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Scuola e no-vax: l’incompatibilità professionale

Negli anni Sessanta i giovani obiettori al servizio militare finivano in carcere. Poi, circa un decennio dopo, sono venuti i medici obiettori di coscienza di fronte all’interruzione anticipata della gravidanza e nessuno li ha cacciati dagli ospedali, né messi in galera.
Ora l’obiezione dei no-vax non è di coscienza, perché apparentemente non ci sono in gioco valori morali e civili, ma obiezioni nei confronti della pervasività della scienza.

Prima Francesco, il papa, poi il presidente della repubblica hanno sostenuto che vaccinarsi è un atto d’amore. Al valore civile della tutela della salute pubblica sancita dalla Costituzione ora si aggiunge la portata etica dell’amore, amore per il prossimo oltre che per se stessi.

Ci sono luoghi particolarmente sensibili, ad alta intensità etica e civica, questi, primo tra tutti, la Scuola. La scuola è il luogo di passaggio di milioni di giovani e di adulti, in questo passaggio che ha la durata delle ore, dei giorni, delle settimane, dei mesi e degli anni avviene qualcosa di eccezionale, che solo lì resta isolato, tra l’adulto e un gruppo di giovani, bambini e bambine, ragazzi e ragazze, una sorta di bene immateriale, che non si vede, ma che respira con il respiro di quell’insieme che è la classe, il gruppo, l’aula, il laboratorio, la palestra.

Quella cosa bellissima che ogni società ad ogni lato della Terra chiama crescita, crescita delle nuove generazioni, allevamento, innalzare da terra per portare sempre più in alto.
I Care. È la cura, il prendersi cura, il camminare al tuo fianco, prenderti la mano e accompagnarti, aiutarti a superare gli ostacoli, lasciarti correre quando ti senti sicuro, sedermi al tuo fianco quando pensi di non farcela.

Non possiamo scrivere I Care sulle pareti delle nostre scuole e pensare che insegnare sia un fatto nostro, che esclude testo e contesto, l’umanità che lo nutre, la responsabilità che lo sorveglia, l’attenzione e l’interesse della società intorno.

Insegnare non ammette il conflitto, né con le generazioni degli studenti, né con le famiglie.
Quando si insegna, si entra in una classe, ci si accosta ad una cattedra non si parte per una missione, ma più semplicemente si è chiamati ad esercitare la propria professione, a professare la cultura che è sempre aperta, accogliente, rivolta a scovare il sapere, che è passione per l’altro che deve apprendere.

Ora non c’è più nulla di più incongruente, di più inconciliabile, di più inspiegabile di un insegnante no-vax. Non vaccinarsi per un insegnante significa pensare che la propria professione è distanza e giudizio, comunicazione oracolare e sentenza finale, una staticità angustiante di teste inscatolate da inscatolare nel packing della propria materia. La scuola degli imballaggi dove collocare ogni alunna e ogni alunno per poi sfornarlo confezionato secundum curricula al termine del corso studiorum.

L’I Care di don Milani [Qui] è la scuola dell’umanità, la scuola di Freinet [Qui], di Bruno Ciari [Qui], di Mario Lodi [Qui] e di tutti coloro che li hanno assunti come testimoni e che a loro si sono sempre ispirati nel proprio lavoro.

Nella nostra scuola non c’è posto per i no-vax, per i sindacati che stagnano nell’ambiguità corporativa. La scuola è delle ragazze e dei ragazzi e per tornare ad essere loro è necessario che tutti gli insegnanti e chi lavora nella scuola, dai collaboratori scolastici ai dirigenti, siano tutti vaccinati. Diversamente nessuno di questi merita di mettere piede in una scuola, in una classe, perché non sarà mai dalla parte dei giovani che devono crescere, studiare, imparare ad apprendere.

La scuola è passione e se non è appassionata non è scuola, manca pure lo spazio per esitare un solo attimo tra il vaccinarsi e il non vaccinarsi. Chi pensa di avere questo spazio ha sbagliato mestiere, quello dell’insegnante non è il suo lavoro e, se l’ha scelto per ripiego, è bene che mediti sulla sua superficialità e sulla responsabilità che porta. Il paese ha bisogno di passione per la scuola, di questo hanno bisogno tutti i bambini e le bambine, tutte le ragazze e tutti i ragazzi.

Non si vuole obbligare al vaccino? Benissimo. Nella scuola pubblica, quella solidale, quella dell’inclusione, quella dell’accoglienza, quella dove hanno piena cittadinanza fragilità e disabilità non ci può essere posto per personale che non sia vaccinato, la scuola pubblica non può che essere radicale nell’applicazione del dettato costituzionale dell’articolo 32.

Non c’è posto per tutti nella scuola pubblica, non è un ufficio di collocamento per mezzi servizi e mezzi stipendi. È ora di chiudere con la storia che a scuola entrano tutti dopo anni di graduatorie dove i punteggi si accumulano nei modi più disparati e in graduatoria si sosta per anni, fino a quando, dopo aver optato per un impiego alle Poste, ti ripescano per una supplenza.

Questo è il valore che attribuiamo alle nostre ragazze e ai nostri ragazzi. All’inizio del secolo scorso John Dewey [Qui] ci ricordava che compito della società è quello di assicurare ciò che ciascun genitore desidera per il proprio figlio, vale a dire gli insegnanti migliori e non il primo che capita per via di un algoritmo.

La Scuola deve essere l’istituzione migliore del paese, con i professionisti più preparati, non più saputi, ma più preparati nella fatica di curare ognuno, uno per uno, di condurre per mano, con pazienza e intelligenza ogni ragazza e ogni ragazzo dal nido all’università, senza perderne uno, senza lasciare indietro nessuno, disegnando per ognuno il percorso che può fare. Con l’arte della tartaruga, con il festina lente.

È il principio di responsabilità di cui si carica chi lavora nella scuola, responsabilità innanzitutto di fronte alla crescita di ogni ragazza e di ogni ragazzo, responsabilità nei confronti della società e del suo futuro, responsabilità nei confronti delle famiglie. Chi non se la sente di portare un simile fardello sulle spalle è bene che a mettere piede in una scuola non ci pensi neppure lontanamente.

Ora non è che dopo aver introdotto nelle nostre scuole, allarmati dai comportamenti delle giovani generazioni, l’Educazione Civica come insegnamento trasversale, che interessa tutti i docenti e tutti i gradi scolastici, per formare cittadini responsabili, come proclama il sito ministeriale, l’insegnamento dell’educazione civica poi lo affidiamo agli insegnanti no-vax?

L’articolo 1, comma 1 della legge richiama il patto educativo di corresponsabilità come terreno di esercizio concreto per sviluppare “la capacità di agire da cittadini responsabili e di partecipare pienamente e consapevolmente alla vita civile, culturale, sociale della comunità.”

Di fronte agli appelli del presidente della repubblica, del papa, delle autorità sanitarie gli insegnanti, più di ogni altro, non hanno possibilità di scelta. L’obbligo a vaccinarsi è connaturato al mestiere che hanno deciso di esercitare, perché quel mestiere ha particolarità che a stare seduti in cattedra non si possono scoprire e neppure apprendere, sono quelle stesse peculiarità per cui, o l’insegnamento è in presenza, umanamente intimo e corale allo stesso tempo, o è un’altra cosa.
Per l’altra cosa non serve né l’insegnante né il vaccino.

Per leggere gli altri articoli di Giovanni Fioravanti della sua rubrica La città della conoscenza clicca [Qui]

Firma ché ti Pass!
La costrizione vaccinale per i lavoratori della scuola

 

Le riflessioni che seguono prendono spunto dalla recente introduzione del, cosiddetto, “green pass” per i lavoratori della scuola, insieme a quelli dell’università, e tentano di mettere in luce in questo dato politico alcuni aspetti che, a parere di chi scrive, dovrebbero sollevare in tutti i cittadini italiani degli interrogativi molto seri sulla direzione che sta prendendo il governo del Paese.

A scanso di equivoci e di polemiche vacue, vorrei premettere che le riflessioni in questione non sono ispirate a visioni no-vax, né a visioni pro-vax; né a idealizzazioni dei lavoratori della scuola, né tantomeno al loro disprezzo sistematico.
Non voglio, insomma, assolutamente entrare sul piano clinico, ma solo sviluppare alcune considerazioni sul piano etico e politico, mentre degli eventuali risvolti giuridici, se ve ne fossero, altri si potranno occupare con il necessario fondamento, come in parte già avviene.

Alla ripresa delle lezioni, dunque, i lavoratori della scuola dovranno esibire il green pass. Chi non ne sarà in possesso verrà sospeso dal lavoro e dal salario. Il che, teniamolo presente, per una fascia di lavoratori tradizionalmente a basso reddito può voler dire non essere in grado di far fronte alle esigenze più immediate della propria famiglia e costituisce dunque una formidabile arma di pressione.
In generale, il green pass si può ottenere in tre modi:
– essendo guariti dal covid;
– con un tampone negativo nelle ultime 48 ore;
– con un ciclo completo di “vaccinazione”.

Poiché non si può chiedere a qualcuno di contrarre volontariamente il Covid per poi, con un po’ di fortuna, rientrare nella prima categoria, né di fare tre tamponi a settimana (quelli salivari sono esplicitamente esclusi), è chiaro che per i lavoratori della scuola l’unica strada effettivamente percorribile è la “vaccinazione”.

L’obbligo del green pass equivale dunque, nel loro caso, a un tentativo di costrizione al trattamento sanitario in questione, perseguito attraverso la ‘sollecitazione’ dell’estromissione dall’ambito lavorativo e della privazione dei mezzi di sussistenza. Si tratta di un fatto ormai largamente riconosciuto, come per esempio dal microbiologo Andrea Crisanti  [Vedi qui]

Ma perché il governo non obbliga semplicemente e direttamente i lavoratori della scuola alla vaccinazione?

Si tratta di una questione complessa, sulla quale certamente il clima mediatico non aiuta a chiarirsi le idee. Alcuni punti sono stati accennati in un recente contraddittorio tra il filosofo Massimo Cacciari e il farmacologo Silvio Garattini, al quale rimandiamo chi lo avesse perso [Vedi qui] .
Fatto sta che non solo l’obbligo vaccinale non è stato imposto, ma in sede di presentazione del D.L. 111/2021 si è sentita l’esigenza di ribadirlo esplicitamente. Evidentemente – e anche su questo esiste un’amplia letteratura –  l’imposizione dell’obbligo implica un’assunzione di responsabilità che il Governo non può o non vuole esercitare.

La centralità del nodo della responsabilità in tutta la vicenda emerge chiaramente nel fatto che, in sede di somministrazione del vaccino, è inderogabilmente richiesta la firma di un modulo di consenso nel quale ci si dichiara a conoscenza di quanto esposto nei materiali informativi, rinunciando di fatto a possibili azioni futura di tutela per effetti indesiderati.

Per fare solo un esempio di ciò di cui si dichiara d’esser consapevoli, riportiamo il punto 5.3 del Documento integrale Pfizer: “Non sono stati condotti studi di genotossicità o sul potenziale cancerogeno. Si ritiene che i componenti del vaccino (lipidi e mRNA) non presentino alcun potenziale genotossico

Naturalmente, la richiesta di questa firma è, in sé, comprensibilissima: i “vaccini” sono stati realizzati in emergenza, dunque chi vuole godere dei benefici che essi hanno potuto dimostrare nei tempi ristretti della sperimentazione, deve anche accollarsi i rischi relativi a ciò che, nei medesimi tempi, non è stato possibile accertare.
Questo fatto, però, dimostra anche in modo incontrovertibile che – qualsiasi cosa si voglia far credere in proposito – non esiste allo stato delle conoscenze, una base di dati sulla quale effettuare una valutazione complessiva rischi/benefici scientificamente affidabile.
Da ciò derivano due conseguenze: l’opinione di chi teme che i rischi possano essere complessivamente maggiori dei benefici potrà magari nel tempo rivelarsi sbagliata, ma non è, allo stato delle cose, assurda o irrazionale; essa non è di per sé frutto di una prospettiva egoistica, se si tiene conto di uno scenario nel quale significativi effetti indesiderati si manifestassero in una percentuale rilevante della popolazione vaccinata.

È quanto viene sostanzialmente recepito nella Risoluzione 2361/2021 del Parlamento Europeo nella quale, ai punti 7.3.1 e 7.3.2, si afferma esplicitamente che i cittadini europei devono essere informati del fatto che la vaccinazione non è obbligatoria, che nessuno deve subire alcun tipo di pressione verso il vaccino se non è intenzionato a farlo, né essere discriminato in conseguenza di questa scelta [Qui]
L’introduzione surrettizia dell’obbligo vaccinale, dunque, non è affatto una questione di sottigliezze giuridiche, bensì di concretissime alterazioni delle sfere dei diritti individuali e collettivi. Certamente se ne discuterà molto nelle aule dei tribunali a diversi livelli ma, naturalmente, è anche qui imprevedibile con quali esiti.
Resta, spiace dirlo, un triste dato politico: imporre di fatto di ciò che non è esigibile in base al diritto è prassi che caratterizza forme di potere diverse da quello democratico e che difficilmente, una volta instaurata, non tende a replicarsi. Questo aspetto dovrebbe preoccupare tutti i cittadini indistintamente.

Purtroppo, però, le ragioni di preoccupazione civile e democratica non finiscono qui.
Appare, infatti, abbastanza scontato che chi valuta i rischi di una determinata pratica terapeutica superiori ai benefici, come coloro i quali non intendono sottoporsi attualmente alla vaccinazione, non può essere propenso a sollevare dalle relative responsabilità chi lo obbligasse a sottoporsi a quella pratica.
Questa è anche, ovviamente, la situazione dei lavoratori della scuola che avevano deciso per il momento di non vaccinarsi. Ma per poter ottenere la vaccinazione alla quale sono ora di fatto obbligati dalla logica intimidatoria del green pass – se non sei vaccinato non puoi lavorare e sarai privato dei mezzi di sussistenza – dovranno apporre quella firma liberatoria che è contraria alla loro volontà, alle loro convinzioni, alle tutele previste nel caso quelle convinzioni dovessero rivelarsi fondate.

In breve, lo Stato – da una parte come fonte, attraverso i suoi Organi, delle norme e dall’altra come datore di lavoro – dice in questa circostanza al suo dipendente: apponi questa firma con la quale rinunci a eventuali future azioni di tutela dei tuoi diritti, altrimenti ti allontanerò dal tuo posto di lavoro e dal salario.
A me pare che, in senso morale, la firma in questione debba essere considerata estorta.
Non vedo infatti, in senso etico, particolari differenze con quelle situazioni nelle quali alcuni datori di lavoro, all’atto dell’assunzione o del rinnovo di un contratto di lavoro, impongono al lavoratore la firma di una lettera di dimissioni priva di data, che il datore di lavoro stesso potrà utilizzare, ad esempio, qualora il lavoratore pretendesse di far valere in azienda i propri diritti garantiti dalla legge.
In entrambi i casi, infatti, il lavoratore appone la firma in contrasto con la propria volontà, con le proprie convinzioni e con la cura dei propri diritti all’unico scopo di ottenere o conservare il posto di lavoro e la retribuzione che il datore di lavoro minaccia di sottrargli.

Il tutto appare ovviamente ancor più eticamente paradossale se si tiene conto del fatto che proprio allo Stato spetta di vigilare affinché la sfera del lavoro – la quale resta, fino a nuovo ordine, il fondamento costituzionale della Repubblica democratica – sia protetta dall’eventuale erosione dei propri diritti sempre possibile nei concreti rapporti socioeconomici.

Tornando all’esempio di cui sopra, se un datore di lavoro chiede a un lavoratore di firmare una lettera di dimissioni, è compito dello Stato intervenire e reprimere tale condotta. Addirittura, tale comportamento è stato ricondotto, nella giurisprudenza, all’art. 629 del Codice Penale, ovvero al reato di estorsione, e questa interpretazione è stata confermata dalla Corte di Cassazione con sentenza n° 18727 del 14 aprile 2016 [Qui], nella quale si legge tra l’altro: anche lo strumentale uso di mezzi leciti e di azioni astrattamente consentite può assumere un significato ricattatorio e genericamente estorsivo, quando lo scopo mediato sia quello di coartare l’altrui volontà”.

In questi tempi difficili abbiamo un gran bisogno di buoni anticorpi: anche di quelli democratici e repubblicani.

NADIYA ANZHUMAN:
Io sono una donna afghana
E questo é il mio lamento.

 

Non ho voglia di aprir bocca
Per cantar cosa, poi…?
Io, disprezzata dalla vita stessa.
Cantare e non cantare? Non c’é differenza.
Perché dovrei parlare di dolcezza
Quando provo solo amarezza?
Oh, il diletto dei tiranni
Ha colpito la mia bocca
Se non ho un compagno nella mia vita
A chi dovrei dedicare il mio affetto?
Non c’è differenza fra parlare, ridere,
Morire, esistere.
Io e la mia solitudine forzata.
Insieme al dispiacere e alla tristezza.
Sono nata per il nulla.
Le mie labbra dovrebbero essere sigillate.
Oh, cuore mio, lo senti che è primavera
Ed è tempo di festa.
Cosa posso fare con un’ala intrappolata
Che mi impedisce di volare?
Sono stata zitta per troppo tempo,
Ma non ho dimenticato la melodia,
Poiché continuo a bisbigliare
Le canzoni nel profondo mio cuore,
Per ricordare a me stessa
Che un giorno distruggerò questa gabbia,
E volerò via dalla solitudine
E canterò, con la mia malinconia.
Io non sono come un debole pioppo
Che si piega al vento.
Io sono una donna afghana,
E questo é il mio lamento.

Nadiya Anzhuman
Nadiya Anzhuman, poeta persiana (1980-2005)

Nadiya Anzhuman (1980–2005) ebbe una vita breve, il decesso avvenne non molto tempo il suo matrimonio e appena sei mesi dopo aver dato alla luce una bambina. Le circostanze della sua morte prematura non sono mai state del tutto chiarite, anche perché all’epoca della disgrazia non fu fatta nessuna autopsia sul cadavere. Nonostante alcuni fallimentari tentativi da parte di alcuni individui per far risultare la sua morte un caso di suicidio, è certo che Nadiya morì dopo una furibonda lite col marito e dopo aver subito una dichiarata violenza fisica da parte di quest’ultimo, in seguito alla quale l’uomo fu incarcerato, anche se per poco tempo, in quanto ritenuto il principale (ed unico) sospettato.
Nadiya provò sulla sua pelle le conseguenze delle riforme statali messe in atto dal governo del Talebani a partire dal 1995 che, fra le altre riforme e i vari interventi sul territorio, vietò alle donne l’accesso alle scuole statali. Dunque, Nadia si trovò a dover fare i conti con la sua passione letteraria da un lato, sua compagna sin dall’epoca della sua infanzia, e dall’altro lato l a difficoltà di essere donna e poter studiare. Si unì al circolo di donne intellettuali guidate da Muhammad Ali Rahyab, professoressa universitaria di Herat.

Fra le varie difficoltà e le mille ostilità incontrate, Nadia riuscì comunque a laurearsi con ottimi risultati in letteratura e a pubblicare un libro di raccolta di poesie, Gul-e-dodi (Fiore Rosso Scarlatto) in lingua farsi. In Italia è stato pubblicato un libretto, Elegia per Nadia Anjuman, che raccoglie alcune delle sue poesie e qualche frammento scritto di un’autobiografia.

IL VACCINO NON TOGLIE LA PAURA:
quello che l’informazione mainstream non ci dice

 

Diciannove mesi di informazione martellante e sistematica sulla pandemia hanno finito col creare un diffuso clima di paura che alimenta le tensioni sociali e le semplificazioni irrazionali.  La paura, si sa, è madre dell’odio ed è l’opposto dell’amore: a livello soggettivo terreno fertile per la sofferenza e l’insorgenza della malattia, a livello sociale strumento nelle mani di chi gestisce il potere. Uscire dalla paura è dunque il primo passo (sociale) per affrontare collettivamente la sfida del Covid-19, il primo passo (soggettivo) per evolvere verso una maggiore tranquillità e consapevolezza, senza tuttavia abbandonare prudenza e attenzione che restano quanto mai indispensabili in periodi di crisi perdurante.

Diciamolo: quella che poteva essere, pur nella sua drammaticità, un’occasione per ragionare sui limiti dello sviluppo e sulle impellenti necessità del pianeta, un’opportunità per riflettere a fondo su stili di vita insostenibili e disfunzionali, uno stimolo per meditare sulla personale consapevolezza, si è ormai trasformata in uno scontro corrosivo che contrappone orizzontalmente cittadini a cittadini generando drammatiche e profonde fratture dentro le istituzioni, le imprese, le associazioni e perfino le famiglie. Quella che poteva essere l’occasione per inventare qualcosa di nuovo è diventata tosto una pressione per tornare alla normalità di prima, ai vecchi comportamenti e rituali sociali, alla routine proposta ed imposta dalla religione universale del consumo.
Tutta la vasta, drammatica e affascinante tematica del virus, che sottende il rapporto dell’uomo con la natura, i limiti della bio-ricerca, le relazioni tra esseri umani e tra specie, è stata ridotta allo scontro sull’obbligo vaccinale e  il  green pass quando non tradotta nel reciproco accusarsi di destra e sinistra, con una perdita di complessità e di onestà intellettuale francamente umiliante.

E’  possibile modificare questa narrazione che avvelena i rapporti sociali senza cadere nell’eccesso opposto?
E’ possibile alimentare una prudente fiducia che possa aiutare ad uscire dalla paura prima che, con la fine dell’estate, il rancore e l’odio sociale alimentato da più fonti, diventi insostenibile e ancora più drammatico?

Il sito della John Hopkins University [qui] – che da inizio pandemia monitora l’andamento del fenomeno –  segnalava il 21 agosto, a livello mondiale, quasi 211 milioni di casi (contagi), 4.415.304 morti e 4.873.203.990 dosi di vaccino somministrate. Un dato quest’ultimo che lascia intuire il colossale business che sta dietro il vaccino anti Covid come messo in risalto nel rapporto curato da Oxfam ed Emergency pubblicato a luglio di quest’anno [potete leggerlo [qui], dal quale stralcio per invitarvi alla lettura questa frase: “Il CEO di Pfizer ha suggerito che si potrà arrivare fino a 175 dollari per dose, ossia 148 volte il potenziale costo di produzione (che è oggi inferiore ai 3 euro).

Ma veniamo all’Italia e ai suoi numeri. Il sito Epicentro dell’Istituto Superiore di Sanità, pubblica ed aggiorna costantemente il rapporto sulle caratteristiche dei pazienti deceduti positivi all’infezione SARS-Cov-2 in Italia. Nell’ultimo aggiornamento del 21 luglio 2021[qui] sono descritte le caratteristiche di 127.044 pazienti deceduti e positivi al virus (formula quest’ultima correttissima che i media si guardano bene dall’utilizzare preferendo titoli come “Morti per Covid”, “Uccisi dal Covid”, “Strage del Covid” e così via, evitando sempre di citare lo stato di salute  dei defunti prima di essere contagiati).
L’età media dei deceduti è di 80 anni (mediana 82, range 0-109, Range InterQuartile – IQR 74-88), mentre l’età mediana dei deceduti è più alta di oltre 35 anni rispetto a quella dei pazienti che hanno contratto l’infezione.
Prosegue il rapporto: “Al 21 luglio 2021 sono 1.479, dei 127.044 (1,2%), i pazienti deceduti SARS-CoV-2 positivi di età inferiore ai 50 anni. In particolare, 355 di questi avevano meno di 40 anni (221 uomini e 134 donne con età compresa tra 0 e 39 anni. Di 105 pazienti di età inferiore a 40 anni non sono disponibili informazioni cliniche; degli altri, 206 presentavano gravi patologie preesistenti (patologie cardiovascolari, renali, psichiatriche, diabete, obesità) e 44  non avevano patologie di rilievo diagnosticate”.
Vale la pena ribadire: durante tutta la pandemia i deceduti di età inferiore ai 40 anni sono stati 355 pari allo 0,26%; di questi la maggioranza presentava gravi patologie preesistenti.
In aggiunta le indagini svolte su un campione opportunistico (dunque non statisticamente significativo) di 7681 deceduti per i quali sono state analizzate le cartelle cliniche mostra che il 97% aveva una o più patologie (il 67,4% 3 o più) e solo il 3% presentava 0 patologie.

A fronte di questi numeri, la narrativa mediatica dominante negli ultimi mesi ha imposto, da un lato l’idea della strage indiscriminata e, dall’altro, l’idea che solo il vaccino sia la soluzione unica e indubitabile al problema della pandemia. Questa centralità vaccinale può forse essere ricondotta al ruolo assunto dall’Italia [qui] che nel 2014 (governo Renzi, Ministro Lorenzin) divenne guida per 5 anni delle strategie e campagne vaccinali nel mondo.
In verità, la stessa Commissione Europea – che caldeggia comunque la vaccinazione massiccia – ha pubblicamente dichiarato che ci sono promettenti alternative sulle quali si sta lavorando alacremente.
Infatti, dopo aver lanciato a giugno 2020 la strategia UE sui vaccini [qui], ha provveduto ad inizio maggio 2021 ad integrarla con una ulteriore strategia UE per lo sviluppo e la disponibilità delle terapie [qui]. A fine giugno ha quindi resi noti i 5 prodotti [qui] che  hanno elevate possibilità di figurare tra i 3 nuovi strumenti terapeutici contro il Covid-19 da autorizzare entro ottobre 2021; entro lo stesso mese seguirà un portafoglio più ampio comprendente 10 possibili candidati con l’obiettivo di approvarne ufficialmente altri 2 entro la fine dell’anno.
Ecco l’esatta citazione estrapolata dal testo pubblicato pochi mesi fa: “Sulla base del lavoro del gruppo di esperti sulle varianti della COVID-19 istituito di recente, la Commissione definirà entro ottobre (2021) un portafoglio di almeno 10 possibili strumenti terapeutici contro la COVID-19. Il processo di selezione sarà obiettivo e basato su dati scientifici, con criteri di selezione concordati con gli Stati membri. Dal momento che sono necessari tipi di prodotti differenti a seconda delle popolazioni di pazienti e delle fasi e della gravità della malattia, il gruppo di esperti individuerà le categorie di prodotti e selezionerà gli strumenti terapeutici candidati più promettenti per ciascuna categoria sulla base di criteri scientifici”.

Anche L’Agenzia Italiana per il Farmaco (AIFA) ha reso noto l’elenco dei farmaci utilizzabili per il trattamento della malattia Covid-10[qui] corredato da una serie di schede specifiche per ogni farmaco citato con le relative modalità di prescrizione.
Sempre l’AIFA in una nota datata 10 agosto scorso [qui] ha comunicato che sono già disponibili farmaci (efficaci per tutte le varianti) con anticorpi monoclonali per la Covid-19 lieve o moderata, utilizzabili anche per pazienti che sono a rischio di progressione severa della malattia e sono in ossigenoterapia.

Non solo vaccini dunque: la strategia per gli strumenti terapeutici si affianca alla strategia UE per i vaccini “con l’obiettivo di prevenire e ridurre la diffusione dei casi, così come i tassi di ospedalizzazione e i decessi causati dalla malattia”.
Anche in questo caso, però, i media non hanno dato evidenza ad informazioni così importanti preferendo di gran lunga continuare ad insistere con il bollettino quotidiano dei morti, la polemica sulle (non) vaccinazioni (seguendo il mantra citato da molti nominati esperti d’ufficio e politici: “al vaccino non c’è alternativa“) e la diffusione del green pass.

Torniamo per un attimo ad inizio pandemia. In pieno lockdown i media avevano dato spazio alla terapia del compianto De Donno, poi misteriosamente sparito dagli schermi, dai giornali e dalla discussione pubblica fino al tragico epilogo. Nello stesso periodo (marzo 2020) nasceva un Comitato [qui] finalizzato a fornire supporto ai cittadini durante l’emergenza Covid-19, per scambiarsi informazioni cliniche e mettere a punto un protocollo di cure domiciliari in assenza di direttive specifiche. Da questo è nato un gruppo che è enormemente cresciuto nel tempo fino a raggiungere su FaceBook [Qui] le 628.000 persone (20 agosto).
A dicembre 2020 anche il Ministero della Salute aveva prudentemente licenziato una circolare per la gestione domiciliare dei pazienti con infezione da SARS-CoV-2 [qui] provvedendo successivamente a fornirne adeguato aggiornamento datato 27 aprile 2021[qui].
L’ipotesi sottostante alle cure domiciliari è quella che il Covid-19 sia una malattia che deve essere affrontata ai primi sintomi nella propria casa, evitando così in molti casi un peggioramento verso forme più gravi che costringano al ricovero in ospedale.
Il comitato (cito dal sito) informa attraverso il supporto di medici specialisti sui possibili farmaci che possono essere usati per contrastare il Covid-19 e sui protocolli di cura che vengono adottati con successo in diverse strutture sanitarie; combatte per ottenere un protocollo nazionale di cura domiciliare e per il rafforzamento della sanità territoriale in ogni regione, opponendosi nei tribunali a norme ingiuste che impediscono ai medici di agire secondo scienza e coscienza nella cura dei propri pazienti; aiuta i malati di Covid-19 che si trovano a casa attraverso il supporto gratuito di medici volontari, contribuendo così ad evitare il collasso del servizio sanitario pubblico a causa di un afflusso disordinato nei pronto soccorso degli ospedali.
Stranamente, però, neppure l’esistenza di queste alternative alla cosiddetta “vigile attesa e al ricovero” ha trovato forte eco sui media mainstream sempre concentrati nel promuovere a tamburo battente la logica della vaccinazione di massa e (in modo sempre meno convinto vista l’insidia delle varianti) dell’immunità di gregge (due termini massa e gregge che dovrebbero far riflettere quanti credono nei diritti della persona e nella democrazia).
Assai scarsa è stata anche l’attenzione dei media nel consigliare e promuovere tutte quelle azioni di prevenzione che andassero oltre l’uso della mascherina, il distanziamento sociale, l’evitare luoghi sovraffollati e l’aerare le stanze chiuse.

Vaccini, farmaci, cure domiciliari e attività di prevenzione sono tutte soluzioni valide per affrontare la pandemia; tutte hanno a che fare con la scienza o, meglio con la ricerca scientifica e con un sano atteggiamento scientifico nel descrivere e nell’affrontare i problemi.
La validità di tutte queste soluzioni può essere infatti testata e valutata adottando le procedure standard che si usano comunemente, avendo il giusto tempo a disposizione per giudicare gli effetti immediati, di breve, medio e lungo periodo. 

Ora, se mettiamo tutto insieme ne emerge un quadro assai diverso da quello univoco al quale da 19 mesi siamo quotidianamente sottoposti.
– Innanzitutto (e senza nulla togliere alla serietà della situazione) i decessi si concentrano nella popolazione più fragile già gravata da patologie e in particolare tra gli anziani: rari sono i casi di persone giovani e sane decedute a causa del virus.
– In secondo luogo, il covid-19 può essere affrontato con strumenti farmacologici e non solo con la vaccinazione che tanti timori e polemiche sta creando.
– Terzo, al presentarsi dei sintomi sono possibili cure domiciliari efficaci.
– Infine,
 ogni cittadino ha comunque la possibilità di informarsi meglio e di adottare uno stile di vita più sano, applicando comportamenti responsabili a tutela della propria ed altrui salute.

Sapere che, nel contesto di un approccio che deve essere comunque orientato a grande prudenza, esistono più possibilità per affrontare la pandemia, dovrebbe contribuire a far uscire dalla paura, a riacquistare lucidità intellettuale, a ristrutturare il conflitto tra opposte fazioni ormai accecate dall’odio, a ristabilire un sano confronto tra punti di vista differenti.
Il che non è poco, dovendo affrontare un autunno che – dopo gli eccessi estivi – si preannuncia molto difficile, anche per l’effetto di una rappresentazione mediatica che, temo, continuerà ad essere colpevolmente limitante ed unidirezionale.

Vaccinazione. Lettera aperta a Papa Francesco.

 

Libertà e amore sono intrinsecamente legate. Un’azione di amore è per forza e sempre una libera scelta, se no non è amore. Troviamo questo  insegnamento in tutte le tradizioni spirituali ma, in quella cristiana, è un insegnamento che proviene con forza prorompente da una donna, la Madonna, che all’età di 14 (12?) anni sceglie in piena autonomia e libertà di correre il rischio di essere lapidata pur di seguire  il suo cuore, di seguire quell’amore che le ha fatto dire di si alla richiesta di Dio “vuoi avere un figlio da me?”.
Solo pensare alla forza rivoluzionaria di questa donna di 2000 anni fa, che si ribella a qualsiasi convenzione etica del suo tempo, che agisce fuori da ogni regola comunitaria del tempo e che se ne assume la responsabilità, ancora oggi mi riempie di devozione per LEI.

Maria è forse la figura più rivoluzionaria che sia mai esistita.
In una società patriarcale, in cui le donne non solo non potevano autodeterminarsi se non attraverso la figura paterna, lei, giovanissima, appena sposata, affronta il rischio di essere ripudiata e rimandata al padre  terreno) da cui avrebbe ricevuto il verdetto sulla lapidazione.
Lei sceglie di essere obbediente. A chi? Al Dio Padre?
No sceglie di essere fedele a se stessa e alla voce interiore che dopo una prima titubanza la spinge a dire si. il suo si è poi un si ripetuto tante volte nella sua vita di madre, anche quando non comprende quel figlio che lei, comunque e nonostante tutto, continua a  riconoscere come figlio di Dio anche nel momento tragico della sua morte.
Una donna, una madre, un esempio di amore per tutti uomini e donne.

Perché scrivo questo? Perché il Santo Padre ha detto alcuni giorni fa: “Vaccinarsi è un atto di amore….”
È una frase che mi ha colpito nel profondo perché io, al contrario suo, credo (potrei sbagliare certamente) che non vaccinarsi sia un atto di amore, e lo credo perché c’è una voce interiore forte che mi dice no a una antropologia che nega la forza dell’umano, che affida alla tecnoscienza, per di più in fase sperimentale, le sorti di una pandemia, che dice agli uomini che siamo vittime e che solo fuori c’è la salvezza, fuori da noi, quando noi cristiani dalla Cresima in poi, siamo invitati a testimoniare che la salvezza viene da dentro noi stessi.

Cosa dunque, dovrei, seguire?
la voce che da dentro mi invita a non seguire questa narrazione dell’umano e quindi a oppormi ai dettami etici del mio tempo, oppure la voce del Santo Padre (terreno), che  invita a un’azione da lui valutata come etica?

PRESTO DI MATTINA
L’arco, la spada e la danza

L’arco, la spada e la danza, ovvero come imparare l’arte della ‘vigilanza spirituale’.

«Le vostre frecce non hanno sufficiente portata, osservò il Maestro, perché non arrivano abbastanza lontano spiritualmente. Voi dovete comportarvi come se la meta fosse infinitamente lontana. A noi maestri d’arco è noto e confermato dalle esperienze quotidiane che un buon arciere con un arco di media potenza tira più lontano di un arciere senza spirito col più forte degli archi. Non dipende dunque dall’arco ma dalla ‘presenza dello spirito’, dallo spirito vivo e vigile con cui tirate»
(Eugen Herrigel, Lo zen e il tiro dell’arco, Milano, Adelphi,1999).

Daisetz T. Suzuki nell’introduzione al libro di Herrigel [Qui], spiega che l’arte del tiro con l’arco o della spada sono praticate in Giappone primariamente come un ‘tirocinio della coscienza’. Lo scopo è di portarla sempre più vicino alle realtà ultime, all’essere presenti allo spirito, a ciò che di più profondo ci abita.

È ai “confini dell’io” che se ne intuisce sia l’affermazione che la negazione, dove il pieno si svuota e si riempie ciò che è vuoto; quell’attimo di concentrazione e piena attenzione per cui si è tutto nell’altro fuori di sé e l’altro si raccoglie tutto dentro di noi. È il luogo in cui “l’essere è divenire e il divenire è essere”; al contempo presenza e movimento dell’incontro: «così il tiro con l’arco non viene esercitato soltanto per colpire il bersaglio, la spada non s’impugna per abbattere l’avversario, il danzatore non danza soltanto per eseguire certi movimenti ritmici del corpo, ma anzitutto perché la coscienza si accordi armoniosamente all’inconscio», (ivi, 12). Non sono più due, il danzatore e la sua danza divengono senza più contrapposizioni una realtà sola.

È una condizione si potrebbe dire paradossale quella della “vigilanza spirituale”. Tuttavia è quella presenza di attenzione che porta all’azione, o meglio all’itineranza, per raggiungere la meta del sentire e dell’agire. La stessa che troviamo nell’attenzione di amore capace di tenere distinti e uniti insieme gli opposti. «Questo stato, in cui non si pensa, non ci si propone, non si persegue, non si desidera né si attende più nulla di definito, che non tende verso nessuna particolare direzione ma che per la sua forza indivisa sa di essere capace del possibile come dell’impossibile – questo stato interamente libero da intenzioni, dall’Io, il Maestro lo chiama propriamente “spirituale”. È infatti saturo di vigilanza spirituale e perciò viene anche chiamato “vera presenza dello spirito», (ivi, 53-54).

Si è presenti spiritualmente all’altro attraverso l’esercizio dell’abbandono, il distacco da sé stessi, come la foglia di bambù – dice il testo – sotto il peso della neve. Si piega, si lascia piegare in giù, sempre di più e, ad un tratto il carico di neve scivola via, senza che la foglia si sia mossa.

Con un’altra immagine viene raffigurato il restare dello spirito, il suo esserci presente pur non perdendo la sua originaria mobilità: «Simile all’acqua che riempie uno stagno ma è sempre pronta a defluirne, lo spirito può ogni volta agire con la sua inesauribile forza, perché è libero, e aprirsi a tutto perché è vuoto. Tale condizione è veramente una condizione originaria e il suo emblema, un cerchio vuoto, non è muto per colui che vi sta dentro», (ivi, 54).

Vigilanza spirituale è richiesta anche per il tirocinio alla preghiera. L’arco, la spada e la danza addestrano alla qualità dell’attenzione e da essa dipende la qualità stessa della preghiera. L’attenzione ne è l’essenza; come nel tiro dell’arco al di là dello scopo immediato, l’intenzione di fondo dell’orante dev’essere diretta unicamente ad aumentare la vigilanza spirituale in vista della preghiera che unisce:

«L’attenzione è uno sforzo, forse il più grande degli sforzi, ma uno sforzo negativo. Di per sé non comporta fatica. L’attenzione consiste nel sospendere il proprio pensiero, nel lasciarlo disponibile, vuoto e permeabile all’oggetto, nel mantenersi in prossimità del proprio pensiero, ma a un livello inferiore e senza contatto con esso… il pensiero deve essere vuoto, in attesa; non deve cercare nulla ma essere pronto a ricevere nella sua nuda verità l’oggetto che sta per penetrarvi»
(Simone Weil, Attesa di Dio, Milano 1972, 75-76).

Molto più in là si spinge la Weil [Qui] riconoscendo che l’attenzione, non essendo legata alla volontà ma al desiderio, o meglio al “consenso”, non diversamente dalla preghiera è creatrice di realtà unificante le diversità: «L’attenzione, al suo grado più elevato, è la medesima cosa della preghiera, Suppone la fede e l’amore. L’attenzione estrema costituisce nell’uomo la facoltà creatrice», (Id., L’ombra e la grazia, Milano 1996, 124-125).

Addestrarsi alla preghiera non è soltanto apprendere una tecnica, compiendo uno sforzo muscolare della volontà. Non è un mirare all’esterno, ma all’interno di se stessi. È una via per raggiungere la meta; come per il tiro con l’arco «è una questione di vita e di morte, in quanto è lotta dell’arciere con se stesso».

È pure un cammino di avvicinamento, di affidamento alla realtà dell’altro, cercando la sua presenza. Come proteso alla sua parola è il mio silenzio, al modo del tendersi dell’arco; come freccia scoccata verso il bersaglio è la mia parola verso il suo silenzio: un accordo dell’uno all’altra al ritmo di una danza.

Come l’arco e la freccia divengono qualcosa di più che semplici strumenti o armi, così è della preghiera: entrambi divengono un tutt’uno con l’arciere/orante. Prega bene, come un buon tiratore d’arco, colui che raggiunge il centro del bersaglio prima della sua freccia, perché non è la freccia che deve trascinare il cuore, ma questo quella. Così è della preghiera: preceduta sempre d’un passo dal cuore desiderante e amante.

I salmi sono allora come la grande Dottrina del tiro dell’arco, una guida, per arrivare a raggiungere la meta: il risveglio della coscienza umana e cosmica, l’illuminazione per e nell’azione, il senso spirituale che rende uno, l’arciere e il suo bersaglio, l’orante e la sua preghiera. I salmi insegnano l’arte della vigilanza spirituale, il tirocinio della fede per vivere e agire nell’alleanza. Anche qui il Maestro interiore «addestra le mie mani alla battaglia, le mie braccia a tendere l’arco di bronzo» (Sal 18, 35); le sue lodi «sulla nostra bocca e la spada a due tagli nelle nostre mani» (Sal 149 6).

Presso i Padri della chiesa il tendersi dell’arco di bronzo è figura dei due testamenti. Il primo è l’asta dell’arco che si flette all’irrompere del nuovo testamento, che è la corda caricata del senso cristologico: il quale, come freccia che colpisce il bersaglio, rilegge le antiche scritture come profezia del Cristo, loro compimento.

Così pure la spada a doppio taglio è la parola di Dio nella sua oralità e nella scrittura; l’uso della spada a doppio taglio nelle mani ‒ entrambi i testamenti ‒ sono per un tirocinio di liberazione contro gli oppressori, ma anche amoroso apprendistato: il doppio taglio si spiega anche con le voci del doppio coro nel Cantico, e con le due posizioni di una figura danzante mentre si canta: «Coro: Ritorna, Sulamite, ritorna; affacciati, vogliamo contemplarti. Amato: Che cosa ammirerete in lei, danzando a doppio coro?» (Ct 7,1-2; 6).

Tutta l’armonia dell’amore. L’accordarsi della bellezza interiore con quella di fuori, la consonanza del corpo con lo spirito, che si manifesta in esso: «Come sono belli i tuoi piedi nei sandali, figlia di principe! Le curve dei tuoi fianchi sono come monili… Il tuo capo si erge su di te come il Carmelo e la chioma del tuo capo è come porpora; un re è tutto preso dalle tue trecce, il tuo respiro come profumo di miele».

Per l’autore della Lettera agli Ebrei più dell’arco e della spada è la parola di Dio, viva ed efficace, a squarciare il cuore come uno scandaglio gli abissi del suo sentire e pensare: «È più tagliente di qualunque spada a doppio taglio. Penetra a fondo, fino al punto dove si incontrano l’anima e lo spirito, fin là dove si toccano le giunture e le midolla. Conosce e giudica anche i sentimenti e i pensieri del cuore», (Eb 4, 12).

Fin dall’infanzia, uno dei tratti fondamentali di Simone Weil (1909-1943) fu la compassione per gli sventurati. L’esperienza della guerra le fece scoprire la miseria e, nel lavoro condiviso con gli operai, sperimentò la sventura, le mahleur della loro condizione lavorativa. Una disgrazia tuttavia mai disgiunta da una scintilla di luce, di grazia che vedeva in ciascuno degli uomini e delle donne con cui, di volta in volta, condivideva la sorte.

Dalla famiglia agnostica non ricevette alcuna formazione religiosa, ma questo non le impedì di incontrare il vangelo. Nel 1938 assistendo alla celebrazione della Settimana santa nell’abbazia benedettina di Solesmes sperimentò la gioia del vangelo che cambiò la sua vita: «Il Cristo è disceso e mi ha presa».

Se non entrò mai a far parte della chiesa ufficiale con il battesimo, lo fece perché vedeva, profeticamente, nel mistero dell’incarnazione ‒ che lei visse con una dedizione inesausta agli sventurati fino ad esserne consumata – vedeva oltre la chiesa che aveva sotto gli occhi, una chiesa più grande veramente cattolica, universale in umanità capace di abbracciare anche gli esclusi.

Dirà, poi, mirabilmente il Concilio: «Con l’incarnazione il Figlio di Dio si è unito in certo modo ad ogni uomo. Ha lavorato con mani d’uomo, ha pensato con intelligenza d’uomo, ha agito con volontà d’uomo ha amato con cuore d’uomo» (GS 22).

Fu così anche il movimento del cuore, ne sono convinto, di questa mistica della croce: un abbandonarsi in attesa di Dio: «Spero che questo abbandono, anche se mi inganno, mi condurrà finalmente al buon porto. Quel che io chiamo buon porto, lo sapete, è la croce. Se non potrà essermi concesso di meritare di condividere un giorno la croce di Cristo, spero mi sia data almeno quella del buon ladrone. Fra tutti coloro di cui si parla nel Vangelo, al di fuori di Cristo, il buon ladrone è quello che invidio di più. Essersi trovato al fianco di Cristo, nella sua stessa situazione, durante la crocifissione, mi sembra privilegio molto più invidiabile dell’essergli stato alla destra nella sua gloria» (Attesa di Dio, Rusconi, Milano 1972, 20).

Per Simone Weil “portare attenzione” non fu semplicemente un vedere e passare oltre, ma accorgersi, “indirizzare il cuore” come suggerisce l’etimologia. Per lei l’attenzione fu creatrice, trasformatrice della realtà, per indirizzarla diversamente, là dove è la meta del cuore, anche di chi tira con l’arco con spirito orante. Il vero bersaglio è il vuoto dell’umano, come centro il pieno della sua dignità.

Attenzione samaritana è l’attenzione creatrice della Weil. Il suo maestro d’arte fu infatti il Buon Samaritano: «L’amore per il prossimo, essendo costituito di attenzione creatrice, è analogo al genio. L’attenzione creatrice consiste nel fare realmente attenzione a ciò che non esiste. Nella carne anonima che giace inerte all’orlo della strada non c’è umanità. Eppure, il Samaritano che si ferma e guarda; fa attenzione a quella umanità assente, e gli atti che seguono confermano che si tratta di un’attenzione reale», (ivi, 115). Non lo è anche quella del poeta un’attenzione creatrice? Attenzione alle parole che ancora non esistono? E poi attenzione di levatrice alle parole nascenti?

Ricordo di aver letto e riportato il suo commento al Padre nostro per un sussidio diocesano, ma solo da poco tempo sono riuscito a leggere come nacque l’incontro della Weil con questa preghiera, vero tirocinio della coscienza credente.

Una pagina commovente e bellissima:

«L’estate scorsa, quando studiavo greco con T., avevo fatto per lui una traduzione letterale del Padre nostro in greco. Ci eravamo ripromessi di studiarlo a memoria. Credo che lui non l’abbia fatto, e neppure io in quel momento. Ma qualche settimana dopo, sfogliando il Vangelo, mi sono detta che poiché me l’ero ripromesso ed era una buona cosa, dovevo farlo. E l’ho fatto. La dolcezza infinita del testo greco mi prese a tal punto che per alcuni giorni non potei fare a meno di recitarlo fra me continuamente. Una settimana dopo cominciò la vendemmia, ed io recitai il Padre nostro in greco ogni giorno prima del lavoro, e spesso lo ripetevo nella vigna.

Da allora mi sono imposta, come unica pratica, di recitarlo ogni mattina con attenzione totale. Se mentre lo recito la mia attenzione si svia o si assopisce, anche solo un poco, ricomincio daccapo sino a quando non arrivo a un’attenzione assolutamente pura. Mi accade talvolta di ripeterlo una seconda volta per puro piacere, ma lo faccio solo se il desiderio mi spinge.

Il potere di questa pratica è straordinario e ogni volta mi sorprende, poiché, sebbene lo esperimenti tutti i giorni, esso supera ogni volta la mia attesa. Talora già le prime parole rapiscono il pensiero dal mio corpo e lo trasportano in un luogo fuori dello spazio, dove non esiste né prospettiva né punto di vista.

Lo spazio si apre. L’infinità dello spazio ordinario della percezione viene sostituita da un’infinità alla seconda e talvolta alla terza potenza. Nello stesso tempo, questa infinità dell’infinità si riempie, in tutte le sue parti, di silenzio, ma di un silenzio che non è assenza di suono, bensì l’oggetto di una sensazione positiva, più positiva di quella di un suono. I rumori se ve ne sono, mi pervengono solo dopo avere attraversato questo silenzio.

Talvolta anche, mentre recito il Padre nostro oppure in altri momenti, Cristo è presente in persona, ma con una presenza infinitamente più reale, più toccante, più chiara, più colma d’amore della prima volta in cui mi ha presa…

Questa preghiera contiene tutte le richieste possibili: non si può concepire una preghiera che non sia già contenuta in questa. “Essa sta alla preghiera come Cristo all’umanità”. È impossibile pronunciarla una sola volta concentrando su ogni parola tutta la propria attenzione senza che un mutamento reale, sia pure infinitesimale, si produca nell’anima», (ivi, 34-35; 194).

Per leggere gli altri articoli di Presto di mattina, la rubrica di Andrea Zerbini, clicca [Qui]

Una poesia per le donne del Vietnam
e una poesia per le donne di Kabul

 

Sono passati molti anni da quando la grande Wislawa Szymborska (premio Nobel per la letteratura nel 1996) scrisse una breve poesia dedicata alle donne vietnamite. Secondo la cara amica che mi ha girato la poesia, si potrebbero lasciare intatti i versi e sostituire solamente il titolo della poesia: KABUL al posto di VIETNAM. 
Ho fatto una prova: in nero la poesia originale, e appena sotto, in rosso, la nuova poesia. Provate a leggerle tutte e due, una di seguito all’altra. Io ho dato ragione alla mia amica: funzionano entrambe. Le donne del Vietnam e le donne di Kabul sembrano gemelle, uguali come due gocce di sangue.
Effe Emme

VIETNAM

Donna, come ti chiami? – Non lo so.
Quando sei nata, da dove vieni? – Non lo so.
Perchè ti sei scavata una tana sottoterra? – Non lo so.
Da quando ti nascondi qui? – Non lo so.
Perchè mi hai morso la mano? – Non lo so.
Sai che non ti faremo del male? – Non lo so.
Da che parte stai? – Non lo so.
Ora c’è la guerra, devi scegliere. – Non lo so.
Il tuo villaggio esiste ancora? – Non lo so.
Questi sono i tuoi figli? – Si

di Wislawa Szymborska

KABUL

Donna, come ti chiami? – Non lo so.
Quando sei nata, da dove vieni? – Non lo so.
Perchè ti sei scavata una tana sottoterra? – Non lo so.
Da quando ti nascondi qui? – Non lo so.
Perchè mi hai morso la mano? – Non lo so.
Sai che non ti faremo del male? – Non lo so.
Da che parte stai? – Non lo so.
Ora c’è la guerra, devi scegliere. – Non lo so.
Il tuo villaggio esiste ancora? – Non lo so.
Questi sono i tuoi figli? – Si

(adattamento da una poesia di Wislawa Szymborska) 

IL SANGUE DI KABUL
La missione dei ciechi e il disastro annunciato

 

Vedere Joe Biden su tutti gli schermi del mondo mentire e contraddirsi, cercare di difendersi (senza successo) per il disastro combinato in Afghanistan è stato uno spettacolo pietoso. E istruttivo. Questa volta quella americana non passerà agli annali come una ‘figuraccia’, ma come una totale, rovinosa, colpevole sconfitta. Che riesce a far impallidire perfino la scioccante avventura in Vietnam. Che non riguarda solo il precipitoso quanto improvvido ritiro delle truppe degli ultimi mesi o settimane, ma una dine della storia che era già tutta scritta, dal principio, dalla folle reazione americana al folle attentato alle Torri Gemelle.

Una sconfitta storica, memorabile, che le immagini crude e le drammatiche testimonianze che giungono di ora in ora da Kabul rendono più sempre irrimediabile, talmente incredibile da diventare epica – è di ieri l’ultima immagine che non riesco a levarmi dalla testa: le donne ormai condannate che gettano i loro figli oltre la rete dell’aeroporto per salvarli dal regime dei talebani.
Se è vero che è la quantità di sangue versato l’unico vero metro per misurare la “grandezza” di una sconfitta, allora la tragedia di Kabul può aspirare ai libri di storia.
Il sangue inutile dei soldati (anche i soldati italiani) mandati a fondare in Afghanistan uno “stato democratico”. Sbarcavano dall’aereo le loro bare coperte dalle bandiere, e li chiamavano eroi, mentre erano solo da piangere come vittime. Vittime della ideologia tardo-imperialista e di una strategia fallimentare dettata dai governi e dai comandi militari dell’Occidente.
Ma soprattutto il sangue che sta scorrendo ora a Kabul e in tutto il paese. Un fiume di sangue che continuerà a scorrere. Il terrore di un popolo illuso per anni e oggi lasciato solo. Il terrore davanti alla sicura vendetta talebana (altro che “nuovi talebani moderati”), la corsa inutile verso l’aeroporto, i manifestanti uccisi a fucilate, le donne chiuse in casa aspettando la morte o un sicuro destino di schiave.

La storia è solo questa: abbiamo sbagliato tutto, punto e a capo. Ora tutti l’hanno capito, e tutti (Biden a parte) lo ammettono pubblicamente. Perfino l’Europa, la più fedele alleata, l’eterna gregaria, prende le distanze dal presidente americano. Dice Josep Borrell, l’ Alto rappresentante dell’UE: “Quello che è accaduto in Afghanistan solleva molte questioni sull’impegno occidentale, e su quanto siamo stati in grado di raggiungere. Il primo obiettivo era combattere Al Qaeda. Il presidente Biden ha detto che costruire uno Stato non è mai stato ‘un obiettivo’,  questo è discutibile. Abbiamo fatto molto per costruire uno Stato che potesse garantire lo stato di diritto ed il rispetto delle libertà fondamentali. Siamo riusciti nella prima parte. Abbiamo fallito nella seconda missione. Anche se c’è da chiedersi se fosse una missione”.

Tremenda la chiusa di Borrell: “c’è da chiedersi se fosse una missione”, una immagine plastica del gran caos che deve regnare nella gloriosa alleanza atlantica. Quel che è sicuro – e che nessuno lo dice –  è che le guerre, anche questa guerra, è anche, forse soprattutto,  il frutto delle pressioni delle potentissime  lobbies dei comandi militari e dei produttori e commercianti di armi.
La guerra, la missione, il ritiro precipitoso, il baratro finale – quello a cui oggi stiamo assistendo – mi ha ricordato La Fila dei ciechi, lo straordinario dipinto di Pieter Bruegel. In testa alla fila c’è (sempre lui) il cieco americano, e attaccato a lui il cieco inglese, poi il cieco francese, il cieco italiano… Tutti destinati a seguire il primo della fila, nello stesso buco.

Da quasi un secolo l’America è il ‘paese guida’ di tutto l’Occidente. Lo Sbarco in Normandia e in Sicilia, i soldati americani che regalano cioccolata e sigarette, il Piano Marshall, la Guerra Fredda e il Patto Atlantico, la Nato che ha riempito l’Italia e l’Europa di basi militari e missili atomici. E poi il rosario di guerre e “missioni di pace” (sic!) per sistemare un dittatore (come GheddafiSaddam Hussein, prima grandi amici dell’Occidente, diventati improvvisamente pericolosi terroristi). Guerre per esportare la civiltà o riportare la democrazia in questo o quel paese selvaggio.
In cima c’è sempre l’America. Gli Stati Uniti decidono, comandano, sparano il primo colpo, gli altri –  prima l’Inghilterra, poi la Francia, l’Italia e via tutti gli altri seguono in fila indiana.
Il risultato? Pessimo, invariabilmente disastroso! Guardate oggi l’Iraq, la Libia, l’Afghanistan.
Dopo il fuoco e il furore della guerra, dopo il passaggio dei contingenti alleati, la situazione è ancora più disperata e disperante: peggiore di quando gli Usa & company decisero di intervenire. Il terrorismo non è vinto. E ancora profughi, ancora fame, sangue, violenze sulle donne.

In queste ore c’è un gran viavai di aerei per portare in salvo migliaia di afgani, quelli che avevano collaborato o che erano comunque venuti in contatto con il personale dei contingenti stranieri. Sono loro i soggetti più a rischio, il primo bersaglio della sicura vendetta talebana. Ma nel mirino ci sono TUTTE le donne. C’è un popolo intero. Ed è ovvio, non è possibile mettere in salvo tutto un popolo, aviotrasportare 40 milioni di afgani.

Intanto, in tante città d’Italia, cresce uno spontaneo movimento di protesta e di solidarietà al popolo afgano. Si moltiplicano le iniziative delle donne italiane  per salvare le sorelle afgane, per chiedere a Draghi di organizzare più viaggi, di ampliare il più possibile il numero dei fuggitivi a cui dare accoglienza in Italia.
Possiamo sperare che il governo si smarchi dalle posizioni oltranziste di Matteo Salvini? Possiamo sperare di salvarne 100 o 1.000 in più del previsto? Non sarebbe un risultato di poco conto. Anche solo salvare una vita in più, una donna, un bambino, è un motivo sufficiente per scendere in strada.

Alla fine, rimane comunque la colpa incancellabile – una responsabilità diretta, documentata, incontestabile –  della Nato, degli Stati Uniti e dei suoi alleati, per aver consegnato il popolo afgano alla follia ideologica dei talebani. E’ su questo che mi pare non ci sia da parte del governo e dei partiti italiani (anche del Centrosinistra) nessun ripensamento di fondo.
E proprio questo servirebbe: un’analisi coraggiosa e un uguale coraggio di domandarsi se non sia venuta l’ora di cambiare strada. Di cambiare paradigma. Di mettere finalmente in discussione la nostra adesione alla Nato – in compagnia, tra l’altro, con la Turchia di Erdoğan. Di sloggiare dal territorio nazionale tutte le basi Nato e americane, le testate nucleari, i carri armati. Di riconvertire la nostra industria bellica, smettere progressivamente di produrre e vendere armi a tutto il mondo.

Capisco il sorriso di qualche smaliziato lettore. “Fuori dalla Nato” è sempre stato uno slogan extraparlamentare e comunista, E la campagna contro le spese militari continuano a farla gruppetti di pacifisti incalliti e di reduci nonviolenti. Tutto vero, questi obbiettivi non hanno mai attecchito nei sindacati e nei grandi partiti, non hanno mai varcato la porta delle aule del parlamentari. Ma sono queste ‘utopie estremiste’ che oggi indicano un’altra via da imboccare. E’ da qui che dobbiamo necessariamente ripartire. Se non vogliamo ritrovarci incastrati in un’ennesima guerra, diventare complici di un altro fiume di sangue innocente.
Oppure resteremo sempre come siamo in queste ore, a guardare le immagini che passano veloci sul video, accesi da una rabbia impotente o sorpresi da una inutile lacrima.

In copertina:  Pieter Bruegel il Vecchio, Parabola dei ciechi, 1568, Galleria Farnese (su licenza Creative Commons)

Il rave degli idioti e la maschera della morte rossa

 

Desolante, l’immagine di quell’affollamento delirante di camper, tende, bivacchi tra cui si spostano come formiche migliaia di persone; una scena farneticante iniziata il 13 agosto e appena conclusa, che non ha conservato nulla della dimensione umana richiesta da un momento impegnativo come quello che viviamo.
Una musica martellante, senza soluzione di continuità, che esprime perfettamente il clima congestionato e ossessivo, il bisogno di rimuovere, abbandonare inibizioni e regole,  che accompagna il rave party illegale di Viterbo, a cui è accorsa anche gente dal resto d’Europa. Una spianata di mezzi e persone ha occupato terreni agricoli e pascoli in cui si scorge ancora qualche trattore e qualche bovino spaesato nelle immediate vicinanze, spettatori di un evento tanto inatteso quanto impattante.

Dove sta il divertimento? Nella pericolosa promiscuità durante una pandemia con tutto ciò che ne consegue? Nell’assistere al recupero del cadavere di un 25enne ripescato nel lago? Nel vedere i tuoi compagni portati via per overdose o coma etilico? Nella tristezza di un parto in pieno rave, seppure evento di per sé emozionante? Nel ballare convulsamente come tarantolati senza il piacere del ritmo e della musicalità? Non c’è bisogno di stigmatizzazioni moralistiche per capire come in tutto ciò manchi un senso, una consapevolezza nuova e più profonda del valore dell’esistenza in un periodo gramo per tutti.

Viene in mente il racconto di Edgar Allan PoeLa maschera della morte rossa” (1842), in cui il principe Prospero decide di asserragliarsi nel suo palazzo con un migliaio di amici e cortigiani, cavalieri e dame, durante una terribile pestilenza, sbarrando porte e finestre. Trascorrono le giornate tra danze, spettacoli di giullari e ogni sorta di bagordi, “che il mondo esterno pensasse a se stesso: nel frattempo era follia addolorarsi o pensare.”
Dopo un periodo di totale spensieratezza, arriva l’invito ad un grande ballo in maschera, organizzato in sette sale di una raffinatezza mai vista, ciascuna di colore diverso. […]
“Le maschere erano grottesche, sfavillanti, luccicanti, piccanti e fantastiche, capricciose, bizzarre, alcune terribili e non poche avrebbero potuto suscitare disgusto”.[…] La festa aveva raggiunto l’apice della sua magnificenza, gaiezza e frenesia quando a mezzanotte, ai primi rintocchi, la musica cessò, le danze si interruppero e tutto si fermò, lasciando intravvedere una presenza inquietante: “ La figura era alta e scarna, avvolta da capo a piedi nei vestimenti della tomba. Le sue vesti erano intrise di sangue e la sua vasta fronte e tutti i lineamenti della sua faccia erano spruzzati dell’orrore scarlatto.”
I presenti ben presto si accorsero che dentro gli indumenti non esisteva alcuna forma corporea tangibile e riconobbero la presenza della morte, arrivata come un ladro nella notte a cancellare i festanti e ogni traccia di gozzoviglia. Si sta ancora suonando e ballando al rave party, le forze dell’ordine stanno lavorando allo smantellamento e all’evacuazione mentre arrivano ancora in molti, tentando di eludere i controlli e sfondando i blocchi. Il richiamo del “ballo in maschera” è forte, il bisogno di evasione è tanto e non esiste nessuna pendola che scandisca la mezzanotte e arresti tutto. Non esistono nemmeno i fasti di palazzo.
Ma Edgar Allan  Poe riscriverebbe la stessa conclusione…

DIARIO IN PUBBLICO
Il Calore

 

Mentre Lucifero impazza e produce laghi di umori salini, che rendono totalmente bagnate e degne di essere frequentemente cambiate canottiere e mutande; mentre asserragliato in casa produco falso benessere posizionando in dry il condizionatore, compulsivamente cerco contatti con chi, sprezzante del pericolo e dell’età, affronta spiagge e viaggi, confortandomi secondo la mia mai perduta malignità nel ‘frescolino’ che da Lipari a Viareggio, da Roma alla Puglia prova nella loro posizione privilegiata.

Per assicurarsi della veritad si spediscono foto di termometri che attestano il fresco. Addirittura, i felici liparoti narrano di bagni favolosi, di freschi anfratti, dove ripararsi dalle fiamme metaforiche e reali che Lucifero provoca nella sfortunata Sicilia; ma poi devo ricorrere alla connivente attestazione di verità di altri amici ferraresi-liparoti, che narrano di pozze di sudore che si formano ai piedi degli astanti, secondo la prassi da me stesso attuata decenni fa, quando, felice villeggiante, provai la stessa sensazione e condizione.

 

Così per mio diletto e in attesa delle novità che mi vengono recapitate ad horas dai parenti spiaggianti, chiuso nel mio fresco fortino adorno di meravigliose piante appena comprate con il mio straordinario scudiero-giardiniere, e sono gelsomini, fiori di vetro e begoniacee, tra un tripudio di oleandri e plumbago, (vedi foto al sinistra del testo) irrido alla mancanza totale di conoscenza di simili delizie dell’amica Anna che però spende fortune in Versilia per procurarsi apparecchi magici che la immunizzano dalle zanzare, mentre felice si dedica a Bassani e alla cottura di strepitose grigliate nel suo giardino viareggino.

E comincio con la declinazione del calore nelle lingue più conosciute: the Heat in inglese, la Chaleur in francese, die Hitze in tedesco, o Calor in portoghese, el Calor in spagnolo e addirittura Teas in irlandese.

Questa mattina, fidandomi dei sussurri che circolavano di casa in casa e che ci promettevano il ‘frescolino’, ci facciamo accompagnare al bar del bagno Onda blu in attesa del passaggio dei parenti che s’avventurano a percorrere le centinaia di metri che li separano da tende e ombrelloni. Nell’aria si spande odore di carne cotta prodotta dai valorosi giocatori, che tornano dalle loro esibizioni, mentre pettorute dame color cioccolata s’avanzano caracollando, cosparse di filtri e creme e gorgheggiando del freschino in riva al mar.

Sono le 13:00 e il termometro segna ‘percepiti’ 36°’. L’intrepido nipote, sprezzante di Lucifero, porta i figli ad una rapida gita fiorentina: non può entrare né in chiese o musei per le mostruose file prodotte dai gitanti. Gli resta la consolazione di mangiare una fiorentina gigante in un locale in Contrada della Passera. Un nome. Un programma. Temperatura percepita 35°.

Dal viale del Laido si scatena una musica assordante, mentre ieri sera metà del paese era privo di luce ed acqua. Termino la mia giornata ‘calda’ (mi raccomando la ‘elle’ palatale secondo le secolari regole della nostra pronuncia), pensando con nostalgia ai prati di Vipiteno, mentre atterra reduce di una gita a Dublino presso l’amato cugino, il caro Ludo che mi butta lì la frecciata finale: “di sera eravamo sui 12° nell’ora più calda 20°” e mi nasce una ribellione al calore.

Per leggere tutti gli altri interventi di Gianni Venturi nella sua rubrica Diario in pubblico clicca  [Qui]

Parole a capo
Carla Sautto Malfatto: “Il muro” e altre poesie

“In cuore abbiamo tutti un Cavaliere pieno di coraggio, pronto a rimettersi sempre in viaggio, e uno scudiero sonnolento, che ha paura dei mulini a vento.”
(Gianni Rodari)

Nel 2017 Carla Sautto fu investita da un’auto mentre attraversava a piedi le strisce pedonali: dopo due interventi chirurgici, ha ricominciato a camminare, ma con limitazioni permanenti. Dedica queste poesie alle vittime della strada, a chi non si arrende, a chi converte rabbia e dolore per comprendere e imparare, a chi si prende cura con amore delle persone sofferenti, a chi guida.

IL MURO

Non l’accetto. Non mi arrendo.
È la mia forza e la mia debolezza.

Un ariete contro un muro
incapace d’accontentarsi
dell’erba smunta su questo fronte.

Talvolta però la pietra schianta
e svela il miracolo,
l’impossibile.

Di più, è farsi bastare d’aver tentato
con le corna e l’orgoglio scheggiati
a sfrigolare nello stomaco.

Ma non potrei fare in altro modo:
pochi i soli lanciati da questa parte,
e nacqui ariete
né pecora
né farfalla.

IO, TU, IL MARE

C’è un’onda che mi chiama.
Se tu credi che oda solo il suo rollio, ti sbagli.
Ci ho pensato bene
sulla panchina, di fronte
a una landa di sabbia ostile che ci separa.
Tu, come un potente baio
tiri quattro ruote di un aratro;
io, salda, trattengo il vomere,
accompagno l’incedere.
Il cercatore di metalli
ci guarda come la più strana cosa
rinvenuta oggi, tra le dune.
Dai miei piccoli solchi già germoglia
l’ostinazione,
scricchiola l’odore aspro
della decomposizione a chiazze
tra conchiglie e alghe spezzate.
Eccomi. Naufraga del male. Seduta
sul deambulatore ad un passo
dal tuo passo bagnato.
Non ti sentivo bene da laggiù.
Ora parla: ti ascolto.
Non siamo mai stati così simili,
anche tu, rinchiuso tra cielo e terra
con tutta la tua rabbia
con tutta la tua potenza
ritenerti d’essere qualcosa di più,
in fondo,
di un sommovimento di liquidi e carne.
Calmati. Parla in moto lento.
Facciamo finta che siamo soli, io e te,
mentre lui ci guarda.

(poesia premiata)

PRIMI PASSI NELLA MIA GOLENA

Sul muschio di tappeto giovane
affondo il passo, le stampelle.
Il dolore è la lancetta del mio incedere.
Come un automa, un burattino,
un bradipo: questo ora sono
tra ghiande e noci marce.
Sono venuta qui
per questo campo zuppo e silente,
tra ciuffi d’erba ardui come montagne,
miseri avvallamenti come baratri.
Un’eternità per toccare la recinzione
a ciglio della riva.
Nemmeno il fiume mi viene incontro,
ma svolge l’ansa, tuffa salici,
trattiene l’onda e il fiato.

PROFUMO DI MEDICO

Esco, con il profumo dell’ultimo medico
addosso
persistente a risalire le narici
al cervello e friggervi la sentenza.
Oggi lasciami toccare il fondo
e crogiolarmi un po’ di lacrime,
qualche sano urlo di autocommiserazione
il proposito di far male a qualcuno
una lista schiantata di improperi.
È una farsa anche questa
come assistermi sul palco di questo viale
grumoso e spaccato dopo l’ultima pioggia,
la tragedia che non si può fuggire
io, mattatore,
il mio nome cubitale sui manifesti.
Uno o due giorni, non di più, me li posso concedere;
gli altri, con il conforto facile, mi stiano all’orizzonte.
Per dovermene vergognare – si fa per dire –
ripassa domani.

ORA SAI

Poi ti accorgi di chi ti sta accanto,
quando non hai più nulla da dare
se non un corpo che sforma il letto
e occhi in cerca di consolazione.
Non bussano più alla tua porta.
Come segugi fiutarono il vento marcio.
Ben nascosti per non essere scovati,
hanno scuse pronte sui taccuini.
Te ne accorgi perché nello sfacelo
sai a quale sola mano aggrapparti,
dove volgere la bocca e il pensiero
a quale schiena addossare la tua soma.
Te ne accorgi e sono loro a fare cernita,
a dividersi con un taglio netto,
posizionarsi su sponde opposte,

nonostante le parole e gli orpelli
ora sai di che metallo hanno i denti
e il cuore.

© Carla Sautto Malfatto – tutti i diritti riservati

Carla Sautto Malfatto (Ferrara, 1954) ha ottenuto oltre centosettanta premi per la poesia, la narrativa, la pittura e la grafica in concorsi nazionali e internazionali, tra cui la Targa d’Argento della Presidenza della Camera dei Deputati, la Medaglia del Senato, il Premio Consiglio dei Ministri, il Premio Ministero per i Beni e le Attività Culturali, la Medaglia del Pontefice Francesco I, il Premio Unesco, Premi alla Cultura, della Critica, della Giuria; il Premio Terme di Salsomaggiore per la pittura 2002. Ha pubblicato Farfalle e Scorpioni (racconti) e Troppe nebbie (poesie), entrambi pluripremiati. Collabora a riviste di cultura; è membro di giuria in concorsi letterari e lo è stata in concorsi artistici; i suoi testi di poesia e narrativa sono pubblicati in prestigiose antologie; le sue opere d’arte fanno parte di raccolte pubbliche e private. Per molti anni ha compiuto volontariato fornendo materiale e insegnamento artistico in scuole, pediatria oncologica, corsi per disabili psichici.

La rubrica di poesia Parole a capo esce regolarmente ogni giovedì mattina su Ferraraitalia. 
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Vite di carta /
Dante a Ferragosto

 

Sono trascorsi 700 anni dalla morte di Dante Alighieri [Qui], come è ormai risaputo, e ben 2.039 da quando, nel 18 a.C., l’imperatore Augusto [Qui] istituì il periodo di riposo che porta il suo nome, per permettere ai braccianti di riprendersi dalle fatiche del lavoro agricolo. Si tratta delle Feriae Augusti, che in seguito hanno preso il nome di Ferragosto e sono state assimilate dalla Chiesa Cattolica; hanno così subito uno spostamento, dall’originario primo del mese al giorno 15, in modo da coincidere con la festività religiosa dell’Assunzione di Maria*
* ) Sulla storia di Ferragosto, vedi su Ferraraitalia [rubrica Immaginario]

Mi è capitato di festeggiarle tutte insieme le due ricorrenze tipicamente italiche di cui sopra. In un contesto bellissimo: in campagna, col freschetto della sera e una numerosa compagnia. Una cena all’aperto per trenta persone, pensata dalla impareggiabile padrona di casa come una piccola celebrazione dantesca fatta di tanta convivialità.

Ci abbiamo lavorato nei giorni precedenti per preparare la scaletta della serata: la nostra ospite ha abbinato i cibi alle tre cantiche della Commedia e ha scelto formaggi saporiti a pasta dura abbinati a salumi piccanti per l’Inferno, torte salate e bocconcini dal sapore più morbido per il Purgatorio e dolci vari e abbondanti per il Paradiso. Il tutto con i vini appropriati abbinati ai diversi sapori.

Ha selezionato anche alcune musiche, che dovevano fare da sottofondo ai tre momenti e in questo ha avuto la collaborazione di un amico esperto di informatica che ne ha garantito la proiezione in formato gigante sul muro della casa, in modo che durante la degustazione gli ospiti potessero seguire il video di ogni pezzo. Dal jazz alla musica rock di grandi gruppi legati alla nostra giovinezza, passando per Morricone e Verdi. Ha funzionato! Una serata così, divisa in tre momenti cultural-culinari, consapevolmente contaminata dalle gioie del cibo e dal viaggio visionario del poeta nell’aldilà.

A me è toccata la lettura di versi dalla Commedia e tre brevi introduzioni alle cantiche che dovevano fungere da invito a ogni fase della degustazione. Viene facile la battuta che ho letto versi divini prima di gustare con gli altri i vini diversi previsti dalla serata, ma è andata proprio così.

Quali versi e cosa dire del poema e del poeta in una occasione così? Me lo sono chiesto nei giorni precedenti, neanche tanto scopertamente, ma nelle fessure tra i pensieri e le incombenze della giornata. Solo negli ultimi due giorni ho consultato più e più volte la Commedia, con la risposta già in testa e un robusto paio di forbici per tagliarla tutta, salvando solo le poche terzine destinate alla lettura.

Ho scelto un passo dal canto terzo dell’Inferno, in cui Virgilio introduce Dante al luogo dove patiscono in eterno “le genti dolorose / ch’hanno perduto il ben de l’intelletto”; un passo dal primo canto del Purgatorio in cui compare il tema della luce dell’alba che ha un “dolce color d’oriental zaffiro” ed è foriera di speranza per le anime, che in questo secondo regno purgano i peccati e divengono degne di salire al cielo.

Per il Paradiso ho trovato subito la risposta ai tanti e legittimi dubbi. Ho pensato a quando vado al mercato del mio paese, di mercoledì, e sento le voci dei venditori e incontro conoscenti. Faccio la spesa e mi sento conficcata in questa scheggia di umanità, che si assembla qui ogni settimana e si sfalda negli altri giorni per produrre aggregazioni diverse in posti diversi.

Lo strumento con cui quasi sempre leggo un mondo come questo, e il mondo tout court, è la letteratura. La calo nel quotidiano, la uso come bussola, come ho detto altre volte. Ora ricorro a questa mia convinzione per spiegare che il Dante da me presentato ai convitati è stato uno di noi, il più bravo di tutti, ma uno di noi. Vissuto nel Medioevo ma ancora capace di parlarci.

Per molti anni ho proposto agli studenti una letteratura che non li respingesse, fatta di testi, anche difficili da conquistare, ma capaci di aprire il dialogo coi lettori di ogni tempo. Trovandomi davanti ad adulti dalle professioni più varie e direi arrugginiti rispetto alla poesia dantesca, ho pensato ancor più che la priorità nella comunicazione tra noi fosse il farli sentire coinvolti.

Da chi? Da un intellettuale impegnato nella politica della sua città, e dopo l’esilio impegnato a diffondere la conoscenza e ad allargare l’orizzonte del proprio pensiero politico. Da uno straordinario poeta dell’amore, che è riuscito a dire della sua donna quello che non era stato detto a nessuna e l’ha trasfigurata nella Fede verso Dio. Da un poeta che ha avuto la visione dell’aldilà compiendovi un viaggio straordinario, in cui portare anche noi, in una Comedìa che ce lo racconta, adottando il volgare nella sua più vasta estensione e conducendoci dal regno del male a quello del bene, con l’ineguagliabile appagamento del lieto fine nell’Empireo.

Ho di troppo abbassato la figura del sommo poeta? Ho corso il rischio, ma mentre mi uscivano le parole sentivo che c’era sintonia tra le tavole imbandite immerse nei colori della sera estiva e il ricordo di un grande che aveva titolato Convivio una delle sue opere eminentemente dottrinali. Dare il pane della conoscenza. Come se ce lo dicesse ora, sotto queste stelle che forano il cielo scuro sopra di noi, Dante ritiene che nella conoscenza risieda la perfezione della natura umana.

Sono riuscita a dire che il suo sapere costituisce la summa della conoscenza dell’uomo medievale, che nella sua opera si integrano cultura classica e teologia cristiana. Ho nominato Virgilio, Beatrice e San Bernardo come sue guide.

Quali versi leggere, dunque, dal Paradiso. Due sole terzine, quelle che descrivono Dio. Alla fine di una salita nei nove cieli che circondano la Terra, giunto nell’Empireo che è la sede di Dio ed è costituito da pura luce, il “transumanare” del pellegrino approda alla visione più alta.

Mi pareva che chi stava ascoltando volesse sapere come finisce questo viaggio di rigenerazione spirituale. È da quando ero al liceo che studio la letteratura passata e mi domando: e ora? Com’è la letteratura contemporanea? Quella che nelle antologie scolastiche mancava (e talvolta manca ancora). È da quando ho fatto l’università che tento di costruire brandelli di risposta e mi sposto dai libri ai luoghi dove incontrare gli autori. Li vedo e li ascolto e seguo piste di lettura che si ramificano tra loro e costruiscono tessera su tessera un possibile e parziale mosaico del presente letterario.

Ecco dunque la visione di Dio, per quel tanto che Dante ha potuto conservare nella memoria. Mi sono venuti in mente i cinque cerchi delle Olimpiadi di Tokyo, che fino all’8 agosto abbiamo visto così spesso in tv: cinque ben distinti a indicare i continenti, ma al tempo stesso intrecciati tra loro. Ho detto: “Immaginiamo che i cerchi siano fatti di luce di vari colori e vadano a sovrapporsi per darsi luce l’un l’altro. Ne esce un fulgore perfetto, così come è perfetta la figura geometrica da cui sono costituiti. I versi di Dante parlano dei tre cerchi che simboleggiano la Trinità e della loro luce intrinsecamente reciproca e vivificante, con queste parole:

Ne la profonda e chiara sussistenza
de l’alto lume parvermi tre giri
di tre colori e d’una contenenza;

e l’un da l’altro come iri da iri
parea reflesso, e ’l terzo parea foco
che quinci e quindi igualmente si spiri.

Per leggere gli altri articoli e indizi letterari della rubrica di Roberta Barbieri clicca [Qui]

Gino Strada: un ricordo operaio

di Dino Greco
Eravamo nei primi anni Novanta quando la Valsella Meccanotecnica di Castenedolo (Bs), controllata dalla Fiat, era leader nazionale nella produzione di mine anti-uomo, vendute all’Iraq in 9 milioni di esemplari. Vi lavoravano un pugno di ingegneri, pagati a peso d’oro, e 40 operaie, addette allo stampaggio, per 800 mila lire al mese.
In assemblea ponemmo in tutta la sua gravità il problema della corresponsabilità anche di chi lavorava alla costruzione di quegli ordigni di morte. La prima risposta fu: “Noi non abbiamo le mani sporche di sangue; se non facciamo noi le mine le farà qualcun altro”.
Allora organizziamo un incontro in Camera del lavoro con Gino Strada al quale partecipò l’intero consiglio di fabbrica. La riunione fu introdotta da un documentario che Gino aveva portato con sé sui tragici e indiscriminati effetti delle mine, soprattutto sulla popolazione civile, sui bambini, con mutilazioni permanenti, provocati da ordigni in qualche caso fatti a forma di bambole affinché suscitassero l’interesse dei più piccoli. Lo shock fu potente ed innescò nelle lavoratrici una catarsi, una presa di coscienza che avviò una delle più straordinarie battaglie sindacali e di civiltà che io ricordi.
A quel primo incontro con Gino Strada ne seguirono altri, mentre maturata la decisione di chiedere l’interruzione della produzione delle mine e l’avvio di un processo di riconversione. Ma la Valsella non aveva alcuna intenzione di rinunciare ad una produzione lucrativa come nessun’altra. Cominciarono gli scioperi, via via più intensi, fino a trasformarsi in un blocco a oltranza dell’attività. Il prezzo era altissimo. Dopo mesi di lotta le operaie e le loro famiglie vivevano a credito. La lotta non aveva contenuti salariali o normativi. Era il grido di donne che dicevano all’azienda dove si fabbrica la morte: “Noi non saremo complici”. Quelle operaie vinsero, perché la moratoria nella produzione di quegli ordigni infami ne bloccò la produzione.
A quel punto si fece avanti un’azienda, la Vehicle Engineering&Design, che si candidò a rilevare l’impresa per produrre motori elettrici per automobili: indubbiamente un bel salto, dalle mine a motorizzazioni ecologiche.
Ma la nuova azienda pose una condizione: potere vendere alla Spagna il brevetto dell’Istrice, un dispositivo per il disseminamento delle mine dall’alto, senza mappatura, con le conseguenze che ciascuno può immaginare. L’azienda promise che il denaro incassato sarebbe servito anche per saldare alle lavoratrici le mensilità arretrate.
In assemblea intervenne la compagna più anziana, componente del consiglio di fabbrica e disse queste parole: “ragazze, in questi mesi abbiamo fatto tanta strada insieme e siamo cambiate. So che è dura, ma non possiamo tornare indietro. Quindi, nessuna macchia. Se la nuova azienda vuole subentrare, nessuna condizione.”
Le operaie approvano, tutte, con un grande applauso. A sera scrivemmo alla Engineering comunicando le decisioni assunte di comune accordo fra sindacato e lavoratrici. Per uno di quei rari casi che talvolta capitano, l’azienda rispose che rinunciava alla propria richiesta. Seguì una grande manifestazione, in realtà una festa. I brevetti furono restituiti al Ministro della difesa e gli stampi delle mine bruciati in piazza.
Sono certo che distanza di oltre vent’anni tutte le operaie ricordino questa vicenda come uno dei momenti più importanti delle loro vite e che il ricordo di colui che tanta importanza ebbe nella loro maturazione non è mai venuto meno.
Ben fatto, caro vecchio Gino.
La terra ti sia lieve.
Dino Greco:  sindacalista, è stato anche dal 1999 al 2007 segretario generale della Camera del Lavoro di Brescia. Ha pubblicato numerosi articoli e saggi principalmente suLiberazione, Il manifesto, La Rivista del manifesto, Critica Marxista, Carta, Alternative, Rinascita. Dopo aver lasciato il sindacato alcuni suoi scritti sono stati raccolti e pubblicati in un libro intitolato “Identità, progetto, democrazia”. Nel 2008 si iscrive al PRC e nel 2009 diviene direttore del quotidiano Liberazione. Dal 2013 è membro del Comitato politico nazionale e della Direzione nazionale del Prc e responsabile del dipartimento Formazione di Rifondazione Comunista.

QUELL’ARIA CHE CI UCCIDE
Un bilancio sulla qualità dell’aria a Ferrara e in Emilia Romagna

 

In attesa del prossimo report di Legambiente (Ecosistema urbano 2021), che uscirà presumibilmente negli ultimi mesi dell’anno, per avere una fotografia dello stato ambientale delle nostre città, può essere utile fare alcune considerazioni generali e qualche approfondimento relativamente a come è stata la qualità dell’aria nella nostra regione da ottobre 2020 a marzo 2021.

Come premessa è necessario tenere in considerazione quanto affermato in un comunicato della Regione Emilia-Romagna dei primi giorni di gennaio di quest’anno dall’assessore all’ambiente Irene Priolo: l’intenzione di introdurre misure straordinarie per ridurre l’inquinamento atmosferico, rilevando da un lato il “pessimo stato dell’aria nonostante il lockdown” e dall’altro gli “sforamenti delle soglie superiori agli obiettivi previsti dalle norme praticamente in tutto il territorio”.

Il comunicato regionale informava anche dell’intenzione di “avviare progetti strutturali già presentati al Governo nell’ambito del piano di ricostruzione nazionale attraverso i fondi europei del Next Generation Eu” e a predisporre a tale scopo “un piano di interventi triennale, stanziando già nell’anno in corso 21 milioni di euro”, quota da incrementare ulteriormente negli anni 2022 e 2023. “Si tratta di proposte avanzate insieme a Piemonte, Lombardia e Veneto per complessivi 2 miliardi di euro nell’area dell’intero Bacino Padano”. “Anche per ottemperare – veniva affermato – a quanto previsto dalla condanna all’Italia da parte della Corte di Giustizia Europea del novembre 2020 circa la qualità dell’aria nel nostro paese per ciò che riguarda il Bacino padano”.

Il piano regionale, veniva specificato, verrà indirizzato su tre assi prioritari di intervento relativamente alle principali fonti di inquinanti dell’aria:
– la mobilità,
– le modalità di riscaldamento degli edifici,
– l’attività agricola.

Da anni l’Agenzia Ambientale Europea (EEA) (https://www.eea.europa.eu/it) denuncia quanto l’inquinamento atmosferico continui ad avere impatti significativi sulla salute della popolazione europea, in particolar modo per i cittadini delle aree urbane. “I maggiori rischi immediati per la salute sono rappresentati dall’inquinamento atmosferico e acustico, soprattutto nelle città”, afferma Catherine Ganzleben, responsabile del gruppo Inquinamento atmosferico, ambiente e salute. Secondo le stime dell’OMS, in Europa, un decesso su otto è dovuto all’inquinamento ambientale. Decessi che potrebbero essere evitati attraverso gli sforzi per migliorare la qualità dell’ambiente.
In Italia ogni anno sono oltre 60mila le morti premature dovute all’inquinamento atmosferico che, oltretutto, costituiscono un danno economico (tra i 47 e i 142 miliardi di euro all’anno) stimato sulla base dei costi sanitari comprendenti le malattie, le cure, le visite, i giorni di lavoro persi, (a livello europeo sarebbero 330/940 miliardi). E, dice l’Agenzia Europea, dovrà essere il rispetto dei nuovi limiti normativi segnalati dall’Organizzazione Mondiale della Sanità, molto più stringenti degli attuali, a tutelare la salute delle persone. Attualmente i 3/4 della popolazione urbana è esposta, per le sole polveri sottili, a concentrazioni troppo elevate rispetto a quanto indicato dall’OMS.

Ma quali sono gli inquinanti sotto osservazione presenti nell’aria? In termini di rischio per la salute umana sono le polveri sottili (PM), il biossido di azoto (NO2) e l’ozono troposferico (O3), che vanno distinti da quelli emessi nel corso dei processi di combustione di qualunque natura (origine primaria), come il monossido di carbonio, il biossido di carbonio e gli ossidi di azoto, e poi polveri e idrocarburi incombusti, oltre ad anidride solforosa nel caso in cui i combustibili contengano zolfo. Gli inquinanti primari possono subire processi di trasformazione chimico-fisica che portano alla formazione degli inquinanti secondari, nuove specie chimiche, spesso più tossiche, e di più vasto raggio d’azione dei composti originari.

Il particolato atmosferico (le polveri sottili) presenta una complessa composizione e origina da molteplici sorgenti diverse, sia di tipo antropico (attività umane) che naturali.

Le polveri sottili (PM), il cosiddetto PM10 e PM2,5 sono quelle che causano i maggiori effetti sulla salute, e, assieme a quelle ancora più fini (nanopolveri), sono infatti collegate all’insorgenza di problemi polmonari e cardiovascolari, in particolari nei soggetti asmatici, negli anziani e nei bambini.

La loro presenza è generalmente minore nell’Europa Settentrionale e maggiore nell’Europa Meridionale e Orientale, dove i fattori che favoriscono le alte concentrazioni degli inquinanti atmosferici sono i livelli elevati delle emissioni, l’alta densità urbana di molte città che impedisce la dispersione degli inquinanti prodotti localmente, la bassa piovosità, i venti deboli e l’elevato irraggiamento solare, che favoriscono la formazione e l’accumulo degli inquinanti, e anche la prossimità alle aree desertiche dell’Africa Settentrionale. I contributi antropici al PM nell’Europa Meridionale sono dominati dalle emissioni dirette delle automobili e da quelle domestiche e industriali, oltre al contributo importante dalle cosiddette polveri urbane, dovute al risollevamento di polveri del suolo, all’usura di freni, pneumatici e del manto stradale, alle opere di costruzione/demolizione e, in quantità minore, alle emissioni di polveri dovute al vento. Altri contributi importanti sono la combustione di biomasse per riscaldamento domestico (in particolare le stufe e i camini a legna), gli incendi boschivi, la combustione di rifiuti agricoli e le emissioni portuali e navali.

L’insieme dei prodotti di queste reazioni viene definito smog fotochimico.

Alla luce di queste considerazioni risulta interessante analizzare i dati degli ultimi anni relativi all’andamento dei principali inquinanti dell’aria, sia delle località della nostra che di altre regioni padane, in modo da avere un quadro della situazione il più possibile vicina alla realtà dei nostri territori per quanto riguarda la qualità dell’aria che respiriamo e della cui importanza, ricordiamolo, ci viene detto da medici ed esperti che, da decenni, lanciano allarmi sostanzialmente inascoltati.

Un contributo importante è dato dal Rapporto Mal’aria di città 2020, dossier di Legambiente pubblicato nel gennaio 2020, in cui vengono riportate le località che hanno superato almeno uno dei limiti giornalieri previsti per il PM10 e per l’Ozono nell’anno 2019 e i giorni totali di superamento. La città che guida la classifica di questo poco ambito titolo è Torino con 147 giorni di superamento dei limiti. Seguono Lodi con 135 e Pavia con 130. Ferrara con 103 giorni si colloca al 18° posto, mentre Frosinone 25ma (con 68 giorni), e Caserta 31ma (con 52 giorni) sono le prime località del centro/sud dell’elenco.

Tra le prime 25 sono 19 le città appartenenti a Piemonte, Lombardia ed Emilia-Romagna, mentre 5 sono venete.

Ferrara, nell’ultimo triennio, ha mostrato, per le polveri sottili PM10, un numero crescente di giornate complessive di superamento del limite giornaliero di 50 μg/m3: 41 giorni nel 2018, 60 nel 2019 e 73 nel 2020. I rilevamenti (dati ARPAE) sono riferiti alla centralina di C.so Isonzo (l’altra, urbana, è collocata a Villa Fulvia, mentre le tre extraurbane della provincia sono a Cento, Ostellato e Iolanda di Savoia-Gherardi).

Il dato del 2020 risulta particolarmente alto (il secondo in regione dopo Modena) anche perché nei giorni dal 27 al 30 marzo, come ha dichiarato il Responsabile Centri Tematici Qualità dell’aria di Arpae ER, tutte le città emiliano romagnole hanno risentito di valori anomali delle PM10 a causa del trasporto di masse d’aria ricche di polveri provenienti dalle zone orientali tra il Mar Nero e il Mar Caspio.
Lo sforamento dei limiti per tre/quattro giorni consecutivi è avvenuto in un’epoca dove normalmente non si assiste a tale fenomeno. Per la nostra città (ma anche per le altre della regione) la sostanza comunque non cambia, facendo registrare, al netto delle giornate “anomale”, un numero elevato di giorni fuori norma. Nel 2020 si è infatti assistito ad una percentuale delle giornate favorevoli all’accumulo di PM10 abbastanza elevato (64%), la più alta degli ultimi dodici anni di rilevazioni, assieme a quelle delle annate 2015 (68%) e 2017 (67%).
Oltre a Ferrara, anche Parma, Reggio Emilia, Modena e Rimini hanno fatto rilevare superamenti oltre ai limiti di legge in tutti e tre gli anni considerati, con Modena che raggiunge i 75 giorni nel 2020 (71 eliminando quelli anomali), mentre è Reggio Emilia nel 2018, con 56, la località che raggiunge il più alto numero di giorni di superamento. All’opposto Bologna, con 42 superamenti nel 2020 (39 togliendo i 3 anomali di marzo), è la città con i valori più bassi in regione, mentre nel 2018 con 18 e nel 2019 con 32 non raggiunge il limite di 35 giornate previste dalle norme, risultando la più “virtuosa” della regione.
A conclusione di questa carrellata di dati è doverosa una annotazione, che riguarda tutto il territorio regionale: il 2020, anno della pandemia e del lockdown, ipoteticamente avrebbe dovuto far registrare valori più bassi per l’inquinamento da polveri sottili, ma non è stato così. Trovare cause e spiegazioni a ciò non è semplice, almeno ora.

Analizzando invece i dati degli sforamenti progressivi per le polveri sottili PM10 relativamente al solo periodo 1 gennaio/31marzo 2021 si rileva un netto calo delle giornate di superamento dei limiti per tutte le province della regione.
Ferrara registra un calo di giornate passando dalle 39 del 2020 alle 27 del 2021 (erano state invece 41 nel 2019). Le cause di queste differenze, a volte anche di notevole entità, rispetto al numero rilevato di sforamenti tra diverse annate o tra diverse località relativamente allo stesso periodo di osservazioni, come già accennato, sono spesso di difficile comprensione e da attribuire principalmente alla variabilità delle condizioni atmosferiche, pioggia e vento in particolare che, se presenti, di norma portano all’abbattimento degli inquinanti nell’aria.

Ci si può legittimamente chiedere, in considerazione dei dati esposti, se le misure, annunciate nel comunicato di gennaio citato ad inizio articolo, che sono state e che verranno adottate dalle Amministrazioni – Regione, Comuni – al fine di ridurre i livelli di inquinamento dell’aria siano corrette e sufficienti.

Nel comunicato si afferma che “sarà predisposto un piano straordinario triennale per definire le nuove, ulteriori misure, accompagnate e sostenute con l’assegnazione di nuove risorse a favore di cittadini, imprese e Comuni”. Restano in vigore fino al 31 dicembre 2021 le limitazioni alla circolazione dei veicoli più inquinanti, mentre si sospende il blocco dei diesel Euro4 che sarebbe scattato l’11 gennaio, e che già da ottobre 2020 avrebbe dovuto essere attuato, ma prorogato a inizio 2021 causa il protrarsi dell’emergenza COVID-19. Il rinvio (concordato con le Regioni del Bacino Padano e approvato anche dall’allora ministro all’Ambiente Sergio Costa) è stato giustificato dal fatto che il blocco non fosse conciliabile con le limitazioni di capienza imposte al trasporto pubblico locale dall’emergenza pandemica e con la contestuale adozione di misure compensative sul piano ambientale al fine di non arretrare sul fronte della lotta all’inquinamento e per la qualità dell’aria.

In una video-conferenza tenutasi sempre ai primi di gennaio, l’assessore Priolo ha espresso la volontà, assieme ai sindaci e agli amministratori di tutti i territori, di “proporre nuovi interventi e ampliare quelli esistenti per migliorare la qualità dell’aria e tutelare così la salute dei cittadini, il bene più prezioso di una comunità, come ci ha insegnato tristemente la pandemia che stiamo affrontando da un anno. Con queste prime misure, e altre che stiamo elaborando, saremo in grado di abbassare l’inquinamento nella nostra regione”.

Rimane comunque incomprensibile cosa intenda la Regione quando annuncia da un lato un piano straordinario triennale e limitazioni alla circolazione dei veicoli più inquinanti, e, dall’altro, la decisione di sospendere il blocco della circolazione dei diesel Euro4 (misura per altro annunciata in molte città in Italia e all’estero e che, in particolare nell’area padana, avrebbe avuto certamente effetti positivi sulla qualità dell’aria). E quali sarebbero i veicoli più inquinanti la cui circolazione andrebbe limitata? Forse quei mezzi, particolarmente obsoleti e dalle emissioni pestilenziali che, almeno da ottobre a marzo, già non dovrebbero circolare? Sembra un po’ poco per migliorare una situazione che da anni risulta particolarmente grave!

In conclusione, e in estrema sintesi, può essere utile ricordare quanto viene affermato nel rapporto di Legambiente Mal’aria di città 2020 a proposito di cambiamenti climatici: l’inquinamento atmosferico e il climate change sono due facce della stessa medaglia.

NOTA: dati presentati nel seguente articolo sono stati tratti in parte dal Rapporto Mal’aria di città 2020 di Legambiente e in parte dal sito di ARPAE (Agenzia regionale per la prevenzione, l’ambiente e l’energia dell´Emilia-Romagna) nelle pagine relative all’inquinamento dell’aria (https://www.arpae.it/it/temi-ambientali/aria/report-aria). 

In copertina: particolare della copertina del volume di Filippo De Pisis La citta dalle 100 Meraviglie, Casa d’arte Bragaglia, Roma, 1920

Le storie di Costanza /
Agosto 2060 – Minuti per sempre

 

Oggi fa proprio caldo. Siamo in agosto, in Lombardia, in pianura, vicino a un fiume. Insetti e umidità la fanno da padrone. Le zanzariere sono ovunque e sono determinanti per la qualità della vita. Si possono azionare con un telecomando, oppure si può programmarne la direzione, il grado di spessore, anche le modalità di rifrazione della luce, ma sempre di zanzariere si tratta.

Axilla e Cosmo-111 sono sul divano di vimini che si trova sotto il portico della casa della mamma e della zia in via Santoni Rosa 21. Axilla sonnecchia e Cosmo-111, per non essere da meno, se ne sta fermo cantando a bassa voce la sua canzone preferita: “saputo, saputo, aku aku, saputo saputo aku totú”.

Io, mia madre Cecilia e la zia Costanza siamo sedute in soggiorno, sui divani gialli che erano della nonna Anna. Sono divani vecchissimi, rimodernati più volte, sempre con della tappezzeria con lo sfondo giallo e fiori ricamati. Il tipo di fiori e il loro colore è cambiato nei corso degli anni ed è dipeso dai gusti delle persone che si sono avvicendate nella scelta e anche dai consigli dei tappezzieri che sono stati di volta in volta interpellati. Anche il tessuto è cambiato. Quello attuale è leggero, non si macchia, mantiene il calore, è lavabile. Mi ricordo che negli ultimi anni della sua vita la nonna Anna soleva dire che le innovazioni dei tessuti erano tanto importanti quanto quelle dei circuiti elettronici che permettono la vita ai nostri mezzani. Credo avesse ragione.

Questo sonnecchiare estivo permette ai minuti di dilatarsi, di diventare prepotenti e significativi. Dentro un minuto ci può stare uno starnuto, un sorriso, un’idea, la puntura di una zanzara, un sospiro. Ogni minuto è una bollicina che racchiude una briciola di vita, un pensiero limpido oppure indecente, il bagliore dell’alba o il calore del tramonto, un po’ d’azzurro e un po’ si sole, una goccia di pioggia o una lacrima. Ogni minuto è un attimo di vita, una rarità, una unicità assoluta, tanti fotoni.

Crediamo che siano rari i diamanti, gli smeraldi, gli arcobaleni, le eclissi di Luna, il transito delle comete, ma solo molto più rari i minuti. Nessuno è uguale al precedente. Ogni minuto che viviamo è unico e irripetibile e un gemello per lui non ci sarà. In questa incredibile unicità dei minuti sta il loro valore. Passato uno ne arriverà un secondo e poi un terzo e poi un quarto … ma nessuno dei tanti minuti inanellati in un’ora, in un giorno, in una settimana, in un anno sarà come il precedente. Non ne esiste uno uguale a quello appena vissuto e già bruciato, archiviato, passato, dimenticato o ricordato.

Si può ricordare un minuto per sempre? Sì.
Ripenso ai miei “minuti per sempre” e mi vengono in mente gli occhi di Axilla e Gianblu la prima volta che si sono aperti sul mondo. Io c’ero e li ho visto cercare di mettere a fuoco determinati e curiosi, me li ricordo perfettamente.

Un secondo mio “minuto per sempre” è stato la morte del nonno Umberto, il marito della nonna Anna. Il professore, come lo chiamavano tutti. Ha chiuso gli occhi per non aprirli mai più. Io c’ero. E poi l’alba sul mare, le fragole che spuntano in primavera, la faccia dei miei bambini quando hanno visto per la prima volta Cosmo-111, le lacrime di Pit-x quando Nuvola e Nembo gli hanno regalato il radicchio e adesso Gyanny che dorme.

Minuti eterni, che sanno di scoperta, di novità di stupore, d’amore. Eppure sono solo minuti. Sessanta in un’ora, millequattrocentoquaranta in un giorno. Sono piccole perle che assaporiamo continuamente, beni preziosi più dell’oro bianco, della Ferrari, dei vestiti di Chanel, di una barca a vela come Sole Verde. Sono unici, irripetibili, straordinari, incontrollabili, donati. Sono democratici perché sono di tutti, ogni essere umano può vivere dei minuti preziosi e ogni essere umano ne ricorda alcuni stupefacenti.

Penso sempre che le cose migliori di questo mondo non le abbiamo fatte noi esseri umani, non sono costruzioni o artifici per pochi, ma sono doni universali che appartengono a tutti.  Il sole è di tutti, il vento è di tutti, il mare è di tutti ed è di tutti il tempo nelle sue manifestazioni minimali (un secondo, un minuto), nelle sue manifestazioni massimali (una vita), nelle sue manifestazioni eterne (l’eternità). Ma qui ci fermiamo perché non c’è un rapporto univoco tra tempo e eternità, anzi sembrerebbero in antitesi, la fine di uno e l’inizio dell’altra. Il nuovo mondo sta tutto lì. La vita è di tutti i vivi, l’eternità una possibilità. Il tempo accompagna la vita e si ferma alle porte dell’eternità.

Alla fine, dopo discussioni lunghissime, si è deciso di fare il battesimo di Gyanny il mese prossimo. I nostri cugini, che abitano a Parda, sul lago omonimo, verranno di sicuro. Sono tanti. Io ho sette cugini, cinque maschi e due femmine, che a loro volta hanno figli. Abbiamo pensato di invitarli tutti, non solo per il grado di parentela, ma perché sono simpatici, gentili e sinceri e a noi piacciono.

Poi inviteremo i cugini di Cremantello, che sono i figli delle cugine della mamma: Leonardo, che ha cinquantasette anni e Marta, che ne ha quarantaquattro. Non so se verranno Ines, che ha ottantaquatto anni e Bella, ne ha ottanta. Ines ha problemi di vista e Bella cammina zoppa, per un problema ad una gamba che si è acutizzato ultimamente. Nonostante qualche acciacco, sono ancora perspicaci e dotate di un notevole senso dell’umorismo. Magari decidono di venire, ci farebbe piacere, soprattutto alla zia Costanza e alla mamma.

Quando mia madre Cecilia era piccola andava sempre a Cremantello, al bar Ghepardi, dove hanno sempre lavorato le cugine, e stava settimane intere con Bella. Dormivano nella stessa stanza e organizzavano la loro vita in perfetta sincronia. Questo ha cementato un legame insostituibile.

Bella è la terza sorella di mia madre (dalla cuginanza alla fratellanza per via della prossimità). E’ stata anche la sua testimone di nozze. A Pontalba le può portare Leonardo, che fa il fisioterapista per una squadra di ginnastica di Serie A e ha una macchina che può trasportare fino ad otto persone.

Poi invitiamo Francesca, che è una parente che ha più o meno la mia età  e abita vicino a noi.  A Pontalba, in vicolo Saturnina. E infine qualche amico di Enrico, mamma, zia, mio, dei ragazzi. Credo che decideremo di sceglierne al massimo un paio a testa, perché altrimenti a casa Del Re, la vecchia abitazione di campagna che ci ha visti tutti piccoli e poi cresciuti, non ci stiamo.

Il battesimo si fa in chiesa nella parrocchiale di San Protasio e poi facciamo un mega-rinfresco all’aperto. Abbiamo contattato un’azienda che fa catering. Sono già venuti a vedere il nostro cortile e a decidere con Enrico tutti i dettagli dell’allestimento.

Ora mancano i vestiti. Organizzeremo una spedizione a Trescia per sole donne. Sarà un soddisfazione. Pregusto già questo momento spensierato con le zie Cecilia e Rachele (Rachele arriverà qualche giorno prima da Torino e si fermerà una settimana), la mamma, mia sorella Rebecca e mia figlia Axilla.

Esco sotto il portico e vedo Axilla che sonnecchia. Siccome ha avvertito la mia presenza, apre gli occhi e mi guarda.
– Che hai mamma, problemi?
– No – le dico, – pensavo che dobbiamo organizzare una spedizione a Trescia per comprare i vestiti che servono per la cerimonia di battesimo del piccolo Gyanny.
– Io non voglio vestiti – mi dice lei – penso che verrò nuda -.

La guado di traverso e lei si mette a ridere.
– Ma mamma non mi avrai creduto! Per ora nudi in chiesa non si può andare, sono un po’ retrogradi … si sa. Voglio una tuta ultraleggera di Mollan (uno dei nostri nuovi tessuti super-tecnologici), sfumata dal giallo all’amaranto. L’ho vista costa 1/100 di Vitcat (la moneta virtuale che usiamo sempre).
– Vedi tu – le dico.
Io questo abbigliamento moderno non lo amo molto, appartiene più alla generazione di Axy che alla mia. Figuriamoci a quella di mia madre e delle zie.

– Facciano quel che vogliono – direbbe la zia Costanza – Io voglio un vestito blu di seta e anche una collana di perle. La zia Costanza è vecchia e un po’ antiquata, ma non sbaglia mai. Anche io voglio le perle. Per un battesimo sono adatte. E così sarà.

Caro Gyanny, avrai una grande festa. Sicuro.

Costanza e il suo mondo sono solo apparentemente diversi e distanti dal mondo che usiamo definire “reale”, e quasi sovrapponibili ad ogni mondo interiore. Chi fosse interessata/o a visitare gli articoli-racconti di Costanza Del Re, può farlo cliccando [Qui]

Risparmiateci i vostri coccodrilli

Risparmiateci i vostri coccodrilli. Ne state redigendo in questo momento, per metterli sui vostri profili, soprattutto voi, che lo avete sbeffeggiato, diffamato, insultato, screditato. Non lo farete, perchè siete osceni. Perchè non conoscete il senso del pudore. Ci state già inondando, maledetti. Lui era uno dei pochissimi che con il suo esempio si era guadagnato il diritto di dire qualunque cosa, anche la più dura. Voi, per me, non avete il diritto di dire niente.

Pago le tasse e non mi compro un’autobotte per spegnere gli incendi. E pago le tasse per aiutare chi ha bisogno. Ospitare un profugo in casa è gentilezza, carità. Creare, con le mie tasse, un sistema di accoglienza dignitoso è giustizia. Mi piace la gentilezza, ma preferisco la giustizia“.

Cecilia Strada

Libertà obbligatoria e tradimento della parola

Viviamo tempi estremi. La pandemia lo ha reso evidente ma i tempi estremi erano già presenti nel passato, solo che erano invisibili ai più. Oggi però li vediamo, li tocchiamo con mano e da buoni san Tommaso non possiamo più negarli. Le parole che usiamo per raccontare la realtà che ci circonda hanno assunto significati diversi a seconda di chi le pronuncia.

E’ come se la lingua madre fosse diventata una babele e tra umani non ci comprendessimo più. Scompaginati tutti i recinti non riusciamo più a leggere i confini delle nostre dimore che, per ognuno di noi, rappresentano la sicurezza. A catena questo scatena furia e paura nelle persone.
Le accuse che continuamente ci facciamo reciprocamente, in questo mare di incomprensione, è quella di manipolare la realtà. I dati scientifici diventano il perno su cui si basano le narrazioni, e tutti dico tutti, li tirano per la giacchetta, ognuno per darne la interpretazione che vuole. Anche io faccio parte di quelli che li leggono in un certo modo, che li interpretano (perché i dati si interpretano) con le parole che per me descrivono la realtà che vedo fuori  e che sento  dentro,  una realtà che mi corrisponda nel profondo, che tenga unita la conoscenza del cuore con quella della mente, perché, per me, guardare la realtà, non è un’ osservazione asettica, priva del mio essere dentro questa realtà, ma è partecipazione attiva con tutto il mio essere.
Questa libertà di discernimento che mi concedo, che fino ad oggi era un diritto – chIssà ancora per quanto? – e che condivido con gli altri (siamo esseri comunicanti non possiamo non farlo) oggi è mal tollerata, è vista come pericolosa per la comunità di cui faccio parte. Nonostante viviamo in sistemi democratici è proprio questa libertà di interpretazione che viene messa in discussione; non si fa altro che sentire dire che solo i competenti possono esprimere il loro pensiero, agli altri è concesso pensare – dunque  dubitare – (chissà ancora per quanto?) ma non di esprimersi.
Possiamo tentare di capire chi siamo ma non possiamo dirlo perché se affermiamo il nostro pensiero e il nostro essere, se solo ci poniamo dei dubbi, se ci autodeterminiamo, azione che ha bisogno di essere messa in parole, incorriamo nella accusa di impedire all’altro la sua autodeterminazione e cosa ancora più grave manipoliamo la realtà. 
La definizione di libertà che ha caratterizzato il secolo scorso “la tua libertà finisce dove inizia la mia” mostra chiaramente quanto questo impianto filosofico alla base delle nostre democrazie attui una competizione sfrenata: il più forte vince (Charles Darwin) e ottiene le libertà e gli altri soccombono.
Mi sono chiesta come sia possibile che siamo giunti a questo cortocircuito per il quale parole fondanti le comunità come libertà, amore, dono, bene comune, siano diventate parole divisive al punto da creare una spaccatura così grande.  Curiosamente viviamo in paesi che fanno della loro bandiera il rispetto delle differenze, ma siamo giunti a cancellare le differenze proprio in nome di quel rispetto che dovrebbe renderci liberi. Addirittura oggi la libertà sembra essere diventata un brand acquistabile sul mercato (slogan tipo + vaccinati + liberi ) non fanno altro che confermare questa ipotesi.
Sappiamo bene che il concetto di libertà è continuato a cambiare nell’arco della storia e questo suo cambiare ha contribuito all’evoluzione della umanità, e dunque, in un certo senso, questo suo travaglio fa parte del grande cambiamento che stiamo attraversando, dei tempi estremi in cui siamo immersi. Certamente in nome della libertà si sono fatte grandi guerre, le più spaventose e sanguinose, e oggi siamo in guerra, non contro il virus, ma fra di noi, una guerra carsica che scava solchi profondi; ma io spero arditamente che il risveglio delle coscienze e dell’amore sia già qui, nel nuovo che sta nascendo. Dunque torno alla questione che mi sono posta: come è possibile che le parole abbiano perso un significato unificante e siano diventate armi potentissime legate a immaginari assai lontani che rischiano di deflagrare in una guerra senza confini, in una guerra che entra nelle nostre stesse case causando  grande dolore e sofferenze? Per darmi una risposta  devo andare un po’ indietro nel tempo.
Le parole non cambiano il loro significato semantico così velocemente, di solito è un processo lungo che avviene carsicamente; quando poi emerge può essere assorbito in modo  apparentemente  indolore o invece può causare stravolgimenti come quelli che stiamo vivendo. Ma quale potrebbe essere la radice dello stravolgimento semantico odierno?
Io credo di averlo individuato nella cancellazione delle madri a livello simbolico.  So che non sarà facile seguirmi nel ragionamento e so anche che incorrerò nuovamente nell’accusa di manipolare la realtà ma io voglio semplicemente percorrere la strada interiore che mi ha portato a questo discernimento. La mia non è una verità assoluta ma la verità che mi corrisponde e ognuno sarà libero di trarne le sue conseguenze. Il linguaggio umano è un mezzo molto sofisticato e “la lingua è la caratteristica nucleare che ci rende essere umani” (Noam Chomsky) ma la lingua ovunque nel mondo viene definita come lingua madre perché  ce l’abbiamo da sempre, “perché l’abbiamo ricevuta gratis da quando nasciamo“ (Valeria Gheno) ed è dunque fortemente legata al prelinguaggio ereditato dalla madre, alla lingua del territorio che ci ha visto crescere, alla terra madre, Pachamama. Certo poi quando cresciamo noi scegliamo in autonomia le parole da utilizzare per descrivere la realtà, “trasgrediamo“ la madre (Igor Sibaldi, il concetto di trasgressione[Vedi qui]) per diventare noi stessi, ma quanto conta l’immaginario sul materno nella modifica del valore semantico delle parole?
Quando parliamo di materno o maternità facciamo riferimento a un’ampissima gamma di simbolico, parliamo di concepimento, gestazione, affettività genitoriale, educazione, amore, ma anche di creatività, di maternità di idee e libri arte, maternità-natura e moltissimo altro. Per cercare di darvi un’immagine di cosa intendo con questo ampio ombrello di possibilità, utilizzo la metafora della matrioska.
La maternità è come una grande matrioska che contiene tante piccole matrioske ognuna delle quali portatrici di un sapere specifico, ma tutte connesse tra loro. Oggi, però,  facciamo i conti con una parcellizzazione dei saperi in tantissimi ambiti, da quello della salute, a quello economico a quello sociale e giuridico, culturale, che hanno perso la loro originaria unità.
La grande matrioska che conteneva le più piccole è esplosa e il tema della maternità deflagra assumendo nuovi intendimenti. La maternità negli ultimi cinquant’anni ha cambiato volto, da fatto puramente fisiologico è diventata parte integrante del processo di medicalizzazione che ha invaso la nostra società.
Da fatto naturale fortemente legato anche al mistero della vita,  a fatto programmabile e costruibile a tavolino attraverso le tecnologie riproduttive.
E badate bene quando parliamo di tecnologie riproduttive parliamo già di quell’unitarietà andata in frantumi.
La domanda dunque è legittima.
Quanto questo immaginario simbolico legato alla madre, alla unitarietà della madre che sparisce nella parcellizzazione di diversi processi impatta sul nostro vivere la realtà?
Io sono giunta alla conclusione che la lingua madre è diventata una babele, perché  si è persa la matrioska grande, quella che li contiene tutti e da cui partono le ‘trasgressioni’ che sono la via alla realizzazione di quel sé unico e irripetibile che ci caratterizza e che fa dell’essere umano quel miracolo di amore tra diversi. Il transumanesimo che si fonda sulla violazione della Madre e della sua sacralità, che cancella il pre-linguaggio che unisce l’umanità in una unica famiglia, che fa della intelligenza artificiale il nuovo Dio, (medicinali iniettati da remoto, biobag per fare bambini, identità digitali, medicalizzazione della società per rendere uomini e donne sempre “più perfetti e inattaccabili” (?),  robot sempre più intelligenti e simili agli umani) è la causa  della babele.
Ma i più non sanno cosa sia l’ideologia transumanista che ci ha portato fin qui, non sanno quanto stia correndo avanti (è stato da poco riconosciuto il diritto alla cittadinanza a Sophia , un robot donna il che significa che a breve competeremo con i diritti rivendicati dai robot) perché è un’ideologia che ha agito di nascosto, vendendo alle masse progressi tecnoscientifici come grandi opere di bene, eludendo il dibattito sulle tantissime questioni bioetiche che si celano dietro.
Ma il linguaggio della Grande Madre è più forte, la Donna Selvaggia (Clara Pinkola Estes), emerge dalle coscienze singole (uomini e donne l’hanno dentro, nasciamo tutti da donna – almeno per ora) e come un unico canto ricompatta fratelli e sorelle dispersi nel caos della babele.
Lo vediamo nelle piazze di tutto il mondo, anche se il mainstream  non gli da voce. In piazza, per le strade ci riconosciamo, a volte basta uno sguardo per capire che siamo sulla via dei canti (aborigeni australiani) alla ricerca del recupero della lingua madre. Siamo semplici donne e uomini e famiglie che sentono la voce della grande Madre e a lei rispondono.

Il programma di Festivaletteratura : 8 -12 settembre 2021

da: Ufficio stampa Festivletteratura

sul sito di Festivaletteratura (www.festivaletteratura.it) è possibile scaricare gratuitamente il programma della 25 edizione del Festivaletteratura di Mantova che dall’8 al 12 settembre 2021 tornerà ad abitare le strade e le piazze della città, con un’edizione che vede più appuntamenti dal vivo rispetto allo scorso anno, tra inediti dialoghi tra autori, confronti tra saperi umanistici e scientifici, percorsi di “trasformazione” cittadina, una casa d’arte e letteratura per bambini, riprese di format di successo e sperimentazioni avviate nel 2020.

Come da tradizione martedì 3 agosto alle ore 21.00 in Piazza Leon Battista Alberti a Mantova, il Festival presenta il programma con una serata speciale introdotta dal concerto dell’organettista Alessandro D’Alessandro, già ospite a Festivaletteratura 2019, che suonerà alcune libere interpretazioni per organetto ‘preparato’ ed elettronica, di alcuni classici di stili e tradizioni diverse. Grazie ai loope agli effetti elettronici, uno strumento tipico della tradizione popolare dialoga con altre sonorità, ritmi ed armonie, in questa straordinaria cornice cittadina.

Quest’anno per la prima volta il programma, raccogliendo l’esperienza dell’Almanacco realizzato per l’edizione 2020, si trasforma in un catalogo, un volume di 224 pagine che contiene non solo tutti gli appuntamenti dei cinque giorni – incontri con autori, reading, percorsi guidati, spettacoli, concerti con artisti provenienti da tutto il mondo – e tutte le informazioni necessarie e indispensabili per vivere questo straordinario appuntamento culturale, ma anche alcuni testi speciali che lo rendono un vero strumento di approfondimento.

Con una copertina disegnata dall’illustratore veneziano Lucio Schiavon, otto autori sono stati invitati dal festival a raccontare alcuni format o temi portanti del programma 2021, nove contributi inediti– presenti nella versione cartacea del programma – scritti appositamente per il Festival, da Abdullahi Ahmed, Elisabetta Bucciarelli, Chiara Codecà, Marco Malvaldi, Colum McCann, Laura Tripaldi, Alice Urciuolo, Giorgio Vacchiano e il collettivo eXtemporanea, per permettere al pubblico di capire meglio le trame, i rimandi, le assonanze che ne tengono insieme i pezzi più di quanto non sia visibile a occhio nudo.

Quest’anno il programma sarà stampato in un numero più contenuto di copie per sottolineare ulteriormente l’attenzione del festival alle tematiche ecologiche e al proprio impatto ambientale.

Il volume cartaceo, completo dei contributi d’autore, assenti nella versione digitale, sarà in vendita al prezzo simbolico di 3 euro, mentre i soci Filofestival ne riceveranno una copia gratuita (ritiro alla serata del 3 agosto, nei giorni successivi presso la sede di Festivaletteratura – via Baldassarre Castiglione 4, Mantova oppure presso la libreria Coop Nautilus – piazza Ottantesimo Fanteria, 19, Mantova).

Fino al 22 agosto è ancora possibile richiedere l’accredito stampa per partecipare al festival compilando il form a questo link

ATTENZIONE! A causa delle restrizioni COVID, le richieste di accredito verranno valutate singolarmente: le risposte verranno comunicate a partire da lunedì 23 agosto. Verranno prese in considerazione solo le richieste che presentano tutti i campi obbligatori compilati. Le richieste di accredito dei collaboratori devono essere corredate da una lettera del direttore o caporedattore della testata per cui chiedono l’accredito.
Per ragioni di sicurezza, gli accrediti sono nominali e non cedibili.
Per ulteriori necessità scrivere a: stampa@larafacco.com

Parole a capo
Franco Mosca: “L’età dell’amore” e altre poesie

“La poesia – Ma cos’è mai la poesia? Più d’una risposta incerta è stata già data in proposito.
Ma io non lo so, non lo so e mi aggrappo a questo come alla salvezza di un corrimano.”
(
Wisława Szymborska)

l’età dell’amore

ci attraversa in ogni stagione
irragionevole gioca a rimpiattino
ci prende o ci lascia andare

ami poi tradisci e a volte
torni ad amare per sfuggire
all’effimero scorrere della vita

nel sole che va e che viene
sorseggi un calice di vino rosso
o un amaro caffè bollente

in fondo basta l’incontro d’uno sguardo
per sentirsi candidamente complici

il diritto di ascolto

a noi poeti di seconda mano
hanno tolto il diritto d’ascolto

tanti convinti dall’ineluttabile male di vivere
si sono messi a giocare con le parole

incredibili ossimori ed improbabili paragoni
conditi con l’afflato puro del nulla assoluto

ci hanno tolto il diritto di ascolto
non fate finta di non avermi sentito!

lettori impauriti da tanta presunzione
con la cera si sono tappati le orecchie

è sempre più difficile rientrare nel coro
voci ridondanti attraggono i viandanti

alcuni mettono al bando il senso del pudore
pur di stupire e di restare in pista

altri tessono la tela in attesa
di un’improbabile primavera

salvami

ho scritto di te
della tua voce
della serena armonia
al risveglio della primavera

ho scritto di te
dopo le solitudini
delle notti inquiete
cullate e ferite dalle illusioni

ho scritto di te
delle tue labbra da baciare
dei sospiri da trattenere
del caldo tepore tra le tue braccia

a C.

non so se senti la mia mano calda
sul ventre rotondo di tua madre

t’immagino accoccolata
nel mio palmo aperto a conchiglia
piccola ansa nel tuo mare natale

fragile eppure infinitamente forte
le radici pronte a bere alla fonte della vita

chissà se i tuoi sogni son già desideri
se il sorriso degli occhi miei
si specchia già negli occhi tuoi

Franco Mosca, nato a Copparo (Fe) nel 1954, vive a Ferrara, dove ha compiuto gli studi e si occupa di problemi connessi all’immigrazione straniera. Recentemente ha realizzato diverse opere pittoriche con la tecnica dell’acquerello e presentato le stesse in alcune mostre. Oltre ad essere fra gli autori inclusi in diverse antologie poetiche, ha pubblicato nel 2005 una breve raccolta di prose e poesie dal titolo “Luce zodiacale” (Este Edition) e nel 2021 una silloge di poesie dal titolo “Lo specchio dell’anima” (Albatros – Editore).

La rubrica di poesia Parole a capo esce regolarmente ogni giovedì mattina su Ferraraitalia. 
Per leggere i numeri precedenti clicca [Qui]

Germania sotto shock

 

A Monaco di Baviera siamo stati lontani dall’ epicentro dell’alluvione che ha colpito nei giorni scorsi gran parte dell’ ovest della Germania vicino al confine belga.  Ma le immagini e le notizie della “tempesta storicache ha cambiato in una notte un paesaggio talvolta favoloso, trasformandolo in una zona che sembra bombardata, sono davvero sconcertanti.

Con la pandemia Covid – che si sta allargando di nuovo in quasi tutta la Germania – adesso, un fortissimo colpo climatico scuote dalle fondamenta la finora stabile società tedesca. In aggiunta si può registrare la crescita di una forte onda populista che sconvolge l’opinione pubblica.

In Germania, negli ultimi anni, la difesa dei risultati raggiunti con l’ultimo boom economico è diventata quasi una religione che ha avuto effetti in tutta l’Europa. Adesso, con il Covid e il recente disastro climatico, si sente dappertutto il crollo di un mito. Fra poco anche gli anni doro dei governi Merkel (“la buona zia Angela”) saranno consegnati all’ archivio storico della memoria tedesca, ma nessuno sa cosa succederà nel prossimo futuro.

Nella generazione democristiana del dopo Angela non ce nessun uomo forte e carismatico come la Merkel. Anche il peso del colore rosa all’interno del partito democristiano si sente oggi molto di più a causa della passata presenza di una donna forte al vertice del partito. Ma non si vede oggi sotto il cielo democristiano una donna come possibile successore di Angela.

Molto probabilmente il prossimo cancelliere della Germania sarà Armin Laschet, il sempre allegro Presidente della Regione Nord Reno Westfalia; si tratta certo di un esperto dell’apparato politico che tuttavia non gode di una stima diffusa anche dentro il partito stesso. Cattolico nella tradizione di Adenauer, indeciso verso lala destra più dura del partito, durante la pandemia ha cambiato, talvolta da un giorno ad altro, la sua strategia.

Sicuramente i Verdi rappresentano un forte peso nella politica tedesca dei prossimi anni malgrado abbiano perso molto durante la campagna elettorale a causa degli sbagli di comunicazione e presentazione pubblica. Essi sono ben preparati e pragmatici al livello regionale e locale, ma non per guidare un colosso economico come la Germania al livello nazionale. Inoltre, poiché il partito dei Verdi ha dimostrato sempre grande competenza nel campo ecologico, il suo riconoscimento sta crescendo di nuovo dopo lalluvione di luglio.

Nonostante un bravo, serio ma anche noioso candidato (lattuale ministro per le Finanze Olaf Scholz), il partito socialdemocratico SPD non fa parte del gioco di potere nell’era dopo-Angela; il partito di Willy Brandt era un elefante nel passato ma oggi ha al massimo la forza di un cane da caccia.

In crescita sono i liberali con un leader sfacciato e un programma neo-liberalista Doc. Insomma, la Germania ha davanti a sé un futuro molto instabile dopo lera Merkel.

E quella incertezza avrà sicuramente un impatto per tutta lEuropa.

DIARIO IN PUBBLICO
Dalla Farmacia alla Libreria

Nel giorno speciale di una festa importante mi preparo a rivivere i vecchi riti che fanno parte di questo luogo e di un’antica tradizione. Fioccano a cascata gli auguri di nipoti e pronipoti, mentre attendiamo la visita di Galeazzo treenne, a cui ogni giorno dedichiamo una macchinina di Monster Truck. Ormai nel suo linguaggio lo zio viene chiamato l’Edicolante, con grande soddisfazione di Davide, il vero edicolante.

Nel frattempo, da un caro amico ricevo una puntualizzazione sul tema dei giovani e sulle loro esigenze. Così mi scrive Mario Vayra, tra i primi allievi/compagni della mia lunga carriera pedagogico-culturale: «Caro Gianni, vedo che il mare, anche se mare laido, come dici tu, ti giova … Mi sembri in forma, almeno il Gianni letterato sembra in forma … Mi viene voglia di proporti un commento. Dici delle ragazze e dei ragazzi che leggono, flirtano, giocano sulla spiaggia, come noi un tempo; anche se a loro manca qualcosa che per la mia generazione e quella successiva era essenziale: una attenzione al mondo e al sociale/politico che ha fatto parte del nostro esserci … Come fai a saperlo che a loro manca quel qualcosa? Se non ricordo male anch’io, come molti dei miei amici di allora, andavo al Lido per divertirmi, ascoltare musica, giocare a pallone possibilmente tutto il giorno, aspettando il momento magico della notte. Ricordo i giorni al mare un po’ come giorni di sospensione della realtà, in cui però non si cancellavano l’impegno, le domande, le letture fatte e le liste di quelle da fare. Io non credo che i giovani che vedi in spiaggia siano poi così diversi da come eravamo noi, non necessariamente, almeno, e, soprattutto, non tutti. Un abbraccio, Mario».

Non mi sembrava di aver scritto nulla di diverso almeno nello specifico. Anche ai tempi immemoriali della mia giovinezza, in spiaggia si andava con le stesse esigenze di oggi, tra pantaloni a gamba di elefante, foulard e capelli lunghi (gli altri o i fortunati) sul lungomare di Viareggio, ma dietro c’era la consapevolezza di un impegno che traeva forza dall’essere presente sempre e comunque.

Ci chiamavano ‘gli angeli del fango’, leggevamo la Morante anarchica, assistevamo con forza e ‘impegno’ alle terribili vicende dell’assalto allo Stato democratico, anche se tra noi c’era chi si mimetizzava per ottenere una facile ricompensa consumata tra scuole occupate e la pseudo liberazione sessuale.

Oggi tutto questo è non solo improbabile ma ‘incomprensibile’; perciò, quello di cui discutevo nel mio Diario era ed è una constatazione non un giudizio. Non si può certo qui aprire una seria disquisizione sul concetto di politica oggi, o su come viene gestita a ‘Ferara’.

Leggiamo sulle pagine dei quotidiani locali come si configura la gestione della cultura nella mia non sempre amata città; sentiamo di progetti a cui partecipano le ultime associazioni culturali ancora attive; ci stupiamo, ma non troppo, della proposta della mostra e convegno su Italo Balbo, mentre dai sotterranei della casa di mio fratello escono le foto dimenticate del matrimonio dello zio federale, con la presenza di tutti i Balbo: da Italo a Lino. Ma di questo ne ho parlato e scritto molte volte.

Ora qui agli Estensi come disinvoltamente i frequentatori e abitanti chiamano il Lido/Laido il silenzio è diventato il comun denominatore del luogo. Un silenzio cattivo, rancoroso che nemmeno la normale vita di spiaggia riesce ad infrangere. Solo l’insistente abbaiamento dei pelosi seccati rompe questa anormale mancanza di voci.

Fino a pochi anni fa, diciamo dal 2019 in poi, il chiacchiericcio e le grida rompevano il sonnolento svolgersi dei riti di spiaggia. Ci rifugiamo quindi per rintracciare il tempo perduto da Simon’s lo storico locale, che ha visto consumarsi generazioni di prime colazioni tra il continuo sfornamento di impagabili brioches.

Ora Simone viene curato affettuosamente dalle figlie, nipoti e parenti, Così si è creata una straordinaria équipe di ragazze, che con determinazione e coraggio si sono assunte il non facile compito di depositare nella storia un racconto profumato. Così sotto la guida di Fede (Federica), Patrizia, Daniela, Alessandra – per ricordare la squadra che ci accoglie al mattino – siamo accolti, coccolati, sostenuti nel ricordo, mentre i caffè e le brioches scivolano nelle due bocche voraci.

E poi lo spiegamento dei giornali appena comprati da Bruna e Davide: lei vero pilastro di una difficile e preziosa necessità di allargare il lavoro a utilissime e fondamentali attività complementari. Gentile, competente, consapevole della delicatezza del suo lavoro, mentre lui apparentemente casinista, è fondamentalmente e oggettivamente capace di svolgere il suo lavoro con dignità e valore.

Naturalmente il luogo d’incontro dell’intera comunità è la farmacia, dove si pensa a ragione, ma ci si illude anche, di trovare il rimedio tutti i nostri mali: fisici e psichici. Si arriva dunque fiduciosi in farmacia e immediatamente i soliti ben informati con piglio organizzativo dividono la folla smarrita tra i compratori al banco e coloro che si devono prenotare per il vaccino. Invano i gentili farmacisti escono per mettere ordine. I bene informati deviano le smarrite signore o i brontolanti anziani nella fila sbagliata, mentre i pelosi che accompagnano l’umano, tenuti fuori, uggiolano il loro smarrimento.

Non resisto alla tentazione e anch’io sottovoce comincio a dare consigli, mentre accarezzo la coda di un cagnolino disperato perché tenuto fuori. Dietro me una bella signora, accompagnata dalla figlia, mi racconta di questo ormai consueto bailamme che si prolunga non solo nei mesi estivi, nonostante la buona volontà dei farmacisti e tra una mezz’ora italiana e l’altra parliamo del destino del viale principale e dell’adiacente – Carducci e Le querce – del destino degli alberi, del destino del Lido.

Ancora tristezza e ricordi. Infine, golosamente munito della medicina richiesta, mi dirigo a passo svelto alla libreria, dove mi accolgono con la consueta cortesia. Chiedo notizie del libro di Calimani [Qui] e se ci fosseribo state copie dei volumi di Natasha Solomons [Qui], la grande scrittrice con il cui volume, I Goldbaum voglio concludere la mia ricerca sulle scrittrici ebree. Sono rimasto malissimo del mancato premio ad Edith Bruck [Qui] allo Strega, mentre mi rivolta lo stomaco il paragone tra no-vax e la stella gialla…..Pazienza!

Il vento scuote gli alberi, il mare non l’ho ancora visto, non voglio omologarmi ai danzatori che dai tre ai novanta scuotono chiappe e colli e tuttavia con una certa soddisfazione constato che almeno il Lido è produttore di ricordi.

 

Per leggere gli altri interventi di Gianni Venturi nella sua rubrica Diario in pubblico clicca  [Qui]

TEATRO FERRARA OFF
Un’ora nei panni di soldato: come l’attrice Roberta Pazi è diventata suo nonno

“La Grande Guerra raccontata attraverso gli occhi di un giovane fante, trasposizione teatrale del suo diario di guerra”. Sulla traccia di queste indicazioni di scena ho deciso, mercoledì 4 agosto 2021, di dedicare la serata ad assistere a uno spettacolo teatrale. Un monologo, di fatto, con protagonista Roberta Pazi nei panni di questo soldato e anche coautrice della sceneggiatura. Mi pareva una cosa interessante, ancorché non la più lieta né la più divertente. Facciamolo, mi sono detta. Il film “1917” era riuscito a farmi cogliere il brivido di chi si trova a un passo dal nemico. E tanto è stato rivelatorio anche “Niente di nuovo sul fronte occidentale” di Erich Maria Remarque, romanzo che ti fa entrare nella quotidianità, quasi assurda ma così concreta e tangibile, di un soldato tedesco durante la prima guerra mondiale. Certo, la serata era nuvolosa e la rassegna estiva al teatro Ferrara Off viene fatta all’aperto, sul retro del complesso di associazioni di viale Alfonso I d’Este a Ferrara. Tra minaccia di pioggia e rischio zanzare, le premesse non erano le più esaltanti. Ma il teatro sa riservare sorprese, mi sono detta, e perciò può valere la pena superare le titubanze.

Una volta lì, sul piazzale del cortile dietro a Ferrara Off, le luci si sono affievolite ed è entrata in scena lei, Roberta Pazi, vestita da soldato. “Ok, si comincia”: questo, ricordo, è stato l’ultimo mio, distaccato pensiero.

Poi sono stata ragazzo catapultato in una guerra e ho fatto miei per oltre un’ora i suoi pensieri e le sue sensazioni di paura e speranza, con la pioggia (vera) in testa e poi la sete in gola e il rombo dei cannoni che mi pareva facesse tremare la sedia su cui ero seduta. Sono stata soldato insieme a quel giovane di tre generazioni fa e alla sua futura nipotina, che si chiama Roberta Pazi e che – anche se lui allora mica lo sapeva – è un’attrice e ha usato la sua arte e il suo cuore per arrivare, oltre un secolo dopo, a rimettere in atto i suoi sentimenti e le sue azioni: quelli di un fante arruolato nell’esercito della Grande Guerra. La trama l’ha annotata lui, il giovane soldato Vincenzo Vaccari, che ha scritto tutto dentro a un taccuino nero portato con sé nelle varie sedi di marcia, battaglia e attività militari.

È la stessa Roberta Pazi – alla fine – a rivelare il segreto di questo risultato teatrale, così toccante e coinvolgente. Dopo l’ultima battuta scoppiano gli applausi e lei, davanti al pubblico, ringrazia la regista, il costumista, il produttore dei suoni e poi “grazie Vincenzo Vaccari per essere tornato a casa vivo. E per aver fatto arrivare questo diario alla figlia, Teresa Vaccari… Che è mia madre”.

Così è successo un po’ come se, per poco più di un’ora, una persona vivesse la quotidianità di un altro o – come accadeva nel famoso film di Robert Zemeckis “Ritorno al futuro” – si trovasse fianco a fianco a un nonno che non aveva mai incontrato, in un momento della sua giovinezza durante il quale lei, ancora, non esisteva nemmeno. Che sensazione può fare sentire nel petto il palpito del cuore di un nostro ormai lontano parente? Immedesimarsi fino a sentire la sua sete e la sua fame che attanagliano la carne e lo spirito, per giorni, in una radura di rocce? Percepire l’odore della sua paura sulla pelle, sotto ai bombardamenti, sbirciare lì, accanto a lui, un mondo di ordini e doveri militari dove l’alternativa è andare allo sbaraglio incontro al nemico o sentirsi puntare contro la pistola dai propri superiori per l’eventualità di un ammutinamento? Che effetto fa sorridere per una battuta di un nonno ventenne che, anche nel dramma, riesce a vedere il lato buffo di una situazione? È quanto accaduto, o meglio che ha fatto accadere, l’attrice Roberta Pazi, che al Teatro Ferrara Off ha debuttato con questo spettacolo nuovo e inedito, intitolato “Due ieri fa”.

È la stessa Roberta Pazi a rivelare il segreto di questo risultato teatrale così coinvolgente. Quel quadernetto di parole annotate in una caserma di reclutamento e poi sul Carso, dentro a un bosco tempestoso e in prossimità delle rive dell’Isonzo, contiene sì la formula che riporta alla luce questo cammino a ritroso nel tempo e nell’anima. Ma per realizzare il prodigio e farsi giovane militare della guerra del ’15-’18, l’attrice in realtà ha rivelato che ha fatto molto di più. Forte della sua professionalità attoriale, che comporta empatia e immedesimazione, si è fatta affiancare dal maresciallo Gaetano La Marca (presente in sala) e ha intrapreso una sorta di lungo allenamento psico-fisico per entrare in quello spirito, ma soprattutto in quelle sensazioni materiali. Ecco allora l’affiancamento al militare che le ha insegnato a marciare, a gettarsi a terra, ad arrampicarsi e a strisciare. Ore e ore di training, sudore e fatica.

Roberta Pazi in “Due ieri fa” (foto di Daniele Mantovani)

Roberta Pazi, insomma, è entrata nei panni, anzi nella divisa color verde militare, di un giovane soldato in partenza per il fronte durante la Grande Guerra. Ha marciato dentro le sue scarpe sotto il sole e sotto la pioggia, con in spalla lo zaino pesante di tutto ciò che si doveva portare quel ragazzo, nato alla fine del 1800. In quel bagaglio c’è l’attrezzatura di ogni soldato: tenda e tappetino arrotolati, borraccia, maschera anti-gas e, per lui, anche la tromba d’ordinanza del suo reparto di fanteria. L’attrice, dentro a quei panni, ci ha vissuto e da quelli è riuscita a infilarsi fin dentro la testa di chi li indossava. Un’esperienza partita tutta dalle pagine del piccolo diario che quel ventenne di allora portava nel taschino e dentro al quale – con sistematicità, passione e anche ironia – annotava aneddoti, situazioni, episodi, pensieri paure e speranze in un periodo a cavallo tra la fine del 1916 e il 1917.
“Le avventure di Vaccari Vincenzo non finiscono qui”, ha annunciato alla fine l’attrice, perché le pagine del quaderno vanno avanti ancora, fino al 15 dicembre del 1919. Non resta quindi che attendere che quella minuziosa calligrafia consenta di replicare il prodigio e che un altro pezzo di passato riprenda vita. Grazie!

“Due ieri fa”, dal diario di Vincenzo Vaccari con Roberta Pazi in scena, drammaturgia di Alice Conti e Roberta Pazi, regia di Alice Conti, sound designer Dylan Alexander Lorimer, costumi di Andrea Mangherini, voce off di Marco Trippa, produzione DestinationFilm, illustrazione di Francesco Corli.
Info sulla rassegna “The Royal Estate sul Baluardo” sul sito web www.ferraraoff.it.

Monopoli di Stato, come fumarsi le persone

La Logista è una multinazionale spagnola della logistica, particolarmente diramata nell’Europa meridionale. Una specie di Amazon dei prodotti contenenti tabacco lavorato. Logista Italia ha avuto in concessione dall’agenzia dei Monopoli di Stato la distribuzione ai punti vendita finali (le tabaccherie) dei prodotti a base di tabacco. Uno pensa: lavoro per una ditta che funge da fornitore di un servizio per lo Stato di un bene in regime di monopolio, ergo sono in una botte di ferro. Bene. Andatelo a chiedere a un addetto/a in servizio al magazzino di Logista Bologna, se si sente in una botte di ferro o in una botte di qualcos’altro. I lavoratori del magazzino sito a Bologna Interporto hanno ricevuto a fine luglio un messaggio whatsapp del seguente tenore: “da lunedì prossimo (il 2 agosto, NdA) lei è dispensato dal prestare servizio per la nostra azienda”.

https://www.fanpage.it/attualita/bologna-speranze-per-i-lavoratori-logista-stop-ai-licenziamenti-dopo-i-messaggi-whatsapp/

Molti autorevoli esponenti delle istituzioni mostrano la loro indignazione per una pagliuzza, dimenticando la trave. Il problema non è essere licenziati con un messaggino: quella è una pagliuzza, odiosa, vigliacca, impugnabile finchè si vuole per ragioni formali, ma è una pagliuzza. La trave è essere licenziati da un’azienda multinazionale che va bene, che non accusa nessuna crisi, che tra l’altro subappalta liberamente parti di produzione ad aziende terze e che, nonostante tutto questo, quando decide di licenziare lo fa. Punto. Nella rossa Bologna. E il resto del mondo (Governo, Regione, parti sociali) è costretto ad inseguire, a cercare soluzioni negoziali basate su accordi deboli, come il “Patto per il lavoro”. Perchè deboli? Perchè si basano su gentlemen agreements, protocolli di intesa, impegni presi sulla parola che si sostanziano in procedure di consultazione, concertazione, con il coinvolgimento teorico di decine di attori istituzionali e privati, al termine delle quali l’azienda può consolidare le proprie decisioni. Questo è il significato che ha assunto la parola “condivisione” nel linguaggio burocratico delle relazioni industriali: ti metto al corrente che faccio il cazzo che mi pare.

Mi dispiace ripeterlo, perchè l’ho già scritto: questo continuo inseguire decisioni già assunte in pieno arbitrio dalle aziende, per cercare almeno di mitigarne gli effetti di massacro sociale, dipende dal quadro legislativo vigente. L’Agenzia del Demanio e quella delle Accise, Dogane e Monopoli, è stata istituita dal governo D’Alema il 30 luglio 1999 con decreto legislativo n. 300, in attuazione dell’articolo 11 della legge numero 57 del 14 marzo 1997, approvata sotto il governo Prodi. Io me le sono andate a spulciare, queste leggi. In mezzo a disposizioni scritte in un italiano triste e bizantino, non ho trovato nessuna norma che stabilisse delle regole stringenti per le aziende private concessionarie di servizi di pubblico interesse, anzi di servizi afferenti a beni in regime di monopolio statale. Norme che, ad esempio, stabilissero che non si possono subappaltare pezzi di produzione per risparmiare sui costi del personale. Norme che stabilissero che un’azienda concessionaria di un servizio datole in gestione da un’agenzia statale non può decidere di chiudere lo stabilimento come e quando le pare, pena sanzioni economiche pesantissime, molto più pesanti dei soldi che l’azienda ritiene di risparmiare spostando la produzione in un altro posto, dove le maestranze costano meno, dove i diritti sono sepolti sotto una coltre di ricatti quotidiani. Sanzioni che funzionassero da deterrente nei confronti di decisioni assunte sulla base (invece) dell’ unica variabile di cui un’azienda concessionaria deve realmente tenere conto, ovvero: dove mi costa meno il personale? Poi mi tocca leggere, in uno dei rapporti ufficiali della Logista: “…, la vendita dei tabacchi è effettuata in virtù di una concessione novennale rilasciata dall’Agenzia delle Dogane e dei Monopoli all’esito di un’attenta verifica in ordine alla sussistenza, in capo all’interessato, di una serie di requisiti volti a comprovarne l’onorabilità, l’affidabilità e la preparazione professionale”.  Onorabilità? Affidabilità? Nei confronti di chi?

Queste agenzie pubbliche firmano atti di concessione che incrementano il fatturato delle multinazionali in cambio di nulla. Nessuna garanzia occupazionale, nessun vincolo a tutela dell’interesse nazionale – evidentemente perchè l’interesse a conservare il lavoro di lavoratori e lavoratrici locali non è considerato “interesse nazionale”. Mi fa male constatare che “L’Italia è una Repubblica democratica, fondata sul lavoro” , art.1 della Costituzione, è una frase talmente svuotata di senso, dalla legislazione ordinaria dagli anni novanta a seguire, da essere leggibile non come un orizzonte cui tendere nell’imperfezione del presente, ma come una presa per il culo. Ma la beffa non è opera dei padri costituenti: è opera di quelle maggioranze parlamentari (per dirla alla Gaber: “che cos’è la destra, cos’è la sinistra?”) che hanno allegramente licenziato, in nome della “modernizzazione” e di privatizzazioni senza vincoli, leggi che hanno consegnato il destino di migliaia di persone nelle mani di un centinaio di amministratori delegati che giocano a Monopoli con la loro vita, trattandoli come se fossero un pacco di sigarette, senza nemmeno il “maneggiare con cura” che vediamo scritto sugli involucri.

Poi come si fa a lamentarsi del fatto che, nella attuale composizione del Parlamento, la sproporzione di forze tra “destra” e “sinistra” rende impossibile modificare certi assetti per via legislativa? Si confonde la causa con l’effetto. Infatti negli ultimi 30 anni le leggi più penalizzanti per i lavoratori (leggi che hanno reso ridicolo il divieto di appalto di manodopera, che era un pilastro di quando studiavo diritto del lavoro; leggi che hanno permesso di costruire decine di forme contrattuali al ribasso del rapporto, che hanno reso il licenziamento un puro costo d’azienda da calcolare ex ante) sono state approvate in buona parte durante governi di “centrosinistra”; per cui l’attuale assenza di rappresentanza parlamentare del mondo del lavoro non è un accidente del destino, ma la conseguenza di uno smottamento ideologico post 1989 che è diventato un’ autentica frana. Se la sinistra parlamentare ha continuato a fare alcuni progressi nel campo delle libertà civili, ha viceversa abdicato totalmente alle sue fondamenta ideali nel campo dei diritti sociali.

 

 

Nausea

E finalmente: abbiamo archiviato la pratica Olimpiadi.
Personalmente non ho proprio niente contro questa manifestazione sportiva ma: il battage patriottico d’accatto scatenatosi in questi giorni – per di più a Europei di calcio appena finiti come sappiamo – iniziava a diventare sempre più insopportabile.
Abbiamo già capito tutti che – dopo averci fatto vincere tutte ‘ste medaglie – Mario Draghi non andrà in ferie.
E al pensiero io mi sento davvero sicuro e protetto.
Immagino che anche l’Alpino Figliuolo non andrà in ferie.
Probabilmente il buon Figliuolo è già al lavoro con delle maxi-cisterne di acqua in vista del caldo record in arrivo in tutto il Paese.
Ma chi se ne frega del caldo e di tutti gli altri casini: abbiamo stabilito il record di medaglie nella storia dell’Italia alle Olimpiadi.
C’è anche questa – davvero poco puerile – perenne aria di sfottò anti-inglese ben rinvigorita dopo quest’altra medaglia vinta qualche giorno fa e insomma, niente: insieme all’orgoglio nazionale è tornato pure questo grande classico di un altro decennio marchiato ’20, è proprio vero che la storia si ripete.
Che dire quindi?
W l’Italia e buona settimana a tutti!
Cordiali saluti e via col pezzo della settimana.

Nausea (X, 1980)

PER CERTI VERSI
Il Principe dei sogni

IL PRINCIPE DEI SOGNI

Sono il principe
Dei sogni
Ricordo
Le più estreme terre
Che ho lambito
Niente di immaginabile
Di rifinito
Che stupore
Che folle libertà
Non nuoce a nessuno
Nemmeno a chi ce l’ha!

Ogni domenica Ferraraitalia ospita ‘Per certi versi’, angolo di poesia che presenta le liriche del professor Roberto Dall’Olio.
Per leggere tutte le altre poesie dell’autore, clicca
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PRESTO DI MATTINA
La trasfigurazione, una pasqua nascosta

 

«Prese con se Pietro, Giovanni e Giacomo, salì sul monte e pregando il suo volto trascolorò, divenne altro», (Lc 9,29). Ieri abbiamo ricordato la Trasfigurazione, che è detta anche ‘Pasqua dell’estate’, quasi che tornasse a germogliare nella ferialità dimessa e umile dei nostri giorni. In realtà non si è mai allontanata da noi.

L’ho sempre sentita come la ‘piccola risurrezione’, ‘la pasqua nascosta’, come il seme raccolto dopo la mietitura che torna ad essere gettato nella terra, come il bene nascosto che la gente semina silenziosamente nelle opere e nei giorni.

Trasparenza di un volto, diafania cangiante di colori, come lampo che guizza e subito si nasconde: è così la trasfigurazione del Signore. «Dopo la luce candida e sfolgorante delle vesti una nube li avvolse, all’entrare in quella nube, ebbero paura». Discesi dal Monte Tabor per i discepoli torna il buio e la Pasqua si cela di nuovo nell’umanità terrosa di Gesù; il triplice annuncio della sua passione lascia i discepoli sbigottiti e ciechi. Ma non ci si può fermare o tornare indietro perché la Pasqua è corsa innanzi; non si è perduta, ma la si troverà solo salendo con Gesù verso Gerusalemme. Sarà là l’appuntamento.

Così ho compreso che la sua ricerca deve continuare durante tutto l’anno, andando incontro alla vita della gente, mischiandosi tra la folla compatta e cieca. Ma bisognerà guardare oltre l’apparenza di questa cecità, entravi dentro: «Cristo ogni tanto torna,/ se ne va, chi l’ascolta…/ Il cuore della città/ è morto, la folla passa/ e schiaccia – è buia massa compatta, è cecità…»,  (Giorgio Caproni, il terzo libro, Torino 2016, 77).

Occorre gridarlo sopra i tetti: Pasqua ha tante facce, è nascosta in ogni volto, in ogni vita, essa è come «l’ombra crociata del gheppio [che] pare ignota/ ai giovinetti arbusti quando rade fugace./ E la nube che vede? Ha tante facce/ la pólla schiusa», (E. Montale, Estate, in Tutte le poesie, 175).

Pólla schiusa” è l’insonne Spirito del risorto. Fessura e soffio nel suolo terroso e compatto; pollone zampillante che germoglia sull’albero della vita, dentro le viscere dell’uomo fatto di terra. Pólla deriva da pulláre, scaturire, germogliare: il sorgere dello spirito; il verbo pullulare viene da pullús, piccolo nato, un virgulto, ancora gemmato. Germogli d’acqua dischiusi nell’umanità dallo Spirito sono pure le pagine del vangelo, che con grande meraviglia scorgi zampillare nel sottosuolo di ogni persona, nelle sue buone pratiche samaritane.

Questa universalità misteriosa della Pasqua sparpagliata dallo spirito nelle profondità dell’umano vivere è pure sottolineata fortemente dal Concilio. Nella Gaudium et Spes 22 è detto che il venire associati ‒ il testo latino è “consocietur” ossia il divenire compagni, amici che dividono lo stesso pane – al mistero pasquale del Crocifisso risorto non è prerogativa esclusiva dei cristiani, ma combattendo contro il male, attraversando tribolazioni e subendo la morte, la Pasqua è per tutti; anzi è di tutti.

A tutti è possibile attingere ad essa come a segreta sorgente che zampilla in loro: «ciò vale non solamente per i cristiani, ma anche per tutti gli uomini di buona volontà, nel cui cuore lavora invisibilmente la grazia… perciò dobbiamo ritenere che lo Spirito Santo dia a tutti la possibilità di venire associati, nel modo che Dio conosce, al mistero pasquale».

Nel testo Il cuore del mondo il teologo di Basilea Hans Urs von Balthasar [Qui] fa parlare il Risorto con queste parole: «Non sono uno dei risorti; sono la risurrezione. Chi vive in me, chi è in me compreso, è preso da me nel suo risorgere. Io sono la metamorfosi/trasfigurazione in greco. Come cambiano pane e vino cosi cambia il mondo in me. Minuscolo è il grano di senape, ma la sua forza intima non riposa fino a quando non getterà la sua ombra sopra tutti i vegetali del mondo. Cosi la mia risurrezione non riposerà finché non sia spezzata la tomba dell’ultima anima, e le mie forze non siano pervenute sull’ultimo ramo della creazione», (ivi, 58).

Le vie dello spirito che si intrecciano con i destini umani sono appello alla libertà, a prendere posizione di fronte a ciò che accade, persino al cospetto di destini e avvenimenti che fanno contrarre ogni espressione di libertà, imprigionando la coscienza.

Scrive Massimo Recalcati [Qui] che la libertà individuale non sta nella possibilità di fare quello che si vuole della propria esistenza a prescindere dagli altri «non è mai libertà di generarsi da sé, di decidere senza vincoli o condizionamenti del proprio destino, ma è sempre e solo la possibilità di fare qualcosa della scelta degli Altri, di fare qualcosa di quello che l’Altro ha fatto di noi», (Il grido di Giobbe, Torino 2021, 77).

Di fronte all’imporsi dell’altro, con la sua provocazione, con il suo impellente bisogno o con la sua chiamata; di fronte pure all’assurdità inesplicabile del male al quale la vita viene consegnata e imprigionata la coscienza, la libertà sta nel non rinunciare al proprio desiderio di libertà, di infinità promessa, continuando a restare in gioco, lottando, chiamando in giudizio coloro che si nascondono dietro il silenzio, si coprono il volto fosse anche Dio stesso come in Giobbe, senza stancarsi di pretendere che si venga allo scoperto, che accada una parola e mantenuta la promessa: Eccomi! ‘Saper restare accanto’ è la forma della libertà, quella del Samaritano che risponde all’inatteso dicendo: eccomi, col farsi carico, con la pratica del prendersi cura, del far argine al male.

Dico spesso in chiesa ‒ ma anche fuori incontrando la gente ‒ che il vangelo che libera e che cura è nascosto proprio nella loro vita. Affiora e viene visto quando questa diventa dedizione e si mette accanto in silenzio a chi è mortificato dal male, in famiglia e fuori o quando si fa germogliare con il bene la gioia negli altri, si è pane di crescenza.

Un vangelo è nascosto nelle persone, fosse anche solo per quella mezza paginetta di vangelo che ha messo radici nella memoria di tutti, come brace sotto la cenere. Sono le parole del Padre nostro imparate fin da piccoli in famiglia o in parrocchia e mai più dimenticate. Miniatura di vangelo è il Pater noster, il suo cuore resta ardente; basta un soffio di parole la domenica perché si levi il vento forte di voci del canto, fino a riempiere le vele dell’assemblea liturgica, così che di nuovo prenda il largo fuori dalla chiesa tra la gente.

In questi ultimi anni due haiku, brevissimi componimenti poetici della letteratura giapponese, mi hanno reso al vivo lo stile pastorale di chi vuol mettersi a cercare e ascoltare il vangelo nascosto tra la gente: “La campana del tempio tace il suono esce dai fiori“; “Spuntano i germogli al tronco di un grande albero. Poggio l’orecchio”.

Una parabola di Pasqua, è un breve testo dello scrittore dissidente russo Andrej Sinjavskij [Qui], che riporta anche alcune poesie pasquali del Samizdat: raccolta di testi e opere letterarie colpiti dalla censura, autoedizioni che circolavano di nascosto, fuori dell’editoria ufficiale a partire dagli anni ’60.

Sinjavskij fu “prigioniero di coscienza” nei gulag sovietici. “Prigionieri di coscienza” questa la definizione coniata da Amnesty International, sin dalla sua fondazione nel 1961, per le persone private della loro libertà, a causa delle loro opinioni o discriminati per motivi di etnia, sesso, genere o altra identità che non avessero usato violenza e non ne avessero invocato l’uso.

Leggendo questo testo è stato come leggere il vangelo sepolto della trasfigurazione, come scorgere nuovamente nelle vicende di questi “prigionieri di coscienza”, la Pasqua nascosta, la piccola risurrezione in cammino verso Gerusalemme. “Vedi”, sembrava mi dicessero, noi siamo internati, ma la parola di Dio non è incatenata, ma celata e libera e liberatrice in noi. È il vangelo di Gesù «placida luce, luce che mai non tramonta».

«Non è questione di legare la vita al Vangelo – scrive Sinjavskij –  La vita è già, di per sé, sempre, coniugata al Vangelo. Vivi, tiri a campare e all’improvviso senti sottopelle la nostalgia del testo evangelico, come di un tuo tessuto, di cellule costitutive di cui avverti la mancanza, come dell’ossigeno quando si soffoca

Gli eventi della storia sacra, compreso Caino e Abele, la cacciata dal paradiso, il diluvio, corrispondono in modo stupefacente alla nostra microscopica vita di uomini. Quasi ogni giorno viviamo o la cacciata, qualche volta le nozze di Cana, e perfino il miracolo del rifocillamento della folla con pochi pani. E la presentazione al tempio, e il bacio di Giuda. In questo senso il Vangelo – nonostante tutta la incommensurabilità del suo significato, la sua trascendenza e impeccabilità – si riflette in uno strano modo organico (più organicamente di altri libri e leggende) sulla nostra esistenza comune e personale. Ma anche noi, vivendo la nostra semplice vita, è come se tornassimo a rivivere, in tono minore e in forme meno attraenti, la natività di Cristo e i dileggi e le percosse dei soldati. Anche la nostra realtà racchiude misteriosamente, in forma rettratta, i semi evangelici».

Sinjavskij narra poi dei campi di concentramento della Moldavia. La Sacra Scrittura era proibita, ma essa circolava in copie clandestine scritte a mano e, se venivano requisiti quei foglietti, frammenti di vangelo, subito dopo tornavano a riapparire continuando a diffondersi, a germogliare come ‘pólle schiuse’ dallo Spirito:

«Non molto tempo dopo il mio arrivo nel lager, verso sera, un’ora prima della ritirata, mi si avvicinò un tale e mi chiese con cautela se non volessi ascoltare l’Apocalisse. Mi condusse nel locale della caldaia, dove era più facile nascondersi a delatori e carcerieri. Lì, nella penombra di quel covile simile a una caverna si erano già raccolte, e si rimpiattavano negli angoli sedendo sui talloni, alcune persone e io pensai che ora qualcuno avrebbe estratto da sotto il giubbotto il libro o il fascio di fogli, ma mi sbagliavo. Illuminato dai bagliori rossastri della caldaia un uomo si alzò e cominciò a recitare a memoria, parola per parola, l’Apocalisse. Quindi il fuochista, l’anziano contadino che qui era il padrone di casa, disse: e adesso continua tu, Fjodor! E Fjodor si alzò e recitò a memoria il capitolo successivo. …A questo punto mi resi conto che quei detenuti, tutti semplici contadini, che avevano da scontare pene di dieci, quindici, vent’anni di lager si erano suddivisi tutti i principali testi della Sacra Scrittura, li avevano imparati a memoria e, incontrandosi segretamente di tanto in tanto, li ripetevano per non dimenticarli».

Come nel romanzo di Ray Bradbury, Fahrenheit 451 [Qui], in cui i libri bruciati erano stati imparati a memoria e, di nascosto, in caverne fuori città venivano raccontati e i narratori iniziavano a parlare dicevano: “Io sono Dante”, “io Shakespeare”, “ed io sono Goethe”, così i contadini del locale della caldaia ‒ ricorda ancora Sinjavskij ‒ «avrebbero potuto dire di se stessi la medesima cosa. Uno: “Io sono l’Apocalisse, capitolo 22”. L’altro: “E io il Vangelo secondo Matteo”. E così via, in una staffetta, scandita da ciò che ognuno serbava nella memoria. E questo era cultura, nella sua successione, nella sua essenza, nella sua sopravvivenza clandestina. Sostenuta da una catena della memoria. Di bocca in bocca, di mano in mano. Da una generazione all’altra. Da un lager all’altro. Ma nondimeno cultura, e in una delle sue manifestazioni più pure ed elevate», (ivi, 15-19).

Da una poesia del Samizdat [Qui]: Attese di trasfigurazione

Non abbiamo mai avuto una luna così alta.
Le ombre si sono raccolte
ai piedi degli ulivi.
Per tutta la notte
i cani hanno ululato nel vento,
seminando d’inquietudine le vie strette.
Quali brividi percorrono
le viscere oscure della terra
se perfino i galli trattengono il canto
ora che il giorno è fermo all’orizzonte?
D’improvviso fu spezzato il tempo.
Si sciolse la luce dell’astro notturno,
segno del tuo corpo addormentato,
all’erompere violento del tuo sole.
Hai spalancato gli occhi
vestendo di trionfo l’universo
e fino all’alto regno di tuo Padre
è rimbalzato l’annuncio di vittoria.
Ora tu stai vibrante di splendori
al centro degli spazi liberati
nell’armonia della Risurrezione.

Ma sul pianeta rimane
il buio spalancato della tomba
e il mistero della tua assenza.
Avessero avuto voce
le pareti del sepolcro,
la pietra che sostenne per tre notti
il corpo irrigidito!
Quando dagli altri regni rifluì
la vita nelle tue membra, gagliarda
a vincere le porte dell’eterno,
dicono che un fremito inaudito
contorse in grido la roccia.
Ma si rapprese la chiara mattina
intorno alle donne con gl’intimi alabastri;
solo la pietra violata rivelava
il gesto gentile dei lini accolti.
La voce del nimbale messaggero
parlava di ritorni,
ridava le ali all’attesa e alla speranza.
Per tutto il giorno
abbiamo trepidato ai rari segni.
Il vuoto sepolcro ci offuscava
le concitate annunciatrici,
la fiamma certa di Maria di Magdala
intesa al suono della dolce voce,
la custodita tenerezza di tua madre
e il consapevole sorriso.
Ed ora che la sera si raccoglie
di pudore, attendiamo
il ritorno dei discepoli da Emmaus.
Ti hanno riconosciuto
allo spezzar del pane.
Anche da noi la cena è preparata.
Odora sulla mensa
un cibo fraterno da spartire
fra timori e speranze.
E fiduciosi noi stiamo in attesa.
(ivi, 23-25)

Per leggere gli altri articoli di Presto di mattina, la rubrica di Andrea Zerbini, clicc[Qui]

Parole a capo
Vernalda Di Tanna: “Croce e delizia” e altre poesie

“Sono certo, certissimo, che una persona che legge poesia si fa sconfiggere meno facilmente di una che non la legge.”
(Iosif Brodskij)

È in fuga da ogni tregua, ottobre

È in fuga da ogni tregua, ottobre,
conosce le coincidenze e rincorre
qualcosa che tutti possono cantare.
Siete due animali in egual specie:
tu – con le suole di chi ha fretta.
E lui – con le mani di chi afferra
il senso ristretto che ha bucato
le tasche avare dell’amore.

*
Ci sarà una lama inerme
per sbucciarti dall’attesa ancora verde
che ti completa i nervi a fior di pelle.

*
Tu immedesimata a capofitto
nella noia di una vita esausta.
La pazienza rannicchiata
negli insulti singolari del destino.

*
Nutrimento disumano

La distanza allatta ogni domanda,
spettina la pelle. E la tua lingua,
stiracchiata, sussurra una voce
disumana. Resta a galla una rete
spoglia d’acqua. Se ami il giorno,
rischi di fraintendere le stelle: il callo
della malinconia è la doppia
vita che sa fingere la nostalgia.

*
Croce e delizia

Disumano inganno un canto
semina nostalgia. È croce
l’insegna di ansiose
delizie che recano affisse
sulle vetrate le chiese
di campagna. Insistono
rossori tra i nodi:
spine, fiori tra i rovi.

*
A terra ci dispongono le stelle
disamorate della luce. Freme
e ci annotta il cielo che ci fraintende.

Vernalda Di Tanna (Vasto, 1997), laureata in Lettere Moderne presso l’Università degli Studi “Gabriele d’Annunzio” di Chieti, è studentessa di Filologia Moderna. Nel 2017 riceve il Premio poeta emergente alla XXV edizione del “Concorso nazionale Scriveredonna”, organizzato dall’associazione Tracce di Pescara. È presente nell’antologia Alessandro Quasimodo legge I Poeti Italiani Contemporanei. Vol. 1 (Aletti Editore, 2018). Dal 2019, è redattrice del lit-blog Laboratori Poesia. Suoi inediti sono apparsi su riviste e blog, tra cui Interno Poesia, clanDestino, Poetarum Silva, Atelier, Inverso, laRepubblica – Milano (per la Bottega di poesia, a cura di Maurizio Cucchi), «GRADIVA» (n°56, Fall 2019, Leo S. Olschki Editore) e il primo blog di poesia della Rai (Poesia, di Luigia Sorrentino). Nel 2021 ha partecipato al Festival online di Bologna in Lettere.

La rubrica di poesia Parole a capo esce regolarmente ogni giovedì mattina su Ferraraitalia. 
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Voglia di normalità

Un martedì rovente a Milano, di quelli che ti fanno pensare di respirare acqua anziché ossigeno.
Piazza Leonardo da Vinci affollata, brulicante di studenti, familiari, amici e parenti pronti a festeggiare i neo laureati del Polimi – acronimo di Politecnico di Milano. Dallo storico edificio del 1863, nel quale si sono formati Renzo Piano, Carlo Emilio Gadda, Gio Ponti e intere generazioni di ingegneri, architetti e designer, emergono gruppetti di studenti  giovani, belli, vestiti a festa come circostanza impone, sorridenti e pieni di quelle fantastiche energie che si captano, si sentono.
Si posizionano nel parco di fronte all’ateneo, una folla coloratissima ed elegante intenta a seguire i riti che conosciamo: il goliardico e irrinunciabile coretto “dottore, dottore…” a cui si uniscono senza remore perfino le signore più distinte, qualche botto e fumogeno che appesantisce il respiro già messo a dura prova dall’afa, i mazzi di fiori, i calici di plastica (non c’è altra possibilità ma non importa) in cui scorrono bollicine a cascata, dolcetti, snack, le foto con la corona d’alloro sul capo e la tesi stretta tra le mani con il titolo bene in vista.
C’è chi ha portato un tavolino pieghevole da camping, su cui appoggiare teglie di squisitezze meridionali che la nonna lontana ha provveduto a mandare, chi avvia canzoni e suona una chitarra. Padri che vedono coronare il loro sogno nella realizzazione dei figli e hanno puntato i risparmi sulla loro formazione; madri premurose fino all’apprensione che seguono adoranti le figlie senza mai perderle di vista, come non fossero mai cresciute; genitori compassati degli ambienti bene, che si muovono con la sicurezza di chi ha già collocato il figlio nell’azienda o studio di famiglia; famigliole timorose che si guardano attorno incuriosite in quell’ambiente inusuale. Ma ciò che conta sono loro, i protagonisti assoluti di quel momento.

C’è tanta e legittima fierezza in questi ragazzi: è stata dura, i tempi della pandemia hanno aggravato gli sforzi e richiesto un repentino adattamento a modalità di studio non previste. E quell’istituzione, che tra i tanti meriti, nel 1953 fu il primo Centro di calcolo dell’Europa continentale e nel 1977 fu partner preziosa con CNR, Telespazio e CIA nella costruzione di Sirio, il primo satellite artificiale di produzione italiana, messo in orbita in USA da Cape Canaveral, ha riconosciuto e convalidato  il sacrificio di coloro che hanno concluso meritatamente il percorso triennale e magistrale.
Scene di quella normalità ascritta al periodo pre pandemico, quando la parola distanziamento sottintendeva una pessima situazione relazionale di conflitto e le mascherine rimandavano a scene furtive e losche. Un martedì di festa in cui un guizzo di libertà – seppure rimangano i segni insopprimibili delle restrizioni e dei timori che hanno caratterizzato le nostre vite degli ultimi due anni – sottolinea il bisogno e la voglia di stare con gli altri, condividere con loro.
E l’università è fatta soprattutto di incontri, scambio, contaminazione di culture ed esperienze, confronto. La didattica universitaria si è trasferita online: corsi, esami, sessioni di laurea, con l’impossibilità di accedere ai laboratori, di creare un ambiente relazionale di cui lo studente ha bisogno, lasciandolo necessariamente solo, data l’emergenza, con le sue paure, i suoi interrogativi, le sue frustrazioni, tante aspettative e tanta voglia di farcela. Non si può credere che il “full digital” possa rappresentare la modalità futura più accreditata e risolutiva, perché si verrebbe a perdere gran parte della produzione culturale con conseguenze preoccupanti. Una soluzione ibrida, una didattica blended – didattica mista – costituirebbe la scelta utile per affrontare questo momento di emergenza e incertezza, come ha affermato il Rettore del Polimi, prof. Ferruccio Resta, Presidente della CRUI, Conferenza dei Rettori delle Università italiane, e le università stanno già lavorando per trovare soluzioni.
Riconsegniamo ai giovani il loro presente perché la gioventù non ha né passato né futuro e riconsegniamo loro ciò che, citando Jim Morrison, è stato da sempre celebrato: la gioia di vivere, la scoperta di se stessi, la libertà.