolino dalla scarpa, e di farlo nel momento più ecumenico, quello in cui vieni insignito di un diploma, gratificato da un trenta e lode o premiato con una promozione? Quel momento in cui la gioia per il premio, coronamento di tanti sforzi, svolge una funzione pacificatrice, e ti senti appagato al punto da tornare in pace con il mondo? Hai mai immaginato di perturbare il clima paludato della tua premiazione con un discorso che fa volare toghe e stole come una tromba d’aria nel cielo terso?

Virginia Magnaghi, Valeria Spacciante e Valeria Grossi lo hanno fatto. il 23 luglio scorso, durante la cerimonia di consegna dei diplomi di laurea alla Normale di Pisa. Lo hanno fatto da studentesse “eccellenti”, che è il solo modo per essere credibili quando scompigli le parrucche, perché se lo fai da “normale” alla Normale passi per quello/a che protesta perchè non ha voglia di studiare.

Hanno premeditato tutto, con livida determinazione. Hanno iniziato il loro discorso dichiarando “profonda gratitudine verso ogni componente della Scuola: … al corpo docente, ma anche, per la presenza costante e l’aiuto concreto, al personale tecnico amministrativo, alle addette e agli addetti alle aule, alla portineria, al personale dei collegi, alle lavoratrici e ai lavoratori di mensa e biblioteca.”
Poi hanno iniziato a far vorticare l’aria. Hanno attaccato il sistema universitario ‘neo-liberale’, inteso come “un’università-azienda in cui l’indirizzo della ricerca scientifica segue la logica del profitto, in cui la divisione del lavoro scientifico è orientata a una produzione standardizzata, misurata in termini puramente quantitativi. Un’università in cui lo sfruttamento della forza-lavoro si esprime attraverso la precarizzazione sistemica e crescente; in cui le disuguaglianze sono inasprite da un sistema concorrenziale che premia i più forti e punisce i più deboli, aumentando i divari sociali e territoriali.”.

Queste parole già contengono alcune lancinanti verità sul mondo accademico e del lavoro italiano: la ricerca viene finanziata solo se porterà profitti (il contrario della logica della ricerca, che include in sè l’idea di nicchia e la possibilità del fallimento); conta quanto pubblichi (o quanto produci, o quanto vendi, o quanto arresti), non come lo fai; puoi vivere una vita di lavoro, dentro o fuori da un ateneo, senza  avere mai la certezza della stabilità del tuo impiego; i “capaci e meritevoli” non sono affatto facilitati, ma possono arrivare in fondo non grazie all’Università italiana nel suo complesso, ma malgrado essa. Pensa alla forza eversiva di queste parole pronunciate da tre laureate eccellenti in una delle università di eccellenza.
Perché la Normale di Pisa non è un ateneo normale: è uno dei pochissimi atenei italiani nel quale i docenti e i ricercatori sono aumentati, mentre attorno “le iscrizioni alle università sono scese del 9,6%, e nel 2020 la popolazione tra i 25 e i 34 anni con istruzione terziaria in Italia si aggirava intorno al 29%, contro il 41% della media europea. … dal 2007 al 2018 le borse di dottorato bandite dalle università italiane sono diminuite del 43% (56% al sud); tra il 2008 e il 2020 nelle università statali i ricercatori sono diminuiti del 14%, e le recenti e parziali stabilizzazioni non sono che una goccia nell’oceano, dato che ben il 91% degli assegnisti di ricerca si vedrà escluso dall’università italiana; il personale a tempo determinato è ormai ben maggiore del personale a tempo indeterminato (e inoltre nel personale precario le donne sono sovrarappresentate).”

A questo punto Virginia Magnaghi, Valeria Spacciante e Valeria Grossi sganciano la bomba.
“In questo contesto, noi, i cosiddetti “eccellenti”, siamo certamente quelli fortunati. Ma quale eccellenza tra queste macerie? Che valore ha la retorica dell’eccellenza se, fuori da questa cattedrale nel deserto, ci aspetta il contesto desolante che abbiamo descritto? Noi crediamo che di fronte a tutto questo la Scuola non sia senza colpe. Ha infatti promosso quella retorica dell’eccellenza e della meritocrazia, che legittima il taglio delle risorse. Ha incoraggiato la creazione di piccoli poli “di eccellenza” iper-finanziati, lasciando invece in secondo piano i rapporti con l’ateneo che più ci sta vicino e con cui più sarebbe opportuno collaborare, l’Università di Pisa.”.
Non so se è chiaro. Non lo è abbastanza? Allora leggi bene il passo che segue: “La nostra selezione in base al merito e l’intreccio tra didattica e ricerca sono due tra i principi basilari del “modello-Normale”. Nei fatti, tuttavia, troppo spesso questi principi si traducono nella retorica del merito e del talento come alibi per generare una competizione malsana e per deresponsabilizzare il corpo docente: per il semplice fatto di aver superato una selezione, dovremmo essere in grado di navigare da soli attraverso il complesso sistema accademico. C’è un modo di dire molto popolare in queste aule e cioè che alla Normale si viene buttati subito in acqua, ed è così che, pur di non affogare, si impara a nuotare in fretta. E tuttavia oggi a diplomarsi con noi non ci sono tutte le persone con cui abbiamo condiviso il nostro percorso: la loro assenza ci pesa ed è una sconfitta per la Scuola. Anche tra i presenti una buona parte ha imparato a nuotare solo a prezzo di anni di malessere. Vorremmo dirlo con chiarezza: non è grazie a, ma nonostante questo principio che siamo arrivati qui. Il risultato è stato quello di convivere cinque anni con la sindrome dell’impostore, senza sentirci mai all’altezza del posto che avevamo vinto. C’è chi ha adottato una performatività esasperata per compensare il proprio senso di inadeguatezza, sfruttando con spirito esibizionistico i seminari e gli interventi a lezione. C’è chi, invece, ha evitato di porre domande e chiedere spiegazioni per paura del giudizio altrui. Questa pressione sociale non è solo causa di un generico malessere; è piuttosto una stortura sistemica grave, che può avere conseguenze estreme sulla salute fisica e psicologica.”.

Queste parole sono un atto di denuncia pesantissimo. Fuori dalla scuola degli eccellenti, lo Stato abbandona al proprio destino gli studenti, ma anche i professori, tagliando progressivamente i fondi. Ma anche dentro la Normale (alla quale si accede con un rigido esame di ammissione) la maggior parte si perdono per strada. Costoro che non ce la fanno, sono davvero i non meritevoli, o sono invece i meno adatti, quelli che non si adeguano al meccanismo della competizione, della performance, del mettersi in mostra per adulare o “fregare” i docenti e diventare, opportunisticamente, i loro cocchi? E’ questo il meccanismo di crescita dei “migliori” ? E quanto queste parole ti ricordano quello che accade nel tuo ufficio, nella tua aula, nel tuo studio? A me lo ricordano tanto.

Le tre allieve riservano poi parole durissime alla disparità di trattamento nell’accesso e nella successiva carriera tra uomini e donne, considerando come un’aggravante il fatto che ciò accada anche alla Normale : “vi invitiamo anche a prestare attenzione sempre, durante le lezioni, nei corridoi, a ricevimento, quando di fronte a voi avete una donna: vi chiediamo di pensare due volte quando una ricercatrice è incinta, quando una professoressa è madre, o quando un’allieva rimane ferita davanti a un commento che a voi è parso innocente: si tratta magari di una reazione a un cliché da anni ripetuto, introiettato e ritenuto innocuo, ma che tale non è. Perché se è vero che in questa stanza siamo privilegiati, allora dovremmo essere noi per primi a sfruttare questo privilegio per informarci, per formarci, per sensibilizzarci e soprattutto per cambiare le cose.”.

E quanto sono vere e anticonvenzionali le parole con le quali concludono il loro intervento: “E’ significativo che nessuno di noi si riconosca nella retorica dell’eccellenza su cui la Scuola poggia. E questo non solo perché la consideriamo parte integrante di un modello insostenibile, ma anche e soprattutto perché la troviamo incompatibile con l’incompletezza e la fallibilità di ognuno di noi.”

Ho già parlato su queste pagine del mito della meritocrazia: [qui]

Non esito a definire formidabili le considerazioni di queste allieve: formidabili per il contenuto e per il contesto nel quale sono state pronunciate.
Sono parole al tempo stesso amare e dolci, disperate e fiduciose.
Sono imbevute di amarezza e disperazione per lo stato in cui versa il mondo accademico (e non), ma sono irradiate della speranza che esistono ancora giovani così lucidamente capaci di testimoniare i problemi, e così combattive da avere il coraggio di esporli direttamente dentro la fossa dei leoni, o dei Baroni.

Il testo integrale del discorso

La guerra di Dio contro le formiche

 

Mi è parso ovvio, da subito, che la ritirata dei soldati USA dall’Afghanistan era funzionale al fatto di poter tranquillamente  continuare le operazioni per mezzo di soli droni, come avviene già in Pakistan da anni.
Il soldato sul campo: devi pagargli la trasferta e costa molto, può morire e portare cattiva pubblicità al proprio governo. Tra l’altro può vedere tutti gli abusi della guerra e parlarne, portando altra pericolosissima pubblicità negativa.
Grazie al controllo delle armi a distanza si può fare a meno di questi inconvenienti.

I droni possono venir pilotati da una base in Nevada e bombardare con un click – vedi qualche giorno fa la rappresaglia statunitense tramite droni proprio in Afghanistan. Ed essere chirurgici non è necessario, tanto nessun altro, se non il video-terminalista, vede il botto e il suo sfracello, da lontano, a modesta risoluzione.
Così si può bombardare una moschea nell’ora della preghiera per eliminare un singolo ‘nemico’ (terrorista?), distruggendo anche  le vite di chi, sfortunatamente, si trovava troppo vicino all’obbiettivo. Effetti collaterali.
Senza il rischio di ricordare all’Occidente che siamo degli assassini.
La miseria e l’odio che ne derivano non hanno la forza né i mezzi di attraversare l’oceano. Peggio per loro.

Viene fatto già da diversi anni e quasi non si parla delle sue conseguenze. Vuol dire che è la scelta giusta per una guerra senza contraddittorio.
Una guerra che assomiglia al rapporto tra un Dio malvagio e un essere terreno alla sua mercé. Un piede enorme che schiaccia una formica. Una guerra che mi ricorda quella di 1984 di Orwell, in cui dei nemici non vedi né sai nulla.

Cover:  Foto di un drone in azione di guerra, su licenza Creative Commons

UN PUNTO DI VISTA PACIFISTA SULL’AFGHANISTAN.
Smontare la post-verità fatta di bugie utili alla “guerra umanitaria”

La nostra voce contro la guerra non è stata forte, doveva esserlo di più. Ai talebani va chiesto il rispetto dei diritti umani, a Biden la chiusura della prigione di Guantanamo.
Destabilizzare l’Afghanistan significherebbe la crescita del terrorismo dell’ISIS, i recenti attentati siano di monito: Il movimento per la pace ha il compito di elaborare un suo punto di vista sui grandi eventi dell’umanità. Lo fece durante la guerra del Vietnam, ha il compito di farlo oggi con la guerra dell’Afghanistan.

Nel 1975, quando finì la guerra del Vietnam, la disfatta militare americana venne salutata come un evento positivo. Non solo per la disfatta in sé, ma per la lezione che essa comportava verso la leadership americana che per quindici anni non tentò, fino alla guerra dell’Iraq, altre avventure militari.
Oggi occorre constatare che il delirio di onnipotenza americano di plasmare il mondo è fallito, almeno per ora. Ed è una cosa positiva che sia finito questo delirio di onnipotenza che alimentava la guerra infinita. E’ stato evidente il collasso di un governo fantoccio che, dopo aver prosciugato una parte degli oltre duemila miliardi bruciati in questa guerra ‘democratica”, si è sbriciolato in pochi giorni. In pochi giorni venti anni di menzogne si sono polverizzate. Oggi i militari americani si tolgono la vita e i suicidi dei marines costituiscono uno dei più gravi problemi della società americana.

I presunti passi in avanti della società afghana non venivano difesi da nessuno, se non da quell’elite predatoria che aveva sottratto al popolo gli aiuti civili e che ha chiesto un corridoio umanitario per scappare perché non ha la coscienza a posto.
millantati progressi della società afghana sono emersi in tutta la loro vergognosa falsità negli Afghanistan Papers. E questi ultimi da molti non sono conosciuti proprio perché questa è stata una guerra “democratica”, appoggiata da Fassino e D’Alema, su cui è stata costruita una narrazione a cui non corrispondeva la realtà.

Oggi la realtà emerge e ci dice che siamo stati tutti avvolti da una nube invisibile di informazioni narcotizzanti, le quali hanno addormentato anche parti importanti del movimento pacifista che non ha chiesto con la sufficiente determinazione il ritiro dei contingenti militari. Avevamo di fronte una raffinata forma di imperialismo che utilizzava i diritti umani per giustificare l’estensione della Nato fuori dalla sua area geografica originaria, delimitata nell’articolo 6 del Trattato del 1949.
Questo significava una proiezione delle forze armate oltre una funzione difensiva, prefigurando lo strumento militare come forma di tutela dei propri interessi geostrategici, lontano dai propri confini e vicino alle fonti e ai corridoi energetici.

Gino Strada sull’Afghanistan era stato chiaro, anzi chiarissimo, nel porsi contro questa guerra.
Ma
molti di noi non hanno avuto quel coraggio di dire le cose in modo scomodo e sgradevole, come sapeva dirle lui. Avevamo troppa paura di essere definiti talebani e non abbiamo fatto abbastanza nel perseguire la fine della guerra.
E così la guerra è stata fermata non sull’onda di una battente campagna di opinione pacifista ma sulla base di una valutazione realistica fatta dagli Stati Uniti, condotta a termine da Joe Biden che ha deciso quel ritiro che Fassino e D’Alema hanno sempre ritenuto un tabù.

La nostra voce di pacifisti non è stata forte, doveva esserlo di più. Eanche oggi non è che sia bellissimo trovare la firma di Piero Fassino su appelli co-firmati da autorevoli associazioni pacifiste.
Ecco come Fassino si opponeva al ritiro e “valutava” l’uso delle bombe in Afghanistan: «quello delle bombe è un aspetto che deve essere esaminato e valutato da chi ha le competenze, cioè dai vertici delle Forze Armate e di chi ha il comando operativo in quell’area». (L’Unità, 12 ottobre 2010)

Non abbiamo chiesto con la sufficiente determinazione la fine della missione in Afghanistan e per non averla chiamata con il suo nome: occupazione militare. A cui si sono accompagnate condizioni di detenzione vergognose, fuori dai principi della Convenzione di Ginevra, Guantanamo in primis.
Sono stati violati i diritti umani più e più volte (lo ha documentato l’ONU) ma per molti era la nostra una missione di civiltà.
E’ stata messa in atto in questi anni una persecuzione terribile verso chi ha rivelato segreti militari per raccontare la verità della guerra: Assange, Manning, Snowden.
E non lo è stata, perché alzare la voce significava essere posti ai margini della vita pubblica, con la terribile accusa di essere un fiancheggiatore dei terroristi. E’ stata fatta un’enorme confusione fra talebani e terroristi. Questo è ciò che è avvenuto.
La fine di vent’anni di guerra e di menzogne è oggi una liberazione, è un evento, ed è un evento positivo.
I talebani hanno resistito ad un’occupazione militare.
Il collasso in pochi giorni del regime fantoccio – creato dagli Stati Uniti e dalla NATO – pone fine a venti anni di bugie e di illusioni.

La post-verità sull’Afghanistan

La post-verità (post-truth) è la costruzione di una visione della realtà in cui i fatti verificabili (in questo caso, quelli  sull’Afghanistan) diventano secondari. La verità oggi viene considerata una questione di secondaria importanza, e così anche i fatti.
Secondo l’ Accademia della Crusca: “Nella post-verità la notizia viene percepita e accettata come vera dal pubblico sulla base di emozioni e sensazioni, senza alcuna analisi concreta della effettiva veridicità dei fatti raccontati: in una discussione caratterizzata da “post-verità”, i fatti oggettivi – chiaramente accertati – sono meno influenti nel formare l’opinione pubblica rispetto ad appelli ad emozioni e convinzioni personali”. the afghanistan papers
Sull’Afghanistan è stata costruita un post-verità
. I più sprovveduti hanno vissuto di illusioni, in attesa di un miglioramento dell’Afghanistan grazie alla missione NATO, i più maliziosi hanno alimentato quelle illusioni con un mare di menzogne costruite a tavolino, come documentano i documenti desecretati di recente: gli Afghanistan Papers.

Oggi è venuto il momento di riscattarci per quello che avremmo potuto fare e non abbiamo fatto.
E oggi che cosa possiamo fare?
Riportare al centro l’ONU, dopo il fallimento della NATO.
Occorre prima di tutto essere chiari: la strategia dell’Occidente non può essere quella di destabilizzare l’Afghanistan per una sorta di rivincita. Destabilizzare l’Afghanistan significa favorire la crescita del terrorismo dell’ISIS che cerca – lo si è visto con i recenti attentati – di puntare alla destabilizzazione dell’Afghanistan per insediarsi pericolosamente.

Quello che dobbiamo chiedere all’Afghanistan è la fine delle coltivazioni di oppio che hanno fatto dell’Afghanistan un narcostato, e su cui gli occupanti occidentali hanno chiuso un occhio. E’ un tumore economico che alimenta una metastasi mondiale a cui occorre porre rimedio.
L’altro nemico è la povertà, che favorisce la misera condizione della donna e la sua mancata emancipazione. E qui occorre una forte pressione perché il nuovo governo apra spiragli di novità rispettando le promesse fatte nella prima conferenza stampa sui diritti umani.

Un altro grande nemico è la guerra, che anche l’Italia ha alimentato. Abbiamo puntato su ciò che creava il problema e non sulla sua soluzione. Il rapporto con il nuovo governo afghano deve essere improntato sulla pace, oltre che sul rispetto dei diritti umani fondamentali.

Occorre cambiare strada e noi, come pacifisti, possiamo avere la voce libera per indicare una strada che vada nell’interesse del popolo afghano e non delle lobby militari che in questi venti anni hanno dominato la scena.
E, come gesto simbolico ma concreto, possiamo e dobbiamo esigere la chiusura della prigione di Guantanamo. Perché il medioevo è lì.
Se ai talebani va chiesto il rispetto dei diritti umani, come è giusto che sia, occorre che l’esempio parta da noi, chiedendo agli Stati Uniti la chiusura della prigione di Guantanamo, simbolo della violazione occidentale dei diritti umani [vedi Campagna Guantanamo di peacelink]

Nota: questo articolo è già uscito sul sito di Peacelink il 27.08.2021

In copertina: Soldato americano in Afghanistan (licenza Creative Commons)

PRESTO DI MATTINA
Con i piedi per terra

«Il Diavolo, quello spirito orgoglioso, non può̀ tollerare di venir canzonato»
(Tommaso Moro [Qui])

Malacoda è solo un’apprendista, un piccolo diavolo, ingenuo e inesperto, nipote di Berlicche, che è al contrario un diavolo navigato, capitano di lungo corso. Screwtape è il suo nome nell’originale inglese; un maestro nel confondere i pensieri, corrompere le cose, dividere ciò che è unito, mischiare realtà e immaginazione.

Andato in pensione da poco non ha altro interesse che scrivere lettere periodiche con cui istruisce il nipote, in missione sulla terra, sull’arte di sottrarre anime al Nemico: Dio è qui “l’avversario nostro” dice Berlicche. «Il gergo corrente, non la discussione, è il tuo alleato migliore per tenerlo lontano dalla chiesa… è un vero godimento far scoppiare l’odio fra coloro che dicono “messa” e coloro che dicono “santa comunione”… Il male della discussione è invece che essa convoglia tutta la lotta sul terreno del Nemico. Anche Lui sa discutere. Il fatto stesso di discutere sveglia la ragione del tuo paziente, e, una volta che sia sveglio, chi può̀ prevedere i risultati che potrebbero seguire?» (C. S. Lewis, Le lettere di Berlicche, Mondadori, Milano 1950, 13-14; 71).

Istruiscilo dunque a pensare alla realtà solo con l’immaginazione, questa è la tattica. Spingilo a fantasticare, a costruire mondi virtuali attraverso le opinioni, il sentito dire e il si dice; fagli credere che l’esperienza è fare esperimenti e pratiche stando alla consolle, distaccati e riparati dalle cose di ogni giorno, privi di coinvolgimento, solo controllando dal di fuori, senza applicare gli esperimenti a servizio alla vita. Come fosse una sfilata di moda sulla stessa passerella, passando da una moda all’altra, da un gioco all’altro, senza prendere e dare forma all’esistenza uscendo in strada.

Uno sperimentare senza un riscontro sul terreno; un tessere la vita con ago senza il filo: «L’utilità delle mode nel pensiero consiste nel distrarre l’attenzione degli uomini dai loro veri pericoli. Il gioco consiste nel farli correre dappertutto con estintori d’incendio ogni volta che c’è un’inondazione, e di affollare quella parte della barca che ha già l’acqua quasi al parapetto» (ivi, 122). Caro Malacoda ‒ ricorda ancora lo zio Screwtapedevi tentarli all’«irrealtà», pasticciando, mettendo sottosopra le cose, facendo credere il contrario di quello che è. Non devi insegnare veramente, ma “annebbiarli”, “ubriacarli” in modo che non comprendano più «cosa si intenda dire quando dicono “realtà”» (ivi 14).

Gli ricorda poi che «gli esseri umani vivono nel tempo, ma il nostro Nemico li destina all’eternità̀. Perciò, credo, Egli desidera che essi si occupino principalmente di due cose: dell’eternità stessa, e di quel punto del tempo che essi chiamano il presente. Il presente è infatti il punto nel quale il tempo tocca l’eternità̀. Del momento presente, e soltanto di esso, gli esseri umani hanno un’esperienza analoga all’esperienza che il nostro Nemico ha della realtà̀ intera; soltanto in esso viene loro offerta la libertà e la realtà̀. Egli vorrebbe perciò̀ che essi fossero continuamente occupati o con l’eternità̀ o con il presente – o che meditino sulla loro eterna unione con Lui, o sulla separazione da Lui, oppure che obbediscano alla voce presente della coscienza, portando la croce presente, ricevendo la grazia presente, offrendo azioni di grazie per il piacere presente. Il nostro lavoro è di allontanarli sia dall’eterno sia dal presente» (ivi, 73-74).

Anche la memoria del passato è pericolosa perché assomiglia all’eternità e ne contiene tracce indelebili. Farli vivere solo di futuro è la cosa migliore per tenere la realtà del presente lontano dalla loro vita.

Clive Staples Lewis [Qui], convertitosi all’anglicanesimo ‒ terra di mezzo tra cattolici e protestanti ‒ contribuì coi suoi scritti a fra avanzare il cammino ecumenico tra le diverse confessioni cristiane presenti in Inghilterra. La convivenza non era molto facile; le comunità e le parrocchie delle diverse confessioni erano vicine tra loro; si trattava dunque di favorire l’incontro e l’accoglienza pur nelle diversità di esperienze. Così egli richiamò l’attenzione sulla necessità di allargare il “terreno comune” che permette ai credenti di diverse fedi di incontrarsi attorno alle grandi questioni della vita.

Fin dai primi anni a Santa Francesca ogni tanto andavo a rileggere quella pagina de Le lettere di Berlicche, che rimane attuale anche se non è più, ora, solo riferita alla parrocchia, ma alla parrocchia di parrocchie che la nostra unità pastorale di Borgovado.

Le strategie di Berlicche per far sì che un convertito non viva pienamente la vita parrocchiale sono le stesse per impedire lo stile sinodale e l’esercizio della corresponsabilità tra più parrocchie: «Mio caro Malacoda, nella tua ultima lettera hai accennato per caso che, dal momento della sua conversione, il tuo paziente ha continuato a frequentare una chiesa, ed una sola, e che non ne è completamente soddisfatto. Posso chiederti che cosa stai facendo? Non capisci che ciò, se non è dovuto a indifferenza, è una cosa molto brutta? Certamente sai che se non si riesce a curare un uomo dall’andare in chiesa, la cosa migliore da fare è di mandarlo per tutto il vicinato in cerca d‘una chiesa che “vada bene” per lui, affinché diventi un buongustaio e un esperto in chiese. Le ragioni sono ovvie: l’organizzazione parrocchiale dovrebbe essere sempre attaccata perché, essendo un’unità di luogo e non di simpatie, porta insieme gente di diverse classi e di differente psicologia in quel genere di unità che il Nemico desidera» (ivi, 78).

Con i piedi per terra.

Non è solo un problema pastorale, ma umano ‒ direbbe Xavier Zubiri [Qui] ‒ quello di “saper stare nella realtà”, faccia a faccia in modo interattivo, dialogico, sinodale. Perché la realtà non è struttura di possibilità solo virtuale, manipolabile finché “non va bene a me” e non si adegui al mio gusto, alla mia taglia.

Anche l’esperienza spirituale, liturgica ed ecclesiale, oltre che umana, non si ferma agli esprimenti di laboratorio, emulando l’immobilità e l’intangibilità di modelli del passato, o rincorrendo, folleggiando un futuro indistinto che si affida al caso. Neppure si muove con degli slogan contrapposti, come incrociando in duello gli ideali o la retorica della tradizione del “si è sempre fatto così” a quella dell’innovazione, del “tutto è da buttare”. Il tutto inconsciamente animato, non già dalla ricerca di stili sostenibili per vivere insieme, ma dalla recondita esigenza di certificare selettivamente solo chi sia il migliore.

L’eccellenza, tanto ecclesiale quanto umana, non sta nei titoli o nelle strutture imponenti, ostentate nei segni e insegne di potere. Questa è solo retorica ingannatrice, che alla fine risulta divisiva, conflittuale, negativamente classificatoria e penalizzante dell’umano e del cristiano. Sulle prime essa può affascinare come le scintille nella stoppia, ma poi resta il disincanto amarissimo della cenere nera sulla terra bruciata e sul vangelo.

Semmai, l’eccellenza è bellezza nascosta e sedimentata nel profondo; formata strato dopo strato, passo dopo passo, nel vissuto di ogni giorno in una banalità apparente, spinta fuori (ex-cellere) solo alla fine, come l’eccedenza sovrabbondante e testimoniante una vita che si dona, tanto da lasciare stupiti: come da un piccolo seme, un frutto di singolare e nuova umanità.

È capacità di presa sulla vita, nel divenire esperti praticando umanità, anche attraverso il sacrificio di se stessi. Sta nella dedizione alla causa dell’uomo a partire dagli ultimi e dagli svantaggiati; sta nel trovare vie di uscita alle esperienze proprie e altrui, quando si ripiegano su se stesse divenendo autoreferenziali; nel far rinascere o nell’aprire a una realtà più grande; è la sua costante determinazione e cura, incoraggiando sinapsi tra la gente (σύν/con e ἅπτειν/toccare), connessioni esistenziali per una crescita condivisa del bene comune, mettendo in guardia dalla retorica dell’accumulo, del meticcio, della identità, dell’esclusivo: il diavolo veste Prada.

«Non spegnete lo Spirito, non disprezzate le profezie – dice Paolo ‒ Provate ogni cosa e vagliate ciò che è buono» (1 Tes 5,19-20): traducete in vita etica, per gli altri, i vostri esperimenti.

Fare esperienza allora è di più che fare un esperimento. Così come la realtà è superiore all’idea, ma l’una non esclude l’altra e neppure va senza l’altra, parimenti l’esperienza deve uscire fuori, rischiarsi allo scoperto della realtà, verso un orizzonte che è sempre oltre, infinitamente aperto. La realtà è qualcosa che ci sorprende e ci supera sempre: il discernimento comunitario come “l’intelligenza senziente” (Xavier Zubiri), quella che si fa carico della realtà, le danno una forma, un senso, un giudizio, una intelligibilità, una bellezza.

Se la realtà è la materia prima, diversificata, plurale, imprevedibile, incontenibile, segnata dal nascere e dal morire, l’esperienza dell’“intelligenza senziente”, che lascia essere le cose nella loro diversità e la condivisione di ciò che è proprio di ciascuno, sono le mani che la plasmano, impastando con essa nel presente il futuro dell’umano in un processo di socializzazione e personalizzazione.

Geremia «scese nella bottega del vasaio, ed ecco, egli stava lavorando al tornio. Ora, se si guastava il vaso che stava modellando, come capita con la creta in mano al vasaio, egli riprovava di nuovo e ne faceva un altro, come ai suoi occhi pareva giusto» (18, 3-4).

Per vivere spiritualmente e creativamente bisogna immergersi e lasciarsi impastare nel reale. Scrive Romano Guardini [Qui]: «Esiste un tipo di creazione spirituale che si deve pagare con la capacità di sentire» (Diario, 124). E senza questo esercizio dei sensi “intelligenti”, che leggono in profondità, dentro (intus legere), la fede stessa, si dissocia dalla vita, si ammala, rinsecchisce e diviene come quelle foglie che si staccano dall’albero dell’esperienza private della linfa.

Quando nelle nostre parole, negli scritti, negli stessi gesti liturgici, ma anche in quelli più familiari e umili ‒ come far da mangiare, apparecchiare la tavola, far le pulizie ‒ viene meno l’energia del fatto che li ha suscitati, essi diventano pragmatici, da manuale, senz’anima: situazioni e ambiti in cui la realtà è come archiviata, rinchiusa, immobile, tolta via dal suo contesto.

E Pierre Teilhard de Chardin [Qui] vedeva con assoluta evidenza «la vuota fragilità delle più belle riflessioni e immaginazioni di fronte alla pienezza definitiva del più infimo fatto colto nella sua realtà concreta e totale». Per comprendere e interpretare il mondo bisogna viverlo: «Ogni conoscenza astratta (virtuale) è solo ‘essere appassito’; poiché, per capire il Mondo, non basta sapere: bisogna vedere, toccare, vivere nella presenza, bere l’esistenza bell’e calda nel seno stesso della Realtà», (“La Potenza spirituale della Materia”, in Inno dell’universo, 67-68),

Concludo come ho iniziato, dando la parola a C.S. Lewis: «Noi non ci accontentiamo di vedere la bellezza, anche se sa il Cielo che gran dono sia questo. Noi vogliamo qualcos’altro che è difficile esprimere a parole – vogliamo sentirci uniti alla bellezza che vediamo, trapassarla, riceverla dentro di noi, immergerci in essa, diventarne parte»
(Il brindisi di Berlicche e altri scritti, Milano 1980, 149-150).

Per leggere gli altri articoli di Presto di mattina, la rubrica di Andrea Zerbini, clicca [Qui]

NON SONO CATTIVI SOLO I TALEBANI!
Durante la missione USA, nelle aree urbane il 69,4% delle donne
ha subito almeno una forma di violenza

 

C’è una narrazione dell’emancipazione femminile sotto la missione USA/NATO che non rispecchia la verità. E’ servita a giustificare la missione militare ieri e serve oggi a descrivere un Afghanistan dove la libertà delle donne è ora in pericolo. Ma lo è sempre stata.
Chi dice che la condizione delle donne durante l’occupazione americana dell’Afghanistan era migliorata nelle città dovrebbe leggere questi dati di ActionAid [Qui] del 2014:
“Non esistono statistiche ufficiali a livello nazionale sulla violenza di genere in Afghanistan e, secondo uno studio del 2012 dell’UNAMA (United Nations Assistance Mission in Afghanistan), la maggior parte delle violenze contro donne e bambine non vengono denunciate. Per colmare le lacune sulla conoscenza del fenomeno della violenza in Afghanistan, alcune ONG e organizzazioni internazionali hanno effettuato ricerche per stimarne la portata.
Uno studio di Global Rights sulla violenza contro le donne, effettuata in 16 delle 34 province afghane, ha rilevato che l’84.9% delle donne che vivono in zone rurali ha subito almeno una forma di violenza (fisica, psicologica o sessuale) contro il 69,4% delle donne che vivono in aree urbane”.
Sono dati che smentiscono la narrazione dell’emancipazione femminile sotto la missione USA/NATO. Quella narrazione è servita ad assopire l’opposizione alla guerra e a giustificare la missione militare. Oggi serve a descrivere un Afghanistan dove la libertà delle donne è ora in pericolo.

E’ un’operazione di raffinata manipolazione, efficace su tante donne che sinceramente sono preoccupate per ciò che avviene.
Purtroppo le donne erano in pericolo anche prima della caduta di Kabul, anche se non se ne parlava come oggi.
Le donne erano oggetto di violenza anche prima in quanto gli occupanti avevano stretto scellerati patti di potere con i “signori della guerra” rivali dei talebani. Questi signori della guerra erano protagonisti delle violazioni dei diritti umani e delle donne, inclusi omicidi per libidine, stupri e sevizie. Ma questa emergenza non raggiungeva il grande pubblico e rimaneva all’interno dei dossier.
La maggior parte delle violenze contro donne e bambine non veniva denunciata.

Le donne di RAWA sotto l’occupazione USA/NATO dicevano:
“Le donne non hanno visto migliorare la loro condizione se non in alcune limitate parti del paese. In altre zone l’incidenza degli stupri e dei matrimoni forzati è nuovamente in crescita, e le donne continuano a indossare il burqa per paura, per tutelare la propria sicurezza. La guerra al terrorismo ha scacciato gli storitellyng talebani dal governo centrale, ma non ha sradicato il fondamentalismo religioso, che è la causa principale delle nostre sofferenze. I signori della guerra e l’Alleanza del Nord sono ancora al potere e sono appoggiati dal governo USA. Costoro sono ideologicamente simili ai talebani. Essi sono misogini quanto loro”.
A questa drammatica situazione per le donne si accompagnava un peggioramento, sotto l’occupazione militare USA/NATO della speranza di vita, della mortalità infantile e di altri indicatori sociali. Ma anche questo non veniva raccontato all’opinione pubblica dalla coalizione militare occupante.

Cosa è PeaceLink?
E’ un’associazione di volontariato nata su rete telematica. Peacelink [Qui] promuove dal 1991 la cultura della solidarietà e dei diritti umani, l’educazione alla pace, la cooperazione internazionale, il ripudio del razzismo e della mafia, la difesa dell’ambiente e della legalità.

Nota: questo articolo è già uscito sul sito di Peacelink il 22.08.2021