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Vite di carta. La coincidenza di chiamarsi Marcovaldo

Come sono arrivata alle avventure di Marcovaldo è davvero frutto del caso, più esattamente una somma di piccole casualità. Sabato scorso ero al funerale triste e tenero di un compagno delle scuole elementari, Emilio Marco. Emilio era il nome che lui dava di sé, ma a noi bambini della classe piaceva di più il secondo. Non so dire per gli altri, personalmente trovavo Emilio un nome da vecchio e lo evitavo con decisione. Le scelte che si fanno da bambini sono spesso definitive e per tutto il resto della vita restano indenni da qualunque ripensamento.

Solo oltre cinquant’anni dopo, quando ho letto i suoi due nomi e il cognome sul necrologio esposto in piazza al mio paese ho pensato che non c’era più Emilio. Sarà che ora siamo vecchi anche noi per i bambini delle elementari e questo ora è il nome giusto, fatto sta che come Emilio l’ho lasciato andare, ma il nome Marco è rimasto. L’ho ritrovato nel protagonista del romanzo che sto leggendo, Con la testa fra le mani di Nicola Cavallini, un libro uscito nel 2006 in cui Marco, appunto, è un giovane uomo incastrato nei problemi dei quarant’anni, vivo che più non si potrebbe. Si dibatte fra il lavoro e i ruoli dentro la famiglia, fra le passioni che ha dovuto lasciare e la voglia di dare forma al proprio destino.

Al giovane Marco vorrei dare spazio in questa rubrica in uno dei prossimi articoli. Ora seguo la traccia che il caso mi ha disegnato: un altro Marco nonché Valdo è venuto dritto dritto dalla narrativa  degli anni Sessanta, nei panni di un tizio che era vicino a me stamattina al supermercato, uno che ormai arrivato alla cassa si è fermato bruscamente ed è tornato indietro, sterzando a fatica per invertire il senso di marcia, visto il carico che aveva accumulato nel suo “cestino di ferro con le ruote”. Ho pensato: chissà se va anche lui a disfarsi di tutte le mercanzie che ha comprato. Lo so che potevo pensare a una dimenticanza, a un ultimo barattolo da comprare, invece ho ripensato a Marcovaldo al supermarket, il  penultimo racconto dei cinque riservati all’inverno che formano la raccolta Marcovaldo di Italo Calvino, uscita presso Einaudi nel 1963.

Come si sa nel testo si alternano cinque gruppi di racconti dedicati alle stagioni, secondo la scansione ciclica primavera-estate-autunno-inverno. Marcovaldo e la sua famiglia devono districarsi nella non facile vita della grande città in cui vivono: lui immigrato dal sud insieme alla moglie, mentre i loro bambini sono nati lì. Sono una famiglia povera, che vive dello stipendio del papà manovale e i figli non hanno mai visto un bosco, pensano di poter cacciare i piccioni che fanno il nido sul terrazzo condominiale, regalano al figlio di un ricco industriale dei fiammiferi, un tirasassi e un martello, credendo che sia povero e via dicendo. Sono ingenui e sensibili come il loro papà.

A questa raccolta di racconti ho girato intorno molte volte nel corso della mia carriera di insegnante. Li ho letti e riletti insieme ai ragazzi, cogliendo di volta in volta elementi diversi nella tessitura dei testi. Oggi, però, niente lezione sullo straniamento con cui Marcovaldo guarda alla rumorosa città industriale negli anni del boom economico italiano, niente riferimenti alla canzone di Adriano Celentano Il ragazzo della Via Gluck, con la sua difesa del verde e della natura contro il cemento e l’aria ammorbata della metropoli. In una quinta ricordo che avevamo anche formulato l’ipotesi di un Calvino precursore della letteratura postmoderna in Italia, proprio a partire da questi racconti, ironici e con tratti surreali, ma già così malinconici, tutti costruiti sulla sconfitta, a cui va incontro un ‘eroe’ come il nostro manovale ogni volta che affronta la complessità di un mondo per lui non decifrabile.

Oggi penso al carrello di Marcovaldo, semplicemente. Nel freddo dell’inverno 1963 un contadino,  immigrato come lui dalle campagne del sud, trova nel carrello della spesa traboccante di cibi un autentico oggetto del desiderio. Lo si trova dentro al labirinto dei piaceri del supermarket, disponibile all’ingresso con la sua bocca vorace che chiede di essere riempita con ogni bendidio. Sono le sei di sera e la “folla consumatrice”, che per il resto della giornata ha prodotto beni di consumo, si riversa nei supermercati, facendo a gomitate per fare acquisti.

Marcovaldo è a passeggio con la moglie Domitilla e i suoi quattro bambini: a che fare? Calvino dice che “essendo senza soldi, il loro spasso era guardare gli altri fare spese”. Non stasera, però. Stasera entrano tutti e sei, ognuno prende un carrello, poi avanzano “in processione” tra gli scaffali pieni di roba. Non si tocca nulla, dice il pater familias, è proibito. Ma chi può resistere a simili tentazioni? I bambini vedono le altre signore riempire di barattoli i loro carrelli e di getto si tuffano a mettere scatole e scatolette nei loro. Di nascosto anche Marcovaldo si prende il lusso di riempire il suo: va a zig zag tra le corsie dell’edenico labirinto e afferra datteri, salsa piccante e spaghetti. E’ purtroppo vero che la cassiera lo attende, laggiù alla cassa, ma intanto anche uno come lui, a cui lo stipendio tra “rate e debiti scorreva via appena percepito” nel risucchio della famiglia numerosa , “poteva per almeno un quarto d’ora gustare la gioia di chi sa scegliere il prodotto, senza dover pagare neanche un soldo”.

Non finisce bene questa avventura trasgressiva e straniata sulle quattro ruote di un carrello. Ho già svelato che i nostri ‘eroi’ devono disfarsi dell’insidioso carico di merci che hanno accumulato, perciò approfittano di una apertura lasciata nel muro dai manovali del cantiere che lavora all’ampliamento del supermarket. Escono nel buio e procedono sobbalzando… Il racconto finisce mentre loro lassù “sul castello d’assi d’un’impalcatura, all’altezza delle case di sette piani” scaricano il loro bottino dentro le “fauci di ferro” di una gru, quando la sua enorme ganascia raggiunge il bordo dell’impalcatura. Surreale. E anche simbolico: tutte le bocche sono state riempite, quella del carrello e ora quella di una macchina, tranne le loro.

 

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Roberta Barbieri

Dopo la laurea in Lettere e la specializzazione in Filologia Moderna all’Università di Bologna ha insegnato nel suo liceo, l’Ariosto di Ferrara, per oltre trent’anni. Con passione e per la passione verso la letteratura e la lettura. Le ha concepite come strumento per condividere l’Immaginario con gli studenti e con i colleghi, come modo di fare scuola. E ora? Ora prova anche a scrivere

Ogni giorno politici, sociologi economisti citano un fantomatico “Paese Reale”. Per loro è una cosa che conta poco o niente, che corrisponde al “piano terra”, alla massa, alla gente comune. Così il Paese Reale è solo nebbia mediatica, un’entità demografica a cui rivolgersi in tempo di elezioni.
Ma di cosa e di chi è fatto veramente il Paese Reale? Se ci pensi un attimo, il Paese Reale siamo Noi, siamo Noi presi Uno a Uno. L’artista polesano Piermaria Romani si è messo in strada e ha pensato a una specie di censimento. Ha incontrato di persona e illustrato il Paese Reale. Centinaia di ritratti e centinaia di storie.
(Cliccare sul ritratto e ingrandire l’immagine per leggere il testo)

PAESE REALE
di Piermaria Romani


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