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Secondo il National Geographic il luogo ove si crea il vento è sito precisamente davanti al mio box ufficio, precisamente nel lembo nord dell’accantieramento tra il furgone della mensa e il container Morteo del refettorio. In estate il mio loculo ha la porta spalancata sul piazzale, la finestrella dietro la mia testa aperta e il clima acceso oltre la porta del mio collega, lo so che Draghi mi annovera tra i motivi della guerra in Ucraina, ma la nostra è un ricerca continua del benessere termico. Chiaro, nulla ho da lamentarmi rispetto ai colleghi che si ustionano tra le lamiere ed i grigliati d’impianto. Ma l’origine del vento è tre metri oltre la mia scrivania. Piccoli e simpatici twister arrovellano polvere e sabbia e me la sbattono in faccia ad ogni piè sospinto, iconici piumini dei pioppi svolazzano come farfalle cavolaie verso di me, la tastiera è insabbiata come un giocatore di beach volley, il cicchettìo dei piedi sembra una pasta allo scoglio con le vongole non lavate. Sulla plastica opaca della scrivania, assieme a carte sedimentate, penne rotte, calendario da tavolo arrotolato a causa degli sbalzi termici, un filtro polivalente per semi maschera scaduto, due bottigliette d’acqua aperte, un marsupio da nerds, il telefono cinese in carica, un paio di occhiali antinfortunistici scuri graffiati, il mouse traccia linee sulla sabbia come quando da piccoli si faceva la pista per le biglie coi ciclisti dentro.

Mi va la polvere in un occhio, ma è il phon che soffia a sei spanne da me, sull’asfalto rovente; svolazzano i fogli appesi con nastro da pacchi ai pannelli sandwich del bunker.

Attenzione prova poli acustici! Gracchiano gli altoparlanti del sistema Matra, utili solo quando le emergenze sono simulate. Oltre le mura della fabbrica, una vibrofinitrice suona il clacson ritmicamente ogni trenta secondi per far muovere il camion che contiene l’asfalto triturato, mentre un gradevole aroma di catrame salvifica l’aria.

Tra un piano per uno spazio confinato e un altro, un consiglio per occhiali bifocali antinfortunistici e un preventivo per guanti in gomma, penso a Berlinguer. Fra qualche giorno saranno cento anni dalla nascita e trentotto dalla sua morte, su quel maledetto palco, sforzandosi di terminare un discorso, premonitore, moderno, … andate casa per casa. A fare che? A parlare con le persone, con il nostro popolo, con il nostro mondo. Quello stesso mondo che oramai è estinto, evaporato, che non ha lasciato né eredità e tantomeno eredi. La deriva delle tue idee Enrico non ha lasciato nessun limo, dopo la tua scomparsa, repentina, ingiusta, che ci ha colto impreparati, non è nato nulla, ma è morto tutto.

Si riempiono la bocca di te, tutti, ti citano, raccontano della tua modernità, altri addirittura pensano che il tuo riformismo (positivo) sia stato troppo titubante. Ma cosa vogliono da noi? Perché non smettono di ciarlare, interpretare, togliere e aggiungere al tuo pensiero? Che ne sanno di te, che ne sanno di noi? Dice si, ci sono pure quelli che ti hanno conosciuto, che ti hanno amato e ora sono lontani da te anni luce, ora sarebbero tuoi avversari politici, ma si nascondono dietro allo scorrere del tempo. Dicono orgogliosi che non ci sono più le ideologie, che il mondo non è più diviso in blocchi, che non esistono sistemi antitetici e alternativi, esiste solo la democrazia e la dittatura.

Appunto.

Il mondo ora ha un solo padrone e tanti nemici, il capitalismo è percolato ovunque, in Russia, in Cina, dappertutto. L’imperialismo crea guerre, invade, stermina, bombarda, distrugge, nessuna traccia della tua terza via. Come possono parlare di te senza rendersi conto che ora, loro, sono contro di te.

Tutti.

I partiti sono agglomerati di potere fine a se stesso, lo dicesti tu e questo sono, la corruzione, la politica come mestiere da professionisti dell’accordo sotto banco, pure questo si è avverato nelle tue visioni di quaranta anni fa. Con che faccia continuamente ti portano ad esempio, loro che si vergognano di ciò che erano, loro che non sono coerenti con i propri ideali di gioventù.

La polvere soffia dentro al grigiume del box, una foglia di pioppo fuori zona mi sfarfalla sfacciata in ufficio. Ma la mia mente è lontana da qui, pensa a piazzale San Giovanni e a quei milioni di persone in lacrime e col pugno chiuso. Quanti di loro saranno ancora al mondo? Quanti non si vergogneranno di ciò che erano? Quanti saranno ottusamente ancora come allora?

Credo pochi. La volontà dei padroni di estinguere la sinistra, la loro rappresentanza, è oramai compiuta da anni, ma fra pochi giorni tutti ti celebreranno. Nessuna differenza di celebrazione fra ex compagni, ex fascisti, ex democristiani, ex socialisti, ex di ex. Secoli indietro rispetto al tuo pensiero, ma convinti di essere i tuoi eredi, addirittura ti annoverano quale fondatore morale di partiti e movimenti che tu riterresti a giusta ragione antitetici al tuo pensiero.

Quanto sono noioso.

“Noi siamo comunisti, lei lo dimentica. Lo siamo con originalità e peculiarità, distinguendoci da tutti gli altri partiti comunisti: ma comunisti siamo, comunisti restiamo. Siamo nati e viviamo per combattere il capitalismo, cancellarlo.” Queste parole non saranno lo slogan delle celebrazioni, queste non saranno citate dai democristiani-liberisti che rappresentano l’italico stivale, al limite, se qualche vetero (come me) le riporterà alla luce, un coro uniforme e monosillabico ricorderà che Berlinguer è morto nel 1984, il mondo è cambiato, il mondo è andato avanti.

No cari miei, il mondo è tornato indietro, fatevene una ragione e smettetela di celebrare la vostra antitesi.

Berlinguer è mio. E di pochi altri.

 

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Cristiano Mazzoni

Cristiano Mazzoni è nato in una borgata di Ferrara, nell’autunno caldo del 1969. Ha scritto qualche libro ma non è scrittore, compone parole in colonna ma non è poeta, collabora con alcune testate ma non è giornalista. E’ impiegato metalmeccanico e tifoso della Spal.

Ogni giorno politici, sociologi economisti citano un fantomatico “Paese Reale”. Per loro è una cosa che conta poco o niente, che corrisponde al “piano terra”, alla massa, alla gente comune. Così il Paese Reale è solo nebbia mediatica, un’entità demografica a cui rivolgersi in tempo di elezioni.
Ma di cosa e di chi è fatto veramente il Paese Reale? Se ci pensi un attimo, il Paese Reale siamo Noi, siamo Noi presi Uno a Uno. L’artista polesano Piermaria Romani si è messo in strada e ha pensato a una specie di censimento. Ha incontrato di persona e illustrato il Paese Reale. Centinaia di ritratti e centinaia di storie.
(Cliccare sul ritratto e ingrandire l’immagine per leggere il testo)

PAESE REALE
di Piermaria Romani


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