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San Giorgio fuori le mura

San Giorgio “fuori” le mura. Non solo come avverbio geografico, ovvero per indicare il luogo in cui è stata edificata la chiesa a lui dedicata. Ma anche come preposizione storica, che allude a un valoroso defensor civitatis venuto da lontano – e precisamente dalla Cappadocia in Turchia – per approdare alle nostre terre contese da numerosi e bellicosi contendenti.

Terre che per conciliarsi necessitavano di un santo super partes; un immigrato che, arrivando dall’esterno, potremmo definire un santo neo-comunitario. Oltretutto è «un santo di punta»: il coraggio è quello di un guerriero, ma al tempo stesso il suo essere straniero lo rende sensibile e attento alla mediazione e all’integrazione delle pluralità diversificate e conflittuali, capace di conciliare i conflitti e tessitore di ciò che accomuna le parti.

Per questo fu scelto come alleato di questa chiesa e della città nella difesa delle proprie autonomie e libertà, compagno di viaggio nel processo identitario e unitario, difensore e custode, a presidio del diritto e dell’identità locali in formazione. Era un forestiero, ma è diventato cittadino a pieno diritto – civis optimo iure – in favore dei diritti e della dignità di coloro che lo hanno accolto e prediletto.

Giorgio [Qui] non è un proto-vescovo da cui si è originata la nostra chiesa, né un martire della chiesa locale, attorno al quale si raccoglie un’identità spirituale ecclesiale cittadina, perché egli è antecedente la nascita dell’una e dell’altra.

San Giorgio è un santo che precede, precursore e antecedente la chiesa locale e forse anche la stessa diocesi di Voghenza, attestata come sede vescovile a partire dal 330, da cui è nata quella di Ferrara. A metà del VII secolo la sede episcopale fu trasferita a nord dapprima a Ferrariola (Forum Alieni situato nell’attuale borgo San Giorgio, sorto sulla biforcazione del Po; di origine romana, l’abitato gravitava intorno all’attuale chiesa ove rimasero i vescovi per circa cinque secoli), quindi dal XII secolo a Ferrara.

San Giorgio è stato per la città e la chiesa locale come un innesto su in un albero selvatico, l’inserimento di un una preziosa gemma. Così come nell’olivastro viene innestato il germoglio di un ulivo buono, siamo stati uniti a lui per ferita martirale: la stessa che unì a Cristo il martirio di san Giorgio, avvenuto fuori le mura di Nicomedia, un’antica città dell’Anatolia. Così inseriti l’uno nell’altro per ferita il selvatico è divenuto albero fruttifero, di molteplici frutti oleosi.

Chi ha colto in profondità il senso di questo patrocinio ecclesiale non meno che civico è stato mons. Antonio Samaritani, storico pomposiano quanto cittadino. È una storia innovativa quella che si legge ne La Chiesa di Ferrara nella storia della città e del territorio, innovativa soprattutto come taglio, in quanto protesa a tenere insieme la comunità religiosa e la comunità civile in un fruttuoso intreccio.

«Una lettura ardua – ha ricordato Ranieri Varese – che, senza rinnegare la ‘storia’ in senso tradizionale, vuole fare emergere le ‘storie’, attraverso il recupero della memoria di avvenimenti e pensieri disparati e maggiormente collegati alla quotidianità del vivere; la loro somma, più di atti e azioni eclatanti, costruisce e caratterizza quel passato che vogliamo mantenere e del quale vogliamo dare consapevolezza» (Boll. Eccl. 2004, 3).

Attraverso la ricerca storica e la narrazione di microstorie, Samaritani riscopre così la vocazione “sinecistica” della nostra gente (sunoikismós da oikos=casa e sun=con). Vocazione unificatrice di pluralità molteplici e minoranze diversificate, chiamate ad abitare insieme.

Per stile sinecistico si intende l’unificazione di entità politiche precedentemente indipendenti in una città od organizzazione statale; uno stile “al plurale”, fatto di “scambio” dunque, “consortile”, capace di mediare tra realtà divere, che si colloca “tra” e si pone “in mezzo”.

Città, la nostra, avvezza a “modularsi” e, tuttavia, non priva di inquietudine – sottolinea Samaritani – perché coinvolta in uno «sforzo di libertà da uomini e cose», ma proprio per questo, attenta alle diversità, capace così di riconoscere ciò che giova al più e meglio vivere.

Ma seguiamolo tra le pagine del testo Radici della spiritualità ferrarese, (in Boll. Eccl. 2 1993); la sua bibliografia conta 419 titoli tra libri, saggi e articoli, catalogata e digitalizzata presso il Cedoc SFR [Qui]

«San Giorgio, certissimamente, è un santo che antecede la nostra diocesi. Non è un santo da nuclei cittadini, ma da nuclei bellicosi, castrensi. È un santo dei bizantini (e noi eravamo territorio bizantino, imperiale) è un santo anche degli aggressori, dei Longobardi, di cui Ferrara ha sempre temuto l’attacco, nonostante il primo freno del 568, quando essi si stabiliscono nella confinazione sul Panaro.

Il santo patrono costituisce l’identità civica di un complesso demico: laddove non c’è un santo patrono, non ci sarebbe una coscienza religiosa specifica, una coscienza civica specifica, e questo noi lo dobbiamo mettere in conto.

Siamo una diocesi, in qualche modo, acefala nata come castrum, il castrum Ferrariae (la zona tuttora presente tra via Mayr, Ripagrande e via XX Settembre, la zona tra via Casotto, via Belfiore, via Salinguerra). Questo castrum non è una civitas, è soltanto un momento di difesa del territorio, quindi non ha raggruppato una entità di popolazione tale da sprigionare, come coscienza religiosa, un suo santo patrono.

Fra i tre castra di Ferrara, della zona nostra, abbiamo il castrum di Argenta, che ha una titolazione a S. Giorgio (castrum documentato nel 515 nel Liber Pontificalis di Agnello di Ravenna [Qui]). Nel nostro territorio abbiamo poi la pieve di S. Maria in Padovetere (sono presenti il battistero in tracciato di fondamento, e il tracciato della chiesa stessa).

Il castrum di Comacchio ha la titolazione ad un altro santo castrense: S. Cassiano [Qui], un santo che non connota una spiritualità locale, ma trasferita da altrove. È singolare questa capacità di scelta ferrarese: questa gente, che non ha le punte polemiche del mondo bizantino, non ha la bellicosità longobarda, assume un santo che sia di mediazione, di adattamento.

Il carattere ferrarese in tutti i campi, ieri, oggi e forse domani, e anche nella tipica spiritualità, ha un timbro di sintesi, non di avanguardia. S. Giorgio è un santo di punta: va bene per la dominazione bizantina, ma va bene anche per la dominazione longobarda e le vicende che hanno fatto la nascita e la morte di Voghenza, e in qualche modo anche la nascita e l’affermazione tormentata di Ferrara, sono, appunto, vicende di scontro tra Romani e Bizantini e Longobardi», (ivi, 347-348).

Ferrara: da presidio militare a città umanistica

Un tormentato e difficile passaggio fatto di mediazioni, di integrazioni, di composizioni e di aggiustamenti in vista di una sempre maggiore unità. Da castrum a civitas: la trasformazione cioè di una polarità in contrapposizione, militarmente difensiva/offensiva, ad una comunità mediatrice, conglobante, conciliatrice e innovativa. Una duplice polarità attestata – così mi sembra – anche nell’iconografica ferrarese del patrono san Giorgio.

Una prima polarità guerresca: il san Giorgio del nuovo e dell’antico duomo, all’esterno, nella lunetta del protiro il primo, sulla facciata della chiesa extra urbana il secondo. Entrambi a cavallo; uno con la spada sguainata nell’impeto dell’assalto, l’altro tutt’uno con l’impennata del suo cavallo, brandendo la lancia come un pugnale, incombente sopra il drago.

Di contro, all’interno di entrambe le cattedrali, un san Giorgio pacato, in riposo, quale segno della seconda polarità pacificante. Un san Giorgio tutto interiore, contemplativo, quello del dipinto nell’abside dell’antico duomo, opera di Maurilio Scannavini.

In quello nuovo sta invece il san Giorgio bronzeo, rinascimentale, di Domenico de Paris [Qui]; quasi senza sforzo, come appoggiato alla lancia, trafigge il drago; elegante, composto, con la mano sul fianco, con il volto disteso, perfino tranquillo. Anche il san Giorgio del Maestro delle storie di Elena è elegante, pienamente umanistico, attendista, ma vigile; tiene la spada nel fodero e vi si appoggia con delicata attenzione. Dosso Dossi [Qui] lo ritrae invece con la spada e la lancia in disarmo, il drago accucciato ai suoi piedi, quieto, la posa prospettica e l’armatura, nella sua compattezza dinamica; viene da pensare al motto di Manuzio: festina lente.

Genius loci

Proprio la designazione da parte della chiesa locale di «vivente titolare», di patrono vivo e attivo anche nella realtà di oggi, aggiunge un nuovo tassello a quel mosaico in fieri che si vuole designare con l’espressione genio cristiano del luogo: la qualifica della nostra come Chiesa georgiana.

Così Samaritani: «L’unitarietà e l’unicità del patrono “castrense” di Ferrara, san Giorgio in Ferrara legittima, l’espressione di sempre di Chiesa Georgiana per Ferrara». Due cattedrali in successione per lo stesso patrono; ma con la nuova cattedrale, gli verrà affiancato un altro martire ma vescovo, san Maurelio [Qui], per un’ulteriore e più precisa sottolineatura dell’identità ecclesiale:

«I fautori della grande riscossa dell’identità ferrarese, saranno vescovi come Landolfo (1099–1139), il “fondatore” della nuova cattedrale, e promotore di numerosi sinodi, equilibratore delle nuove forze religiose emergenti. Non sono più i monaci, ma le vicinie, le corporazioni, le parrocchie cittadine, che nascono proprio in questo periodo, a far riemergere una sigla unitaria, che è il patrono S. Maurelio, ultimo vescovo di Voghenza, proto-vescovo di Ferrara.

La diocesi di Ferrara, quando nasce ha bisogno di recepire la sua estrazione georgiana, e così si può dire: nasce ferrea, castrense, però capisce che è troppo generico il patrocinio di S. Giorgio; ha bisogno del patrocinio specifico, di un santo contrassegnato dalla lotta spirituale, dalla difesa di un’ortodossia, insidiata da Ravenna come rappresentante dell’Oriente e in qualche modo tipica di una zona nella quale fu più forte il senso della romanità che non in Roma stessa. Ma questo santo patrono ha una vita dura ed una affermazione difficile» (ivi, 348).

Così è pure la nostra quotidiana lotta spirituale, dura e difficile, transito pasquale pure dall’incredulità al credere, dal disperare alla speranza dal disamore ad una provvidenza di amore: sempre e ancora una ferita martiriale. Una condizione che mi ricorda quella dell’oleoso ulivo di Virgilio, una promessa certa di fecondità e di pace: da ferita di vomere un carico di frutti.

Non serve al contrario coltura per gli ulivi,
non richiedono il falcetto ricurvo
e la costanza dei rastrelli,
una volta che abbiano attecchito ai campi
e resistito ai venti;
la terra, se viene aperta dal dente della marra,
fornisce da sé sufficiente umidità,
se poi viene arata dal vomere,
un carico di frutti.
Coltiva per questo l’ulivo
che nella sua fecondità
è simbolo di pace.

In copertina: San Giorgio e il drago di Paolo Uccello (da: wikipedia.org)

Per leggere gli altri articoli di Presto di mattina, la rubrica di Andrea Zerbini, clicca [Qui]

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Andrea Zerbini

Andrea Zerbini cura dal 2020 la rubrica ‘Presto di mattina’ su queste pagine. Parroco dal 1983 di Santa Francesca Romana, nel centro storico di Ferrara, è moderatore dell’Unità Pastorale Borgovado che riunisce le realtà parrocchiali ferraresi della Madonnina, Santa Francesca Romana, San Gregorio e Santa Maria in Vado. Responsabile del Centro di Documentazione Santa Francesca Romana, cura i quaderni Cedoc SFR, consultabili anche online, dedicati alla storia della Diocesi e di personaggi che hanno fatto la storia della chiesa ferrarese. È autore della raccolta di racconti “Come alberi piantati lungo corsi d’acqua”. Ha concluso il suo dottorato all’Università Gregoriana di Roma con una tesi sul gesuita, filosofo e paleontologo francese Pierre Teilhard de Chardin.

Ogni giorno politici, sociologi economisti citano un fantomatico “Paese Reale”. Per loro è una cosa che conta poco o niente, che corrisponde al “piano terra”, alla massa, alla gente comune. Così il Paese Reale è solo nebbia mediatica, un’entità demografica a cui rivolgersi in tempo di elezioni.
Ma di cosa e di chi è fatto veramente il Paese Reale? Se ci pensi un attimo, il Paese Reale siamo Noi, siamo Noi presi Uno a Uno.  L’artista polesano Piermaria Romani  si è messo in strada e ha pensato a una specie di censimento. Ha incontrato di persona e illustrato il Paese Reale. Centinaia di ritratti e centinaia di storie.
(Cliccare sul ritratto e ingrandire l’immagine per leggere il testo)

PAESE REALE

di Piermaria Romani

 

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