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Solitamente provo a ragionare in modo pacato, ma devo dire che, ultimamente, inizio ad essere infastidito e indignato rispetto al modo in cui si sviluppa il dibattito pubblico e al ruolo che in esso svolge una vera e propria visione ideologica, che ormai deborda nella propaganda, in specifico nella vicenda terribile della guerra in Ucraina.

Qui in Italia l’approccio della gran parte della politica e dell’informazione mainstream è volutamente molto semplice: c’è un Paese che ha aggredito e un altro Paese sovrano che è stato invaso. Quest’ultimo va aiutato e sostanzialmente lo si può fare solo con le armi, perché quello che, alla fine, deciderà sarà la battaglia sul campo.

Chi si colloca al di fuori di questo schema, nella migliore della ipotesi, è accusato di voltarsi da un’altra parte, nella peggiore è un complice e sostenitore del putinismo. Basta guardare alle sorti riservate al pacifismo, bollato come espressione di ‘anime belle’ e dileggiato come quelli del “nè-nè” oppure agli attacchi vergognosi rivolti all’ANPI, dipinto in modo falso come fortemente diviso al proprio interno e, soprattutto, come soggetto che si è dimenticato di cos’è stata la Resistenza.

A quest’ ideologia, condita dalla ‘verità’ per cui l’Occidente starebbe conducendo una battaglia ispirata dai propri valori, dall’affermazione della libertà e della democrazia, non si può opporre, ad esempio, che lo stesso schema invasore-invaso non è valso per la guerra in Iraq del 2003, dove quest’ultimo era a tutti gli effetti un Paese sovrano.
Se qualcuno ricorda questo dato, gli si risponde che “il contesto era diverso”. Infatti, in quel caso la narrazione ideologica era di tutt’altra natura: bisognava esportare la democrazia e la libertà, quindi, la sovranità, per forza di cose, era limitata e  si trattava, naturalmente di “guerra umanitaria”.

Non si parli poi della possibilità di mettere in piedi un negoziato o di esperire strade diverse da quella del ricorso alla guerra: Putin non ne vuole sapere e, in ogni caso, non si può legittimare un dittatore che vuole solamente espandere il proprio spazio territoriale. Ora, se non c’è dubbio  che il governo russo abbia una natura dittatoriale e che da esso riemerga una spinta imperiale, non si può però occultare che ‘l’Occidente’, praticamente sin da subito, abbia guardato alla scelta della guerra come l’unica percorribile.
Certo, con l’avvertenza che non bisogna esagerare, che bisogna maneggiare con cura il fatto che la Russia possiede ordigni nucleari e che quindi occorre evitare la deriva di una possibile terza guerra mondiale, ma è evidente che il reiterato e sempre più massiccio invio di armi all’Ucraina e l’aumento delle spese militari abbiano avuto quel significato.

Per non parlare poi delle esternazioni di Biden sul “macellaio” Putin o sul “genocidio” in corso, che rispondono all’obiettivo (sempre più dichiarato) di chiudere ogni spazio di dialogo.

Sull’invio delle armi, argomento che ha prodotto anche alcune discussioni serie, è necessario mettere in luce due dirette conseguenze.
La prima: che nel momento in cui si è presa questa decisione, inevitabilmente si è scesi sul terreno dei rapporti di forza militari.
La seconda: che il livello di questi aiuti è saldamente nelle mani della NATO e non certamente in quelle di Zelensky.
Quest’ultimo, non a caso, ha dovuto rinunciare alla rivendicazione della no-fly zone e alla richiesta dell’aviazione.

Insomma, per quanto ci si voglia girare intorno non si può sfuggire al fatto che la guerra in corso è tra Russia e Nato, sia pure per l’interposto ruolo dell’Ucraina. E che ciò riabilita il vecchio adagio di von Clausewitz, per cui “ la guerra non è che la continuazione della politica con altri mezzi” e rende nuovamente attuale il concetto che – a dispetto di quanto afferma la nostra Costituzione – la guerra è tornata ad essere “mezzo di risoluzione delle controversie internazionali”.

Di conseguenza – ed è esattamente quello che sta succedendo – il pensiero critico va attaccato duramente, o ridimensionato, o tacitato, o colpevolizzato. La riflessione non sembra più avere cittadinanza. Provare a comprendere quello che sta succedendo è bollato come un’inutile perdita di tempo, se non addirittura una giustificazione, insomma; “intelligenza con il nemico”.

Invece è proprio di questo pensiero critico, di questa riflessione fuori da uno schema preordinato che abbiamo bisogno, se non vogliamo rassegnarci al fatto che la guerra sia una ‘normale’ possibilità tra le altre nei rapporti internazionali e che l’azzeramento del pensiero sia uno stato inevitabile.

C’è qualcosa di paradossale, ma anche di rivelatore, nel fatto che più si favoleggia sulla superiorità dei valori dell’Occidente, più si chiede a tutti di allinearsi al pensiero unico. Forse si teme di doversi interrogare proprio su cosa è successo negli ultimi trenta quarant’anni, su dove stanno le radici dell’imbarbarimento cui stiamo assistendo.
Forse si vuole evitare di misurarsi con l’attuale disordine mondiale, quello che ci ha consegnato il capitalismo della globalizzazione e la narrazione che il mercato sia sinonimo di progresso e libertà.

All’indomani della caduta del muro di Berlino, in molti si sono accodati alla tesi di Fukuyama, per cui eravamo finalmente arrivati alla “Fine della storia”, nel senso che, finita la superpotenza sovietica, si apriva un’era felice in cui mercato e democrazia si sarebbero espansi in tutto il mondo grazie alla supremazia del modello capitalistico americano e occidentale. La storia, invece, non finisce e prende strade diverse da quelle che gli apologeti del neoliberismo avevano descritto.
Il mondo diventa sì sempre più globale e interdipendente, ma l’affermazione generalizzata del mercato convive senza problemi con regimi autocratici e dittatoriali. Soprattutto emerge una realtà mondiale multipolare, la Cina come grande potenza insieme a una serie di medie potenze regionali, dalla Russia appunto alla Turchia, dall’India all’Iran, con un’Europa che appare più una sommatoria di Stati nazionali piuttosto che un polo autonomo e unificato.

In ogni caso, gli Stati Uniti vedono incrinarsi la propria egemonia e, anziché rimanere l’unica grande superpotenza mondiale, si trovano a dover fare i conti con altri poteri statuali forti e diventano incerti sul come procedere. E’ questa non rassegnazione degli USA a non essere più il baricentro dell’ordine mondiale, da una parte, e l’ emergere di nuovi nazionalismi forti sul piano economico e politico, dall’altra, a generare instabilità diffusa, crescita della competizione e delle guerre commerciali e anche delle guerre, che tornano ad assumere una dimensione di normalità nel nuovo disordine mondiale.

Quello che sembra profilarsi all’orizzonte della guerra in Ucraina, e cioè una sorta di costruzione di una strana sorta di bipolarismo.
Da una parte una nuova centralità statunitense a cui l’Europa, sia pure riluttante, deve riallinearsi. Dall’altra la forza della Cina, cui la Russia e altri attori dovranno rivolgersi. Dunque, un nuovo ‘ordine mondiale’, che però non pare in grado di cambiare il quadro di fondo, anzi, semmai, lo rafforza, spingendo anche verso un rallentamento della globalizzazione e il rafforzamento del ruolo degli Stati nazionali.

Esiste un alternativa? Cosa si può e si deve fare oggi davanti alla tragedia della guerra ucraina?
Io credo che non possiamo non affrontare i nodi di fondo che ho provato sommariamente a descrivere. Diversamente, come dice Papa Francesco, questa guerra finirà con una qualche tregua e poi si riprenderà con qualche altra guerra. Sempre sperando che, magari incidentalmente, il tutto non precipiti nella fine nucleare. E’ lo scenario della ‘terza guerra mondiale a pezzi’: una prospettiva che non ha solo un grande valore profetico, ma che allo stato attuale, risulta essere quella più realistica.

Per questo si doveva fare – e ancora oggi si deve fare – tutto quello che può fermare il ricorso alle armi in Ucraina.
Chiedere che si apra finalmente un vero negoziato , 
che non può essere affidato alle forze belligeranti, il rilancio del ruolo dell’ONU, l’assunzione di un ruolo autonomo di mediazione dell’Europa. Come ultima ratio si potrà arrivare anche all’embargo commerciale (comprensivo di petrolio e gas) nei confronti della Russia, purché alternativo all’invio delle armi.

In un’epoca in cui pace e guerra tornano ad essere una grande discriminante nel mondo,  occorre avere la consapevolezza che solo una grande iniziativa per il disarmo mondiale appare una prospettiva sensata. A questo grande e difficile obbiettivo serve dedicarsi: chi non vede ciò è il vero cieco.

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Corrado Oddi

Attivista sociale. Si occupa in particolare di beni comuni, vocazione maturata anche in una lunga esperienza sindacale a tempo pieno, dal 1982 al 2014, ricoprendo diversi incarichi a Bologna e a livello nazionale nella CGIL. E’ stato tra i fondatori del Forum Italiano dei Movimenti per l’Acqua nel 2006 e tra i promotori dei referendum sull’acqua pubblica nel 2011, tema cui rimane particolarmente legato. Che, peraltro, non gli impedisce di interessarsi e scrivere sugli altri beni comuni, dall’ambiente all’energia, dal ciclo dei rifiuti alla conoscenza. E anche di economia politica, suo primo amore e oggetto di studio.

Ogni giorno politici, sociologi economisti citano un fantomatico “Paese Reale”. Per loro è una cosa che conta poco o niente, che corrisponde al “piano terra”, alla massa, alla gente comune. Così il Paese Reale è solo nebbia mediatica, un’entità demografica a cui rivolgersi in tempo di elezioni.
Ma di cosa e di chi è fatto veramente il Paese Reale? Se ci pensi un attimo, il Paese Reale siamo Noi, siamo Noi presi Uno a Uno.  L’artista polesano Piermaria Romani  si è messo in strada e ha pensato a una specie di censimento. Ha incontrato di persona e illustrato il Paese Reale. Centinaia di ritratti e centinaia di storie.
(Cliccare sul ritratto e ingrandire l’immagine per leggere il testo)

PAESE REALE

di Piermaria Romani

 

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