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Qualche giorno fa, alla vigilia di San Giorgio, il santo ferrarese come sempre impegnato ad ammazzare draghi, abbiamo celebrato la Giornata della Terra. Da celebrare però, c’è ben poco. La “festa” alla Terra gliel’abbiamo già fatta, visto che a metà estate ce ne servirebbe già un’altra da consumare. I calcoli sono presto fatti: verso fine luglio contabilizzando le risorse consumate (dall’ossigeno all’acqua, al suolo) saremo a debito, ovvero andremo ad intaccare il capitale perché la rendita che ci fornisce questa Terra sarà già andata. Noi italiani facciamo anche peggio: la nostra impronta ecologica come paese è tale che tra una quindicina di giorni – giorno più giorno meno – ci saremo già giocati tutta la nostra parte di pianeta. E’ da tempo infatti, che nel Belpaese una rondine non fa più primavera. Non solo perché di questi straordinari volatili in giro se ne vedono sempre meno, qui è la primavera che fatica a ritornare, schiacciata tra un inverno che assomiglia all’autunno ed un’estate che si allarga come una macchia d’olio, mangiandosi ogni possibile sfumatura.

I numeri sono impietosi. Io che ho insegnato per metà della vita ad usarli, faccio veramente fatica a trovare qualche cifra incoraggiante. Non voglio quindi snocciolare statistiche infauste, seppellendovi sotto una valanga di misfatti ecologici, tutti ugualmente gravi, tutti inderogabili. Non sono le informazioni che ci mancano. Tutt’altro. E’ come quando proviamo a metterci a dieta o decidiamo che è venuto il momento di alzarci dal divano per fare un po’ di attività fisica. Sappiamo che dovremmo farlo, ma poi è la nostra costanza a venir meno. La coerenza fa a pugni con la difficoltà; l’impegno s’impenna sulla quotidianità.

Per oltre vent’anni sono stato un infaticabile attivista ambientalista. Mi sono sporcato le mani, raccogliendo i rifiuti abbandonati da tanti “somari”, sulle spiagge e tra i boschi. Ho attraversato in lungo ed in largo la nostra provincia, per decine di cause o manifestazioni tese a salvaguardare qualcosa di questo meraviglioso territorio. Ho praticato l’educazione ambientale, il confronto delle idee, lo scontro sui principi.  Poi ho mollato per stanchezza: troppe pacche sulle spalle, tante sui denti. Chi veniva in associazione, lo faceva quasi sempre perché aveva un “proprio” problema: un impianto di qualche tipo, che non riteneva giusto “ambientalmente parlando” che fosse costruito vicino a casa sua; il traffico insopportabile davanti alla finestra; il rumore, la puzza, o una qualche potenziale fonte d’inquinamento in arrivo a poca distanza dal cortile, dopo anni di vita tranquilla.  Problemi a volte degni di essere affrontati, in molti casi, marginali in un serio rapporto tra costi e benefici ambientali. Sempre però, bisognosi di energie, studio, impegno, discussione, scelte conseguenti e coerenti. Tutte cose che normalmente la gente rifugge, cercando le soluzioni facili e immediate. A distanza di oltre quindici anni dalle mie ultime uscite con il cappello giallo della Legambiente, mi chiedo se ne è valsa la pena, ovvero se alla fine, come dice un mio vecchio amico, ho lasciato il mondo un po’ meglio di come lo avevo trovato quando ho cominciato ad impegnarmi materialmente e direttamente nella sua salvaguardia.
Conclusione provvisoria, ma abbastanza sconfortante: la Terra ha bisogno di testimonianze, ma soprattutto di una quotidianità attenta e diffusa. E di scelte concrete, non sempre facili da compiere, soprattutto quando toccano anche noi stessi o interessi non immediatamente popolari. L’uovo di colombo, si dirà! Certo. Una conferma indiretta di questa semplice, ma impietosa considerazione, deriva dalla cosiddetta transizione ecologica, così urgente e attuale, che è dal 1973, ovvero dalla prima, vera crisi petrolifera che se ne parla, continuando a spostare le lancette del suo serio inizio, ad un imprecisato domani.
Così più della piccola Greta e degli effetti dei cambiamenti climatici sulla nostra vita, poté Putin e la guerra. Ma la cosa straordinaria è che di fronte alle ragioni della geopolitica, non si parla ancora di passaggio deciso e ponderato alle fonti rinnovabili, ovvero a quell’economia circolare così alla moda, ma semplicemente, si fa per dire, alla sostituzione del petrolio e gas russo con il petrolio e gas di paesi altrettanto “fragili” e poco affidabili sul piano politico, sparsi in Africa e Asia.

Quindi, tornando alla nostra metafora iniziale, stiamo sul divano e non vogliamo alzarci. Quanto al nostro rapporto con i cambiamenti climatici, assomigliamo a quegli studenti che difronte ad una pagella tutta in rosso continuano a pensare fino all’ultimo che si possa rimediare. La catastrofe ambientale è già cominciata. Non è più possibile invertirla, almeno nei tempi umani. Possiamo solo cercare di rallentarla e con fare preoccupato contare quanti anni avremo nel 2060-70, termine entro il quale gli scienziati collocano per esempio, lo scioglimento dei ghiacci ai poli, tirando poi un respiro di sollievo nel momento in cui ci rendiamo conto che saremo probabilmente già all’altro mondo. Almeno noi.

Anche la musica ha provato a scuoterci. Sono tanti i musicisti o i cantautori che hanno tentato di sensibilizzare su questi problemi, aggiungendo la loro voce a quella di attivisti e testimoni. “non ho mai detto che a canzoni si fan rivoluzioni, si possa far poesia”, ci ricorda Guccini, rimettendo al centro l’eterno dilemma dell’arte e della sua capacità di incidere veramente sulla realtà. Non ho risposte semplici. Quindi non voglio chiedermi quanto conti o abbia contato, per la causa delle balene, “Whale song(canzone delle balene) dei Pearl Jam.  Il brano è stato pubblicato nel 2003, all’interno di “Lost Dogs”, un doppio album che proponeva materiale inedito assieme a out-take, cover e pezzi ritenuti minori, quelli che si definivano i lati-b di un singolo. Una musica lancinante e “grunge”, per un grande gruppo che, tra mille contraddizioni, ha provato a sperimentare la sostenibilità nelle proprie produzioni.
Nel 2003, anno in cui viene pubblicato, i Pearl Jam hanno investito una grossa somma di denaro per coprire l’impatto ambientale dovuto alla produzione e distribuzione del loro lavoro in studio.  Non è una medaglia, ma indica almeno una preoccupazione, che unita all’attenzione del gruppo all’intero ciclo del loro agire – dal prezzo dei biglietti all’impatto dei loro concerti – non è frequente trovare.

“Whale song” non è cantata da Eddie Vedder, il frontman della band, ma da Jack Irons, che  per un periodo è stato il batterista della  band statunitense. Il brano è stato scritto alla fine degli anni novanta ed è stato ripreso in diverse raccolte di musica ambientalista. Si parla ovviamente di caccia alle balene, ancora oggi, dopo vent’anni dalla canzone, autorizzata da Islanda (che ha recentemente annunciato che la sospenderà solo nel 2024), Norvegia e Giappone. “Moby Dick” ovviamente è lontana anni luce da questa pratica, che come la caccia tout-court, aveva un senso quando Melville scriveva il suo capolavoro. Non certamente oggi. Il testo è forse un po’ naif, sicuramente un po’ datato e schematico, ma è da ascoltare.

WHALE SONG

The sun was in clouds, the sun looked out         Il sole era tra le nubi, il sole stava spuntando
Exposed a trail of mist and spouts                      illuminando un sentiero di nebbia e di getti d’acqua
Ships followed the ancient lead                          le navi seguivano l’antica pista
Deceiving friends under the sea                          ingannando gli amici sotto il mare

Wow, imagine that? They won’t fight back        wow,  immaginalo ? Loro non reagiranno
I got a theory on that                                           Io credo che

A whale’s heart is as big as a car                         Il cuore di una balena sia grandissimo

A whaler’s thought                                               Il pensiero di un cacciatore di balene
Must be smudged by the dark                              deve essere segnato dal buio

 

They won’t fight back                                           Loro non reagiranno
I’m sure they know how                                        So che saprebbero farlo
Means they love or are too proud                         Significa che amano o sono troppo orgogliose
They won’t fight back                                           Loro non reagiranno
I’m sure they know how                                        So che saprebbero come
Means they love or too proud                               Amore o fierezza
They swim, it’s really free                                     Nuotano, totalmente libere
It’s a beautiful thing to see                                     E’ bellissimo da vedere
They sing                                                               Cantano

Hunters of land, hunters of sea                                                 Cacciatori di terra e di mare                            Exploit anything for money                                                      Sfruttate ogni cosa per denaro
I refer to anybody that takes advantage                                       Come chiunque tragga vantaggio da of what that is free                                                                                                         ciò che è di tutti

They won’t fight back                                                                                            Loro non reagiranno
It’s only a thought that makes it seem right                              E’ solo un’idea a farlo sembrare giusto
What you don’t see is because of your sight               Ciò che non vedete è perché non volete vederlo

Take what you want, kill what you can                Prendete quello che volete, uccidete quanto potete
That’s just one way from the mind of man                   Questo è quanto viene dalla mente dell’uomo
Take their lives, sell their parts                            Prendete le loro vite, vendete le parti dei loro corpi
But there is not taking of their hearts                                    ma non riuscirete a prendere i loro cuori

If i was lost at sea                                                                                              Se mi perdessi in mare
That harpoon boat in front of me                                                 Quella nave piena di arpioni davanti
It’s the whale i’d like to be                                                                       E’ la balena che vorrei essere
They won’t fight back (5x)                                                                                    Loro non reagiranno
They don’t know how                                                                                      So che saprebbero come
They won’t fight back (3x)                                                                                    Loro non reagiranno

(la traduzione, con qualche licenza poetica, è del sottoscritto)

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Alberto Poggi

Fisico di formazione, strimpellatore di chitarre per diletto, scribacchino per passione. Ho attraversato molte situazioni e ruoli nella mia vita. Da due anni sono ufficialmente un pensionato, ma non penso nemmeno lontanamente di andare in pensione con la testa. Non preoccupatevi però, sono un pigro nella scrittura.

Ogni giorno politici, sociologi economisti citano un fantomatico “Paese Reale”. Per loro è una cosa che conta poco o niente, che corrisponde al “piano terra”, alla massa, alla gente comune. Così il Paese Reale è solo nebbia mediatica, un’entità demografica a cui rivolgersi in tempo di elezioni.
Ma di cosa e di chi è fatto veramente il Paese Reale? Se ci pensi un attimo, il Paese Reale siamo Noi, siamo Noi presi Uno a Uno. L’artista polesano Piermaria Romani si è messo in strada e ha pensato a una specie di censimento. Ha incontrato di persona e illustrato il Paese Reale. Centinaia di ritratti e centinaia di storie.
(Cliccare sul ritratto e ingrandire l’immagine per leggere il testo)

PAESE REALE
di Piermaria Romani


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