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Parole a capo
Eleonora Rossi: “Sinfonia di papaveri” e altre poesie

 

“Ho avuto tutte le cose che una donna può chiedere al suo destino, ma grande sopra ogni fortuna la fede nella vita e in Dio. Ho vissuto coi venti, coi boschi, colle montagne. Ho guardato per giorni, mesi ed anni il lento svolgersi delle nuvole sul cielo sardo. Ho mille e mille volte poggiato la testa ai tronchi degli alberi, alle pietre, alle rocce per ascoltare la voce delle foglie, ciò che dicevano gli uccelli, ciò che raccontava l’acqua corrente. Ho visto l’alba e il tramonto, il sorgere della luna nell’immensa solitudine delle montagne, ho ascoltato i canti, le musiche tradizionali e le fiabe e i discorsi del popolo. E così si è formata la mia arte, come una canzone, o un motivo che sgorga spontaneo dalle labbra di un poeta primitivo.”
(Grazia Deledda)

Distanze

Ho traslocato
i pensieri
nelle distanze
del mondo

gettati a mare
come un’àncora,
recisa
definitivamente
la fune.

Ho abbandonato
crisalidi
nei deserti
nelle cicatrici
della terra

ai piedi
dell’oceano

nel canto
delle sirene

Oggi sono nastro
di sole
che riluce
negli abissi

un giorno, ippocampo
un giorno nuovo, luna

invisibile
appesa
alle estremità
dell’universo

(da E.Rossi, Le sette vite di Penelope, LietoColle, 2012)

Rideva il cuore

Rideva il cuore
impastato di terra
impazzito di fango.

Ho toccato
la mia anima
nella rugiada
tremula
di una lacrima.

Non l’ho
mai vista
così bella
così nuda.

Non mi
sono mai
sentita
vivere
come ora.

Ti bacio, Vita.
Ti bacio sulla pelle,
ti bacio sulle labbra.

Oggi ti perdóno,
Vita.

E
finalmente
perdóno
me.

(da E.Rossi, Diario di una peccatrice, ilmiolibro, 2018)

nota a piè di pagina

credevo d’essere
una nota a piè di pagina
nascosta lì, tra le righe
in fondo all’anima

ma tu mi hai vista
un giorno
e mi hai tirata fuori

sono sbocciata
nell’incanto
di una lacrima.

Ero farfalla
dalle ali
troppo fragili

e vacillavo
come sopra
a lunghi trampoli

esile stelo
per portare
quale cielo?

Ora respiro,
nei tuoi occhi
ora mi vedo.

E mentre nevica
la vita per davvero
poso le labbra

e sorridendo bevo
questo presente
randagio
dentro un fosso
quasi fosse
il bacio rosso
di un papavero

sinfonia di papaveri

ed è di nuovo
sinfonia di papaveri

brindisi
di esuli fiori
nei lunghi calici
e tintinnio
dorato
di spighe

infinita
danza di anime
che scrolla
dall’inverno
ogni inutile
paura

(da E.Rossi, ho svaligiato l’universo, Aletti, 2020)

indirizzo d’albero

indirizzo d’albero
elegìa del giorno
solco nella terra

inchiostro

lasciami
firmare
di bellezza
il mondo

Eleonora Rossi è insegnante, autrice e giornalista. È direttrice responsabile della rivista «l’Ippogrifo» e autrice dei libri Le sette vite di Penelope (LietoColle, 2012), Diario di una peccatrice (ilmiolibro.it, 2018), ho svaligiato l’universo (Aletti, 2020). Sue composizioni sono presenti in antologie poetiche e la sua scrittura è stata apprezzata in numerosi concorsi letterari. Nel 2017, dopo aver vinto il Premio Cet Aletti, si è diplomata al Corso per Autori della scuola di Mogol. Nel 2019 era tra i finalisti del Tour Music Fest,The European Music Contest. Nel 2020 l’Accademia Mondiale della Poesia (presidente di giuria Franco Arminio) le ha assegnato il secondo premio al concorso internazionale “I corpi e i luoghi”.

La rubrica di poesia Parole a capo esce regolarmente ogni giovedì mattina su Ferraraitalia. 
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Cronaca di un’emozionante non-visita ai Giardini del Casoncello

Un giardino nascosto, che fa venire molta curiosità e dal quale emana un’atmosfera sospesa di mistero, stupore, inquietudine. È questa  la sensazione emozionante che mi ha lasciato la non-visita ai Giardini del Casoncello, sull’Appennino bolognese, nella via Scascoli di Loiano. Partita per vedere quello che credevo un luogo predisposto per l’accesso del pubblico, mi sono trovata fin da subito alle prese con la difficoltà a localizzarlo. Il navigatore di Google mi annunciava che ero arrivata a destinazione, ma intorno non vedevo traccia di ingresso ai giardini. Una volta parcheggiata faticosamente la macchina su un piccolo spiazzo in salita, l’unica indicazione che (a fatica) sono riuscita a scovare è stato un cartello semi-nascosto dai rami con sopra una scritta in caratteri leziosi: “Giardini del Casoncello”. Poco oltre ho visto un cancello chiuso da una catenella con lucchetto e privo di qualunque altra indicazione.

A indurmi a restare ancora e a cercare la mia meta su questi tornanti appenninici è stato il rumore di voci femminili, provenienti da dietro un boschetto di lunghe e robuste canne di bambù. Avvicinandomi a quest’area ho scorto una donna vestita con un abito a fiori di foggia antica e più che mai fiabesca che, insieme a un’altra donna, era intenta a riporre arbusti sopra a una carriola.


Ho chiesto: “Sono questi i Giardini del Casoncello?”. E la signora dal lungo vestito in stile Holly Hobbie ha risposto: “Il giardino è aperto solo su prenotazione nei fine settimana”. Essendo domenica, e quindi effettivamente un giorno del fine-settimana, ho domandato: “Non sapevo della prenotazione, non è possibile prenotare o vederlo ora?”. “Finché ci sono queste regole limitanti – ha spiegato la signora – i Giardini del Casoncello non sono aperti al pubblico, perché sono un territorio di libertà e io ho scelto di aspettare il momento in cui, di nuovo, si potrà incontrarci senza costrizioni”.

La risposta mi lascia interdetta. Tutto il viaggio è stato quindi vano? Fortunatamente la fata-signora accenna almeno alla possibilità di avere, volendo, del materiale informativo. Dopo aver fatto una sessantina di chilometri per arrivare fin qui, accetto volentieri almeno questa possibilità di conoscenza!

“Aspettate, adesso arriviamo fuori”, spiega. E mentre sto sbirciando da un altro cancello, che nel frattempo ho scoperto più avanti e da cui penso possano uscire le due donne, sento arrivare la fata-signora da dietro le mie spalle. Con mia sorpresa invita a seguirla dalla parte opposta della strada, dove avevo visto un edificio con l’intonaco di color rosso mattone abbastanza scrostato e che avevo ritenuto in abbandono.

La signora fa strada a me e al mio compagno di ventura, oltrepassando delle siepi, dietro le quali compare un sentiero lastricato di pietre. In fondo, su per tre gradini formati da vecchi mattoni in cotto, c’è un piccolo porticato: un grosso gatto vigila sopra a un ceppo d’albero, accanto c’è un tavolo in legno con sopra dei grandi gigli bianchi a pois arancioni e dal soffitto penzolano tante belle ceste di vimini.

Entrando nell’edificio, la signora invita a seguirla, dicendo “Venite pure”. Mi guardo intorno e penso che non ha l’aria di essere il centro di accoglienza né una biglietteria, ma una casa piccola e graziosa, piena di mobili di vecchia foggia: il lampadario di vetro e ottone, la credenza di legno, una zuppiera, quadri di varie dimensioni appesi e libri in giro.


Sembra  di essere dentro una di quelle casette che vedi illustrate nei libri di favole. La signora nel frattempo entra in una porticina sulla sinistra che porta nella sua cucina, ed esce offrendo una ciotola con dentro una composta arancione, mentre dice: “Prendete, stavo proprio facendo della marmellata”. Vengo dotata di un cucchiaino e la assaggio, sentendomi non so più se come Gretel con Hänsel o Alice nel Paese delle Meraviglie. “È fatta coi rusticani”, spiega la signora. E io, mentre assaporo il gusto asprigno e dolce della confettura, mi domando se fra poco, chissà, finirò per diventare piccola piccola, ritrovandomi vicino alle zampe del gattone, o grande grande fino a toccare il soffitto con la testa.

Dall’ingresso-soggiorno la signora si sposta in un’altra stanza e io la seguo senza avere alcuna apparente trasformazione magica. Mi ritrovo, invece, in uno studiolo, pieno zeppo di libri.


Sbircio i titoli dei volumi – quasi tutti in tema di giardinaggio – mentre la signora, che sta cercando tra i suoi faldoni di carte, a un certo punto sospira soddisfatta: “Ecco ho trovato questo un bel pieghevole illustrato con la mappa del giardino”.


Lo porge e spiega: “Questi sono i disegni del giardino fatti dal mio sposo, che è un illustratore di fumetti. Ha disegnato storie di Martin Mystère e poi di Tex”. Le illustrazioni, infatti, sono molto belle. Osservo il cartoncino con un disegno pieno di fiori e di verde, in mezzo ai quali fa capolino un’immagine femminile. È evidentemente un ritratto della signora stessa, rappresentata come una fanciulla in abiti floreali dalle tinte pastello, di fattura simile a quello che indossa. La scena ha il tratto pulito e preciso di una bella tavola di fumetto.

Mi viene da pensare che forse la situazione in cui sono capitata non vada ricondotta a un’antica fiaba, ma piuttosto a una storia a fumetti, dove magari vengono sottoposti a incantesimi solo i potenziali aggressori delle evoluzioni naturali del parco e dei suoi verdeggianti dintorni. Il racconto del modo in cui questi giardini sono nati è in effetti pieno di intraprendenza e avventura, ambientato tra le liane spinose di un campo lasciato incolto per decenni e piano piano trasformato in un nuovo ambiente naturale, non più selvaggio ma nemmeno agricolo come era in origine.

I Giardini del Casoncello – che prendono il nome da un piccolo corso d’acqua che scorre accanto a quest’ettaro di terra – sono infatti spazi dove la cura delle piante è finalizzata in parte al consumo e in parte alla creazione estetica. “Una volta dipingevo quadri a tema floreale – racconta la padrona di casa, che si chiama Gabriella Buccioli – poi il mio pennello e i miei colori sono diventati quelli della natura. I tappeti di fiori e i boschetti del giardino, che hanno un aspetto molto naturale e quasi selvaggio, sono il risultato di un attento lavorio di pulitura a cui ha fatto seguito l’innesto di piante autoctone che ho raggruppato per creare composizioni floreali e particolari effetti cromatici. Si tratta per la maggior parte di piante autoctone, che già si trovavano lì e che io ho aiutato a crescere e ad espandersi (senza comunque fare mai uso di prodotti chimici) o che sono andata a raccogliere in qualche radura nelle vicinanze. In qualche caso ci sono anche inserimenti di piante esterne, donate da amici e da me particolarmente amate, come i mughetti e i non-ti-scordar-di-me, che hanno trovato qui un ambiente naturalmente adatto alle loro esigenze e che si riallacciano ai miei ricordi d’infanzia, quando già amavo trascorrere ore all’aperto, in mezzo al verde”.

Il giardino è quindi lo specchio della tenacia gentile di questa esile e flessuosa signora, affiancata dal marito e compagno nella realizzazione di un sogno che poteva sembrare impossibile. Per il momento si può solo sbirciarlo o conoscerlo attraverso le pagine del libro dove Gabriella racconta la sua creazione (“I giardini venuti dal vento”, edizioni Pendragon, 2003).
Mentre ci apprestiamo ad andarcene, salutando Gabriella e il grosso gatto di nome Giambi (che sta per Giamburrasca), lei dice: “Aspettate un momento”. Entra nella sua abitazione e ne riesce con in mano un barattolo della sua marmellata, della quale ci fa dono.

Gabriella mentre applica un’etichetta sul barattolo di marmellata da lei prodotta

Tornata a casa, apro il volume dedicato alla storia del giardino. Sfogliandolo spero che presto anche i suoi cancelli possano riaprirsi e mostrarmi le mutevoli sfumature della natura che vi è racchiusa, superando le barriere create per tener fuori i cinghiali che – ha spiegato Gabriella – “sono ghiotti di bulbi di iris e di ciclamini” e i “caprioli avidi di tutto, dai ramoscelli più teneri ai cavoli e alla bietola, senza dimenticare le belle infiorescenze, come la lunaria”.

La marmellata di rusticani fatta da Gabriella con etichetta disegnata da Lucio Filippucci

E questa marmellata, chissà, se dentro ha anche solo un pizzico di quella tenacia e determinazione che ha reso possibile alla sua artefice la trasformazione di un luogo selvaggio in un giardino incantato, potrebbe avere la magica dote di esaudire anche i miei più creativi desideri…

Per info: Maria Gabriella Buccioli, Fondazione dei Giardini del Casoncello, sito web giardinidelcasoncello.net, tel. 051 928100 o 928281.
Per sostenere i Giardini del Casoncello è possibile destinare alla sua Fondazione il 5×1000 nel momento in cui si fa la dichiarazione dei redditi indicando il Codice fiscale 91342250379

PER CERTI VERSI
Ecorequiem

ECOREQUIEM

Ogni giorno
Si Scuote
L’albero della vita
Della natura
Della Terra
Ognuno piange
I suoi disastri
Li piange localmente
Le parole
Mangiano le promesse
E viceversa
Poi
Avanti come sempre
Avanti?
Chissà
Forse indietro
Forse a tutto gas
In ogni senso
Sordi
Al dovere di invertire
La rotta Geocida
Noi viviamo
Come se
Tutte le cose
Fossero morte
Credendo
Di essere
Dei re Mida

Ogni domenica Ferraraitalia ospita ‘Per certi versi’, angolo di poesia che presenta le liriche del professor Roberto Dall’Olio.
Per leggere tutte le altre poesie dell’autore, clicca
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CONTRO VERSO
Il ragazzo senza un contorno

 

Il ragazzo viene segnalato perché non sta a nessuna regola. Richiamato dal tribunale per i minorenni si sente in dovere di dire la cosa giusta ma chissà quanto ci crede.
Gli parli e vedi i sogni interrotti – quelli dei genitori, i suoi – vedi i tentativi non capiti, la gara a ostacoli della vita in Italia, le scorciatoie tentate e rinunciate. E ti sembra di intravedere qualcosa, per esempio che aprire gli occhi alle cose come sono e sciogliere la lingua all’italiano sarebbe un viatico di miglior futuro. Ma serve a poco, e poi come puoi prescriverla una cosa così?

Il ragazzo senza un contorno

Tutti mi dicono
un perdigiorno.
È che io sono
senza contorno.
So quel che dico.
Sulle colline
ho qualche amico,
non un confine.

Mio padre è fuori
lavora duro.
Saran dolori
questo è sicuro
se verso sera,
a casa, sfiancato,
scopre che sono
stato cacciato

da quella scuola
che non mi piace.
Lui a squarciagola
urla, lei tace.
È lui il padrone
ma non punisce.
Mi ha dato il nome,
prega, intuisce

che nelle vene
ho sangue impuro.
Niente mi tiene
e io spergiuro
se per buon vivere
vengo a firmare
che voglio smettere
di bambanare.

Sì, adolescenza,
sì, immigrazione,
sì, la mancanza
di direzione.
Disintegrato,
forse ho tradito,
forse ho sbagliato
e ora ho capito.

Perciò divago.
Non voglio imparare
quello che pago
per ritornare.

Senza un contorno sono quei ragazzi in transito tra identità diverse, che nel transito commettono errori, troppo grosso il carico di integrare parti diverse di sé.
Spesso sono italiani di seconda generazione ma non loro soltanto. Anche autoctoni spaccati tra le aspettative degli altri – ma non le stesse aspettative per tutti gli altri: gruppo, genitori, insegnanti, ecc. – e il proprio sogno su di sé. È pur fatta anche di questo l’adolescenza. L’ansia per un adulto che li osserva è sempre quella che non si facciano troppo male.

CONTRO VERSO, la rubrica di Elena Buccoliero con le filastrocche all’incontrario, le rime bambine destinate agli adulti, torna su Ferraraitalia  il venerdì. Per leggere i numeri precedenti clicca [Qui]

Parole a capo
Alberto Bertoni: “Abbey Road” e altre poesie

“Ho bisogno di poesia, questa magia che brucia la pesantezza delle parole, che risveglia le emozioni e dà colori nuovi.” (Alda Merini)

La memoria

Dev’essermi anche lei scivolata via
dispersa in qualche fosso
oppure fuggitiva nella scia
dell’ultima luce mattutina
che corteggia circuisce le piante
neanche loro tutte sane, tuttavia
lungo il viale di acacie
e tigli a settembre mezzo secchi
in libera fuga fino al cuore
più arido e più scuro della terra
dove precipita la pioggia
e dove tu t’immergi nella grotta
della tua coscienza
fra vecchiaia e giovinezza

Poi la chiamano Alzheimer, questa cosa
questa lingua totalmente straniera
senza più stare insieme senza
più ridere scherzare
aspettare con calma
la salvezza che cade
nella tana

Inverno e quaderno

Mi abituo a stare al freddo
e a scaldarmi scrivendo
frasi e parole senza senso
mezze firme, arzigogoli
o gomitoli d’inchiostro

Come un cappotto alla fine dell’inverno
chiudo il silenzio in un quaderno
e lo butto dopo poco nel disgelo
profilo che disegno col gessetto
rasente il muro nero
fra spirito e bisogno
giudizio e terremoto

Alla fine sulla pagina mi muovo,
scivolo cauto, riprovo
fino a quando non so
più cosa farmene di un sogno

Piazza d’Armi

Tutto, qua, è lontano e misurabile,
familiare e indifferente, meraviglioso
e triste. Cammino sulla curva
dell’antica pista di trotto
oggi parco sparuto
e parcheggio sotterraneo

Al posto della sabbia il terreno è composto
di un asfalto leggero con dentro
sfumature di nero
dove lo zoccolo appoggia sbilenco

C’è qualcosa da aggiustare nel mio passo
ma anche in questa nebbia
che invece di salire
scende col peso di un antico temporale

Modena mi piace
nel cielo di cemento e nel cotto
dei muri che sopravvivono
per le strade un po’ storte del centro
dove asfissiato avvolge il nostro tempo
un seno di pietra
mentre dal portico contemplo
quel vetro che nasconde un segreto
e l’orologio dipinto sul timpano
dell’antico Foro
segna per sempre mezzogiorno

Abbey Road

Se è questo il mio giorno fatale
o un giorno abbastanza importante
da ricordarne alba e colore
tutt’attorno delle piante
secco nelle arie
prima quasi assenti
e poi pungenti
che dobbiamo alzarci i baveri
ricoprire d’unguenti

Se è questo il giorno più importante
per occhi, nasi e sentimenti
è meglio che sia un giorno
di circostanze povere
fra salici sbilenchi
una palude di pozzanghere
questo muretto circondato di sterpaglie
e l’asfalto tutto crepe
dove riconciliarci con la sete
dei fratelli persi chissà dove

A santificare
un giorno uguale
in pegno posso offrire
le mie scarpe ormai cinquantenarie
le stesse di George Harrison
sulla copertina di Abbey Road

Ottobre del ’69
e me quattordicenne senza cielo
di reticoli di tane prigioniero
un autunno di topi nel pensiero

(Le poesie di Alberto Bertoni, qui pubblicate su autorizzazione dell’autore, fanno parte del volume “L’isola dei topi”, Einaudi, 2021)

Alberto Bertoni (Modena, 1955). Insegna Letteratura italiana contemporanea all’Università di Bologna. Tra le sue pubblicazioni saggistiche: La poesia contemporanea (il Mulino 2012), Poesia italiana dal Novecento a oggi (Marietti 2019), Una questione finale. Poesia e pensiero da Auschwitz (Book Editore 2020). Come poeta in proprio ha pubblicato diverse raccolte confluite poi nel volume Poesie 1980-2014 (Aragno 2018).

La rubrica di poesia Parole a capo esce regolarmente ogni giovedì mattina su Ferraraitalia. 
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Cover: The Beatles, Abbey Road (Foto Flickr.com – licenza creative commons)

GLI SPARI SOPRA
«Care compagne e cari compagni».

 

«Care compagne e cari compagni».

Ecco si, il mio discorso lo inizierei così

«Perché mi abbiate scelto a rappresentarvi, al momento mi sfugge. Non capisco quali caratteristiche voi abbiate notato che a me da oltre mezzo secolo sfuggono. Ma tant’è ».
«Il mio pensiero è ottuso e tutt’altro che avanguardistico, credo testardamente nei valori e nelle ideologie del mio e del nostro passato. Ideologia termine fin troppo bistrattato, il cui significato è oltremodo semplice, complesso di idee e concetti alla base di un movimento politico. Già qui per anni ci hanno voluto far credere che il sostantivo femminile ideologia fosse in contrapposizione con il sostantivo femminile idea, non è così. Io sono comunista, forse troppo per qualcuno, forse poco per altri, sono di sinistra nell’unica accezione che io ritengo esista, sono marxista, ateo non integralista, illuminista, abbastanza democratico, femminista, sono abbastanza buono ma non buonista, antimilitarista ma forse non pacifista del tutto, mediocre, con nessuna eccellenza, non sono scrittore ma scrivo, leggo molto perché mi ricordo poco. Non credo di avere un grosso carisma, non sono un leader, non trascino le folle, credo che fare sindacato sia un mestiere mentre la politica non lo è. Ero l’ultimo della classe al liceo, un discreto difensore delle giovanili, non amo il calcio ma sono appassionato di S.P.A.L., sono certo dei miei dubbi e non russo quasi mai».

Qui forse dovrei fare una pausa, arrotolarmi le maniche della camicia, bere un sorso d’acqua e ricominciare.

«Tutti sappiamo cosa rappresenta per noi il pugno chiuso. Da una mano aperta, le cinque dita si stringono come segno di unità, non è un caso se il giornale fondato da Antonio Gramsci sia chiamasse proprio così. L’unità a sinistra però è un concetto più vacuo dell’ araba fenice, più introvabile sacro graal, più leggendario dell’Arca di Noè. La base da cui nascono tutti i movimenti di sinistra degli ultimi due secoli e mezzo è una polvere più fine della farina di riso. Da sempre ci dividiamo, dal 1800 in poi, Anarchici e Socialisti, Socialisti e Comunisti, Comunisti e Sinistra extra parlamentare. Per non parlare poi dell’oggi. Ma poi ci arrivo. Aggiungo un tema centrale di questa ricerca disperata di aggregazione e comunitarismo. Non sto parlando di centro sinistra, verso cui non si può avere un atteggiamento pregiudiziale e nemmeno additarlo come IL nemico, ma sto parlando di aggregazione oltre, molto oltre il PD. Partito verso il quale non ho grosso trasporto e che io, nelle mie classificazione novecentesche, inquadro in uno spicchio parlamentare di centro, liberale, alle volte di destra democratica, ovviamente utilizzando i mie canoni di riferimento. Ora, non distruggetevi in applausi a scena aperta, serbate i pugni nelle tasche, perché pure per noi duri e puri c’è molto da puntualizzare. La mia area politica, oramai estinta, è quella di un partito di massa, di popolo, il partito che fu la speranza di un italiano su tre. Ora nel parlamento italiano credo che l’incidenza della sinistra sia prossima al 3-4%. Poi un partito comunista dell’1% è un ossimoro, una contraddizione in termini. Nella storia recente abbiamo visto quanto le sinistre arcobaleno abbiano fallito, perché raggruppamenti elettorali, dove mille partiti volevano solo mettere i puntini sulle i ad ogni incontro, abbiano avuto vita breve. Quanti sono i partiti che in un qualche modo in Italia si rispecchiano nell’Eurocomunismo o quanto meno rispecchino una sinistra radicale? Cinque, otto, dieci? Io non lo so, ma ritengo questa disgregazione pulviscolare il punto centrale della mancanza di rappresentanza di una buona parte degli elettori della nostra fazione. Come è possibile, ancora oggi nel XXI° secolo dividersi su Lenin, Trotsky e Mao? E’ vero che sono un vetro e trinariciuto nostalgico, ma credo in una terza via. Si, come quel signore sardo che faceva della pacatezza e della calma un’arma micidiale contro il capitale».

E qui secondo me, dovrei divincolarmi, altrimenti riprenderei concetti triti e ritriti, sedimentati nella mia piccola mente.

«Io lo so che le critiche non mancheranno, i compagni mi riterranno troppo morbido, i democratici mi additeranno quale amico delle destre, perché sottraendo voti al centro sinistra la destra sarà al governo. Perché ora dov’è? Ma quello che vorrei dire a me stesso per primo è che occorre un pensiero critico, nei confronti del sistema mondo, è ora di smetterla di fare un passettino in avanti e due indietro, non c’è tempo per inquinare di meno, occorre disinquinare. Occorre de-privatizzare, almeno i beni comuni, la salute, l’ambiente, la scuola, i cimiteri. Certo i servizi cimiteriali sono a scopo di lucro, e a voi sembra normale? Non si può produrre soldi con altri soldi, eliminando la forza lavoro, il prodotto, il manufatto. Occorre risanare, ristrutturare, individuare nella grandi multinazionali il vero nemico, a cui imporre dei limiti chiari, evidenti, mondialisti. Chimica, acciaio, risorse prodotte con una vera attenzione all’ambiente e alla qualità dell’aria e dell’acqua. Non c’è più spazio, non c’è più tempo. Le risorse pubbliche rimangano pubbliche, la solidarietà ritorni ad essere un elemento cardine della società. Come possiamo noi, trucioli di falci e martelli, predicare un internazionalismo proletario quando ancora ci dibattiamo su chi abbia il diritto a fare la guardia al mausoleo di Lenin. Poi, non come primo punto, che rimane la realizzazione di una nuova e unitaria sinistra, aggregante, inclusiva, non settaria, senza niet e senza veti, senza puri (la purezza è di destra, ricordiamocelo), aperta ad un dialogo con forze diverse, si il PD e pure i 5S (o almeno quella parte che era contraria all’aggregazione con la Lega). Non saltate sulle sedie, non datemi del servo del capitale. Ho detto dopo, non prima».
«La tristezza di un mondo dove la sinistra non va più di moda, non ha più attrattiva, non aggrega più, mi disturba, mi fa sentire un fallito, mi vergogno nei confronti di mio padre, di mia bisnonna, di un popolo intero che da due secoli ha cercato di costruire un mondo migliore, per i propri figli, mentre io non l’ho fatto, non ho lottato, non mi sono realmente sacrificato. Non è giusto. Avremmo dovuto lasciare un mondo migliore, come tutte le generazioni passate hanno fatto. Noi no, e siamo ancora qui a dibattere sulla tonalità di rosso più adatta alla nostra bandiera. Che è ancora a terra e che viene sventolata solo alle manifestazioni alternative. Nessuna inclusione, solo steccati, tu si, tu no, un noi talmente tanto ridotto da essere diventato una elité, un club, un gruppo di privilegiati che abbaia ad ogni compagno difforme dalle proprie immutabili tavole della legge, su cui con lo scalpello sono scolpiti i diktat, mai di qua, mai di la, io sono più di te, io sono meglio di te. Per me compagne e compagni, il pugno chiuso è questo, l’Unità come ricerca, approdo e ideologia. Casa per casa, strada per strada (cit.) sogno per sogno».

E a questo punto, tra i pugni chiusi e le lacrime dovrebbe partire l’Internazionale suonata dagli Area.

Le storie di Costanza /
Luglio 2060 – È nato Gyanny!

19 Luglio 2060. Ieri è nato Gyanny, il secondo figlio di mio fratello Enrico. Gyanny ha i capelli neri folti, la pelle molto chiara, pesa tre chili e mezzo, è lungo cinquantadue centimetri. Per ora non si capisce il colore degli occhi, ma se sono simili a quelli di suo fratello Marlon diventeranno verdi, come quelli della zia Costanza e di mia figlia Axilla. Quel verde color foglie d’autunno ha accompagnato l’esistenza di diverse generazioni di Del Re, rendendole più bella da vedere.

La famiglia è in agitazione. In via Santoni Rosa dove abitano ancora la zia Costanza e lo zio Pietro, mia mamma Cecilia a mio padre Mario, c’è un fermento incredibile. La mamma e il papà sono diventati nonni per la quarta volta. Ora lo sono di Axilla che ha vent’anni ed è la prim-nipote (così si definisce lei), di Gianblu, di Marlon e di Gyanny.

Gli zii sono diventati prozii e lo sono ormai di dieci discendenti. Ma il più piccolo è sempre il più bello, è un circuito che si esaurisce solo così. Si sta già progettando il battesimo, facendo un sacco di ipotesi sulla data migliore. “Metà Settembre, così non fa né caldo né freddo”, “primi di Ottobre, così possiamo mettergli un bel golfino di lana bianca ricamata”, “prima di Natale, sarà come avere un Gesù Bambino in carne ed ossa” e così via.

Intanto Gyanny dorme tra le braccia di sua madre e non dà segnali di preoccupazione. “Perché non conosce ancora i Santoniani” dice Axilla. Questa storia dei Santoniani se l’è inventata Axilla e adesso anche i “mezzani” chiamano i nonni e gli zii i Santoniani (gli abitanti di via Santoni Rosa, ovviamente).

Cosmo-111 e Canali-111 vanno spesso a trovare i Santoniani con i loro umani di riferimento. Anche a loro è stato comunicata la nascita di Gyanny e i loro commenti sono stati entusiasti. “Bello, bello, i bambini sono belli, giocano, cantano e mangiano il gelato!” ha detto Cosmo-111.
“Io dopo faccio i compiti, faccio i compiti anche a Gyanny come a Marlon, io faccio il doppio dei compiti. Canali-111 bravo, bravo, bravooo!”. Ha detto l’altro mezzano.

Questo è l’effetto della novità, una grande novità. È l’inizio di una nuova vita. L’inizio di un nuovo respiro, di un nuovo cuore che batterà decine di volte al minuto, centinaia all’ora, migliaia al giorno … . E’ la maggiore sfida a qualsiasi principio di razionalità meccanicistica. E’ lo stupore  del respiro, della carne calda, del pulsare delle vene, del battito perenne del cuore.

Il cuore scandisce la vita. Batte per tutto il tempo in cui lei c’è. È il tramite tra una sensazione di tempo che ci circonda e una certezza di tempo che ci vive dentro. Il cuore che batte determina e pervade tutto, è la prova che non ci sbagliamo quando pensiamo di “essere” e non solo di “volere”. Senza l’essere non c’è volere. L’esistenza è superiore al desiderare, l’esistenza è. L’esistenza esiste, l’essere è.

Cosmo-111 guarda sul cellulare la foto di Gyanny. “Bello, bello, sembra morbido”. Dice e poi fa roteare le telecamere, che gli permettono di vedere, in modo strano, sembra stupito e pensieroso insieme. I bambini sono un po’ sproporzionati, hanno la testa e gli occhi giganti e il corpo piccolo, piangono sempre e, tra rigurgiti e altro, puzzano sempre un po’. Ma sono comunque bellissimi. Si muovono, ti guardano, reagiscono agli stimoli, riconoscono i genitori e sorridono da soli.

Siamo nel 2060 eppure non esistono apparecchiature meccatroniche con una capacità di apprendimento come quella dei bambini, nemmeno lontanamente. La cosa che più impressiona è la loro capacità di essere riflessivi. I neonati pensano, riflettono su quello che succede e, traggono da questo loro pensare, delle conclusioni. Cominciano da subito a costruire un senso a quello che succede, a spiegarsi a modo loro gli strani accadimenti di questa lunga e insidiosa vita.

Nel 2060 i bambini che nascono da una mamma “vera” sono sempre meno. Molte fecondazioni avvengono ormai in provetta e i ventri artificiali (meccatronici), dove i feti possono svilupparsi e diventare dei meravigliosi bambini, funzionano perfettamente. Se uno vuole, attraverso interventi sul sistema del DNA del feto, si può decidere il colore degli occhi e dei capelli, si possono evitare  malattie genetiche, si possono condizionare delle attitudini.

Ma niente di tutto questo è stato fatto con Gyanny. Se fosse stato concepito sessant’anni fa, sarebbe stato lo stesso. È figlio di Enrico e sua moglie, senza nessun tipo di intromissione nel suo patrimonio genetico. È autentico fino al midollo e a noi piace così.

Anche Canali-111 si avvicina e guarda la foto di Gyanny.
“Ma perché tiene gli occhi chiusi? Ci sono problemi alle sue telecamere? Chiamate il Centro-Trescia-111, portatelo in assistenza per verificarne il funzionamento. È importante.” dice.
“Ma lui è un umano!” gli risponde Cosmo-111, che è sempre il più acuto.

Abbiamo appena rimarcato la distinzione tra mondo umano e mondo mezzano e questo grazie alle considerazioni di un mezzano, che ha visto subito che Gyanny non è come lui. È bastata la fotografia del bambino. Io personalmente di questa chiara identificazione e riconoscibile appartenenza, sono contenta. Come sarebbe un mondo dove non si potesse più verificare la differenza tra mezzani e umani? Innamorarsi di un mezzano che conseguenze potrebbe avere? Credere di poter far fare le pulizie di casa a un bambino, perché collocato dagli accidenti della vita e dalla cattiveria degli uomini in un ruolo puramente esecutivo, che conseguenze potrebbe avere?

Questi scenari sembrano insieme una deriva del progresso e una regressione alle nostre origini. Una pericolosa trasmigrazione in quei mondi in cui ci sono ancora gli schiavi bambini, i guerrieri bambini, in quei  territori dove a dodici anni si coltiva la terra, si colora la stoffa, si tesse al telaio, si cuciono scarpe da ginnastica per i prepotenti abitanti dei paesi ricchi. Quei paesi dove si pensa che grazie ai soldi ci si può permettere lo sfruttamento, la sopraffazione, l’indifferenza.

Nelle spinte in avanti c’è sempre un pericolo di risucchi all’indietro. Nell’innovazione c’è insito il pericolo del disastro. Nessuna di noi donne qui sedute sul divano giallo a fiori del soggiorno della casa di via Santoni dimentica che la situazione è questa. Non si può non vedere che il progresso è necessario, utile, ma anche pericoloso, deviante, adatto a molte possibili derive. Che le traiettorie di sviluppo dell’essere umano sono tortuose, che non ci muoviamo in modo rettilineo verso il miglioramento delle condizioni di vita della specie umana, ma in una specie di circuito con gradi diversi di ricorsività che dipendono dalle scoperte, dal periodo e dalle casualità.

Dove può arrivare l’intrusione sul DNA dei feti? A cosa può portarci? Ad avere bambini più sani, più intelligenti, più propensi alla solidarietà? Forse sì, ma può anche portarci all’utilizzo strumentale della varianti genetiche. Creare bambini tutti uguali, tutti seri, tutti intelligenti, ma anche tutti egoisti, cattivi con una forte propensione all’aggressività (poi non ci resterebbe che mandarli in una arena a combattere e torneremmo nel periodo dell’Impero Romano, quando i gladiatori sbranavano vivi esseri umani come loro).Si potrà in un futuro, teorico quanto aberrante, permettersi di far vivere dei piccoli Hitler con le potenzialità di sterminare definitivamente l’essere umano.

Ma per fortuna questa è solo una possibilità e forse l’essere umano si fermerà, come è già riuscito a fare in passato, impedendo al mondo di autodistruggersi, di implodere come un buco nero che risucchia tutto e non lascia più spazio a nulla, nemmeno a se stesso.

Noi donne di via Santoni, che stiamo sedute nel soggiorno della vecchia casa e pensiamo al battesimo di Gyanny, sappiamo che questi scenari sono l’estrema conseguenza, sia in positivo che  in negativo, di quello che stiamo vivendo, di quello che abbiamo già davanti agli occhi.

Guardiamo tutte la foto di Gyanny che dorme tranquillo e sappiamo che è un bambino fino in fondo, un cucciolo umano come l’abbiamo sempre visto e immaginato, senza interventi modificatori architettati per una riparazione funzionale ad alcune necessità, ma non ad altre. A noi Gyanny piace così, poi lui della sua vita farà ciò che vorrà e anche in questo si cela una potente insidia. La libertà rende liberi, nella libertà ci sta tutto il bene e tutto il male del mondo.

Non resta che sperare nel futuro, nella capacità degli uomini di amare, nella grande possibilità che ha sempre il bene di vincere sul male. Come nelle grandi saghe, nella mitologia, nell’epica, nei sorrisi e nella gioia che trionferà. Gyanny è un piccolo essere umano che dorme e per ora non sa che un grande futuro per lui ci sarà.  Ma perché l’hanno chiamato Gyanny?
Non so, io l’avrei chiamato Emanuele.

Costanza e il suo mondo sono solo apparentemente diversi e distanti dal mondo che usiamo definire “reale”, e quasi sovrapponibili ad ogni mondo interiore. Chi fosse interessata/o a visitare gli articoli-racconti di Costanza Del Re, può farlo cliccando [Qui]

PER CERTI VERSI
In memoria di Armando Gasiani

IN MEMORIA DI ARMANDO GASIANI

Tornò a Bologna
Da Mauthausen
Sua mamma
Non lo riconobbe
Nessuno credeva
Ai suoi racconti
Non era possibile
Incominciò così
Il silenzio
Del deportato
Armando Gasiani
Partigiano e comunista
Un silenzio sigillato
Con le pietre di quella scala
La terribile scala di Mauthausen
Doveva essere per sempre
Poi
Poi la vita è bella
Lo fa piangere
A dirotto
Comincia a parlare
La semina del pianto
Un fiume di dolore freddo
Di morte
Tiepido di limo
Lui il nostro Nilo
Ha reso fertili le nostre coscienze
Ciò che impariamo sui libri
Divenne sangue orrore
Luce speranza
Merci Armando
Che hai reso indelebile
E vera
Tangibile
Toccante
Quella assurda
Mattanza

Ogni domenica Ferraraitalia ospita ‘Per certi versi’, angolo di poesia che presenta le liriche del professor Roberto Dall’Olio.
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PRESTO DI MATTINA
Matteo, lo scriba discepolo

 

«Il regno dei cieli è simile a un tesoro nascosto nel campo; un uomo lo trova e lo nasconde; poi va, pieno di gioia, vende tutti i suoi averi e compra quel campo… Avete compreso tutte queste cose?». Gli risposero: «Sì». Ed egli disse loro: «Per questo ogni scriba, divenuto discepolo del regno dei cieli, è simile a un capofamiglia che estrae dal suo tesoro cose nuove e cose antiche» (Mt 13, 44; 51-52).

Con questa nota in forma di parabola Matteo chiude il terzo discorso di Gesù, quello in parabole appunto. Nel discorso della montagna Gesù compie la rivelazione di Dio e della sua Parola, annunciando il Regno, il suo esserci, la sua prossimità agli uomini e alle donne delle beatitudini. Nel secondo discorso, detto missionario, l’annuncio del Regno dei cieli è condiviso con i discepoli che decideranno di accoglierlo, i quali vengono inviati a due a due. Nel terzo discorso, detto parabolico, Gesù descrive il modo in cui l’azione di Dio si presenta tra la gente: il Regno dei cieli è descritto nel suo principiare in piccolezza, una fragilità fiduciosa, una crescita apparentemente lenta e infruttuosa, ma al tempo stesso inarrestabile e irreversibile, che dà frutti di ospitalità e ristoro, come narra la parabola del granello di senape.

È Matteo, in primis, lo scriba divenuto discepolo del Regno dei cieli ‒ poi anche noi, se lo vorremo. ‘Scriba’ in Egitto e in Mesopotamia indicava un funzionario pubblico che aveva il compito di redigere, copiare documenti, far di conto. In Israele gli era affidata la trascrizione dei rotoli della legge, dei libri storici, sapienziali e profetici; e dopo l’esilio l’interpretazione del libro, tanto che al tempo di Gesù gli scribi erano i maestri della Torah.

Per questo Matteo ben dimostra di conoscere le “cose antiche” e quelle “nuove”, che nel giudaismo erano rispettivamente la Legge mosaica e l’insegnamento dei rabbini. Ma per Matteo – lo scriba divenuto discepolo di Gesù, che trae fuori dal buon tesoro del suo cuore l’antico e il nuovo – queste espressioni assumono anche un nuovo significato, trattandosi di tenere insieme il primo e antico patto tra Dio e il suo popolo con il suo compiersi nella vita, nelle opere e nelle parole di Gesù. L’epifania del Regno che si avvicinava: con il Figlio il Regno dei cieli giunge e si manifesta in pienezza.

Di più. Matteo, discepolo/scrittore di buone notizie, narra come la novità del Regno sia già nascosta nell’antico. Il suo cuore segreto, l’intimità del comandamento, si manifestano attraverso una storia di alleanza nuova, che trasforma l’antica, rivelando un’eccedenza di fedeltà, di smisuratezza d’amore – il comandamento nuovo appunto – di prossimità, di familiarità inaudita, di intima amicizia tra Dio e gli uomini, germinata nella storia del Popolo di elezione e poi sparpagliata tra tutti i popoli.

Novità dischiusasi con la venuta del profeta di Nazareth, volta a dare compimento alle promesse antiche. Lo si testimonia tramite i titoli cristologici, quali ‘Messia’, ‘Figlio di Davide’, ‘Figlio dell’Uomo’, ‘Figlio di Dio’, così familiari alla fede di Israele.

Essi, per Matteo, nascondono un’eccedenza di senso, al modo che del seme che giunge a maturazione nel frutto: l’identità singolare di Gesù e la sua missione, in continuità con il cammino e le promesse dell’antico Israele, il seme; ma anche in “discontinuità di compimento”, come una frattura instauratrice di novità, il chicco pieno nella spiga.

Passaggio che per lo scriba divenuto discepolo del regno richiede una radicale conversione: come un essere generati e un nascere di nuovo, un passare all’altra riva, alle cose nuove, senza perdere quelle antiche: «Vedendo la folla attorno a sé, Gesù ordinò di passare all’altra riva. Allora uno scriba si avvicinò e gli disse: “Maestro, ti seguirò dovunque tu vada”. Gli rispose Gesù: “Le volpi hanno le loro tane e gli uccelli del cielo i loro nidi, ma il Figlio dell’uomo non ha dove posare il capo”». (Mt 8,18-20). Oltre, verso l’altro, protesi al Regno, verso un dove, una novità ancora nascosta che il futuro racchiude.

Lo stesso accade per lo scrivere, credo.
Colui che scrive trae fuori dal suo tesoro cose nuove e cose antiche. In Matteo il verbo usato ek-bállo (ek dice movimento di moto da luogo con l’aggiunta del tema verbale bállo «scagliare») e significa ‘gettare via/sospingere fuori’.

Per Matteo scrivere è espellere, scagliare fuori la multiforme ricchezza della buona notizia fatta di eventi e parole antiche che rivivono in parole nuove, quelle di Gesù: “Non sono venuto per abolire ma per dare compimento”. Una correlazione che Matteo esprime sin da subito tramite la genealogia, preludio di vicende intrecciate a quelle del popolo ebraico, fino al loro compiersi nella vicenda ed itineranza del profeta di Nazareth, che in parabole dà forma al volto nascosto e alla qualità della giustizia e degli affetti del Padre suo e Padre nostro.

Rammentando poi la parabola del seminatore, viene da pensare che scrivere per Matteo si anche ‘cavar fuori da sé’, dal proprio cuore, la fede ed esperienza apostolica per gettarle nel campo come un seme – il buon seme delle parole antiche – affinché crescendo, generino nelle spighe parole nuove. La storia antica vive in una storia e in storie nuove. Lo scriba, divenuto discepolo, riscrive nel presente della sua comunità ciò che era stato seminato e scritto in precedenza, portando nuovi frutti in Gesù.

È una rigenerazione incessante. Anche ciò che lui scrive della storia di Gesù dovrà infatti essere riscritto di nuovo, nella vita di ogni discepolo, perché ognuno è chiamato – ecco la vocazione del discepolo – a riscrivere con la propria vita il vangelo che porta dentro, concepito nel segreto della propria coscienza, e lasciare che venga alla luce.

Citando nel suo vangelo il salmo 78,2, Matteo sembra così voler far uscire anche noi allo scoperto; far nascere lo scriba/discepolo nascosto in noi, che riscrive e fa della sua vita come un corpo che dà forma e voce alle Scritture: «Aprirò la mia bocca con parabole, proclamerò cose nascoste fin dalla fondazione del mondo».

«Ed ecco un uomo che aveva una mano paralizzata… Domandarono a Gesù: “È lecito guarire in giorno di sabato?” Rispose loro: “Chi di voi, se possiede una pecora e questa, in giorno di sabato, cade in un fosso, non l’afferra e la tira fuori? Ora, un uomo vale ben più di una pecora!” E disse all’uomo: “Tendi la tua mano”. Egli la tese e quella ritornò sana come l’altra. Allora i farisei uscirono e tennero consiglio contro di lui per farlo morire», (Mt 12, 10-12). Il verbo usato da Matteo nel racconto della guarigione nella sinagoga è quello tipico della risurrezione, “egheiro”, ‘tirare fuori, destare, fare alzare, risuscitare, svegliarsi, lo svegliarsi dai morti’: in Mt 28,6 è scritto: “Non è qui, è Risorto” (egherthe).

Scrivere può divenire un’esperienza di risveglio, di guarigione, di metamorfosi e di transito verso una nuova consapevolezza di sé e degli altri. In quest’icona evangelica abbiamo uno dei tanti volti in cui si riflette e si irradia la Pasqua/ passaggio/ trasfigurazione. Piccole risurrezioni nel quotidiano: dalla malattia alla guarigione, dall’incredulità alla fede, dal disprezzo al riscatto, dalla cecità alla visione, dal peccato alla grazia, dalla morte alla vita.

Scrivere è aprire un varco al senso del vivere, del proprio vivere nel mondo; un passaggio che trasforma le cose antiche in nuove: «le cose vecchie sono passate: ecco, sono diventate nuove», (2Cor 5,17). Dalla mano inaridita si passa alla mano guarita dello scriba, che così può trarre fuori da sé la buona notizia, di cui è stato testimone: “coloro che avevano deciso di rinchiudere Gesù nel passato con la morte hanno alla fine fallito”, «Il Dio della pace, ha ricondotto dai morti il Pastore grande delle pecore» (Eb 13, 20). Colui che non ha abbandonato nemmeno quella pecora caduta nel fosso in giorno di sabato, ha scritto una pagina nuova, come una porta che nessuno può chiudere. Nella disumanità una breccia si è aperta, per far passare l’umanità di Dio nella scrittura umana.

Scrivere è come lasciarsi riaprire e tendere la propria mano rattrappita dalla mano dell’Altro e degli altri con l’ascolto e la lettura delle loro scritture narranti. Ciò presuppone il desiderio di leggere prima i loro vangeli nascosti e scritti nelle loro esistenze, e poi solo in un secondo momento tendere anche la propria mano per trarre fuori, scrivendo, significati antichi e sensi nuovi. Come il narrare anche lo scrivere è generativo. Come la vita così la scrittura non è mai un generarsi da sé, ma è soltanto la possibilità di una risposta, di un rigioco di quello che è la realtà degli altri, degli eventi che hanno inscritto in te: le loro storie, le loro vite: così sempre nuovi fogli bianchi attendono scritture.

Michel de Certeau [Qui] in La scrittura della storia ricorda che la scrittura è come una cerniera. Per un verso si scrive, per fare giustizia al passato che è perduto, ma al tempo stesso per aprire uno spazio ai vivi nel presente. Una frattura instauratrice: scrivendo ci si congeda dalle cose antiche, da ciò che è sottratto definitivamente, segnando così una discontinuità, una rottura con il passato irraggiungibile.

Ma al tempo stesso la scrittura apre all’alterità del presente, ovvero introduce il passato nel presente così da renderlo accessibile alla comprensione. Il passato segna la perdita della parola: essa non può più dirsi, di essa non ne rimane traccia, ma resta qualcosa: ciò che non può più dirsi, tuttavia può essere scritto. “Prendi e leggi” direbbe Agostino. Qualcuno parla quando leggo: è qualcuno che mi parla ‘dal’ e ‘nel’ testo. Come vi è una scrittura, un segno udibile in ogni parola, così pure una parola si rende visibile nella scrittura (Jaques Derrida).

Lettrice nell’infanzia di novelle e racconti Teresa d’Avila [Qui] scrive: «[Mia madre] amava leggere libri di cavalleria e ne facilitava la lettura anche a me … Tuttavia mio padre non lo vedeva di buon occhio e noi, per leggerli, cercavamo di non essere visti da lui». Scrivere per Teresa divenne poi un entrare in empatia con i suoi lettori.

Per questo nel libro de La Vida la sua scrittura fluisce ininterrotta, come da una sorgente, per poi distendersi come un fiume. Non usa la punteggiatura, se non in casi rarissimi. Si limita a una sbarretta / all’inizio di un paragrafo. Il resto è una fonte incessante, un “flusso di coscienza” continuo ‒ direbbero gli esperti di letteratura ‒ che sgorga da sé per giungere all’altro, irrigandolo nelle sue aridità spirituali. Scrittura “dal rilievo espressivo, scolpita con vigore”, la descrive una grafologa; scrittura “cesellata” e “sciolta”, “sinuosa e austera, chiara e nitida, tortuosa e allargata in lettere e parole”, da cui traspare una personalità vigorosa nella volontà e nel pensiero.

Scrive Il castello interiore e il libro della sua vita, non solo per far conoscere qualcosa, ma per rendere partecipi della sua esperienza spirituale. Un invito ad entrare, a dimorare, ad abitare le dimore di questi luoghi abitati da Dio; e questo luogo nella coscienza è l’umanità del Cristo, la sua amicizia.

Un giorno, riordinando in biblioteca a Santa Francesca alcuni testi fuori posto, mi è capitato tra le mani un vecchio Annuario del parroco del 1970. Testi e documenti di vita sacerdotale e di arte pastorale, fondato da don Giuseppe De Luca nel 1955, presbitero, editore e saggista (1898-1962).

Annuario continuato poi da don Giuseppe Badini negli anni del post concilio. Sfogliandolo mi sono fermato incuriosito a leggere un brano dal titolo Il posto di Cristo è veramente tra i poeti. Sono rimasto sorpreso.

Di più: «Ma guarda, mi sono detto, come subito dopo il concilio l’invito ai parroci era quello di leggere e di trovare nella letteratura l’immaginazione, la creatività per traghettare la novità del concilio, per tracciare e rendere fluenti le vie di una nuova pastorale per un rinnovato annuncio evangelico e vitalità liturgica. Ecco le cose nuove e le cose antiche da trarre fuori ancora!». La citazione era tratta da una lettera di Oscar Wilde [Qui] un testo, il De profundis scritto dal carcere in cui era rinchiuso. Egli aveva descritto anche le disumanità riservate ai carcerati: «E questo so ancora che ogni carcere costruito dagli uomini è costruito con mattoni di vergogna, è sbarrato, che Cristo non veda come gli uomini straziano i fratelli» (La ballata del carcere di Reading).

Come spinto dalla memoria che si era illuminata, all’improvviso mi sono portato allo scaffale della cristologia: cercavo un libro; ne ricordavo pure la classificazione Dewey: 232 CAS VOL: Ferdinando Castelli, Volti di Cristo nella letteratura moderna, Cinisello Balsamo 1995. Ho letto così nel terzo volume il capitolo dedicato a Wilde e l’annessa antologia: «Il posto di Cristo è veramente fra i poeti. La sua intera concezione dell’umanità balza nettamente dall’immaginazione e può essere compresa soltanto da essa. C’è sempre alcunché di quasi incredibile per me nell’idea di un giovane contadino di Galilea che immagina di poter portare sulle spalle il peso di tutto il mondo: tutto ciò che era già stato fatto e sofferto, e tutto ciò che doveva ancor esser fatto e sofferto: la sofferenza di coloro il cui nome è legione e la cui dimora è fra le tombe: delle nazionalità oppresse, dei bimbi che lavorano nelle fabbriche, dei ladri, la gente nel carcere, i proscritti, coloro che sono muti sotto l’oppressione e il cui silenzio è udito solo da Dio; e non soltanto egli immagina questo, ma lo effettua, così che in questo momento tutti quelli che vengono a contatto con la sua personalità, anche se non si sono mai inchinati al suo altare né inginocchiati davanti al suo sacerdote, trovano in qualche modo che la bruttura del loro peccato è tolta, e la bellezza del loro dolore è ad essi rivelata».

E più avanti ho continuato a leggere: «Per l’artista l’espressione è l’unico aspetto sotto il quale egli può concepire la vita. Per lui ciò che è muto è morto. Ma per Cristo non fu così. Con un’ampiezza e un prodigio d’immaginazione che quasi ci colma di riverente stupore, egli prese l’intero mondo che non ha favella, il mondo senza voce del dolore, per suo regno, e fece di sé lo strumento di espressione di quel mondo […]. E sentendo, con la natura artistica di colui per il quale la sofferenza e il dolore erano aspetti per mezzo dei quali poteva effettuare la concezione del bello, sentendo che un’idea non ha valore finché non è materializzata e resa immagine, egli fece di sé l’immagine dell’Uomo del Dolore, e come tale ha affascinato e dominato l’arte come a nessun iddio greco è mai riuscito di fare».

Perché scrivere ed immaginare? Si domanda nel suo libro, uscito da pochi mesi, Massimo Colombati: “per amare le parole e le cose e animati da un sentimento di amore per chi le ha scritte”, è la risposta: «L’arte è visione. È immaginazione. Ma avere fantasia non significa immaginarsi qualcosa; significa dare importanza alle cose. Scrivendo diamo importanza massima alle cose (attribuendo massima importanza alle parole). E cosa facciamo quando diamo tutta la nostra concentrazione, attenzione, passione alle cose? Le amiamo.» (Scrivere per dire sì al mondo, Milano 2021).

Così lo scriba/discepolo dal suo tesoro continua ancora a cavar fuori “cose nuove e cose antiche”.

 

Per leggere gli altri articoli di Presto di mattina, la rubrica di Andrea Zerbini, clicca [Qui]

Licenziamenti collettivi, un’alluvione senza argini

Gkn allo stabilimento di Campi Bisenzio, Whirlpool nello stabilimento di Napoli. Nel primo caso, 422 persone. Nel secondo, 356 persone. Licenziate con un tratto di penna, che nell’era della tecnologia cheap diventa un messaggio whatsapp, o una pec. Sono solo due esempi dell’alluvione che sta per allagare il tessuto sociale dopo la fine del blocco dei licenziamenti decretato a causa dell’epidemia di Covid-19. Un provvedimento tampone, seguito da un “avviso comune” Confcooperative, Cna, Confapi e Confindustria da una parte, sindacati dall’altra, con l’egida del Governo, che recita: le parti  “si impegnano a raccomandare l’utilizzo degli ammortizzatori sociali che la legislazione vigente ed il decreto legge in approvazione prevedono in alternativa alla risoluzione dei rapporti di lavoro. Auspicano e si impegnano, sulla base di principi condivisi, ad una pronta e rapida conclusione della riforma degli ammortizzatori sociali, all’avvio delle politiche attive e dei processi di formazione permanente e continua” . Raccomandazioni, nient’altro che raccomandazioni. Con le quali infatti alcune multinazionali si sono già spazzate il didietro, procedendo a comunicare i licenziamenti con modalità che ricordano le ferriere dell’800.

La debolezza ormai storica della rappresentanza politica di quella parte del mondo produttivo che è lavoro salariato si misura in tutta la sua profondità in questa fase di “ritorno alla normalità”, la peggiore per chi si ritrova senza tutele nel momento in cui il blocco dei licenziamenti termina: evento che produce lo stesso effetto di quando togli un tappo ad una falla senza che nel frattempo sia stato creato un recipiente in grado di contenere tutta l’acqua che uscirà.

“L’iniziativa economica privata è libera. Non può svolgersi in contrasto con la utilità sociale o in modo da recare danno alla sicurezza, alla libertà, alla dignità umana. La legge determina i programmi e i controlli opportuni perché l’attività economica pubblica e privata possa essere indirizzata e coordinata a fini sociali.”   Sembra una dichiarazione burlesca, calata dentro la situazione di fatto dell’industria italiana. Invece è il testo dell’art.41 della Costituzione. La legge che dovrebbe determinare “i programmi e i controlli opportuni perchè l’attività economica possa essere indirizzata a fini sociali” nel caso di specie è la disciplina sui licenziamenti collettivi, contenuta nella legge 223 del 1991, da coordinare con la legge Fornero e poi con il Jobs Act, che non hanno fatto che accentuare il suo carattere antisociale. Faccio un’affermazione così perentoria perchè la ratio che ispira questa disciplina è l’assunto secondo il quale è l’impresa stessa, in piena autonomia, a decidere quando uno “stato di crisi” giustifica l’apertura di una procedura di riduzione del personale. Non ci sono correttivi o interventi esterni all’impresa che possano realmente mettere in discussione la fondatezza delle ragioni della chiusura o della ristrutturazione, al punto che una multinazionale che complessivamente aumenta i profitti può permettersi di dichiarare la decisione di chiudere un “ramo secco” della propria produzione senza che alcuna regola o sanzione ne possa condizionare o scoraggiare la scelta. Le uniche regole imposte riguardano il rispetto di modi e tempi della procedura di discussione con la controparte sindacale: elementi formali, burocratici, il mancato rispetto dei quali tra l’altro non comporta nemmeno la reintegra di quei lavoratori illegittimamente selezionati per il licenziamento, ma solo una tutela indennitaria (nemmeno risarcitoria: quindi, un piatto di lenticchie). Per il resto, nella migliore delle ipotesi si finisce in mobilità, con un trattamento economico che dopo 24 mesi finisce. Per chi come il sottoscritto svolge attività sindacale, questa cornice legislativa è una palla al piede, che costringe a giocare costantemente di rimessa, a inseguire gli eventi senza poterne minimamente influenzare la genesi, potendo alfine solo negoziarne gli effetti su alcuni (da salvare) rispetto ad altri (da condannare). Come corollario arriva il disprezzo bipartisan per il ruolo del sindacato, chiamato a difendere i lavoratori con armi spuntate in partenza, che ne riducono la funzione a gestore del meno peggio. Come accennavo prima, questa situazione di cornice legislativa gravemente contrastante con il dettato costituzionale è il frutto di decenni di abbandono di una cultura politica che ha trasfuso il conflitto sociale e l’idea di uguaglianza sostanziale dentro leggi cardine come lo Statuto dei Lavoratori, che infatti è vecchia ormai di cinquant’anni. Questo abdicare alla propria funzione, che avrebbe dovuto essere un imprinting della propria stessa ragion d’essere, è una gravissima responsabilità della sinistra storica scagliata nel mondo globalizzato del post 1989, topos nel quale ha mostrato una inadeguatezza di aggiornamento ideale e di comprensione dei mutamenti tumultuosi dei fenomeni sociali che l’ha resa subalterna alle logiche economiche non tanto capitalistiche, ma liberistiche; con un cedimento al liberalismo che, applicato alla vita economica e sociale, produce effetti opposti rispetto al progredire del libertarismo nel campo dei diritti civili. Un liberismo, sia detto per inciso, che non esclude affatto l’intervento dello Stato nell’economia, purchè l’intervento serva a sovvenzionare le imprese con strumenti di sostegno (La Cassa Integrazione) completamente svincolati da qualunque reale impegno dell’impresa stessa in termini di investimenti per la riqualificazione degli impianti. L’impresa prende i soldi dallo Stato e quando decide di delocalizzare lo fa, e basta. Questo, in brutale sintesi, è il risultato della libera circolazione dei capitali. Questo, in brutale sintesi, è il frutto della “iniziativa economica privata”  riguardo alla quale il legislatore ordinario degli ultimi trent’anni(di destra, di centro e di sinistra) si è ben guardato dal coniugare libertà e rispetto della dignità umana e sociale, con buona pace del dettato costituzionale.

Una soluzione a breve termine non c’è, in tasca non ce l’ha nemmeno Draghi, a prescindere dalla considerazione sul suo più o meno elevato tasso di keynesismo (sopravvalutato, a giudicare dalla scelta degli uomini in settori cardine della macchina economica dello Stato). Esiste solo la possibilità di perseguire, dentro una cornice asfittica, una serie di interventi di riqualificazione professionale che non possono, ovviamente, essere disgiunti da scelte di politica industriale che pianifichino attività di riconversione (pensiamo al settore dell’energia) prima che le decisioni di chiusura dispieghino i loro nefasti effetti sociali.

DIARIO IN PUBBLICO
E alla fine… basta!

 

Mentre la parete di alberi col suo fiato profumato mi avvolge fino dentro la camera, qui a Vipiteno, penso e constato che ormai la mia ricerca per capire l’umore degli italiani medi, le loro richieste, i loro idoli, le loro preferenze, ormai è finita.

Non più a sentire l’umidore dei pensieri di zia Mara, non più a contemplare le unghie laccate delle mani tozze di Al Bano nella sua divisa pseudo chic tra cappello, sciarpetta, e giacchetta vip; non più la seriosità esibite nelle dichiarazioni calcistiche nel frattempo sconfessate dall’urlo bestiale dei tifosi; non più a contemplare l’abbraccio decisamente non odoroso degli idoli d’oggi, convulsamente attenti a reiterare gli scaramantici gesti della loro avventura milionaria.

Si tenta di spacciare il fisico di Maldini con riferimenti erotici non indifferenti. Perfino il capo di Stato si piega al rito e al mito del calcio. Ed io alle 11 di sera, assistendo alla cerimonia di chiusura del premio Strega, mi commuovo ancora sentendo la serenità raggiunta, la qualità altissima del pensiero di Edith Bruck [Qui], la sua immensa umanità espressa in parole; quegli occhi che hanno visto e condiviso l’orrore e hanno saputo trasformarlo in dialogo, in una totale trasformazione in eticità e amore.

Ma qualcosa succede. Incuriosito dalla frettolosa cena di gala, che di solito conclude la settimana nell’hotel Zum Engel, dal frettoloso sparire degli ospiti, risalgo in camera e spingo il pulsante e m’immergo nei momenti conclusivi della partita del secolo. Non l’avessi mai fatto! Mi lascio trascinare dalle prodezze dei campioni e, per la prima volta in vita mia, vengo travolto dall’eccitazione comune.

Guardo intanto con altrettanto ribrezzo le scene mostruose che accompagnano e commentano la vittoria; sghignazzo a più non posso agli osceni strafalcioni, che vengono propinati dai commentatori. Uno per tutti. A piazza del Popolo a Roma l’eccitatissimo cronista urla come sia commovente accompagnare assieme le note “dell’inno dei  Mameli” tutti assieme!

Nella Repubblica di lunedì 12 luglio l’editoriale di Ezio Mauro così commenta: “Ancora una volta scopriamo che lo sport veicola ed esalta il sentimento nazionale come se fosse diventato l’unica espressione ancora capace di generare e legittimare democraticamente lo spirito patriottico”.

Da questo spunto invece di elaborare la recensione attesa e complessa dell’ultimo volume della scrittrice ebraica Natasha Solomons [Qui], I Tunderbaum, mi dedico all’analisi dei festeggiamenti e degli inviti al Quirinale e a Palazzo Chigi dedicati da Mattarella e Draghi alla nazionale vittoriosa e al fascinoso Matteo Berettini. E capisco che ormai senza lo sport è impossibile governare. Mi si stringe il cuore; ma così sembra debba intendersi la funzione dello sport nella totalità dei governi d’ogni tipo.

Mentre di ritorno dal Castello di Ambras ad Innsbruck [Qui], travolto dalle meraviglie guerriere di Ferdinando II, dalla Wunderkammer con le sue mostruosità fascinose, dai personaggi della nostra storia tra cui lo splendido ritratto del duca ferrarese Alfonso II e della sua sposa Barbara d’Austria, dal giardino segreto e dal pavone che urla la sua bellezza passeggiando tra le aiuole, capisco che ‘forse’ lo sport ha sempre dominato come esercizio del potere (e si veda il Gigante di Ambras che, novello Gigio Donnarumma, imponeva le sue mostruose fattezze nelle collisioni tra eserciti).

Peter e Delberta sono contenti del mio stupore e questa giornata speciale si conclude con il più spaventoso temporale a cui abbia mai assistito, mentre lo scenario delle abetaie e pinete che alzano la coda del meraviglioso abito da ballo che indossano e che indolentemente rivela cime e montagne che lasciano senza respiro.

Per leggere gli altri interventi di Gianni Venturi nella sua rubrica Diario in pubblico clicca  [Qui]

FANTASMI
Spettri Benzodiazepinici

GIOVEDi’6 dicembre, ore 11.58

  • John, sveglia, è quasi ora di pranzo!

Riprendo coscienza mentre cado da un palazzo di sette piani, brancolo nell’aria e d’istinto mi aggrappo al collo di questa donnona che mi squadra tra il preoccupato e l’infuriato. Cado dal sesto piano mentre mi sveglio, brancolo nell’aria e mi appiglio al collo di questa donnona immensa che mi guarda stupefatta e rabbiosa.

  • Ah guardi che mi hanno detto che la devo lavare per bene prima di mangiare eh! E lei farà il bravo vero?

Chi è, che vuole, chi sono io, dove mi trovo, perché non mi ricordo, niente di niente, ce l’avrò una famiglia, una casa, magari anche un lavoro… Tabula rasa, una vasta prateria in mezzo al vuoto cosmico. E questi post-it. Sono dappertutto. Sulla giacca del pigiama, sulla testiera del letto. Alcuni sono caduti tra le lenzuola. Sulla lavagnetta di fianco alla finestra qualcuno ha scritto LEGGI I POST IT. La scrittura è familiare, forse è la mia?

  • Allora che dice, proviamo ad alzarci? Su, su, ecco così, brrravo! Forza che ci siamo quasi in bagno, ce la fa a spogliarsi? L’aiuto io, non si vergogni, faccio l’infermiera e conosco tutte le nudità e gli umori di questo mondo e forse anche dell’altro…

“Non ti fidare di lei”. Lei chi? “Ricordati le pillole”. Che pillole?

  • Signora, non è che devo prendere delle pillole? Che ne so, per il cuore, la pressione, cose così?
  • Ah ma allora sa parlare! Che bello! E che voce tonante! Mi ricorda il mio povero marito, pace all’anima sua, quando cantava sotto la doccia, che spettacolo! Anche i vicini si affacciavano al pianerottolo. Mi chiami pure signora Maria. Le pillole, dice. Vediamo che mi ha lasciato scritto sua nuora sulle pillole. Ecco. “Non dia retta se chiede le pillole. Assolutamente non deve prendere nessuna pillola”. Bene, discorso chiuso, niente pillole.
  • Ma è sicura? Mi sembra di ricordare che prendo delle pillole.
  • Queste sono le istruzioni lasciate appositamente da sua nuora. Vanno seguite alla lettera e si è raccomandata moltissimo. Stasera sarà qui e potrà chiedere a lei.

La faccenda non quadra. Perché ho scritto delle pillole? Di chi non mi devo fidare? “Tua figlia è a Boston, numero nel primo cassetto”.

  • Ehi, dove va? Non abbiamo nemmeno incominciato a fare il bagno! E poi così, tutto nudo gira per casa? Si prenderà un bel raffreddore, a quest’ora i caloriferi sono ancora spenti. Su, per favore, torni qui, guardi che bel bagnetto caldo che sto preparando.

Maledizione, qui ci sono vari numeri di telefono, Anne, Edith, Bonzo. Bonzo? Chi diavolo si fa chiamare Bonzo? Vabbè, ne scelgo uno a caso. Clara.

  • Pronto, buongiorno, parlo con la signora Clara?
  • Sì? Oh ciao John, che piacere. Come stai?
  • Clara, ti prego, aiutami, mi stanno negando le mie pill…

La signora Maria arriva come una furia, mi strappa il telefono, lo mette giù e inizia a trascinarmi verso il bagno. C’è qualcosa di rudemente antico in tutto quello che fa, come se fosse ordinato da Matusalemme in persona e quindi inevitabile, vista l’autorevolezza del mandante.

  • Ecco, ora basta. Si torna al bagnetto. E stavolta non transigo. Guardi, John, sono abituata ad avere a che fare con pazienti molto più massicci di lei. Non le consiglio di fare altre bravate.

Sono perduto. E’ vero, non mi posso fidare di lei. Devo stare al gioco.

  • Oh bene bene. Com’è la temperatura? Un po’ caldina forse? Ma con il freddo che fa fuori un bagnetto caldo è una manna dal cielo, vero? Stia lì bello rilassato, che ci penso io a insaponarla.
  • Grazie signora Maria, sto benissimo, ma per favore mi aiuta a capire perché sono qui e cosa sono tutti questi post-it sparsi dappertutto?

La signora Maria smette di insaponarmi. Mi guarda a lungo in silenzio e poi si alza. Sembra che si accorga solo ora delle decine di post-it attaccati sulle piastrelle, sugli specchi, per terra. Il caldo della vasca intanto contribuisce a staccarne altri che cadono pigramente a terra, dimenandosi un po’ durante la caduta.

Ho un flash che mi porta indietro, indietro, sono seduto sui gradini di una casa sul bordo di un bosco e dalla grande quercia del giardino le foglie morte si staccano dopo ogni folata di vento, cadendo con quel moto tipico delle foglie che cadono, come fossero pesi di un pendolo anch’esso in caduta lenta e inesorabile. Poi mi rianimo e vedo la mia badante che raccoglie con una scopa i post-it e li mette nel cestino del bagno.

  • Ordine, bisogna fare ordine! Se no poi chi la sente sua nuora! Lei stia lì ancora un attimo, male non le farà, poi dobbiamo ancora lavare i capelli.

Suonano alla porta. Mentre va a vedere chi è, sbuffando e imprecando, ho forse il tempo di dare un’occhiata ai post-it nel cestino. “100.000 $, non uno di meno!”, “Cioccolato fondente, non al latte”, “Aiuta Clara a scappare”.  Perso, sono sempre più perso.

  • Signor Morris, c’è alla porta un signore che dice di avere un appuntamento con lei, urgente, per una fornitura di … come ha detto? Ah sì, benzodiazepine. Mi sembra.
  • Per favore, gli dica che non lo posso ricevere ora, può tornare stasera, quando ci sarà mia nuora.

La signora Maria va a riferire. Subito le voci salgono di tono e si fanno concitate. Rumore di lampada che cade sbriciolandosi e porta sbattuta. Un uomo enorme entra in bagno quasi sradicando la porta.

  • Ohohoh eccolo il signorino che si fa il bagnetto, mentre qui fuori c’è mezza città che cerca le pilloline miracolose. Allora, dove sono? Non mi costringere a usare le maniere forti.
  • Guardi ci deve essere un errore, non so di cosa sta parlando.
  • -Cosa? Un errore?

Si avvicina, attacca il phon alla presa e lo avvia, avvicinandolo all’acqua.

  • L’errore sarà vederti friggere in quella vasca se non ti sbrighi.
  • Guardi signore l’errore, intendevo, è nella mia testa: non ricordo. Neanche perché sono qui. Forse quello che cerca è scritto su uno di questi post-it. Davvero non so come aiutarla. Mi creda.
  • Mmmm e la cicciona qui? Non sa nulla?

La signora Maria lo guarda terrorizzata, poi guarda me, poi di nuovo lui. Inizia a balbettare:

  • La pre-prego mi la-lasci stare, sono so-solo la ba-ba-da-dante, chie-chieda al si-signor Morris…
  • Senti Morris, aiutami a capire, ieri sera eravamo al club di Joe e tra un bicchiere e l’altro ti ho dato un pacco di bigliettoni. Questo te lo ricordi? E non era un regalo, era l’accordo: 90000 dollari per quel carico di pillole.
  • -E’ sicuro? Una cosa me la ricordo, si era detto non meno di 100.000…
  • John, così mi fai incazzare. Fai lo smemorato e poi te ne esci con questi dettagli. A che gioco stai giocando? Ora basta, chiamo i mei uomini e ribaltiamo questo appartamento.

Si avvicina alla finestra del bagno, spintona via la signora Maria che cade a terra frignando e lamentandosi e apre la finestra che dà sulla strada.

  • Voi due! Inutili! Venite su a darmi una mano!

Ecco. Ora arrivano i rinforzi. Mi guardo intorno, la mia stessa nudità sta diventando intollerabile, come tutta questa situazione in fin dei conti. Ora basta. Mi alzo, il pisello mi sballonzola davanti e suscita la curiosità dell’omone, che scopro intento a fissarlo.

  • Senta lei, come-si-chiama, facciamola finita. Dica a quei due di starsene buoni e risolviamo la faccenda da uomini.

Poi succede. La catarsi. La porta abbattuta. La polizia che fa irruzione. Gli spari. Dopo pochi minuti è tutto finito. Bilancio, 3 morti: io, la signora Maria, un poliziotto. Un ferito grave, l’omone intruso.

 

MERCOLEDI’ 5 dicembre, ore 22.31

  • John, ti sei ricordato di chiamare la signora Maria? Guarda che poi ci resta male se ti dimentichi un’altra volta il suo compleanno.
  • – Sì sì aspetta un attimo, fammi finire di mettere a posto le medicine, che se ce le dimentichiamo poi non so come faccio a recuperarle lì, chi mi farebbe la ricetta poi…

L’aereo per Boston partiva a mezzanotte e un quarto, era l’unico che avevano trovato quando erano stati avvertiti dal marito di Edith che a sua figlia si erano rotte le acque e stava per entrare in sala parto. Chissà se sarebbero riusciti a salvare il nascituro, dopo appena 7 mesi di gestazione. John Morris chiuse il beauty case con al sicuro le benzodiazepine di cui da un paio d’anni, dalla morte della moglie, non poteva fare a meno. Sarebbe diventato nonno! Forse, vacci piano, si disse. Forse. Se i dottori riusciranno a salvare capra e cavoli. Ma perché non dovrebbero, con tutte le diavolerie che si sono inventati al giorno d’oggi? Vuoi che non riescano a fare uscire quello sgorbietto urlante?

Un quarto d’ora dopo erano in taxi in direzione Newark-Liberty. Ovviamente senza aver fatto gli auguri alla signora Maria.

  • John, chiamala ora, per favore…
  • Uff quando arriviamo la chiamo, non ora che faccio fatica pure a sentire te…

La signora Maria era stata l’insegnante di inglese di John durante le scuole superiori ed era lei che aveva spinto i suoi genitori, con pressioni oltre l’immaginabile, a tentare l’iscrizione alla Rutgers University per studiare letteratura. Il che poi gli avrebbe aperto la strada per diventare uno scrittore di successo, con milioni di copie vendute in tutto il mondo. Ora lei era l’unica cosa che restava in vita della sua giovinezza.

Mentre stava fissando un aereo in atterraggio, John sentì una improvvisa vampata di calore e un leggero stordimento. Si girò verso la sua compagna ma non riuscì a metterla a fuoco.

  • Anne, mi gira la testa. Non so cosa sta succeden…

Furono le sue ultime parole. Il venerato scrittore John Morris fu ricoverato dopo meno di un’ora al Saint Michael’s Medical Center e non riprese più conoscenza. Il giorno dopo il suo elettroencefalogramma, prima di diventare piatto, mostrò i segni di una intensa attività, che cessò come se si fosse improvvisamente staccata la corrente ad un concerto di hard rock.

Il nipote di Morris è nato e, anche se prematuro, sta benissimo.

Racconto inedito, proprietà dell’autore.

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Effetti del nuovo liberalismo del governo Draghi:
più poveri e più privatizzati

E’ stato denominato nei giorni scorsi dal Commissario dell’UE Paolo Gentiloni “ritiro selettivo degli interventi di sostegno”, un modo pudico per dire che si uscirà dalle politiche di parziale attenuazione della crisi scaturita dalla pandemia, sulla base del fatto che, sempre lo stesso, in modo decisamente azzardato, legge la prevista crescita attorno del 5% del PIL per il 2021 con una sorta di nuovo boom economico, invece che un’inversione di tendenza rispetto alla pesante caduta di quasi il 9% nel 2020.

Da qui, ad esempio, il ritiro del blocco dei licenziamenti, certamente non surrogato dal pannicello caldo dell’avviso comune tra sindacati, Confindustria e governo, ma, probabilmente anche una misura, di cui si sta parlando troppo poco, che prevede l’innalzamento delle tariffe del gas e della luce a partire dal 1° luglio, rispettivamente del 15,5% e del 9,9%. Un aggravio considerevole, che è stato stimato di più di 200 € su base annua per una famiglia media, e che sarebbe stato ancor più forte senza uno stanziamento in proposito di più di 1 miliardo da parte del governo.
Il punto è, però, che scelte di questa natura aggravano la situazione che ci sta consegnando la pandemia, e cioè quella di un Paese ancora più povero e diseguale. Altro che “ne usciremo tutti meglio” e “nessuno rimarrà indietro”, di cui favoleggia la retorica sparsa a piene mani da governo e media mainstream.
Che, ahimè, non sia così, ce lo dicono ormai tutti gli studi che sono già usciti sugli effetti nella distribuzione del reddito durante la pandemia: dall’Istat che certifica che nel 2020 il numero di persone sotto la soglia di povertà assoluta è arrivato a ben il 9,4% rispetto al 7,7% del 2019, raggiungendo il livello più elevato dal 2005, ad un recente approfondimento uscito nelle pubblicazioni di Bankitalia che mette in luce come “la pandemia ha colpito più duramente le famiglie a basso reddito da lavoro, dove si concentrano gli occupati che hanno minori possibilità di lavorare da casa, che svolgono lavori più instabili e in settori maggiormente esposti alla crisi”.

Né si può semplicemente sostenere che questa è la situazione del punto di massima crisi e che adesso essa evolverà positivamente, se, appunto, si prendono provvedimenti che, anziché ridurre le disuguaglianze, sono invece destinate ad acuirle.
Gli incrementi tariffari, infatti, colpiscono maggiormente, in termini relativi, le famiglie a reddito medio-basso e, peraltro, non si fermano alla ‘stangata’ su luce e gas. Per quanto riguarda la tariffa sui rifiuti, il nuovo regolamento per il 2021 introdotto da ARERA, l’Autorità nazionale di regolazione per energia, reti e ambiente, stabilisce che la cosiddetta “remunerazione del capitale”, cioè il profitto garantito ai soggetti gestori, raddoppia dal 3% al 6% e, inoltre, sempre ai gestori, viene riconosciuto un ulteriore ricavo legato all’incremento della raccolta differenziata (della serie: i cittadini sono invitati ad avere comportamenti virtuosi e le imprese private guadagnano sul loro impegno).
Non parliamo poi delle vicende relative alla tariffe dell’acqua, aumentate, secondo la CGIA di Mestre, del 90% tra il 2007 e il 2017, anche grazie alla scandalosa decisione, sempre di ARERA, di contraddire l’esito del referendum del 2011 che aveva cancellato la remunerazione del capitale, ripristinandola semplicemente con un’altra dizione (riconoscimento degli oneri finanziari). 

A quest’impennata delle tariffe, poi, si associano tutta una serie di recenti decisioni che spingono verso un’ulteriore privatizzazione dei servizi pubblici locali: l’art. 177 del Codice degli appalti penalizza fortemente le aziende che sono concessionarie dei servizi di distribuzione del gas, dell’energia elettrica e dei rifiuti senza essere passate attraverso una gara, obbligandole, entro la fine del 2021, ad esternalizzare l’80% dei propri lavori; per il servizio di raccolta dei rifiuti,  viene introdotta la possibilità per le utenze non domestiche di sganciarsi dal servizio pubblico, rivolgendosi al mercato libero purché i rifiuti siano avviati al recupero, determinando un ulteriore diminuzione del gettito del servizio pubblico; per quanto riguarda il servizio idrico, nel Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza c’è un’indicazione esplicita di completare i processi di privatizzazione, consegnando, nella sostanza, anche il Mezzogiorno alle grandi multiutilities quotate in Borsa.

Il tutto in attesa della ‘riforma’ della concorrenza, annunciata dal governo Draghi entro la fine di questo mese, che ha proprio il compito di rendere residuale il ruolo delle aziende pubbliche anche nel settore dei servizi pubblici locali.
Del resto, non c’è da stupirsi più di tanto, visto che tutta l’azione del governo e il PNRR sono esattamente ispirate da una logica di ‘modernizzazione’, che si pensa possa essere guidata esclusivamente dal mercato. Anzi, l’idea lì dominante, per certi versi ancora più regressiva dei canoni ‘classici’ del neoliberismo, è che sia proprio l’intervento pubblico a diventare servente del mercato: un rovesciamento del ruolo dello Stato, piuttosto che la sua limitazione e, men che meno, la sua sparizione.
Le risorse significative del PNRR  vengono finalizzate proprio alloscopo di creare e costruire nuovi mercati, da quello delle piattaforme digitali a quello di una presunta ‘economia green’, in realtà viziata sin dall’origine dall’obiettivo di garantire buoni profitti ai grandi soggetti protagonisti del ricorso alle fonti fossili, in primo luogo ENI e ENEL.

Per evitare, però, di cadere semplicemente nell’elencare le decisioni sbagliate, che, alla fine, diventa una pratica autolesionista, provo ad indicare 3 questioni su cui si dovrebbe intervenire e sulle quali va costruita la mobilitazione necessaria per farlo.

La prima è l’abrogazione di ARERA
, non solo perché, a partire dalla materia tariffaria, assume i parametri del mercato e della redditività aziendale come punti di riferimento fondamentale nella propria azione. Ancor prima, però, viene il fatto di aver demandato ad un’agenzia ‘tecnica’ il ruolo di determinare scelte importanti di politica tariffaria, sottraendole alla sfera della decisione politica.
Non a caso, tale orientamento è stato consolidato dal governo Monti, fulgido esempio del primato della tecnocrazia sulla politica, di una supposta ‘neutralità’ della tecnica, in questo buon predecessore dell’attuale governo Draghi, che ha fatto di ciò una delle cifre deteriori della sua impostazione.

Poi, andrebbe completamente riscritto il PNRR: qui il ragionamento sarebbe lungo e meriterebbe un approfondimento specifico. Mi limito a dire che occorre rivederne a fondo le priorità e assumere, al posto del rilancio della crescita quantitativa e del mercato, gli indicatori della creazione di buona e piena occupazione, di un nuovo welfare della cura e dei beni comuni e della fuoriuscita rapida dal modello di sviluppo basato sull’energia fossile come quelli su cui misurare le scelte da effettuare.

Infine, bisogna rilanciare la battaglia per la ripubblicizzazione dei beni comuni e dei servizi che li erogano.
Per stare vicino a noi, ad esempio, a fine anno scade la concessione del servizio idrico a Bologna affidato a Hera. A Ferrara, la concessione del servizio di raccolta dei rifiuti urbani, sempre affidata a Hera, è scaduta alla fine del 2017 e da allora Hera continua a gestirlo in proroga.
Bene, la scadenza della concessione è il momento più favorevole, in assenza di una legge nazionale, per procedere alla ripubblicizzazione del servizio, dando vita ad aziende pubbliche partecipate dai lavoratori e dai cittadini, visto che non ci si può trincerare dietro l’alibi dei costi eccessivi per andare in tale direzione. E allora, quali ostacoli si frappongono a farlo, da parte delle Amministrazioni Locali di riferimento, se non una pregiudiziale e ideologica volontà di affermare il primato del mercato e delle grandi multiutilities, come Hera, anch’esse votate alla sua logica?
Per fortuna, movimenti e cittadini hanno già sollevato con forza, a Bologna e Ferrara, tale tema. Vale la pena che questa voce salga ancora più forte e che si allarghino le forze e i soggetti in campo. In modo tale che chi ha la responsabilità politica delle scelte non volti la testa da un’altra parte, esca dall’ormai abituale silenzio, abbia il coraggio di dire da che parte vuole stare.

Cover: Mario Draghi al World Economic Forum Annual Meeting, 2012 (Wikimedia Commons)

PER CERTI VERSI
Si è buttato sotto il treno

SI E’ BUTTATO SOTTO IL TRENO

Si è buttato sotto il treno
Nella morte più disperata
Che straccia
La vita di un giovane
Con un viso
Da cerbiatto
Diciotto anni
Di insulti
Di chissà quali
Colpe ingoiate
Nella più sola innocenza
Di essere gay

Ogni domenica Ferraraitalia ospita ‘Per certi versi’, angolo di poesia che presenta le liriche del professor Roberto Dall’Olio.
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PRESTO DI MATTINA
La vita “a piedi scalzi” di padre Marcello

La notizia arriva proprio a ridosso del 13 luglio 1984, ricorrenza annuale della morte di padre Marcello dell’Immacolata, che coincide peraltro con l’inizio del triduo in onore della Beata Vergine del monte Carmelo: il 25 settembre prossimo ci sarà la chiusura della fase diocesana del processo di canonizzazione di padre Marcello, carmelitano della chiesa di san Girolamo in cui è sepolto. È amico silente ancora in ascolto delle tante voci narranti i nodi della vita, i groppi alla gola, i pesi del cuore.

Anche ora che il convento e la chiesa sono chiusi per lavori (ma a fine ottobre sarà riaperta), mi fermo all’esterno del muro che confina con la sua tomba per raccogliermi in preghiera. Tocco con la mano le pietre, ora qua ora là, come se toccassi il lembo del suo scapolare o il mantello bianco per dare una «svolta del respiro» (Paul Celan), inspirando un poco del suo spirito ‒ quella sua umanissima spiritualità ‒ col desiderio di restituirlo ed espirarlo poi nella quotidianità del vivere.

La spiritualità è un soffio raggiante e irradiante, un fiato trattenuto dentro, come la luce nel cristallo, prima di uscir fuori di nuovo, senza lasciarsi imprigionare dai margini e dalle forme. È pure come una “svolta” tra la fine di una frase e quella successiva; travalica i bordi di una pagina, passando ad un’altra. È pausa di respiro nell’andare a capo a fine riga; pausa di un silenzio che trasforma e risana, che fa grazia e permette un altro respiro, un respiro dopo un altro, un altro passo ancora.

Nessun tempo e spazio possano fermarne il ritmo, così è la vita secondo lo spirito. Esperienza di apertura al mondo, che ricrea le parole interiori attingendo alla realtà dell’Altro, degli altri, delle cose e degli eventi. Solo allora la spiritualità è generativa e riparatrice, ospitale e perdonante: è proprio come la preghiera e la poesia, sempre risorgente e spirante, come a pasqua essa è più forte della morte.

Prima di riprendere la bici e ripartire da san Girolamo, nascondo simbolicamente tra le pietre dei foglietti di “fiato” come fece a Gerusalemme, al muro del pianto, Giovanni Paolo II. Alito non solo i miei respiri, ma pure quelli dei fratelli e delle sorelle, sospiri che raccolgo ogni giorno strada facendo. E così, in quella compagnia silenziosa con padre Marcello, d’improvviso da dentro a fuori, la sua parola risorta attraversa quel muro che sembrava impenetrabile, massiccio e muto e fessurando la pietra sussurra sorridendo: «Avanti! Andate avanti, dillo a tutti quelli che incontrerai per via. Ricorda poi: ‘l’obbedienza fa miracoli, scioglie i nodi’».

Scioglie i nodi sì perché obbedire è contrazione della liberà in ragione della libertà stessa come amore, quella che decide di fare spazio, di aprire uno slargo e fare credito alla parola e all’esistenza dell’altro. Essa germina dall’ob-audire, ovvero dall’ascoltare paziente che si fonda sulla fiducia. L’obbedienza della fede, di cui parla anche il Concilio Vaticano II, è un ascoltare che prende sempre più la forma del credere all’affidabile Parola dell’Altro, e ad essa, quando si crede nel profondo, ci si abbandona tutt’interi e liberamente, con mente e cuore (Dei Verbum, 4).

Vita Carmelitana, vita “scalzata” quella di padre Macello. L’ordine carmelitano deriva dalla riforma scalza introdotta nel 1562 nel monastero femminile di San Giuseppe d’Ávila da santa Teresa di Gesù [Qui], nel quale si voleva nuovamente rivivere la forma apostolica delle comunità cristiana, contemplativa e missionaria. Una riforma poi estesa al ramo maschile dell’ordine carmelitano [Qui] ad opera di san Giovanni della Croce [Qui] nel 1568.

Scalzati per distinguersi dai calzati, che non accettarono la riforma e reagirono in modo turbolento. Scalzati come Mosè al Roveto ardente (Es 3,1-10); simbolo dell’alterità accogliente ed ospitale, inviolabile della dignità e santità altrui, a cui si può accedere solo togliendosi i sandali nella forma della donazione e non del possesso. Restare scalzi di fronte all’altro dice la relazione di intimità, il legame di amicizia l’unione amante nella differenza capace di compiere la diversità dell’altro salvaguardandola. Di più. Il Roveto ardente lascia uscire un flebile fiato, un flatus vocis, che promette di ribaltare le sorti della soffocante situazione di schiavitù in cui si trovava Israele sotto il dominio del dio Faraone. Ancora una “svolta del respiro” per il popolo senza più fiato; un divino respiro che, dirigendosi verso l’altro, si fa umano umanizzando, una condivisione nel patire che muta il destino.

Mosè parlava con Dio faccia a faccia; lui che era balbuziente, bocca a bocca con Dio (Es 4,10; Num 12, 8). Soffi cospiranti, verso una beatitudine promessa per chi decide nel suo cuore il santo viaggio: «Beato chi trova in te la sua forza avendo le tue vie nel suo cuore. Passando per la valle del pianto la cambia in una sorgente» (Sal 83).

Un uscire senza ritorno è la vita nello spirito, verso un dove che non si sa e a cui ci si affida e così si è afferrati e spinti in avanti, disposti a non cedere, continuando ad aver fede nel proprio desiderio, che è un desiderio di vita promessa, perché fedele è colui che ha promesso; un uscire non senza rimpianti, litigi e batticuori; ma avanti, sempre avanti e ancora avanti.

Fu questa anche la spirituale umanità di padre Marcello, un incessante esodo verso l’altro, un fidarsi restando accanto, accompagnando, insieme salendo al monte che è Cristo, per trovare e ricevere la sua dolce amicizia.

Mi raccontava nonna Iris che una volta con la sua nipotina passò per san Girolamo. Era d’inverno e c’era la neve. Al vedere i piedi rossi dal freddo di padre Marcello la piccola lo guardò e gli chiese perché non si mettesse le calze, che starebbe stato più caldo certamente e la risposta fu: «mi metterò le calze quando tu ti metterai un sacchetto sul naso perché vedo che anche il tuo naso è tutto rosso dal freddo». Si misero a ridere tutti e tre.

Ma quale semplicità in parabola per far capire che, al pari del volto scoperto ‒ epifania di umanità, immediatezza di presenza all’altro, invito al dialogo di un volto che parla già prima di aprire bocca, soglia di incontro, principio di riconoscimento nella reciprocità degli sguardi che si mostra in dignitosa nudità e in povertà bella ‒ così i piedi scalzi erano pure epifania della vita interiore, il rendersi visibile di come tutta la persona dentro e fuori stia e viva alla presenza del roveto ardente, in ascolto di una parola che ti fa partire come Mosè per riscattare dalla schiavitù i fratelli, per servire e prenderti cura delle ferite di umanità, nella forma di una intercessione e donazione, di un accompagnamento e condivisione.

Il primo giuramento delle monache e monaci buddisti è: «Giuro di soccorrere il maggior numero possibile di persone ed esseri viventi oppressi dalla sofferenza». E così ripenso a padre Marcello dell’Immacolata che fu anche padre Marcello dei ferraresi. Il genitivo specifica la modalità di presenza; non circoscrive uno spazio, ma il modo di abitarlo. Il genitivo è allora generativo di un ambito, di un particolare modo di esercitare il proprio modo di stare nella vita e di ciò che si vuole fare della propria vita. Penso allora al suo ministero nell’ospedale, in cui si curava la talassemia, di fronte a San Girolamo, all’insegnamento nella scuola poi e al confessionale.

Dell’Immacolata” specifica la condizione di integrità, di innocenza annunciata da Dio nella Genesi, dopo la rovinosa caduta dei primogenitori. Innocenza che non è andata perduta ma preservata in una donna, quale segno posto da un Dio che non ha chiuso con l’umanità, ma intende percorrere un’altra strada per rigiocare la sua alleanza in un modo nuovo: la via di una reale incarnazione in umanità del Figlio amato, l’Innocente Agnello che sconfiggerà alla radice, facendosene carico, l’empietà sanguinaria che abita il mondo.

Dell’Immacolata specifica così un’integrità germinale che permetterà un nuovo inizio, il dono di una nuova innocenza. Ma non è stata singolarmente questa la condizione di padre Marcello, la sua vocazione a servizio di Nostra Signora del monte Carmelo? Egli infatti nel sacramento della riconciliazione, attingendo alla sorgente della grazia perdonante, riapriva sempre la strada dell’innocenza, restituiva l’integrità della vita battesimale, come levatrice accompagnava la rinascita nel Cristo, affinché coloro che lo avevano incontrato potessero riprendere la via e la vita buona del Vangelo.

Vita carmelitana è una «umanità contemplativa». Anche qui il genitivo “del monte Carmelo” specifica il modo d’essere di questa vita, una pienezza promessa a questa via: «il deserto diventerà un Carmelo e il Carmelo diventerà una foresta. Il diritto dimorerà nel deserto e la giustizia abiterà nel Carmelo», (Is 32,15-20). In Isaia (35 1-2) ritorna la stessa immagine per descrivere la gloria della Gerusalemme ritrovata, così bella che diventa quasi un riflesso della gloria di Dio: «Si rallegrino la steppa e la terra arida e fiorisca il deserto di gioia. Come fiore di narciso fiorisca, canti di gioia ed esulti: le è data la gloria del Libano, lo splendore del Carmelo e di Sharon. Essi vedranno la gloria del Signore, lo splendore del nostro Dio».

«Umanità contemplativa» a immagine della umanità nuova del Figlio, che patì e pianse nell’orto degli ulivi; morì trafitto sul monte, appeso ad una croce e in un giardino il suo spirito e il suo corpo furono liberati dalla morte.

In quello stesso giardino occhi di donne lo contemplarono e amarono gioiosamente risorto; e per l’intreccio e la complicità amorosa di quegli sguardi si generò l’invio missionario, nacque l’annuncio della buona notizia ai fratelli e alle sorelle, quella di un vangelo per l’umanità.

«Ardo di zelo per la causa di Dio» che è l’umanità dice il motto carmelitano. Lo stesso del profeta Elia che dovette imparare, ridiscendendo dal monte sul quale aveva visto Dio solo di spalle, a contemplare il suo volto, faccia a faccia questa volta, praticando l’umanità dei poveri di Jahvé, degli orfani e delle vedove, abitando fra di loro come accadde a Zarepta di Sindone. Così padre Marcello contemplò il volto soffrente dell’uomo della croce nascosto nei volti dei sofferenti che incontrava.

«Umanità contemplativa» per dire la vita carmelitana è figura che ho imparato leggendo il discorso tenuto da Rowan Douglas Williams vescovo anglicano, teologo e poeta, al Sinodo dei vescovi della Chiesa cattolica nel 2012 sul tema della Nuova evangelizzazione. «Essere pienamene umani significa essere creati nuovamente a immagine dell’umanità di Cristo; e quell’umanità rappresenta la perfetta “traduzione” umana del rapporto dell’eterno Figlio con l’eterno Padre, un rapporto di donazione di sé nell’amore e nell’adorazione, una reciproca effusione di vita. In tal modo, l’umanità in cui cresciamo nello Spirito, l’umanità che cerchiamo di condividere con il mondo come frutto dell’opera redentrice di Cristo, è un’umanità contemplativa».

Con sorpresa ho poi scoperto, continuando nella lettura dell’intervento del vescovo anglicano Rowan, che tale espressione egli l’aveva imparata da un santa carmelitana, filosofa e mistica e martire di origine ebraica, vittima della Shoah: Edith Stein, Teresa Benedetta della Croce [Qui], (Breslavia, 12 ottobre 1891 – Auschwitz, 9 agosto 1942).

Così egli ne esplicita il pensiero: «Santa Edith Stein ha osservato che iniziamo a comprendere la teologia quando vediamo Dio come “Primo Teologo”, il primo a parlarci della realtà della vita divina, poiché “tutto ciò che si dice su Dio presuppone che Dio abbia parlato”; in modo analogo possiamo dire che iniziamo a comprendere la contemplazione quando vediamo Dio come il primo contemplativo, l’eterno paradigma di quell’attenzione generosa verso l’altro che porta non la morte ma la vita. Tutto il contemplare da parte di Dio presuppone la propria assorta e gioiosa conoscenza di sé di Dio e la contemplazione di sé nella vita trinitaria».

E continua: «Essere contemplativi come lo è Cristo significa essere aperti a tutta la pienezza che il Padre vuole effondere nei nostri cuori. Con le nostre menti rese silenziose e pronte a ricevere, con le fantasie che noi stessi abbiamo generato su Dio e su noi stessi ridotte al silenzio, abbiamo finalmente raggiunto il punto in cui possiamo cominciare a crescere. E il viso che dobbiamo mostrare al nostro mondo è il viso di un’umanità in incessante crescita verso l’amore, un’umanità così incantata e impegnata dalla gloria di ciò a cui tende, che siamo pronti a intraprendere un viaggio senza fine per trovare la via che ci conduce più profondamente nel cuore della vita trinitaria. San Paolo dice (2 Cor 3, 18) come “a viso scoperto, (a piedi scalzi, p. Marcello) riflettendo come in uno specchio la gloria del Signore”, siamo trasfigurati da una luce sempre più forte. Questo è il volto che cerchiamo di mostrare ai nostri fratelli nell’umanità. Lo cerchiamo non perché siamo alla ricerca di una qualche privata “esperienza religiosa” che ci farà sentire sicuri o santi. Lo cerchiamo perché in questo sguardo dimentico di sé, rivolto verso la luce di Dio in Cristo, noi impariamo a guardarci l’un l’altro e a guardare tutta la creazione di Dio». [Qui]

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L’Album di fotografie

 

-Apri la porta al nonno; dai sbrigati è già qui ,ed è un po’ di tempo che sta aspettando!- disse mia mamma. Corsi velocemente al portone e, appena aperto, buttai le braccia al collo del mio nonno.
-Piano ,piano, attento sono ormai un vecchietto, così mi butti per terra…dai fammi entrare che qui fa freddo!- disse sorridendo .
E io con un occhio rivolto al suo viso e con l’altro al borsone di pelle scura, cercavo di indovinare già il contenuto del mio regalo!
-Dai andiamo su al caldo, lo so che hai una fretta indiavola di vedere cosa ti ho portato-continuò a dire sempre sorridendo il nonno.
-Ooh, finalmente, dai siediti qui …vedi? Ho già gli occhi chiusi-, dissi protendendo le mie braccia in avanti per accogliere il dono tanto atteso. -Dai non ce la faccio più!-
Il nonno estrasse dal borsone un grosso pacco di forma quadrata legato con un fiocco rosso e lo appoggiò sulle mie gambe.
-Non sarà mica un libro!- dissi fingendo un certo disappunto.
-No ,no, tranquillo; anche per quest’anno rimarrai il solito somarello-
-Ma se a scuola ho tutti otto e nove!- protestai
-Se lo dici tu… apri il pacchetto adesso-
Le mie manine da bimbo lottarono col nastro rosso finché intervenne il nonno per dare lo strappo definitivo e immediatamente la carta regalo cedette lasciando intravvedere…
-Ma cosa è?-,sussurrai sorpreso
Sembrava una specie di libro, ma molto più grande e con pagine molto più spesse.
-Dai sfoglialo – mi incoraggiò il nonno.
Girai la copertina in cuoio marrone scuro e allora capì che si trattava di un album; sì proprio un album di fotografie. Ero abituato ai regali insoliti del nonno; erano regali che non si capivano subito è vero, insomma non erano i soliti giochi, ma questa volta proprio non mi capacitavo :un album di foto come regalo di compleanno per un bambino?
Il nonno questa volta non aspettò neppure un attimo, prese l’album, lo mise sulle sue ginocchia e cominciò a raccontare.
“Mancavano a pochi giorni al Natale; ero molto più giovane di adesso, diciamo circa l’età di tuo papà ,e stavo facendo la mia solita lunga camminata ad un ritmo abbastanza sostenuto come del resto facevo tutti i giorni. Ero completamente immerso nei miei pensieri quando, ad un certo punto, mi sentii investire alle spalle da non so bene che cosa. Fatto sta che mi trovai col sedere per terra. Mi girai di scatto per vedere cosa mi aveva colpito e vidi un ragazzone grande e grosso vicino a me anche lui disteso per terra come un salame.
Prima di poter aprire bocca sentii una voce dietro di me che diceva:
“Signore, signore, mi scusi, si è fatto male? Oh, mi dica che non si è fatto nulla, la prego! Rimanga fermo sto arrivando ad aiutarla!”
E immediatamente un distinto individuo di una certa età si chinò verso di me e mi allungò una mano per aiutarmi a rialzarmi.
-Mi scusi ancora, ma si è fatto male? E tu Ale come stai?- disse rivolgendosi al ragazzo che intanto si era messo comodo, seduto sul terreno umido.
-E’ mio nipote ed è un testardo, vuole fare tutto da solo, io sono vecchio e non riesco più a stargli dietro; lui all’inizio mi sta vicino, ma poi si stanca di andare piano e …parte lui! Crede di poter andare dappertutto con quei suoi bastoncini, ma vai a farglielo capire che può essere pericoloso, niente un mulo non vuol sentire ragione!-
-Sa- riprese abbassando improvvisamente il tono della voce- non ci vede, non vede nulla dalla nascita…-
Allora compresi tutto.
Il ragazzo che mi era venuto addosso in quel momento si alzò e mi disse con voce gentile e ferma:
– Scusi signore, non l’ho vista, io non…-
-Ma certo, certo-, mi affrettai a rispondere ,- non è successo nulla Ale…ti chiami Ale vero? Sbaglio o sei anche tu un gran camminatore?-
Nacque da quell’incontro, anzi sarebbe meglio dire, da quello scontro, una bella amicizia. Io andavo quasi ogni giorno a prendere Ale a casa sua e insieme macinavamo diversi chilometri raccontandoci durante il tragitto di tutto.
Lui voleva sapere ogni cosa di me, che lavoro facevo, se ero sposato, come era la mia casa, e così via finchè un giorno dissi:
-Ale, domani passiamo da casa mia così ti faccio vedere dove abito…e tutto il resto-
Il giorno dopo quindi, come promesso, al termine della solita camminata ci fermammo in via del Corso, dove c’era la mia abitazione.
-Ecco io abito qui. Ti piace?-
-Non so- rispose- fammi vedere-
E allora Ale cominciò a toccare i mobili, a seguire le pareti con la mano, insomma esplorò piano piano tutta la casa senza alcun timore.
-Dal profumo questa deve essere la cucina! – esclamò soddisfatto Ale.
-Certamente, e sta attento poichè ho messo intanto a cuocere una torta di mele nel forno! –
– Ok ,ma qui non ci sono mobili!- disse Ale entrando in cucina.
-Eh già non ci sono i mobili, c’è solo il tavolo, il frigo e il forno-,
-E…come mai?- chiese stupito il ragazzo.
-Vieni andiamo in salotto che ti faccio vedere una cosa, sono convinto che capirai-.
Entrammo in salotto e Ale si accomodò sul piccolo divano e io vicino a lui.
Quindi appoggiai sulle sue ginocchia un gran librone.
-Cosa è? – chiese Ale incuriosito
-Aprilo-
-Ma è un album mi sembra, ma sì queste sono fotografie!- disse immediatamente-e di chi sono?-
-Sono fotografie di Ferrara, sono fotografie bellissime. grandi, in bianco e nero. Ritraggono i punti più belli della città; sono prese da angolazioni inconsuete, e con una luce che conferisce alle immagini una tonalità quasi magica, sicuramente fuori dal tempo…adesso te le faccio vedere una ad una-
E presi così a raccontare ogni ritratto: quello del duomo in una giornata di pioggia, quella del castello coperto di neve; quella del parco Massari attraversato da un uomo in bicicletta come si vede nel film Il giardino dei Finzi Contini …Insomma una dopo l’altra le sfogliai tutte mentre Ale mi stava ad ascoltare, osservando attraverso le mie parole ogni singolo particolare.
-Sono bellissime…grazie- ,disse .
-Vedi Ale mi hai chiesto prima perché nella cucina non ci sono i mobili –
-Sì mi è sembrato strano infatti, neppure un pensile…-
-Bene, stai ad ascoltare un altro minutino-dissi proseguendo con il racconto
– Dunque eravamo sposati da poco io e mia moglie, e stavamo proprio andando a Bologna a comprare la cucina in un negozio vicino alla basilica di Santo Stefano. Come ogni primo lunedì del mese quella mattina c’era il mercato delle pulci e decidemmo di darvi una occhiata . Ci divertivamo infatti a girar per mercatini alla ricerca di cose vecchie con cui arredare con poca spesa la nostra casa. Passammo così vicino ad un banco su cui notammo subito un album di fotografie molto particolare.
Chiedemmo di poterlo osservare più da vicino. Appena aperto uscì immediatamente da entrambi una esclamazione di meraviglia.
-Ma è bellissimo!- dissi e cominciai a sfogliarlo pagina dopo pagina. Ricordo molto bene come se fosse oggi che ero completamente rapito da quelle immagini.
Mia moglie mi osservava intanto con una espressione ricca di tenerezza. Si avvicinò al proprietario di quell’oggetto così unico, e chiese il prezzo per quell’album.
-Eh signora questo album costa molto…sono fotografie di Ferrara, uniche , sono state fatte con una macchina particolare…pensi le ha volute un regista per studiare bene l’ambientazione del film… del film …beh ora non ricordo il titolo…ma…-
-Bene, ma quanto chiedete?- tagliò corto mia moglie
-Guardi ,siete così giovani…posso farle novecentomila lire, non una lira di meno- disse il venditore.
Erano gli anni sessanta e per quel periodo quella era sicuramente una bella cifra, ma mia moglie non si scompose, aprì la sua borsetta e prese la busta con il denaro messo da parte per la cucina e la consegnò a quell’uomo.
Io mi precipitai verso di lei per fermarla e dissi subito:- Ma cosa stai facendo? e la cucina?-
-Abbiamo già il tavolo, due sedie, il frigo e i fornelli ..abbiamo tutto quello che ci serve…questo è il mio regalo di Natale- e mi diede un bacio sulla guancia.

A questo punto al posto del racconto la stanza si riempì di un silenzio commosso.
Allungai la mia mano per abbracciare il mio nonno, incontrando alcune lacrime scendere piano dal suo viso.
-Abbiamo vissuto insieme dieci anni- riprese il nonno- poi un incidente…io mi salvai… mia moglie no…I mobili della cucina non li abbiamo più comprati, ci bastava il piano dei fornelli con il forno a gas …ci piaceva così…di sera vicino al camino spesso parlavamo delle nostre cose guardando le fotografie di quell’album…-
Il nonno smise il suo racconto ,mi guardò con un sorriso , io strinsi la sua mano, e lui la mia.

-Papà… ma è pronto!- gridò la mamma a gran voce- è la terza volta che vi chiamo, -dai ..lavarsi le mani che i cappelletti sono già nel piatto, e poi… ma cosa avete sempre voi due da raccontarvi…-
-Sì, sì, veniamo subito- disse il nonno dandomi il mio regalo …un album di fotografie in bianco e nero.

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Parole a capo
Carmine Vitale: “L’ho saputo fin dall’inizio” e altre poesie

“I poeti non si redimono, vanno lasciati volare tra gli alberi come usignoli pronti a morire.”
(Alda Merini)

I giocatori di scacchi

I giocatori di scacchi se ne stanno fermi per ore
Chiedevo a un ragazzino di guardare gli alberi
Ma non avevo mai guardato fin dentro di noi
Mercoledì guardavo i satelliti impazzire
e il giorno dopo di nuovo a lavorare
senza nemmeno trasalire
per qualche regola biologica
rido dallo stesso posto da dove poi piango
Cadono milioni di foglie
e il tragitto è sempre dall’alto in basso
le foglie non ritornano
svaniscono come gli anni piccoli
e solo qualche volta in maniera occasionale
gli occhi percorrono la stessa distanza
in cerca di qualcosa di cui non vergognarsi.

Ricchezza
(Discorso dall’interno)

Proprio ieri davano un film su come prepararsi
a tutte queste cose che accadranno

Le carte dei regali fanno già parte del passato
e il futuro si mischia a quel poco che rimane dei dolci
solo che così mentre tutti parlano
su dove è andata la letteratura
l’odore del caffè spazza via ogni cosa

“e se la scala la facessimo all’esterno”’?
Un’altra voce distante
e altre che insieme chiudono il coro
o forse il corpo
una  vecchina è caduta e dopo qualche giorno per via della luce accesa in pieno giorno
Qualcuno ha telefonato alla figlia per dirgli che forse era morta
dalla finestra si vedeva bene distesa lì in cucina

Sempre meglio che parlare  della frollatura della carne
o se per caso qualcuno conoscesse willi mentz
altrimenti detto Lo sparatore
era operaio ausiliario in una segheria poi mungitore

Si è  raccontato dei nostri viaggi
e una voce ha  chiesto sei mai stato a Babi Yar?
C’è una spiaggia bianca
me lo ricorderò

Era solo un modo di dire
che so, parlare degli ultrasuoni
delle farfalle azzurre
di quando mai trovi un lavoro
di quando allo stadio (c’eri e) hai visto Maradona
mettere la palla in rete da centrocampo
quelle cose che ti capitano
perlopiù una volta sola nella vita

Chissà perché poi mi son chiesto nessuno ha fatto un commento definitivo
magari sulla tomba del tuffatore
avremmo dovuto conoscerla bene
quasi che ci abitiamo dentro
È ciò che dice una poesia
mentre nel corridoio color ocra
ci facciamo gli auguri
senza pensare più agli indiani delle riserve
alle cose a portata di mano
ai bei tempi

Fuori nevica
gli alberi restano verdi

 

L’ho saputo fin dall’inizio

L’ho saputo fin dall’inizio
cosa volevi tu:
un tuo personale Burning Man
e una croce di regole e abitudini
la limpidezza del carbone, la genetica.

Cerchi con lo sguardo le torri di una città
la formula magica per sperimentare nuove forme di velleità
le torture dell’ordine dei Primates, gli alcolisti che corrono nel buio.

Le api bucano i pensieri cercando un unico punto amaro
e tu un certo disgusto,una vecchia fotografia ingiallita, un deposito di auto dell’infanzia
e tutta una serie di piccole insignificanti cose che sembra non debba finire mai:
elenco 1: rugiada sogno memoria
elenco 2: oceano aurora rispettabili occhi al mattino
elenco 3: amarezza scomparsa moscerino
elenco 4: verdetto supplica germoglio.
Fermati qui, non oltre
L’elenco potrebbe durare anni o asciugarsi al sole
Desidera la sola cosa che ti faccia provare gioia senza un perché
un amore prepotente
o soltanto uno sguardo  rimasto oltre i vetri  con gli ospiti andati via
un treno fermo sul viadotto, la stessa nave senza più equipaggio.

(inedito)

Carmine Vitale (Salerno,1965). Nel 1999 ha vinto il premio internazionale Emily Dickinson.
Sue poesie racconti e prose brevi sono state pubblicate su riviste italiane e internazionali. Tra le principali:
Il Reportage; Sud –rivista europea; Romboid;  π pi greco: Trimestrale di Conversazioni Poetiche / Conversation International Poetry Project; Montparnasse Revue; La Poesia e lo Spirito; “Nazione Indiana“.
Tra le numerose pubblicazioni, segnaliamo: “Un giorno strano” – plaquette Premio Internazionale Emily Dickinson, Maggio 2000; “Quello che possediamo” – plaquette – Infinite Soluzioni editore – a cura di studio Oblique,
Maggio 2010; “Parigi strade e sogni di una città“, Petit Cahier di Viaggio – Historica editore, Maggio 2011 (nuova edizione riveduta e ampliata uscita nel novembre 2016); Litoranea, Xy editore, Aprile 2019 (da qui verrà fuori un piccolo film del quale si sta ultimando la sceneggiatura) è attualmente in corso di traduzione in greco e in francese.

La rubrica di poesia Parole a capo esce regolarmente ogni giovedì mattina su Ferraraitalia. 
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25 APRILE A METÀ
Radici del razzismo e scheletri negli armadi:
Italian unknown: gli sconosciuti di El Alamein (X Parte)

El Alamein, una località desertica segnata sulle carte come piccolo scalo ferroviario egiziano posto a un centinaio di chilometri dal confine libico, è divenuta uno degli scenari di guerra più spaventosi della storia dell’uomo e uno dei cimiteri più grandi del mondo.
Qui nessuno mi ha confermato la veridicità dell’origine – certamente profetica anche se riduttiva – del suo nome, che significherebbe “le due bandiere”. 

guerra d'africaDue, furono infatti le bandiere degli stati europei che diedero inizio alla guerra, ma a combattere ferocemente tra loro non furono solo i reparti degli eserciti italiani e inglesi; in quella che viene ricordata come l’atto finale della ‘Campagna d’Africa’ presero parte molti altri contingenti stranieri e sventolarono bandiere provenienti da ogni parte del mondo: Australia, Nuova Zelanda, India, Sud Africa, Francia, Marocco, Senegal, Libia, Grecia, Polonia, Yugoslavia, Stati Uniti.
Attorno a quelli che furono i capisaldi e le postazioni strategiche tenute dagli schieramenti, emerse l’immane costo delle battaglie: oltre 60.000 caduti.

I primi ad occuparsi della raccolta dei propri caduti furono i vincitori. Dopo quattro anni di ricerche avviate subito dopo la fine del conflitto, nel cimitero britannico di El Alamein venne data definitiva sepoltura a 7.367 combattenti della coalizione del Commonwealth Inglese che perirono per la vittoria.
Successivamente e a poca distanza, venne innalzato un mausoleo a forma di castello normanno in cui trovarono eterno riposo 4.200 soldati tedeschi e sorse un cimitero ortodosso per i caduti di nazionalità greca.
I resti dei soldati italiani sconfitti, vennero invece lasciati insepolti per anni e anni direttamente sui campi di battaglia o interrati frettolosamente in quattordici cimiteri provvisori dislocati in un territorio vastissimo e pericolosissimo, non bonificato da centinaia di migliaia di ordigni bellici innescati o inesplosi.
Le misere tombe, perlopiù cumuli di pietre che recavano nomi storpiati o un laconico ‘italian unknown’, vennero inizialmente allestite lungo quei settanta chilometri di prima linea del fronte che aveva visto l’impressionante dispiegamento di duemila carri armati e di un cannone ogni dieci metri.

Poi raggiunsero le posizioni più avanzate, le “quote” 33, 216 e 105 dei rilievi del Naqb Rala, del Qaret el Himeimat e della depressione del Qattara, dove i soli italiani innescarono 170 mila mine anticarro, in media due per ogni metro quadrato, trasformando questa remota landa egiziana in una delle zone più minate della terra.
Oggi, a distanza di 79 anni, molti campi di battaglia non sono stati ancora risanati e nonostante sia vietato l’accesso a vaste zone interdette, le esplosioni si succedono ininterrottamente e hanno causato centinaia di vittime tra i beduini locali.
L’ecatombe e le mutilazioni patite da oltre ottomila civili ignari e innocenti, molto spesso bambine e bambini, ha portato alcune organizzazioni egiziane ad avanzare richieste di aiuti e indennizzi per danni di guerra, ma soltanto nel novembre 2016 il Governo Egiziano con il sostegno dell’ONU, dell’Unione Europea e grazie a un finanziamento di 4,7 milioni di euro, è riuscito a istituire un centro specializzato per le protesi a Marsa Matruh, maggiore nucleo urbano dell’area contaminata e capoluogo del governatorato.

L’eco di quella battaglia non si spegnerà mai più in questa terra martoriata e a ben poco servono i cippi segnaletici posti lungo la strada litoranea, per indicare la presenza di solo alcuni dei tanti ‘giardini del diavoloì, come venivano chiamati in gergo militare i campi minati.
Molti di quelli rimasti tuttora innescati e segreti, vennero approntati in fretta e furia, di nascosto, nella frenesia di rischiose operazioni, senza una mappatura chiara che ne precisasse le esatte ubicazioni, in un territorio privo di punti di riferimento fissi o facilmente identificabili.

stazione ferroviaria di El Alamein
stazione ferroviaria di El Alamein

Da El Alamein:
La stazione di El Alamein ha mantenuto il suo aspetto abbandonato e nessun treno è in arrivo o in partenza. L’unico a partire lungo l’estensione dei binari che si allungano ai due lati dell’orizzonte come una cerniera impressa sulla superficie pietrosa del deserto, sono io, con lo sguardo. La doppia linea d’acciaio corre a fianco della strada che fiancheggia la costa e sulla quale si affacciano numerosi villaggi turistici di recente costruzione con schiere di villette che si allineano senza l’ombra di un solo albero.
Il mare mediterraneo sembra la superficie piatta e calma di un gigantesco lago e in alcuni punti il bagnasciuga è una lingua di sabbia bianca che fronteggia chiazze di colore azzurro turchese e verde smeraldo.
Dal momento che sono l’unica persona presente a parcheggiare l’unica auto in un vasto parcheggio, mi rimane il dubbio che il Sacrario Italiano di El Alamein sia chiuso fino a quando oltrepasso a piedi il portico dell’entrata principale e leggo le parole scolpite nella prima lapide:

CONSACRATO AL RIPOSO DI 4.800 SOLDATI, MARINAI ED AVIERI D’ITALIA
IL DESERTO ED IL MARE NON RESTITUISCONO I 38.000 CHE MANCANO

Un’alta torre ottagonale bianca racchiude alla base una galleria semicircolare illuminata da cinque grandi vetrate che si affacciano sul mare, al centro della quale si trova un altare, sovrastato da una grande croce lignea.
Di fronte, le pareti di due padiglioni di marmo custodiscono i resti dei soldati italiani.
Sulla prima metà delle nicchie è scritto il nome, cognome e grado del soldato caduto, le rimanenti recano una sola scritta: IGNOTO.
manifesto fascista colie italianeIn nessuna lapide viene riportata l’età o la data di nascita dei soldati caduti, ma gli studi storici e le testimonianze dei reduci hanno appurato che furono tutti ragazzi giovanissimi, di età compresa tra i sedici e i diciannove anni.
A quell’età, e ai loro tempi, la politica coloniale del governo fascista, che si vantò di avere conquistato in Africa vasti e ricchi possedimenti, non poteva che essere vista come un’avventurosa occasione di sviluppo e di progresso. Secondo i dettami imposti dalla propaganda del potere, questa terra veniva proposta come la nuova frontiera oltremare, il territorio delle nuove opportunità offerte a tutti coloro che audacemente ne volessero prendere parte e cogliere l’occasione.

Ma le colonie italiane d’oltremare si rivelarono ben presto uno scenario diverso e funesto, teatro infine di una tragica ultima guerra persa.
Il sacrificio di questi soldati è stato volontario, nel senso che volontariamente, essendo giovanissimi, si arruolarono nei corpi di spedizione militare che vennero inviati a combattere.
Il loro gesto deve giungere accompagnato dalla conoscenza delle condizioni reali nelle quali si vennero a trovare questi combattenti italiani che vennero lasciati soli, senza cibo, acqua e munizioni, abbandonati a sé stessi, del tutto isolati nel deserto, per quasi tutta la lunga durata del conflitto.
I paracadutisti della Folgore, con il loro mito della morte che piomba dal cielo, raggiunsero questo fronte via mare e via terra, e non vennero nemmeno riconosciuti come parà ma bensì come “cacciatori del deserto”.
Mai nome di copertura si rivelo più azzeccato, dal momento che per continuare a sopravvivere cacciarono viveri e acqua; per continuare a combattere cacciarono rifornimenti e forniture militari sottraendole ai nemici.Scritte dal Ten.Col.Paracadutisti Alberto Bechi Liserna, leggo sulla seconda lapide queste sue parole:

FRA SABBIE NON PIU’ DESERTE SON QUI DI
PRESIDIO PER L’ETERNITA’ I RAGAZZI DELLA
FOLGORE
FIOR FIORE DI UN POPOLO E DI UN ESERCITO
IN ARMI CADUTI PER UNA IDEA SENZA
RIMPIANTI, ONORATI DAL RICORDO DELLO STESSO
NEMICO, ESSI ADDITANO AGLI ITALIANI NELLA
BUONA E NELL’AVVERSA FORTUNA IL CAMMINO
DELL’ONORE E DELLA GLORIA
VIANDANTE ARRESTATI E RIVERISCI
DIO DEGLI ESERCITI ACCOGLI GLI SPIRITI DI
QUESTI RAGAZZI IN QUELL’ANGOLO DI CIELO
CHE RISERBI AI MARTIRI E AGLI EROI

La analoga triste condizione dei Bersaglieri e in generale di tutte le forze armate italiane, conferma il tragico destino di ogni soldato, quello cioè di essere prima considerato un eroe, poi carne da macello, e a volte, come in questo caso emblematico, carne e ossa nemmeno degne di essere sepolte e ricordate con il proprio nome, con il nome proprio dell’assurdità della guerra o a nome di ogni presunto dio degli eserciti.

IGNOTO foto di Franco Ferioli
IGNOTO, foto di Franco Ferioli

Al mondo non c’è soldato che non sia stato innanzitutto vittima della propria ignoranza e del proprio fanatismo e che dopo essere stato imbevuto e illuso con gli ideali sacri ed eroici della filosofia e del marketing della guerra, non abbia assaporato il sapore amaro della più crudele delle menzogne e del più infausto dei destini: quello di trovarsi abbandonato ad uccidere e a morire dimenticato, disilluso e tradito dalla propria patria.
Uccidere per niente.
Morire solo e lontano.
Giacere a terra insepolto, dimenticato e ignoto.

Leggi la Prima Parte del reportage storico [Qui],

la II [Qui],

la III [Qui],

la IV [Qui],

la V [Qui],

la VI [Qui]

la VII [Qui]

la VIII [Qui]

la IX [Qui]

Franco Ferioli, l’inviato di Ferraraitalia nel tempo e nello spazio, è il curatore della rubrica Controinformazione. C’è un’altra storia e un’altra geografia, i fatti e misfatti dell’Occidente che i media preferiscono tacere, che non conosciamo o che preferiamo dimenticare. CONTROINFORMAZIONE ci racconta senza censure l’altra faccia della luna,

Cover: Sacrario Militare Italiano di El Alamein, particolare

FANTASMI
Le fosse comuni dei bambini nativi:
un altro massacro coperto dal silenzio

 

‘Silenzio assordante’ è un ossimoro che non vale per la breve attenzione che i media hanno dedicato ai recenti fatti che riguardano i nativi del Canada.
E’  invece ‘silenzio e basta’, senza eco né conseguenze, che rischia di far cadere nell’oblio una tragedia che meriterebbe ben più interesse.
Una notizia di cronaca che ha occupato le pagine di tutti i giornali per un giorno solo per poi passare ad altro. Quattro chiese cattoliche che bruciano subito dopo i ritrovamenti dell’orrore, una serie di tombe di bambini senza nome, raccapriccianti fosse comuni con ciò che rimane di giovani corpi, e i fantasmi che tornano dal passato, da una lunga storia di soprusi, violenze, nefandezze.
Con 761 poveri resti nella provincia di Saskatchewan, altri 215 in quella di British Columbia, si sono riesumati anche i ricordi di fatti abominevoli e si è scatenata una reazione devastatrice come, si presume, l’incendio dei luoghi di culto di Kamloop, Chopaka ed altri.

Il collegamento tra i fatti del passato e quelli di cronaca attuale sono al vaglio della polizia, che indaga anche sulle cause e i tempi dei decessi. Un passato pesante e scomodo che affonda le sue radici nel 1800, quando ebbe inizio la pratica di sottrarre i figli dei nativi alle famiglie, per inserirli coercitivamente nelle boarding schools, scuole residenziali, volute dal governo e affidate in gestione ai religiosi cattolici per oltre il 70% delle strutture.
Lugubri pensionati sovraffollati in cui vennero iscritti 150.000 giovani e bambini indigeni delle etnie Inuit, Metis ed altre minoritarie, come racconta il giornale Montreal Star agli inizi del 1900. Lo stesso quotidiano riportava come il 42% di essi morisse prima di aver compiuto 16 anni per malattia, privazioni, maltrattamenti, stenti, abusi sessuali, denutrizione e assenza di cure. Molti i bambini intorno ai 3 anni di età.
Tra le malattie che imperversavano, dominava la tubercolosi che trovava terreno facile in condizioni di tale degrado. Non solo gli ammalati non venivano curati o venivano assistiti in modo insufficiente, ma venivano deliberatamente mescolati ad essi anche bambini sani con effetti di morte diffusa. Questa rete di collegi aveva la funzione di ‘rieducare’ le giovani generazioni native alla nuova cultura coloniale e proseguirono il loro operato per buona parte del XX secolo (l’ultima scuola a chiudere i battenti lo farà nel 1978, dopo numerose proteste e manifestazioni di piazza).

Un’operazione di acculturazione violenta, di assimilazione strutturata e pianificata da una legge, la Federal Indian Act del 1874 che ribadiva l’inferiorità legale degli indigeni e istituiva le scuole residenziali di rieducazione, rigettando ogni responsabilità obbligando le famiglie a firmare per la tutela dei figli. Un sistema che permetteva impunità e lasciava ampio margine ad azioni di ogni tipo.

Alla morte dei giovani venivano trasferiti all’istituto i loro beni, come i terreni, proprietà che venivano rivendute alle multinazionali del legname. Nel 1933, la Sterilization Law diede l’avvio alla sterilizzazione forzata applicata a molti bambini e bambine delle residential schools, oltre che agli indigeni adulti, legge tuttora in vigore.
Già nel 2008 il Primo Ministro canadese Stephen Harper porse ai nativi le scuse ufficiali del governo e lo ha fatto ai giorni nostri il premier Justin Trudeau. Una delegazione di Indiani Metis e Inuit partirà dal Canada a dicembre e incontrerà il Pontefice a Roma dal 17 al 20. In quell’occasione inviteranno il Pontefice nelle loro terre di origine, attendendo le scuse della Chiesa. Gesti di riappacificazione, di assunzione di responsabilità, di ammissione di una colpa che la Storia conserverà tra le pagine più buie e vergognose, bagnate dal pianto di quei bambini.

Sì alla legge Zan
No alle ayatollah, no ai furbastri del due per cento

 

A una giraffa interessa se una giraffa maschio se la intende con una giraffa maschio? A una leonessa disturba il fatto che due leoni facciano sesso tra loro? Francamente non saprei, però sono sicuro che non vengono messi all’indice, insultati, vilipesi, isolati ed emarginati dai loro simili – non per questa ragione, almeno.

Sul web ci sono diversi approfondimenti giornalistici sul comportamento omosessuale nelle specie animali [Vedi qui]. Il fatto che, come sostengono alcuni, il comportamento omosessuale in alcune specie non abbia a che fare con il piacere sessuale ma con la dominanza, dimostra solo che l’atto sessuale, anche nel mondo animale, non è legato esclusivamente alla funzione riproduttiva. Solo nel genere umano sia il gioco di ruolo (dominatore/trice – dominato), sia il piacere legato al sesso tra consenzienti sono considerati socialmente riprovevoli, al punto da essere tuttora un crimine in tantissimi paesi del mondo. Un crimine, capite? Crimen, nel diritto romano, è il delitto pubblico che offende l’ordine sociale e colpisce l’intera civitas, essendo perciò meritevole di una punizione pubblica. Non è purtroppo un caso che i paesi dove i comportamenti omosessuali o, in generale, le identità sessuali non binarie o in movimento (anche se non porteranno ad una trasformazione genitale) sono incriminati/e o comunque oggetto di pesante riprovazione sono paesi teocratici, o nei quali la morale comune è innervata da una religione, pur secolarizzata. 

In Italia, la secolarizzazione della Chiesa cattolica è stata giuridicamente cristallizzata nei Patti Lateranensi di epoca fascista, sottoposti a revisione nel 1984. Secondo il nuovo Concordato inserito nei Patti, il cattolicesimo non è più religione di Stato, anche se con l’otto per mille il cittadino italiano deve scegliere di destinare questa percentuale di imposta sui redditi ad una confessione religiosa o allo Stato medesimo, che non pubblicizza la scelta, rendendolo uno dei principali introiti della Chiesa Cattolica (che invece lo propaganda eccome). Ma questo è un dettaglio, rispetto all‘imprinting sociale e psicologico che gli italiani ricevono dal battesimo in avanti. La parte più tragica di questo imprinting è la pervicace censura di peccato che, dalla teologia paolina in avanti, accompagna come un’ombra nera l’idea del piacere sessuale non destinato alla riproduzione. Per capire quanti danni abbia fatto questa sovrastruttura con i suoi derivati (tra cui la castità imposta e fasulla dei membri del Clero), sarebbe sufficiente leggere le statistiche sugli abusi sessuali ai danni di minori all’interno della Chiesa: un fenomeno spaventoso. I danni che investono la popolazione civile non confessionale, però, non si limitano a forgiare personalità come quella di Simone Pillon. Quello è folklore, mentre le conseguenze diffuse sulla popolazione sono come l’effetto di una bomba “intelligente” su un mercato: o creano dei mostri foderati di moralismo, bigotti, frustrati e potenzialmente pericolosi, oppure fanno crescere milioni di persone con il senso di colpa dell’amare uno del proprio sesso, del non sentirsi a proprio agio nel proprio corpo, del piacersi con una spiccata parte femminile, essendo maschi, o maschile, essendo femmine.

Il disegno di legge a prima firma di Alessandro Zan, padovano d’avanguardia come molti padovani, testo sulla bocca di tutti ma letto da pochi, intende punire i mostri che istigano a violenza o discriminazione (anche verbale) o la commettono in proprio contro quelli che i sensi di colpa non li supereranno mai, o quelli che ci convivono a costo di prove quotidiane di sopravvivenza (sociale) e trasformazione (da ciò che gli altri vogliono che tu sia, a ciò che vuoi essere tu). A proposito di questo testo, che è corto e può essere agevolmente letto [Vedi qui], assieme all’art.604 bis del codice penale di cui si propone di costituire una estensione, vorrei fare due preghiere (laiche, ovviamente).

La prima: si tratta di un testo che, alla maniera delle buone leggi sui diritti civili (quella sul divorzio, quella sull’aborto, la legge Basaglia, quella sulle unioni civili), favorisce e promuove la piena corrispondenza tra l’evoluzione della società civile e il livello di riconoscimento e tutela ad opera del legislatore. Detto questo, evitiamo di diventare noi stessi/e degli ayatollah. Evitiamo di distribuire patenti di traditori tra le nostre fila, evitiamo di fare le lesbiche dure e pure o le femministe doc, evitiamo gli integralismi, che dovrebbero essere esattamente ciò contro cui combattere. Ho già colto i germi di questa mentalità in certe assurde incursioni nel mondo dell’arte. Film, libri e autori rivisitati in nome del politicamente corretto. Tutto questo è folle. L’arte non deve educare nè essere educata, l’arte è il regno della libertà totale. Prendersela con Nabokov per aver scritto Lolita o con Celine per aver scritto Viaggio al termine della notte, o con Bukowski per i suoi taccuini di un vecchio sporcaccione non è progressista, è oscurantista e prefigura, per dirla con Walter Siti, il temibile futuro in cui, ad esempio, la letteratura “… si crede depositaria del bene già dall’inizio, e pensa che l’unico suo compito sia diffondere questo bene”.

La seconda preghiera è: la sinistra non si divida anche sui diritti civili fino a far saltare tutto. Già lo ha fatto sui diritti sociali, creando una spaccatura verticale all’interno stesso del corpo più caldo della propria gente (pensiamo al Jobs Act). Per una volta gli schei non c’entrano (o non dovrebbero, per quanto certe manovre parlamentari puzzino sempre di soldi e posti). Mettetevi d’accordo sui dettagli, ma salvate la sostanza. Negoziate sulla giornata di promozione nelle scuole, ma salvate la tutela delle persone transgender (mi piacerebbe sapere cosa ne pensa Lucia Annibali di Italia Viva, prima firmataria dell’ attuale art.1 della legge, della giravolta del suo capo che lo vuole togliere di mezzo perchè “divisivo”). Le persone più responsabili e illuminate dell’arco che ha sostenuto e scritto questa legge facciano uno sforzo per non delegittimarsi a vicenda, per evitare i settarismi (specialità nella quale la sinistra è maestra) e i politicismi (specialità nella quale purtroppo Renzi suppone di eccellere). Se in effetti c’è bisogno di cambiare qualcosa per mettere al sicuro il voto fatelo, e agite in buona fede. Mettetevi d’accordo per favore, e portiamola a casa.

L’incredibile e un po’ ignobile vicenda del taccuino Ghedini.
Alcune osservazioni alla risposta dell’assessore Gulinelli

Di cosa Parliamo:

Il pittore Giuseppe Ghedini lascia, alla sua morte nel 1791, alla Biblioteca, oggi Ariostea, un taccuino contenente 31 disegni eseguiti per l’edizione veneziana del Ricciardetto. Il taccuino scompare e riappare nel 2020 sul mercato antiquario.

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Un disegno del taccuino Ghedini

Alcune associazioni culturali cittadine chiedono alla Amministrazione di farsi carico del suo recupero. L’Assessore alla Cultura, geometra Marco Gulinelli, dichiara il proprio impegno, ma intanto segnala la presenza dei disegni alla Fondazione Cavallini Sgarbi che li acquista.

In data 19 maggio 2021 le consigliere comunali Ilaria Baraldi (dem) e Roberta Fusari (Azione Civica) depositano una interrogazione nella quale chiedono perché l’Assessore ha favorito una Fondazione privata invece di operare perché il taccuino ritorni nella sede destinata.

Per regolamento la risposta è pubblica, merita di essere conosciuta (ci scusiamo per la lettura difficoltosa del pdf ndr,)

 

Alcune osservazioni alla risposta dell’Assessore Gulinelli:

Già la Consigliera Comunale Ilaria Baraldi ha puntualmente ricordato alcune delle carenze della risposta dell’Assessore Gulinelli.

La Consigliera osserva che l’Assessore non spiega perché non ha immediatamente avvertito gli organi della tutela affinché un bene pubblico, illecitamente trafugato, fosse restituito all’ente proprietario. Gulinelli mente alle interpellanti parlando di un autonomo interesse della Fondazione Cavallini Sgarbi. Il Presidente della Fondazione, Vittorio Sgarbi, ha pubblicamente dichiarato che è stato l’Assessore a chiedergli di intervenire: “Gulinelli mi ha fatto una richiesta”.

La Baraldi nota infine: “Che un bene pubblico (lo era, doveva tornare a esserlo) finisca ad arricchire una collezione privata anziché tornare al suo legittimo proprietario (il Comune e la Biblioteca Ariostea) proprio grazie all’azione di un assessore non credo sia solo sconveniente”. Opinione che implicitamente ipotizza la necessità di verificare anche responsabilità più gravi.

Vorrei aggiungere che la Fondazione Cavallini Sgarbi non raccoglie solo opere per volontà di collezione ma ne fa anche mercato. Lecitamente perché autorizzata dall’art. 3 comma i del proprio statuto. Sorprende che l’Assessore neghi la possibilità di acquisire in antiquariato, dimenticando che l’Amministrazione lo ha fatto in passato, e favorisca chi a quel mercato partecipa.

L’Assessore dimentica di avere scritto che la Fondazione avrebbe “donato” il taccuino alla Biblioteca. Lo smentisce il Presidente della Fondazione il quale, del tutto legittimamente, dichiara che i disegni seguiranno le sorti della raccolta; non saranno donati ma potranno essere esposti al pubblico, temporaneamente, nella sede di Palazzo Schifanoia.

Visto che non vi è alcun rapporto con il palazzo e le sue raccolte è lecito chiedersi cosa ne pensa la direzione di quel museo; come, formalmente, si giustifica l’intervento di una istituzione esterna alla amministrazione.

L’assessore parla della necessità di rivolgersi a esperti ‘terzi’ per una valutazione. Evidentemente non ha fiducia nelle competenze presenti negli uffici municipali; evidentemente ignora che gli uffici di Soprintendenza svolgono anche questo compito.

L’assessore non conosce o vuole ignorare la legislazione afferente, in particolare quanto prescrive il Codice dei Beni Culturali. L’assessore ignora, o finge di ignorare, il tema del rapporto pubblico-privato: non sa come costruirlo, o non vuole.

Molto altro si potrebbe aggiungere. Resta che la risposta dell’Assessore testimonia la volontà di elusione del problema o la sua incapacità ad affrontarlo. Tutta la gestione della vicenda toglie credibilità e affidabilità ad ogni azione che l’Assessore porrà in essere.

Kafka in valigia
(3 luglio 1883 ♦ 3 luglio 2021)

 

Il 3 luglio 1883, esattamente 138 anni fa, nasceva Franz Kafka, forse l’autore più grande, sicuramente l’autore più novecentesco del XX secolo.

L’estate rovente non sembra conciliare la lettura di un autore come Kafka che proprio a chi non ha mai osato sfogliare uno dei suoi libri sembra un macigno insostenibile e decisamente fuori stagione. Eppure è questo il macigno che ha il potere di alleggerire i pesi e le fatiche della vita poiché tra le pagine è possibile acquisire una consapevolezza rara in grado di farci prendere le distanze ma allo stesso tempo consapevolezza dei nostri limiti umani. Se la convinzione che le nostre esistenze acquistino consistenza grazie ai traguardi allora non ci si dimentichi che proprio i nostri successi non sono altro che il superamento delle nostre fragilità e dunque l’altra faccia della medaglia che si è tentati di nascondere.

Franz Kafka, foto di Constantly Planck (flickr)
Franz Kafka, foto di Constantly Planck (flickr)

La scrittura di Kafka si può considerare solo in perenne equilibrio precario, esattamente come la medaglia della vita si alimenta tra un fallimento e un successo. È risaputo che in vita Kafka non si considerasse nemmeno scrittore e se non fosse stato per l’amico Max Brod, oggi nessuno lo ricorderebbe come uno dei più grandi scrittori del secolo scorso. È certamente uno scrittore complesso per chi ha passato la vita a tentare di comprenderlo e interpretarlo ma è sorprendente come la potenza della sua scrittura lo renda semplice ai profani. D’altra parte non si potrà considerarla un’opera accessibile, ma non si tratta di competenza o conoscenza dell’autore; in realtà, più ci si addentra e più ci si allontana.

 

Cimitero ebraico tomba di Franz Kafka
Praga, nuovo cimitero ebraico, tomba di Franz Kafka

Certo è, che non è facile concepire l’idea di portare uno dei suoi libri in valigia. Eppure proprio così come la stanchezza attende impaziente un viaggio, così questa potrebbe rivelarsi un attivatore fondamentale per avvicinarsi a Kafka, come l’inizio di una vacanza crea le condizioni perfette per un nuovo amore. Proprio mentre le energie vengono meno, la stanchezza tenta di attivare la ricerca di riposo, e se da un lato si rivela vana perché generatrice a sua volta di stanchezza, dall’altro è proprio la mancanza di energie che mette in luce ciò che sfinisce. In particolare, in questo circolo vizioso si apre un vortice, (che la critica individua nel processo di rovesciamento tipicamente kafkiano), che svela almeno in parte uno degli aspetti più affascinanti che si cela nelle pagine esauste di Kafka e cioè il presupposto necessario che i romanzi debbano restare incompiuti di fronte a qualunque tentazione di metterci la parola “fine” perché farebbe svanire l’essenza stessa del romanzo.

americana franz cafkaIn Der Verschollene (Americana), [qui] Karl raggiunge il Nuovo Mondo provato da un viaggio estenuante che tuttavia non inaugura l’inizio del sogno americano, ma rimarca piuttosto la mancanza di una patria, quella di origine e soprattutto l’assenza di una nuova che in principio doveva accoglierlo dopo l’esilio dall’Europa.
Al giovane Karl Roßmann non basterà mostrare umiltà e buona volontà all’Hotel Occidentale per intraprendere l’ascesa sociale; in Kafka questi non costituiscono i requisiti per il successo bensì i presupposti per il fallimento. Il lettore non può che partecipare passivamente alle sventure più che avventure del giovane perdente.
Chi non ha mai incontrato, almeno una volta, un Delamarche o un Robinson che da amici premurosi si rivelano presto i migliori opportunisti sulla piazza, pronti a tutto pur di nutrirsi dei pochi mezzi che l’ingenuo Karl tiene con parsimonia e fatica. Dopotutto il mondo ne è pieno. Tuttavia Karl persegue la sua battaglia per la sopravvivenza conservando l’unica cosa che possiede davvero; il suo buon cuore. Lo conserva sì, ma a caro un prezzo. Il tentativo di realizzare una nuova vita lo spinge lontano da qualsiasi relazione umana, mentre quello di uscire da situazioni critiche lo indebolisce al punto che ogni volta è costretto a ripartire per un altrove sconosciuto; e ancora un volta Karl deve ricominciare da capo. Poi l’occasione della vita è lì, su un manifesto piuttosto inverosimile a dir la verità, ma davanti ai suoi occhi stanchi e increduli, il disperato bisogno di appartenere a qualcosa lo trattiene e a convincerlo bastano poche parole che legge: “tutti sono i benvenuti”.

Se scrivere, per Kafka, significa denudarsi di fronte a se stessi, leggere diventa lo specchio senza il filtro della menzogna. È questa, probabilmente, la ragione che impedisce a Josef K. di iniziare la sua difesa in Der Prozess (Il Processo), o forse la ragione stessa. La necessità di prendere in mano la propria difesa è anche sintomo di sfiducia nei confronti di un Tribunale che intenta un processo su fragili e inconsistenti accuse, ma soprattutto costituisce il desiderio di misurarsi con il più terribile di tutti: il proprio sguardo giudicante. Josef K., brillante dirigente di banca, impeccabile e irreprensibile uomo di mondo tiene a bada l’intero ufficio ma gli basta oltrepassare la soglia di un lurido e insignificante ripostiglio per avere un crollo di nervi.

il processo kafkaLa lentezza con cui prosegue Der Prozess (Il Processo)[qui] è in netto contrasto con la durata degli eventi che si condensano in pochi attimi. Sembra durare un’infinità la sosta di Josef K. nelle soffitte ma, poco dopo il suo ingresso, la perdita progressiva di forze lo trascina velocemente all’uscita. Il tempo dilatato è palpabile anche nello studio di Titorelli; sembrano migliaia i quadri identici che l’artista mostra uno dopo l’altro al nostro Josef K., ma in questa minuscola stanza senza finestre da aprire e schiacciata dal basso soffitto, si può restare solo pochi minuti a causa dell’aria irrespirabile.
Se il procedimento si evolve inarrestabile questo non vale per l’autobiografia che Josef K. intende scrivere a sua difesa e resta bloccata dall’inizio proprio per la mancanza di energie che il processo stesso gli toglie. La frenesia di chiuderlo in realtà lo allontana da una risoluzione, salvo poi realizzare che non sembra esserci alcun Tribunale, alcun “vero” giudice e nemmeno una sentenza e ciò nonostante il verdetto sarà irrevocabile.

il castello kafka E cosa fare quando un uomo qualsiasi che proviene da un posto qualsiasi riceve la chiamata dal Castello? Dove andare se al Castello non è consentito l’ingresso e al villaggio dove K. giunge non si può restare? Kafka, in Das Schloß (Il Castello)[qui] fornisce una dimensione narrativa priva di qualunque indicazione temporale o spaziale anche se il vero smarrimento della “storia” è affidato al vuoto dei dialoghi disseminati tra le pagine che non permettono una reale evoluzione. Ci si dovrà affidare allo sguardo di K. per procedere a passo lento nella lettura; solo così si potrà, a fatica, voltare pagina.
Lo sguardo di K. è il perno attorno al quale ruotano gli sguardi sospettosi e morbosi delle figurine, più che personaggi, che popolano il romanzo; un continuo cambio di prospettiva che alla lunga indebolisce il lungo e faticoso cammino verso l’irraggiungibile Castello che non lo perde mai di vista. Il bisogno incessante di riposo ritarda o anticipa gli eventi e più ci si convince che la meta è vicina, più si realizza che K. non raggiungerà mai il suo obiettivo. Ma allora cosa spinge a continuare una lettura che sembra girare a vuoto, che sembra portare al nulla? Di fatto nulla, se non fosse che l’insistenza a voler riempire quel nulla ci costringe da un certo punto in poi a non poterne fare a meno.
“Da un certo punto in là non vi è più ritorno. Questo è il punto da raggiungere.” Che Kafka non me ne voglia se sono costretta a tirare in ballo uno degli aforismi scritti a Zürau! (Die Zürauer Aphorismen – Aforismi su Zürau).[qui]

Letture consigliate:
Beschreibung eines Kampfes – La descrizione di una battaglia (1904-1905)
Das Urteil – La Condanna e Die Verwandlung – La Metamorfosi (1912)
Ein Bericht für eine Akademie – Una relazione per un’accademia e Der Jäger Gracchus – Il Cacciatore Gracco (1917)
Der Bau – La Tana (1923-1924) 

Al cantón fraréś
Augusto Muratori: “I tuchìn / Cumént”

 

Abbiamo accostato due poesie di Augusto Muratori, poeta e cacciatore, che hanno in comune un elemento che, al giorno d’oggi, desta sentimenti contrapposti: l’attività venatoria.
I sensi all’erta nel maggese o nella valle, la conoscenza del territorio, la pulsione predatoria, contrastano con le riflessioni dell’uomo sulla propria esperienza col fucile: l’instabile equilibrio fra istinto, etica e passione.
Le certezze vengono spazzate via da un improvviso illuminante pensiero della figlioletta.
(Ciarìn)

I tuchìn

 E iη s al végar c’al s pèrd
dóv ‘rìva l’òć,
int na scuacióna ad cana
e i stamp intóran
a stava a sptar zìt zìt.
Na buarìna l’era gnuda a bévar
int na rudà d’na màchina lì avśìn.
A santìva al sćifèl sul canalón
d’uη piviér ‘d mar
e int uη mación ad càna
cantàr una spurzlàna.
E pó tut int na vòlta
su i stampìη
cmè tirà da na fiónda
i è arivà
pagnà ad vént, i tuchìn.

I pivieri dorati (traduzione dell’autore)
E sul maggese che si perde / dove arriva l’occhio / in un capanno di canne, scoperto / con i richiami attorno / attendevo in silenzio. / Una cutrettola era venuta a bere / in un solco di ruota di automobile nei pressi. / Udivo il fischio sopra il canalone / di un chiurlo / e in un folto canneto / cantare una gallinella d’acqua. / Poi tutt’a un tratto / sopra i richiami / come scagliati da una fionda / sono arrivati / vestiti di vento, i pivieri dorati.

Tratta da:
Nuove voci della mia terra, premio letterario nazionale “Bruno Pasini”, raccolta antologica 2001-2012, Ferrara, Festina Lente, 2014.


Cumént

Mi ch’am santìva brav, tut pin d’argój,
par sèt òt quàj o du pizacarìη!
Mi ch’am faśéva iηfìη fotografàr
coη n’aliévar iη man o uη maźurìη!
Mi ch’am santìva re dal mónd, iη val,
parché a “sunàva” al sćiòp come uη viulìη!
Mi ch’a mustràva a tuti i mié trofèi
come uη campión dla bici o dal balóη,
ch’am santìva acsì fòrt, acsì cuntént,
e adès santìr mié fiòla dìram séch:
“quant póvar animài cupà par gnént!”

 

Commento (traduzione dell’autore)
Io che mi sentivo bravo, (tutto) pieno d’orgoglio, / per sette otto quaglie o due beccaccini! / Io che mi facevo persino fotografare / con una lepre in mano o (con) un germano reale! / Io che mi sentivo re del mondo in valle / perché “suonavo” il fucile come un violino! / Io che mostravo a tutti i miei trofei / come un campione della bici o del pallone, / che mi sentivo così forte, così contento, / ed ora sentire mia figlia dirmi senza mezzi termini: /“quanti poveri animali uccisi per niente (inutilmente)!”

 

Tratta da: Marco Chiarini e Luciano Montanari (a cura di), Al nòstar bel dialèt: antologia degli autori de Al Tréb dal Tridèl, Ferrara, 2G Editrice, 2012.

Augusto Muratori (Longastrino-Fe 1936)
Cresciuto fino a trent’anni a Jolanda di Savoia e Bondeno, da cinqunt’anni risiede a Imola (Bo). Impiegato di banca, compone poesie e filastrocche in dialetto ferrarese e romagnolo. Ha partecipato a concorsi provinciali, regionali, nazionali, ottenendo premi e segnalazioni. È presente in antologie quali Al nostar bel dialet… e Cento anni di poesia dialettale romagnola (1976). Ha pubblicato: Do sbalistrè imulesi sul disciolto Gruppo Balestrieri Imolesi, Acsè par rìdar dla nostra vècia Cassa satire, Al fotti d’la nona : breve saggio di indovinelli, modi di dire e proverbi dell’Imolese e della Romagna estense (1973).

 Al cantóη fraréś: testi di ieri e di oggi in dialetto ferrarese, la rubrica curata da Ciarin per Ferraraitalia,
esce ogni 15 giorni al venerdì mattina. Per leggere le puntate precedenti clicca (Qui)

In copertina:  Segugi – foto di Marsilio Torzoni, 2020

FANTASMI
C’è un rumore infernale lungo la scala

C’è un rumore infernale lungo la scala

A Francesco e Carla

La casa era grande e fatta di pietre. Anche la scala che le girava intorno era di pietra e finiva al primo piano in una vasta terrazza. Da tutte le finestre vedevi la montagna di un Appennino né dolce né aspro. Perfetto, come solo in Toscana riesce ad esserlo, quasi per vocazione. I prati, non ancora bruciati dal freddo, erano interrotti dalle ginestre, si alternavano ai castagni, alle farnie, pochi ulivi e isolati alberi da frutto. Vicini o più distanti i paesi medievali dai nomi illustri, non lontano, in mezzo alla piana, ma invisibile dalla casa, Arezzo.
La casa e gli amici erano quanto di più affettuoso si possa immaginarsi. Erano finiti lassù da non molti anni e avevano fatto come le api, avevano curato in ogni minimo dettaglio l’esterno, il prato in pendenza, il viale d’accesso, il taglio degli alberi stranieri e le nuove piantate di alberi autoctoni. E all’interno, a piano terra e al primo piano, diffondendo armoniosamente mobili, stufe, libri e oggetti familiari.
Durante il giorno avevamo vagato per campi e paesi, in macchina e a piedi, verso il crinale della montagna, seguendo il filo della Linea Gotica. A sera, vicino alla stufa economica, si mangiava e si parlava. Di ricordi e cose molto vecchie, e dei ragazzi, così confusi e spaventati, del futuro che vattelapesca cosa mai o molto poco gli potrà riservare. E naturalmente di Piero della Francesca. E della natura che qui ti circonda dai quattro lati. Dei vicini di casa simpatici o strambi, dei tanti inglesi che qui hanno scelto di metter su casa. Ma anche e inevitabilmente, perché siamo a pochi chilometri dalla Linea Gotica, dell’ultima guerra, di quando i tedeschi scappavano e gli alleati risalivano, con molta calma, un’Italia spaccata in due come una mela.
Durante l’ultimo anno di guerra fu il capitano dell’8° Armata Tony Clarke, contravvenendo agli ordini e per amore del bello, a salvare San Sepolcro e le opere di Piero della Francesca. Amava Piero e la sua Resurrezione, o semplicemente era convinto che i tedeschi si fossero già spostati un po’ più a nord, verso Pieve Santo Stefano, là avevano intenzione di attestarsi, resistendo fino a quando fosse pronto quel tratto di Linea Gotica appena qualche chilometro sopra il crinale. Così San Sepolcro si salvò, mentre Pieve Santo Stefano fu rasa al suolo, distrutta non dai bombardamenti americani o dai mortai inglesi della 43° Divisione Corazzata Falco, ma dalle mine che i tedeschi fecero brillare come se il paese fosse una cava di arenaria. Il paese si sbriciolò in ogni sua pietra. Resistere all’avanzata alleata era più facile dietro trincee di macerie piuttosto che scavando buche, e a da quella posizione, da quello che era stata Pieve Santo Stefano e ora era solo un cumulo di sassi, potevano controllare tutta la valle del Tevere. Quell’inverno e quella primavera non finivano mai, la Linea Gotica fu abbandonata solo nell’aprile del 1945. Quando gli abitanti di Pieve Santo Stefano, sfollati nei borghi vicini o nelle campagne, tornarono alle loro case, non ne trovarono in piedi nemmeno una.
Mi raccontano gli scontri a fuoco, le rappresaglie, gli eccidi di cui trovo nomi, date, croci e distratta memoria in tante lapidi, nei crocicchi, ai bordi delle strade, nelle piazzette delle contrade, nei paesi più grandi, magari accanto alle statue o ai ricordi del passaggio vero o presunto del generale Garibaldi. Gli eccidi, le rappresaglie, le hanno fatte i tedeschi ormai allo sbando e in affannosa ritirata, con i panzer senza più nafta e riadattati con rudimentali caldaie a legna, improvvisamente spaventati della loro stessa paura, per la prima volta dubbiosi di poter tornare a casa.
La strage più vicina? E’ appena dietro quel monte, a pochi chilometri, dove una volta c’era e ora non c’è più il borgo di Val Lucciole, un nome così incongruo per una storia così atroce. All’alba del 13 aprile ’44 la famigerata Divisione Hermann Goering eliminò per rappresaglia tutto il paese, 107 persone in tutto. Ma in tutta la valle, e nelle valli vicine, è morto un numero impressionante di persone. Civili, e soldati tedeschi, partigiani, inglesi, tantissimi pakistani in forza alle forze alleate e che i comandanti britannici mandavano ad aprire le vie e a prendersi le pallottole. Questa terra ha avuto sangue e concime per molti secoli a venire.
I racconti, le parole e il vino sono finiti, almeno per questa sera. I cari amici mi accompagnano nella mia stanza, con un ultimo scherzoso avvertimento: “Se questa notte senti un rumore infernale in giardino, fin sulle scale della terrazza, non spaventarti, sono solo i cinghiali che scorrazzano. Sono loro i padroni della montagna, bisogna farci l’abitudine”.
Leggo per pochi minuti, la mano che tiene il libro spunta appena dal piumino. Provo ad ascoltare le voci del bosco, un ultimo gioco fra me e me, e sento che per vincere a quel gioco mi basterebbe una sola foglia contro il vetro, un cane dalla collina di fronte, ma c’è un silenzio compatto, primitivo. Il libro fa un volo leggero dall’altra parte del lettone, mi addormento di colpo come un bambino piccolo.
Cerco con qualche affanno il cellulare seppellito nelle pieghe del piumino, buio pesto, sono le tre e mezza. Ora sono seduto ritto sul letto, perfettamente sveglio e ascolto quel rumore tremendo, sfacciato, infinito, infernale come ha detto il mio amico la sera prima. Cerco di localizzarlo nel buio. Si sta avvicinando alla casa, diventa più forte, si frange in molti suoni e toni discordanti, nemici tra loro ma che si sommano in un unico ringhioso muggito. Il branco di cinghiali padroni della montagna.
Ora sono davvero vicini, salgono la scala esterna, raspano contro la porta finestra. Ma non sono cinghiali, e neppure lupi, in un attimo ne ho la certezza. Dentro quel rumore sento cose che con i cinghiali non possono accordarsi in nessun modo. Sento una risata, un battere di mani e alcune parole, frasi concitate, altre risate. Sento gridare Schnell Schnell. E in dialetto toscano: Siamo arrivati prima noi. In uno strano inglese: Very well. come one, let’s do it again. Un’altra voce italiana ha un accento del Sud, forse calabrese: Sì, però ora tocca a noi nasconderci.
Mio dio, non sono cinghiali. Sono i civili trucidati e i fantaccini innocenti, i mille morti della valle che giocano fra loro a nascondino o a moscacieca. Possono giocare, finalmente l’orrore è finito. Mi alzo di scatto, afferro la maniglia della porta finestra, apro il vetro, ascolto ancora dietro le persiane. Ora stanno ripartendo di corsa, si allontanano, le voci sono inghiottite dal buio.
Dalle persiane della mia stanza filtra la debole luce invernale dell’alba. Mi alzo e vado in cucina. Dentro tutte le finestre c’è un muro di nebbia. Bevo un bicchiere d’acqua. Non si sente più alcun rumore.

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