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PER CERTI VERSI
Sabato (senza villaggio)

SABATO (SENZA VILLAGGIO)

Sabato albeggia
Stipato
Tra cartoni di nuvole
Sacche di grigio
Dense
Non è mai vera festa
Qualche paglia
Si infila nel silenzio
Che vola
Lo fora
Escono botti
Di tir lontani
Piccoli suoni
Di ferraglia
Treni
Non è festa
Ma quasi
Tutti dormono
Molti nel letto
Sugli alberi
Trame di pioggia
Mi arriva
Un tuo biglietto
Nell’aria di salsa
Laguna bassa
Di Chioggia

Ogni domenica Ferraraitalia ospita ‘Per certi versi’, angolo di poesia che presenta le liriche del professor Roberto Dall’Olio.
Per leggere tutte le altre poesie dell’autore, clicca
[Qui]

L’INIZIATIVA
Sfida anti-smemoratezza al Festival di microteatro Bonsai

Giochiamo a essere nei panni di qualcun altro: nonna smemorata, compagno fra le nuvole, papà in tilt. Il gioco è sfida e il “Gioco per anziani di tutte le età” vuole provare a mettere alla prova chiunque abbia voglia di farlo, facendolo confrontare con i propri limiti e dando a tutti il brivido di sbagliare e poi, magari, la soddisfazione di farcela. Se qualcuno a cui vuoi bene comincia a perdere colpi, e a perderli per davvero in maniera seria e sistematica, all’improvviso ti rendi conto di tutte quelle cose che sembrano scontate, ma non lo sono affatto.

Chiacchierare, chiedere e fare: tutto è diverso se dall’altra parte la tua mamma, la tua nonna o una persona tanto importante per te ha grossi vuoti di memoria, che piano piano rendono faticoso dialogare in modo scorrevole, perché un dialogo è fatto di un sacco di sottintesi e di punti di riferimento comuni e noti. L’affetto e la voglia di condividere restano, ma l’ambito dei discorsi di restringe sempre di più.

Nella relazione con una persona, le limitazioni neurologiche, la memoria svanita e lo smarrimento di conoscenze escludono dapprima i discorsi complicati, la condivisione di attualità spicciola e i riferimenti a problematiche personali grandi o anche piccole, che non vuoi più riversare su chi ami e ti vuol bene, quando capisci che fatica a seguirti nelle sfumature di un racconto fatto inevitabilmente di riferimenti a cose e persone che, per lei o lui, finiscono inghiottiti da una nebbia fitta e disorientante.

“Gioco per anziani di tutte le età” con il teatro Ferrara Off
Che fare, allora, e che dire negli incontri con una persona che ti sta a cuore, ma che è fortemente smemorata? Chiacchierare è una cosa preziosa per stare insieme e in più ci si accorge di quanto illumini e stimoli e renda più lucide, presenti e anche gioiose le persone che hanno limitato le loro frequentazioni quotidiane a causa di malattia.
Giulio Costa del teatro Ferrara Off durante l’appuntamento del festival di microteatro
Un gioco – pensa un po’ – è stato immaginato per intrattenere, divertire e trascorrere piacevolmente del tempo insieme con chi è afflitto da smemoratezza patologica. Un nome ancora non c’è l’ha, ma ci sono carte colorate, un tabellone con le caselle e una scatola con dentro dadi e pedine in legno. L’hanno inventato una linguista e una musico-terapeuta ed è possibile in questi giorni anche giocarci. Io l’ho fatto e – oltre a capire delle cose – mi sono anche divertita un sacco.
Ci si diverte e si prova l’ebbrezza di sbagliare. Perché, alla fin fine, chiunque esita un attimo e si sente messo alla prova quando gli chiedono di enumerare tutte le fasi necessarie a fare il ragù, di declinare tutti gli aggettivi possibili per descrivere una piazza o di ricordarsi una sequenza di numeri fino al turno successivo!
“Gioco per anziani di tutte le età” con il teatro Ferrara Off

Già il titolo mi è piaciuto: “Gioco per anziani di tutte le età”. Di solito i giochi e i laboratori che più mi farebbe voglia frequentare sono quelli per bambini, ma finalmente viene proposto un laboratorio-gioco all’incontrario e per di più aperto a tutti. Il gioco da tavolo sperimentale è stato ideato da Giulia Murgia e Valeria Tinarelli per tenere allenate, in maniera ludica e informale, le diverse abilità cognitive come memoria, linguaggio, ritmo, attenzione e orientamento.
Io ho giocato con un ragazzo del Conservatorio, un sessantenne e una studentessa universitaria e abbiamo avuto anche dei bellissimi premi, che sono tutti prodotti naturali salva-memoria.

L’iniziativa del “Gioco per anziani di tutte le età” è inserita tra gli appuntamenti molto coinvolgenti del bel cartellone del Festival di microteatro Bonsai organizzato dal teatro Ferrara Off.

Dopo l’appuntamento di domenica 19/9 c’è ancora la possibilità di partecipare domenica 26 settembre 2021 alle 16 e alle 18 per 12 partecipanti e 12 uditori (Centro Sociale Acquedotto, corso Isonzo, 42-42/a, Ferrara). Partecipazione libera con Green Pass e prenotazione obbligatoria al link www.festivalbonsai.it/programma-2021/#2609.

Il Festival di microteatro Bonsai a cura del teatro Ferrara Off ha il patrocinio di Comune di Ferrara e Regione Emilia-Romagna. Tutti gli appuntamenti sono a offerta libera e con prenotazione obbligatoria. Info e prenotazioni sul sito web www.festivalbonsai.it, email bonsai@ferraraoff.it, cell. 333 62 82 360

Cacciatori di tesori

I cacciatori di tesori non esistono solo nei libri, nei film e nelle nostre fantasie.
Alquanto bizzarra la notizia di un imprenditore italiano che scompare lo scorso gennaio a Puke in Albania, dove si trovava per affari, e viene ritrovato al largo delle coste livornesi, su un gommone in avaria, dopo un’assenza di nove mesi. Perché viene individuato in quel tratto di mare? Perché sull’imbarcazione ci sono un piccone, una vanga e una mappa? Perchè in Albania rimane la sua auto data alle fiamme, con  presenza di resti ossei umani?

“Cercavo il tesoro dell’isola di Montecristo ha affermato l’uomo, raccontando di essere sbarcato in Toscana a bordo di un autobus di pellegrini provenienti da Medjugorje, zona in cui aveva soggiornato per un periodo. Un tesoro di cui scrive Alexandre Dumas nel celebre romanzo “Il conte di Montecristo” (1815).

Un impeccabile soggetto per un film, se non fosse che la realtà supera la fantasia, con ombre, sospetti e interrogativi di cui si sta occupando la Procura di Perugia che ha aperto un fascicolo sulla vicenda.

Il tema della caccia ai tesori riempie da sempre leggende e fantasie, evocando il mondo piratesco, le grandi imprese e razzie, il mistero, oro e pietre preziose strabordanti da bauli e casse ben mimetizzati, i nascondigli irraggiungibili, la scoperta sensazionale, le isole maledette.

Se è questa è l’immagine mitica del tesoro nascosto, ci pensano i numerosi cacciatori di tesori che operano realmente in ogni angolo di mondo a renderla più accessibile e praticabile, i nuovi Indiana Jones che hanno sostituito il piccone con mezzi tecnologici sofisticati, spesso società organizzate e specializzate nei recuperi.

E’ una passione che sfocia nell’ossessione, una smania di scovare, una ricerca che percorre minuziosamente le tracce nei luoghi della Storia dove presunte ricchezze giacciono ancora inviolate nelle viscere della terra o nei fondali dei mari.

E’ anche un enorme business nel mercato nero del collezionismo privato internazionale che alimenta traffici illegali clandestini di proporzioni importanti e trova terreno di espansione anche a mezzo dell’e-commerce, acquistando ancora più vigore durante il periodo pandemico.

Ritrovamenti consistenti di valore enorme sono avvenuti in molte zone di tutti i continenti. Un buon esempio è il carico prezioso del vascello a vapore S.S.Republic, affondato durante un uragano davanti alle coste della Georgia, nel 1865, con un carico di 20.000 monete d’oro destinate alla ricostruzione del Sud dopo da Guerra di Secessione. Il carico prezioso è stato recuperato nel 2003, valutato in 180 milioni di dollari.

In Gran Bretagna i ritrovamenti sono stati numerosi; tra i più significativi quello nel villaggio inglese di Hokane nel 1992, per mano di un contadino che arava un campo, consistente in una cassa di legno piena di oro che risaliva all’epoca romana. Valore 4 milioni di dollari.

Ci sono voluti 17 anni per portare il tesoro di Atocha definitivamente in superficie dai fondali, recupero iniziato dal leggendario cercatore Mel Fisher: si tratta del carico prezioso del galeone spagnolo secentesco Nuestra Señora de Antocha valutato per l’ammontare di 450 milioni di dollari, affondato al largo delle Isole Keys, Florida.

Nel 1979 in Afghanistan, gli scavi  in un sito funerario misero in luce 21.000 gioielli in oro di fattura superba e di grandissimo valore, appartenenti ai reali sepolti.

Molti ritrovamenti nelle zone geografiche più disparate rimangono a tutt’oggi inestimabili, di un valore talmente alto da non permetterne la quantificazione. Un esempio su tutti il ‘tesoro del Titanic’, una parte del quale recuperata tra il 1985 e il 2004 con ben sette spedizioni nell’area del naufragio del transatlantico inabissatosi nell’Atlantico nel 1912.

Durante i vari recuperi sono riaffiorati circa 5500 cimeli del valore di 190 milioni di dollari, tra cui l’anello con diamante di Wallace Hartley, il responsabile dell’orchestra che insieme ai suoi musicisti continuò a suonare fino alla fine, mentre la nave affondava. L’entità del valore di quanto trasportasse complessivamente l’imbarcazione sfugge a ogni ipotesi e molto rimane ancora in fondo al mare.

Ma tesori segregati e custoditi nel sottosuolo, nelle grotte, negli oceani, popolano fantasie, curiosità e immaginazione aldilà del valore di mercato che possono rappresentare: una fantasticheria di bambini e adulti senza distinzione, sempre attuale, colorata e vivace. Il cacciatore di tesori rimane sempre il temerario avventuriero che sfida qualsiasi impervietà e rischio nel nome della scoperta.

Ricordo ancora quei due docenti dell’Università di Boston, conosciuti sotto la pioggia nella brughiera di Dunmore, nella penisola di Dingle in Irlanda, appassionati cercatori di reperti. Trascorrevano ogni anno le loro vacanze in quel luogo fuori dal mondo, a caccia di possibili siti archeologici, oggetti di epoca celtica, segni dell’approdo su quel tratto di costa della Invencibile Armada spagnola e altre meraviglie da scoprire, in compagnia di un vento che non cessava mai di sibilare, qualche pecora e la sporadica presenza umana locale. Passione, dedizione, ricerca.

Perché, come sosteneva Socrate, “Una vita senza ricerca non è degna di essere vissuta.”

PRESTO DI MATTINA
Identità narrabili

Identità nascoste.

«”La gente, chi dice che io sia?. Ed essi gli risposero: “Giovanni il Battista; altri dicono Elìa e altri uno dei profeti”. Ed egli domandava loro: “Ma voi, chi dite che io sia?” Pietro gli rispose: “Tu sei il Cristo (Messia)”. E ordinò loro severamente di non parlare di lui ad alcuno.» (Mc 8,27).

La buona notizia di Gesù, il segreto nascosto nella sua identità, ciò che il suo nome rivela e cela allo stesso tempo, strada facendo nell’intreccio e nel dispiegarsi della vita, viene alla luce poco alla volta nelle narrazioni dei vangeli, nel manifestarsi del suo agire, di un fare continuamente in relazione alle persone che incontrava.

È il principiarsi, l’accadere di una storia narrante e sempre di nuovo narrata, in cammino e facentesi nell’intreccio con altre storie, di cui forma la trama, il disegno delle libertà, in un ri-gioco narrante.

Ogni volta, ogni incontro, un giorno dopo l’altro, è qualcosa della sua identità che affiora per nascondersi subito dopo, perché la ricerca del “chi sia lui” non si fermi, ma continui oltre, persino quando è lui stesso a dire di sé e della sua missione di essere il “Figlio dell’uomo“, ispirandosi alla figura nella visione del profeta Ezechiele. Identità questa ad un tempo solidale con noi in umanità e con Colui che lo ha mandato a fare grazia, a inaugurare il tempo ultimo della grazia che va scoprendo, vivendo tra la gente.

L’altro, lo Spirito del Signore, l’ispiratore delle storie di Dio tra gli uomini, sceso di nuovo su Gesù nella sinagoga di Cafarnao, come al battesimo, gli rivelò la sua identità filiale, di unigenito così ora, nelle scritture aperte, gli racconta le storie che lo hanno preceduto, l’identità nascosta in quella sua storia nuova di umanità, iniziata a Betlemme e disvelata in un nuovo capitolo a Cafarnao: «Lo Spirito mi ha mandato per annunziare ai poveri un lieto messaggio, per proclamare ai prigionieri la liberazione e ai ciechi la vista; per rimettere in libertà gli oppressi» (Lc 11,18).

Il segreto del suo bel nome si saprà solo alla fine nel vangelo narrante di Marco: un nome fatto di diversi nomi susseguenti fino all’ultimo (‘titoli cristologici’ li chiamano i biblisti; come sementi dolcissime nell’unica melagrana cristologica – penso io – del bel nome di ‘Gesù’).

Altrettante identità nascoste scopriranno i suoi discepoli interrogando le scritture alla luce dello Spirito del crocifisso-risorto, dopo la Pasqua, iniziando proprio dalla confessione di Pietro, nel versetto citato sopra.

Egli vorrebbe fermarsi a quello che ha scoperto: il ‘Messia vittorioso’, perché dell’altra identità quella di ‘Figlio dell’uomo’ – che rivela il modo di Gesù di attuare la sua messianicità nella forma del ‘Servo sofferente di Jahvé’ preconizzato nei canti di Isaia – proprio non ne voleva sapere, né lui né gli altri, perché rivelativa di debolezza, dolore, rifiuto, consegna di sé, accettazione di un ingiusto destino. Non era ancora pronto a narrare di Gesù: «il Giusto mio servo giustificherà molti e si addosserà la loro iniquità» (Is, 53, 11).

Il suo buon nome si manifesterà solo alla fine, dopo aver percorso l’itineranza esistenziale, storica e narrativa dei canti del Servo di Jahvé inscritte nelle vicende del suo popolo e degli altri popoli. Il nome, tenuto nascosto come un segreto in quello messianico di Cristo, sarà pronunciato con fede proprio da un pagano, il centurione romano, di fronte alla morte di quel giusto: in quella desolazione egli confesserà anche a noi la sconcertante verità nascosta in quel condannato crocifisso: «Vere hic homo Filius Dei erat» (Mc 15, 39).

Il segreto dell’identità di Gesù si esprime anche per noi facendosi strada attraverso un divenire che è insieme esistenziale e narrativo. Il vangelo ci fa essere parte di ciò che esprime attraverso la sua storia narrante. Ci fa entrare nelle vicende della “buona notizia di Gesù” e così dà forma anche alla nostra identità attraverso la sua identità, che è al tempo stesso ereditata e già scritta nel passato, ma ancora da creare nel tempo a venire.

Scrive Giovanni in una lettera: «Carissimi, noi fin d’ora siamo figli di Dio, ma ciò che saremo non è stato ancora rivelato. Sappiamo però che quando egli si sarà manifestato, noi saremo simili a lui, perché lo vedremo così come egli è» (1Gv 3,2).

Il «lieto fine è nascosto» direbbe Margaret Atwood [Qui], la scrittrice canadese di narrativa sociale e di racconti anche per bambini; così l’identità di ciascuno è nascosta anche a lui stesso: essa si rivela nelle storie che ci verranno raccontate e in quelle che narreremo strada facendo.

Realizzare l’identità significa così esprimere ciò che di irrepetibile è nascosto nella propria umanità, il cui tragitto è paragonabile al dispiegarsi di una narrazione. Senza la narrazione essa rimane indecifrabile: il racconto è il modo di rispondere alla domanda “chi sono”.

Scrive il filosofo e accademico canadese Charles Taylor [Qui], che «noi non possiamo fare a meno di concepire la nostra vita in termini narrativi, come una ricerca… L’immagine che ho di me stesso è quella di un essere che si muove e diviene, fenomeno che, per sua natura, non può essere istantaneo.
Ciò significa non solo che ho bisogno di tempo e di molte traversie per sceverare ciò che, nel mio carattere, nel mio temperamento e nei miei desideri, è relativamente fisso e stabile da ciò che è, invece, variabile e mutevole; ma anche che, come essere che si muove e diviene, io posso conoscere me stesso solo per il tramite dei miei progressi e dei miei regressi, delle mie vittorie e delle mie sconfitte. La mia immagine di me stesso necessariamente ha uno spessore temporale e una struttura narrativa» (Radici dell’io. La costruzione dell’identità moderna, Milano 1993, 73; 71).

L’altro narrante svela noi a noi stessi. Ulisse si commuove pur conoscendo le sue origini per il canto dell’aedo Demodoco che, alla corte dei Feaci, canta la sua storia e le sue imprese e così egli riconosce se stesso, in un modo nuovo e singolare, tanto che a quel racconto egli si commuove profondamente e piange.

Nell’assemblea domenicale, mi piace pensarlo, Gesù stesso, presente e vivo nel suo Spirito e nel suo corpo che sono le scritture, il pane eucaristico e anche noi che siamo membra del suo corpo spirituale, sentendo di nuovo raccontare da noi, raccolti attorno a lui, la sua vita e quella dei suoi discepoli e udendo di nuovo sentirsi chiamare Figlio dell’uomo, Figlio di Dio, Servo e Messia sofferente, Gesù Signore e Maestro non credete che non si commuoverà ancora oggi allo stesso modo in cui provò compassione davanti alle folle stanche e sfinite come pecore senza pastore o presso il sepolcro di Lazzaro?

Nella liturgia e ogni volta che si legge il vangelo è un accrescimento di identità narrativa per i credenti e per la chiesa; una nuova tappa nella coscienza di sé, un’apertura del già, verso il non ancora “di chi saremo”.

Pure la Chiesa assume un’identità in progress, narrativa. Se resta aperta all’appello dell’altro scoprirà sempre più se stessa, la sua vocazione iniziale, e potrà continuare ad interrogarsi come ha fatto Papa Paolo VI al Concilio quando disse: “Chiesa che dici di te stessa, chi sei? Saprà così comprendersi confrontandosi con l’identità del suo Signore ogni volta che lo incontrerà affamato e gli darà da mangiare, malato e in carcere e si recherà a visitarlo, straniero e lo ospiterà”.

Nell’ultima enciclica, Fratelli tutti, Papa Francesco ricorre alla parabola del Samaritano: «un estraneo sulla strada: … Uno si è fermato, gli ha donato vicinanza, lo ha curato con le sue stesse mani, ha pagato di tasca propria e si è occupato di lui. Soprattutto gli ha dato una cosa su cui in questo mondo frettoloso lesiniamo tanto: gli ha dato il proprio tempo. È stato capace di mettere tutto da parte davanti a quel ferito, e senza conoscerlo lo ha considerato degno di ricevere il dono del suo tempo. Con chi ti identifichi? Questa domanda è dura, diretta e decisiva. A quale di loro assomigli? … La narrazione è semplice e lineare, ma contiene tutta la dinamica della lotta interiore che avviene nell’elaborazione della nostra identità, in ogni esistenza proiettata sulla via per realizzare la fraternità umana. Una volta incamminati, ci scontriamo, immancabilmente, con l’uomo ferito. Oggi, e sempre di più, ci sono persone ferite. L’inclusione o l’esclusione di chi soffre lungo la strada definisce tutti i progetti economici, politici, sociali e religiosi». Inclusione o esclusione danno forma anche alle nostre identità.

E in un omelia sulla formazione dei presbiteri del 2008, quando era ancora in Argentina, Francesco disse: «La nostra identità… non è fatta per mantenere un integrismo sdegnoso e conservativo, ma tutto il contrario: la Chiesa custodisce l’integrità del dono per essere in grado di darlo e comunicarlo intero a tutti gli uomini nel corso di tutte le generazioni. Non è identità autoreferenziale, ma identità d’amore che ci spinge verso la periferia, consapevolezza di ciò che siamo per grazia, identità che riferisce tutto a Cristo. Identità inviata, identità in missione», (Nei tuoi occhi è la mia parola, Milano 2016, 608).

L’identità del samaritano resta nascosta finché non è chiamata fuori dall’incontro con l’umanità dell’altro: è il suo agire che la rivela a lui stesso e a noi; essa ci dice chi egli sia e la qualità dell’umano in lui fatto di compassione e responsabilità, essa si manifesta attraverso il dispiegarsi del racconto fino alla locanda con la promessa di ritornare.

L’identità e la storia restano così aperte verso un’ulteriorità narrativa ed esistenziale che possono prolungarsi e continuare anche attraverso e dentro le nostre storie di oggi. Chiuse invece le identità degli altri due, il levita e il sacerdote, esse rimangono congelate, fossilizzate nel ruolo fatto valere e posto al di sopra della coscienza stessa di umanità; è il personaggio e non la persona a dettare l’agenda delle priorità e dei valori facendo così regredire l’identità, privata dei legami, nel nulla dell’irrelazione e determinando l’immediata uscita di scena dei personaggi.

Se il ruolo, la funzione anche ecclesiale, prevalgono e prendono il sopravvento sul cammino della persona che è essenzialmente relazionale, in cerca della sua identità nell’incontro dialogico con gli altri, allora questa si chiude su se stessa, viene fissata a quel dato momento e quasi sempre rinsecchisce irrigidita.

Così l’identità germinale sarà come una gemma bruciata dal gelo o l’incipit di una storia, di un libro chiuso prima che si arrivi alla fine. L’identità vocazionale di ciascuno è itinerante ed insieme claudicante. Non si giunge alla fine senza l’altro, come una storia senza racconto. È dunque esistenzialmente identità narrativa, in cerca del suo narratore e del suo nome, della sua posizione tra tanti personaggi e altri nomi che gli rivelano il suo: chi egli sia.

L’immagine usata da Paul Ricoeur [Qui] per dire una tale identità è quella della promessa fatta, che rimane anche quando mutano le situazioni e gli avvenimenti; si resta fedele a quanto promesso anche nei cambiamenti. «Mantenere una promessa, infatti, significa in qualche modo sfidare i mutamenti del tempo e opporre un diniego al cambiamento. Promettendo, la persona in qualche modo si “distende” nel tempo e mantenendo la promessa crea una continuità con se stessa nonostante i possibili mutamenti nel tempo. In questo senso, a differenza del carattere, si tratta di una permanenza mantenuta attivamente: Quand’anche il mio desiderio cambiasse, quand’anche io dovessi cambiare opinione o inclinazione, “manterrò”», (Sé come un altro, Milano 1993, 213).

Come in una narrazione noi interagiamo in una trama e sfondo stabili, oltre ogni cambiamento di scenario, di accadimenti positivi o negativi, gioiosi o dolorosi, vittorie e sconfitte. Bivi della vita segnati da ciò che ci rende unici e irripetibili, come quando diciamo “io ti prometto”, “ti perdono”, “ti amo”.

Nonostante situazioni ed eventi, e malgrado io stesso sia sottoposto a mutazioni e cambiamenti nel tempo, resto e mi mantengo identico pur nel diversificarsi delle relazioni e degli eventi. Tale identità risulta così insostituibile, ma non nel senso che io non possa essere sostituito, bensì per il fatto che nessun altro può vivere per me, promettere al posto mio, né può nascere, amare, morire per me.

Si scopre la propria identità proprio come si nasce, si promette, si ama sempre in relazione a qualcun altro che narra il nascere il promettere, l’amare: “Chi mi vede, mi racconta”.

«Lo statuto relazionale dell’identità postula infatti sempre l’altro come necessario: sia questo altro impersonato da una pluralità di spettatori che colgono gli atti che lo manifestano, sia esso impersonato da colui che narra la storia di vita risultata dagli atti medesimi. Al contrario dello spettatore, il narratore tuttavia non è presente agli accadimenti e ha perciò su di essi, come lo storico, uno “sguardo retrospettivo”. Egli conosce meglio degli altri ciò che è accaduto proprio perché non partecipa direttamente al contesto delle azioni da cui è risultata la storia…. Se ognuno è chi nacque, sin dall’inizio e con una promessa di unità che la storia eredita da quell’inizio, nessun racconto di una storia di vita può infatti tralasciare quest’inizio da cui la storia medesima è cominciata. Il racconto del suo inizio, il racconto della sua nascita, non può tuttavia che venire all’esistente nella forma della narrazione altrui», (Adriana Cavarero [Qui], Tu che mi guardi, tu che mi racconti. Filosofia della narrazione, Milano 1997, 38; 55).

Questo inciso testuale mi rammenta una poesia armoniosa di Vivian Lamarque [Qui]:
«Se sul treno ti siedi
al contrario, con la testa
girata di là,
vedi meno la vita che viene,
vedi meglio la vita che va
».

Da un rimando all’altro, alla fine, un breve racconto che ci rimetta di nuovo per strada, alla ricerca di identità ancora nascoste e riapra una storia che sembrava finita e una pace che si era smarrita:

«Rabbi Zusia, viaggiava molto spesso in incognito, come un mendicante; una volta capitò in una locanda e uno sconosciuto dall’aspetto ricco lo prese per uno straccione e lo trattò, molto male con disprezzo. Più tardi però nella sinagoga venne a conoscenza della sua identità e si mise a urlare i suoi rimorsi e a correre dietro Zusia dicendo: “Perdonatemi, Rabbi, altrimenti non ritroverò mai più il sonno né la pace”. Allora Rabbi Zusia gli sorrise scuotendo la testa: “Perché chiedi a Zusia di perdonarti? Non gli hai fatto niente! Non è Zusia che hai offeso ma un povero mendicante; va’ e chiedi dunque ai mendicanti, ovunque tu vada, di perdonarti”».

Per leggere gli altri articoli di Presto di mattina, la rubrica di Andrea Zerbini, clicca [Qui]

FERRARA: UN CORTEO ALLEGRO PER SALVARE IL PIANETA

Non sono di Ferrara, ma sto imparando ad amarla, semplicemente passeggiando a piedi o in bici per le sue strade. È una città di una bellezza sconcertante soprattutto il suo centro storico, dove affascinano i palazzi antichi perfettamente conservati e la luce del sole batte sui mattoni rossi.

Oggi poi l’ho amata maggiormente. Ferrara è una delle mille città che ha aderito allo sciopero climatico promossa dai FFF (Fridays for future) e PFF (Parents for future) per segnalare a chi governa il mondo l’urgenza della emergenza ambientale.Ne ha scritto ieri Marcella Ravaglia su questo giornale [vedi qui]

Alcune centinaia di cittadini – tanti i giovani e i bambini – donne (in maggioranza) e uomini, hanno marciato per la città partendo da Porta degli Angeli, fino a piazza del Municipio. Con slogan e striscioni, hanno coinvolto la cittadinanza, dalle scuole ai negozianti, ai semplici passanti.

Ferrara è la città delle biciclette, ha in qualche modo dei buoni presupposti. Non è un caso quindi che la manifestazione sia riuscita perfettamente. Quello che mi ha commosso è stata l’adesione di anziani e bambini, animati da un forte voglia  cambiamento e di partecipazione, ma anche tanta allegria.

Arrivati nella piazza Municipale, gli interventi di associazioni, movimenti (Plastic free, FFF, Politici per caso, Extinction Rebellion) e liberi cittadini.

Intanto, in tantissime città d’Italia e del mondo si marciava con lo stesso obbiettivo. Dare la sveglia ai nostri governanti. Greta Thunberg, la giovane attivista che ha dato inizio a questo grande movimento, è intervenuta nella affollatissima manifestazione di Berlino.

Le foto che ho scattato e che illustrano questo breve reportage, non rendono giustizia della manifestazione. L’atmosfera e l’empatia si può percepire solo partecipando. E solo partecipando si può cercare di salvare il mondo.

FEMMINICIDI: DARE I NUMERI NON BASTA

 

Sono 50 o 83?

Il susseguirsi di femminicidi delle ultime settimane interroga ciascuno di noi su cosa si sarebbe potuto fare per evitarli e quale intervento siamo collettivamente in grado di mettere in campo per impedire altre morti. I temi sono molteplici. Ne indico quattro.

Spulciando tra le notizie ho letto su autorevoli quotidiani che i femminicidi avvenuti nel 2021 sono per alcune testate 50, per altre 83.
Potrà sembrare una questione di poco conto; io credo invece che non sia così. Passi uno scarto di poche unità, ma un divario tanto grande si spiega solo con l’applicazione di criteri differenti, ovvero con diverse concezioni di quello che solo da pochi anni viene pensato come fenomeno sociale e non come susseguirsi di eventi tra loro scollegati.

Che sia giusto occuparsene con un’attenzione mirata non ho dubbi, e non so quale misura sia giusta, se 50, 83 o un’altra ancora. Ho il timore che la parola “femminicidio”, come è successo alla parola “bullismo” per stare a un tema che studio da tempo, finisca per essere usata dai media e da tutti noi come passepartout, e quando un termine vuol dire tutto, finisce per non significare più niente.

Mi capita di vedere affibbiare l’etichetta di femminicidio a qualsiasi omicidio di una donna e non mi pare appropriato: un tossicodipendente può uccidere, in una rapina, una donna o un uomo nello stesso modo se ha bisogno di denaro. Proprio per questo sarebbe opportuno comprendere bene che cos’è il femminicidio, riconoscerne i contorni e costruire su questo un consenso diffuso.

Troppe armi in casa

Non ho una statistica sottomano, ed è vero che tante donne sono state uccise altrimenti, ma mi pare ricorrano le armi da fuoco associate a mestieri che le prevedono, quali la guardia giurata, o carceraria, o l’appartenenza alle forze dell’ordine. Mi domando la ragione per cui chi svolge queste professioni si porta a casa l’arma di ordinanza, anziché riporla in un’armeria, sul luogo di lavoro, arrivato a fine giornata.

Dopotutto i chirurghi non tengono il bisturi in tasca. E sarà ozioso, ma io mi chiedo quale messaggio implicito riceva chi può trattare come propria la pistola che gli è affidata per motivi professionali. Come percepisca il proprio potere nelle relazioni anche una volta smessa la divisa. E quali controlli si facciano per accertare l’equilibrio personale di chi per mestiere è armato.

Le deformazioni professionali ci sono sempre: gli insegnanti tendono a dare i voti anche ai figli, gli infermieri a soccorrere il prossimo e via di seguito, ma alcuni atteggiamenti, trasposti dal lavoro al quotidiano, sono palesemente più rischiosi di altri.

Riconoscere la gravità della violenza nella coppia

Accantonati i femminicidi, ad altri tavoli straordinariamente importanti si discute a più voci su quanto debba pesare una denuncia per violenza, su quanto debba influire ad esempio sulle decisioni nel corso delle separazioni coniugali o dei procedimenti giudiziari per la tutela dei figli.

Due schieramenti opposti espongono i loro giusti argomenti. Da un lato, prendere decisioni ignorando la denuncia mette a rischio l’incolumità della vittima e dei bambini, e le conseguenze sono sotto gli occhi di tutti. Dall’altro, convalidarla prima di una sentenza di condanna apre al rischio delle false accuse, e anche su questo i reclami non mancano.
Una strada per agire con equilibrio e precauzione deve però esistere. Non ne conosco una migliore di analizzare volta per volta la situazione, con il massimo scrupolo e nell’ascolto delle parti, consci di oscillare tra due possibilità di errore.

Da tempo sono stati messi a punto metodi che aiutano agenti di polizia, operatori sociali e sanitari a raccogliere dalla vittima le informazioni in modo accorto, per riconoscere i casi in cui rischia di più.
Queste metodologie non sono una panacea ma un aiuto sì, e applicarle sarebbe doveroso. Potrebbe avvenire dopo una formazione ampia ma approfondita per tutti coloro che professionalmente incontrano le vittime, affinché le ascoltino con le giuste accortezze e forniscano poi ai magistrati gli elementi necessari per riconoscere i casi di maggiore gravità e proteggere coloro che ne hanno bisogno.
In altri paesi europei è già così, l’Italia continua a essere inspiegabilmente diversi passi indietro.

Alleviare l’oppressione di ruoli di genere troppo costrittivi

Continuiamo a crescere bambini, poi ragazzi, poi uomini, che si negano le lacrime, o l’ascolto delle emozioni, e legittimano la violenza come soluzione a un affronto.
Sull’altro fronte ci sono ancora bambine, poi ragazze, poi donne, votate all’accudimento, al senso di colpa, al sacrificio di sé.

Gli uni e le altre sono meno presenti che in passato ma ci sono ancora – non servono grandi numeri perché si dispieghi la violenza – e l’intreccio tra culture e stili educativi diversi rimescola le carte.
Prevedere un’educazione all’affettività e al rispetto ben fatta, nella scuola pubblica in modo che includa anche chi non la riceve in famiglia, sarebbe un’azione preventiva estremamente importante.

Ripenso agli uomini che ho conosciuto personalmente perché avevano ucciso la madre dei propri figli. Provo a immaginare i tantissimi che non ho incontrato ma di cui si leggono le dichiarazioni: “lei mi tradiva… lei aveva detto di non amarmi più… voleva lasciarmi e non potevo sopportarlo,”.

A tutti loro vorrei dire che il disonore di un uomo tradito è niente rispetto a quello di un assassino. Che il conforto di sfogarsi con un gesto efferato è misero confrontato alla pena inestinguibile che ne consegue per avere spento una vita, sacra in sé e per ciò che significa in chi l’ha amata. Che la soddisfazione di dominare un’altra creatura è superficiale e minima se pensiamo al piacere di conoscere e farsi conoscere dall’altro, con tutta la fatica di mettere e lasciarsi mettere in discussione. Che la catastrofe di un abbandono la conosciamo benissimo anche noi donne, ma in genere la sciogliamo nell’abbraccio di un’amica e non arrogandoci il diritto di spegnere la vita altrui.

Un mio spunto di riflessione laterale: [Vedi qui]

Questo articolo è apparso anche sulla www.azionenonviolenta.it

DIARIO IN PUBBLICO
Martha, la divina

 

 Ritorno in città dall’esilio ‘laidesco’ (per chi mi legge solo ora è il mio modo di chiamare il Lido/Laido degli Estensi) impegnatissimo a concludere i lavori in corso compresa la conferenza su Dante, che sarà il giusto omaggio a chi tanto mi ha dato nella mia vita culturale e accademica.

Mi telefona un’amica, domandandomi se sapessi del concerto che apriva al teatro comunale la stagione sinfonica dove avrebbe suonato la ‘mia’ Martha. Mi precipito ad acquistare il biglietto pregustando una serata degna degli angeli.

E così è stato. Avrebbe suonato un pezzo difficilissimo di Dmitrij Šostakovič [Qui]Concerto per pianoforte con accompagnamento di orchestra d’archi e tromba assieme al trombettista israeliano-russo Sergei Nakariakov [Qui] e con la Manchester Camerata [Qui] diretta da Gábor Takács-Nagy [Qui]. L’attesa era tanta. Martha Argerich [Qui] zoppica un poco, il suo bellissimo viso è contornato e semi-nascosto dalla massa di capelli grigi.

La potenza delle dita e delle mani è tale che il pianoforte sembra sussultare sotto il loro tocco, poi uno sguardo al biondo ragazzo che comincia a suonare la tromba, mentre i capelli con la scriminatura a metà si chiudono sul suo volto arrossato per lo sforzo e alla fine due occhi infantili chiedono il giudizio alla divina Martha, che glielo concede con dolcezza e protezione. Un silenzio stupefatto subito dopo l’ultima nota.

Lei si alza con un sorriso infantile piega la grigia chioma e allora il teatro è scosso da un urlo irrefrenabile mentre i ‘bravi!’ si sprecano e la stessa Camerata entusiasticamente batte la sua approvazione sugli archetti.

Si allontana la divina col suo passo esitante, accompagnata dal suo ragazzo-tromba poi ritorna e per ben cinque volte accontenta il pubblico in delirio, ripetendo il primo tempo del concerto e poi ancora, ancora, fino all’immancabile commiato, che ce la porta lontano nel regno del divino da cui era discesa a miracol mostrare.

La Camerata esegue poi la celeberrima Serenata per archi di Pëtr Il’ič Čajkovskij [Qui]: il direttore entusiasta ricorda che quella esecuzione è dedicata al grandissimo Abbado di cui ora Nagy occupa la stanza che dà sulla piazza del Castello nell’hotel Annunziata.

Gli archi cominciano a suonare e l’occhio spazia sugli esecutori. Il primo contrabasso è una signora dagli infuocati capelli rossi; tra le viole sorride un giovane che sembra Calenda da giovane; nascosta nell’ultima fila suona una signora che sembra la copia della moglie del fittavolo che in Downton Abbey tenne come figlia Marygold, la bimba del peccato della infelice Edith, che se la riprende e perde il fidanzato.

Salta come un ossesso il direttore Nagy e conferma ciò che la Camerata intende per musica e la sua trasformazione in un complesso etico che, spiega il programma, “lavora con ricercatori e professionisti a livello mondiale nel campo della demenza, per offrire una musicoterapia efficace e significativa”.

Saltella Nagy, s’infiamma nel dirigere infiamma allo stesso tempo il pubblico e l’orchestra. Poi lentamente le luci s’accendono e un pubblico commosso accompagna gli orchestrali, che si salutano sul palco.

Pian piano mi avvio verso casa, traversando un centro semi-deserto (e sono solo le 11 di sera). Penso a questa ‘Ferara’ capace di offrire queste intrusioni nel divino e poi ripiegarsi su imbarazzanti e semi-inutili polemiche sui “settantacinque anni di comunismo”, come da tempo viene definito il periodo dell’amministrazione di sinistra.

Mi rattrista a volte il ruolo che le associazioni culturali benemerite sono costrette a sostenere; quelle associazioni che in tempi lontanissimi ho frequentato e a volte presieduto.

Infine, arrivo a casa ‘pedon pedoni’. Gli amici sfrecciano in bicicletta e m’invitano a fermarmi a mangiare una pizza della buonanotte. Ringrazio e faticosamente proseguo. Il cielo s’illumina di lampi minacciosi, poi si aprono le cateratte di un nubifragio improvviso.

Forse il cielo piange la fine del concerto della divina Martha.

Cover: Martha Argerich (Buenos Aires, 5 giugno 1941) – Foto Wikimedia Commons

Per leggere tutti gli altri interventi di Gianni Venturi nella sua rubrica Diario in pubblico clicca  [Qui]

Parole a capo
Anna Bellini: alcune poesie da “Lo sgranare dei giorni”

“E’ il poetare che rende l’abitare un abitare”
(Holderlin / Heidegger)

La vita è un soffio

La vita
è un soffio

diceva
a sé
stessa,
nella sua
solitudine
amara.

Aveva
dato
fuoco
alla sua
vita,
ardente e
piena di
stupore.

La vita
è un soffio

si ripeteva
ogni giorno.

Non si dissolve
l’angoscia.

Amore e
amicizia
sono trappole
da sacrificio.

Oh, se almeno
potesse
cantare
le radici
della follia.

La vita
è
un soffio.

 

Lo sgranare dei giorni

Lo sgranare
dei giorni
le rivelò
il legame
tra rischio
e
calamità,

tra mortalità
e
immortalità,

viveva
come se
non ci fosse
vita.

Inappagata
volse
lo sguardo
tra polvere
e
nuvole,

ripiegò
il proprio corpo
sulla soglia
di sepolcri
privati da ogni
infinito.

 

Oggi

Oggi
un giorno come
tanti
eppur esito,
mi soffermo
ad ogni passo.

Oggi
la nostalgia di un attimo
ha distolto il mio sguardo,
e piano è rinato
un possibile
altrove.

*****

Per ritrovare
la gioia
delle parole,

cerco il filo
dei discorsi.

Tutto pare
frantumato,
disciolto.

Contemplo
le trasparenze

 

Ci sono frasi

Ci sono frasi
cui ho dato
inizio
con parole
senza fine;

piccole fonti
dove mi sono
abbeverata,

scavate
con le mani
e con il cuore.

Questa nuova raccolta di poesie di Anna Bellini, scritte tra il 2016 ed il 2020, osserva l’inesorabile passare del tempo misurato dai grani quotidiani di un rosario vitale che non si arrende al già visto, allo scontato, al “sempre” uguale, ma si sofferma alla novità di “un possibile altrove” anche se in mezzo a continue trasformazioni. Parole che si muovono raso terra tra radici, foglie e fili d’erba. Anna “dialoga” continuamente con gli attori e le attrici naturali di un giardino, alternando meraviglia a malinconia, solitudine quasi rassegnata al desiderio di “inventarci un progetto che ci permetta un tempo ritrovato”.

Anna Bellini, nata a Biella, vive a Ferrara. Scrive poesie da diversi anni. Questa è la sua quarta raccolta di poesie. Ha pubblicato: Nell’infinito Tu (2015), Transitum (2017), Sentieri nel vento (2018), Lo sgranare dei giorni (2020).

La rubrica di poesia Parole a capo curata da Gian Paolo Benini e Pier Luigi Guerrini esce regolarmente ogni giovedì mattina su Ferraraitalia. Per leggere i numeri precedenti clicca [Qui]

Diario di un parent for future (aka PFF).
24 settembre: in piazza per lo Sciopero Climatico Globale

 

In realtà i governanti europei sapevano e sanno benissimo che le loro politiche di austerità stanno generando recessioni di lunga durata. Ma il compito che è stato affidato loro dalla classe dominante, di cui sono una frazione rappresentativa, non è certo quello di risanare l’economia. E’ piuttosto quello di proseguire con ogni mezzo la redistribuzione del reddito, della ricchezza e del potere politico dal basso verso l’alto in corso da oltre trent’anni.”.
(Luciano Gallino, Il colpo di Stato di banche e governi, Einaudi, 2013)

Il 24 settembre si scende in piazza per lo sciopero climatico globale e ci sono ancora tantissime cose da fare!

Per fortuna i cartelloni sono pronti: ieri con alcuni compagni di classe di mia figlia siamo andati al parco a prepararli. Si sono molto divertiti e credo ne resterà un bel ricordo. Abbiamo parlato di come vorrebbero il loro futuro e i bimbi in gran parte chiedono meno auto: a 7 anni capiscono perfettamente che la mobilità a base di combustibili fossili costituisce uno dei problemi principali del riscaldamento globale.

Abbiamo cercato di coinvolgere le altre famiglie della classe e la scuola, ma molti genitori faticano a prendere ferie. Certo, se i sindacati avessero proclamato lo sciopero sarebbe stato tutto più facile, ma non credo che la gravità della situazione sia ancora correttamente compresa.

Dopo tutto ognuno vive nella propria bolla: la mia, da ormai anni, è quella legata alla conservazione degli ecosistemi; altri vivono la bolla del lavoro prima di tutto; sarebbe importante farle scoppiare tutte e iniziare a parlarci senza pregiudizio.

Comunque non ci diamo per vinti! Giorni fa, nel tentativo di creare la massima adesione allo sciopero di Ferrara, abbiamo pensato di contattare singole persone del sindacato, all’ultimo minuto e in modo sconclusionato, ma speriamo di vederli in piazza.

Serve poi che molto presto, al di là dei cortei, riusciamo a dialogare con le OO.SS. Sennò capiterà in continuazione di trovarli su posizioni opposte nelle singole vertenze: è stato così con il CCS a Ravenna. [Vedi qui]

L’iniziativa più bella comunque la stiamo organizzando come PFF Italia insieme ai Fridays for future (FFF) Italia: una staffetta ciclistica “Running for future [Qui] che parte da Roma il 24 settembre e termina a Milano il 2 ottobre – si tiene a Milano l’ultimo summit pre-COP26 [Vedi qui] – lungo la via Francigena, per ricordarci che abbiamo un paese meraviglioso, poco tempo per agire, e molti punti da connettere.

Ogni tappa (in diretta FB) focalizzerà un punto nodale della transizione ecologica necessaria, ovvero le emissioni di CO2: l’agricoltura, la salute, l’equità sociale, la biodiversità, la cementificazione, il patrimonio forestale, l’acqua.
Il 2 ottobre la staffetta confluirà nella manifestazione di Milano per mandare un messaggio inequivocabile ai negoziatori di tutti i Paesi che non si può più tergiversare rispetto agli obiettivi minimi dell’Accordo di Parigi.

Di nuovo, i ragazzi di FFF hanno una marcia in più, stanno raccontando da mesi ormai cosa gira intorno al vertice per l’ambiente in modo rigoroso e divertente [clicca Qui] .

Belli i PFF, li vedo lavorare nella mia città, a livello nazionale e anche nel globale. In quest’ultimo, do solo un minimo contributo nel gruppo traduzione, quando servono documenti da diffondere su scala mondiale: sta per uscire un video di genitori (adulti in realtà, perché essere PFF non significa avere figli) di tutte le nazionalità per ringraziare i ragazzi di FFF di essere una scintilla fondamentale nel movimento contro i cambiamenti climatici.

Cose analoghe abbiamo fatto anche a livello nazionale, dove va gran parte del mio impegno come facilitatrice, e sono convinta che solo un movimento fatto in gran parte di donne (mamme e non) potrebbe pensare a modi tanto accorati e delicati di mobilitarsi. Certo, un movimento femminile è un po’ caotico, però quei pochi ‘elementi maschili’ che ci abitano, portano la loro corteccia cerebrale per incanalare tutta l’energia creativa verso singoli obiettivi.
Mi vengono in mente esempi specifici, non faccio nomi, come il progetto Climate clock [Qui] (testimone della staffetta che parte venerdì da Roma) e i progetti mobilità a Ferrara [Qui] guidati da volenterosi papà.

Sono tantissimi i gruppi di lavoro qui e a tutti i livelli del movimento, serve pazienza per accompagnare il cambiamento verso una società di fatta di giustizia sociale, economica, climatica. Serve cambiare punto di vista (uscire dalle bolle!), non più solo compatibilità economica ma impronta di carbonio. Serve cambiare modo di prendere le decisioni. In PFF ci proviamo con la Sociocrazia 3.0 [leggi Qui] che davvero è uno strumento potente, perché fa venire a galla gli obiettivi e fiorisce nelle differenze di pensiero.

Il problema è il tempo: se anche l’IPCC ha anticipato il suo ultimo rapporto [Qui] date le novità non incoraggianti, le evidenze scientifiche rendono sempre più evidente che entro il 2030 il grosso della decarbonizzazione deve essere compiuta, pena il caos climatico.

Mentre scrivo sto guardando un film dello Studio Ghibli intitolato Nausicaä, è un’opera a tema ecologista come tanti lavori di Hayao Miyazaki. “Mamma, venerdì alla manifestazione diamo il messaggio di Nausicaä! Dobbiamo lasciare stare la Terra perché tutto vada a posto. La Terra sta bene e noi stiamo bene. Lasciamo spazio ai boschi, senza costruire troppo.”. Mi sembra una buona idea.

Sciopero Globale per il Clima 2021Venerdì ho preso ferie e sarà una bella giornata:
a Ferrara ci troveremo alla Porta degli Angeli alle ore 9,00.
Marcia fino a piazza Municipale e poi interventi,

Non si può mancare! …
non abbiamo un pianeta B
.

(spoiler) vado a fare una foto da mandare ai FFF, la solita genialata dell’ultimo minuto per convincere i lavoratori a partecipare, cercatela sui social!

 

GLI INSORTI GKN INDICANO A TUTTI UNA STRADA NUOVA:
gli obiettivi del movimento dopo la sentenza di Firenze.

 

Si può ben dire che “c’è un giudice a Berlino”, anzi a Firenze. Nella mattina di lunedì il Tribunale di Firenze ha sancito in modo forte l’antisindacalità del comportamento della GKN di Campi Bisenzio nei confronti della FIOM CGIL nella vicenda dell’avvio delle procedure di mobilità ( quella cioè che prelude al licenziamento) dei 422 lavoratori lì occupati e della cessazione della proprio attività produttiva.

E’ una decisione importante, in primo luogo per le conseguenze rispetto ai lavoratori e allo svolgimento della vertenza, visto che la GKN viene condannata a rispettare l’obbligo informativo omesso nei confronti del sindacato e, soprattutto, a revocare la procedura di mobilità, che sarebbe scaduta il 22 settembre con la relativa esecutività dei licenziamenti, mentre ora essa, quasi certamente confermata da parte dell’azienda, riparte però da capo, con almeno altri 75 giorni di tempo per la discussione e l’iniziativa sindacale.

La sentenza del Tribunale di Firenze

La sentenza, poi, è molto significativa per le sue motivazioni. Infatti, esse fanno esplicito riferimento al fatto che la proprietà non ha rispettato quanto previsto dal contratto nazionale dei metalmeccanici e dall’accordo aziendale del 2020 firmato tra le parti in materia di diritti di informazione (non da un semplice avviso comune), e cioè il fatto di dover dare gli elementi di conoscenza al sindacato rispetto alle previsione sui rischi occupazionali,  prima di effettuare le proprie scelte in merito.

Si badi bene, la giudice interviene su un dato di sostanza (non sullo ‘scandalo’ della comunicazione via mail, tanto enfatizzato dalla stampa e dalla politica, quanto, appunto, non dirimente nella vicenda), rilevando testualmente che l’azienda non ha dato corso al fatto che “il senso dell’obbligo assunto è evidentemente quello di consentire al Sindacato di esercitare al meglio le proprie funzioni, ivi compresa quella di condizionare ( con le ordinarie e legittime modalità di confronto ed eventualmente di contrasto) le future determinazioni e scelte gestionali dell’azienda”.
La sentenza – e scusate se è poco, in tempi di sfrenato neoliberismo confindustriale e governativo-  dice chiaramente che i lavoratori e la loro rappresentanza sindacale possono intervenire sulle decisioni e sulle scelte aziendali e poggia quest’affermazione sugli accordi sindacali relative ai diritti di informazione, conquista decisiva, come lo Statuto dei diritti dei lavoratori, degli anni ‘70 del Novecento, quando il tema posto era esattamente quello dei poteri e dei diritti del lavoro e che, da allora, non a caso, si è provato più volte a mettere in discussione e a ridimensionare.

Sembra che ora anche i mass media e la politica  – dopo l’assordante silenzio dei giorni passati, che ha coinvolto anche la grande manifestazione di sabato 18 settembre a Firenze a sostegno appunto dei lavoratori di GKN – inizino ad occuparsi della vicenda, Mostrando, peraltro, ‘scarso senso del pudore’, visto che ora tutti si dichiarano al fianco dei lavoratori.
Se lo si vuole fare veramente – e questa sarà la cartina al tornasole del prosieguo di una vicenda ben lungi dall’essere risolta – non c’è che da intraprendere due strade.

Le strade da percorrere

La prima. Quella di costruire una soluzione che dia continuità produttiva ed occupazionale a tutta la realtà produttiva di Campi Bisenzio, attraverso un intervento pubblico (per esempio tramite Invitalia, l’agenzia nazionale per l’attrazione degli investimenti e lo sviluppo d’impresa) o di soggetti privati, garantito in ogni caso da un Piano approvato dall’autorità pubblica e dalla maggioranza dei lavoratori.

E che si faccia questo anche in tutte le altre situazioni rilevanti di crisi aziendali, che non sono poche, dalla Whirpool alla Gianetti, solo per citarne alcune.

Un percorso che altro non sarebbe che l’anticipazione  di due punti fondamentali degli 8 contenuti nella proposta di legge di contrasto alle delocalizzazioni e alle crisi produttive ed occupazionali predisposta proprio dai lavoratori di GKN assieme a un gruppo di giuristi del lavoro [fai un click per ingrandire il documento] 

L’approvazione di questa proposta di legge, da realizzare, almeno per i suoi assi di fondo tramite, decreto legge – questa la seconda scelta da compiere – consentirebbe di affrontare in termini utili tali situazioni.
Ora invece Il governo, ispirandosi all’inefficace modello francese, pensa solamente a intervenire sulle procedure dei processi di delocalizzazione, senza impegni cogenti né da parte delle aziende che li praticano né da parte dello Stato, o al massimo a rendere più forti gli ammortizzatori sociali, con l’idea della ‘mitigazione’ (altra parola malata) dell’impatto sui lavoratori.

“Insorgiamo” non è solo una parola d’ordine

Dunque, come dicono gli stessi lavoratori di GKN, “si è vinta una battaglia, ma la guerra è tutt’altro che conclusa”. E il suo esito non è per nulla scontato. Da sottolineare come gli ingredienti fondamentali di questo primo importante risultato siano stati l’impostazione e l’approccio che i lavoratori GKN hanno voluto imprimere a questa vertenza e la forte mobilitazione che è stata messa in campo.

Infatti, per la prima volta da molti anni in qua – a partire dal collettivo di fabbrica GKN –  si è usciti da una logica puramente difensiva, di una lotta semplicemente finalizzata a salvare quei posti di lavoro, per dire che quello che è in gioco, invece, è proprio l’idea di lavoro e di società che si tratta di realizzare.

“Insorgiamo” non è stata solo una felice parola d’ordine, ma il rendere evidente che si tratta di rovesciare un intero paradigma per cui la finanza e la globalizzazione sono eventi immodificabili, quasi ‘naturali’ e che non c’è alternativa se non rassegnarsi ad essi e limitare le perdite.

E’ su questa base che si è messa in campo una vera mobilitazione di popolo, quella che ha attraversato Firenze il 18 settembre con più di 20.000 manifestanti, con la gran parte della città raccolta attorno ai lavoratori.
E’ un messaggio forte di speranza, in primo luogo per altre lavoratrici e lavoratori impegnati in difficili vertenze originate da crisi e ristrutturazioni.

Ho in mente la vicenda che origina da Alitalia, dove la nuova azienda ITA (di proprietà pubblica e le cui scelte sono quindi direttamente imputabili al Ministero dell’Economia e al governo) che sta procedendo con una ferocia non seconda a quella di GKN.
Quasi una provocazione: si apre la selezione di quelli che dovrebbero essere i 2800 occupati di ITA, senza guardare a quanti facevano parte dell’organico di Alitalia, ma esaminando i curricula degli oltre 20.000 che ne hanno fatto richiesta. Con l’intento, peraltro, di uscire dal contratto nazionale e dagli accordi aziendali, imponendo un ‘regolamento unilaterale, che prevede anche l’abbassamento del 40% dei salari previsti in Alitalia.

Siamo, insomma, di fronte ad un tema generale e che si tratta di affrontarlo con intelligenza e determinazione, sapendo che non sarà né un’impresa facile né di breve durata. Ma che, proprio per questo, chiede a tutte e tutti  di spendersi e di partecipare, non come spettatori inerti, bensì come protagonisti attivi.

Stefano Gargioni, Giorgio Perlasca e il silenzio del Comune di Ferrara

 

Il post antisemita e neofascista di Stefano Gargioni – dirigente scolastico dell’Istituto Giorgio Perlasca, Giusto fra le Nazioni – ha prodotto, a Ferrara e in Italia, molte reazioni di sdegno e condanna. Stiamo aspettando la decisione del Ministero retto dal ferrarese Patrizio Bianchi –  e sarebbe bene che la sospensione fosse perpetua, tanto da impedire a una persona del genere di metter più piede in una scuola della Repubblica.

Oggi, però, la notizia più inquietante è un’altra. A più di  48 ore dall’uscita delirante di Gargioni, non registriamo nessuna reazione (stupore? presa di distanza? condanna?) da parte del Sindaco e Vicesindaco di Ferrara. Sappiamo che entrambi amano parlare tramite social, ma le loro seguitissime pagine Facebook si gingillano ancora riportando la ‘buona stampa’ sul governo cittadino e non spendono una parola sul preside fascista. 
(Francesco Monini)

Non intendo scrivere sulla vicenda del dirigente scolastico fascista Stefano Gargioni che paragona il Green Pass all’Olocausto, non perché non abbia pensieri al proposito ma perché credo che la vicenda, nella sua macroscopica gravità, non dovrebbe aver bisogno di parole ma di vere e proprie manifestazione civili di indignazione (che durino molto di più del tempo che serve per scrivere un commento sui social) da parte dei genitori, del personale scolastico, dei altri Dirigenti Scolastici, degli amministratori, dei cittadini.
Bene hanno fatto i dirigenti scolastici di Ferrara e Provincia ad inviare ai giornali una lettera di presa di distanza dell’accaduto. Bene hanno fatto le organizzazioni sindacali e le RSU/RSL dell’istituto Perlasca a comunicare pubblicamente il loro pensiero critico verso l’operato del preside.
Come in tutti i casi in cui una goccia, seppur grande, fa traboccare il vaso mi chiedo come mai siano state sottovalutate tutte le altre gocce che quel vaso hanno riempito: le messe in orario scolastico, i giudizi pesanti sul Presidente della Repubblica, gli organi collegiali convocati in presenza nonostante le disposizioni ministeriali, i protocolli di sicurezza non rispettati, i rapporti sindacali resi difficoltosi, il mancato controllo del green pass, eccetera.
Mi chiedo anche perché il sindaco non sindachi, il vicesindaco non vicesindachi, l’assessore non assideri ma soprattutto perché i consiglieri di destra di Ferrara non consiglino?
A volte il loro silenzio è davvero assordante. Speriamo almeno che il Ministro dell’Istruzione: Bianchi, provocato da simili comportamenti indecenti, provi almeno un po’ a “sbiancare” il troppo “nero” che sta dilagando a scuola oltre i limiti del civile confronto democratico.
In copertina: Salvacondotto collettivo Famiglia Harsanyi. Documento rilasciato dal finto console spagnolo Giorgio Perlasca che attestava la cittadinanza spagnola e il diritto all’ospitalità in case protette affittate dall’Ambasciata spagnola che godevano dell’extraterritorialità.  – Tratto dal sito della Fondazione Perlasca: www.giorgioperlasca.it

Le storie di Costanza /
La piazza e il ragno

Carla mi ha detto che a Teresa è entrato un ragno in un orecchio.
È andata a dormire la sera che non aveva nulla e la mattina dopo si è alzata con un fastidioso formicolio in un orecchio. Siccome non le passava, suo fratello l’ha portata al pronto soccorso e là, dopo un’attesa interminabile perché le sue condizioni di salute non erano complessivamente preoccupanti, le hanno estratto un ragno vivo da una delle due cavità auricolari.

Oristano dice che solo a sua sorella poteva succedere una cosa del genere. Non si spiega nemmeno lui come un ragno sia riuscito a infilarsi nel tunnel dell’orecchio mentre dormiva con la testa appoggiata sul cuscino. Di fatto è successo.

Oggi siamo seduti su una panchina sotto uno degli alberi della piazza principale di Pontalba, io Oristano e Carla. Teresa non c’è perché aveva appuntamento alle diciotto dal dentista.
“Non se ne capacitavano neanche i medici di quel ragno nell’orecchio di mia sorella” dice Oristano.
“Già sembrerebbe impossibile. Ma una cosa è impossibile fino a prova contraria. Quando succede non è più impossibile” dice saggiamente Carla.

Ora a Teresa è rimasta la preoccupazione dei ragni e vuole che suo fratello controlli i muri della sua stanza prima di andare a dormire la sera.
“Devo entrare nella sua camera da letto, e guardare molto attentamente le pareti, girando su me stesso in senso orario. Poi devo guardare sotto il letto con la pila. Non solo, se ha l’impressione che io abbia guardato con meno attenzione del solito, devo ripetere tutta l’operazione due volte” dice rassegnato Oristano.
Carla ride.
“Può capitare di peggio, sopporta” gli dice.

Storie di vita quotidiana a Pontalba. Storie della gente di questo paese di pianura dove il tempo dondola invece che proseguire deciso il suo cammino, storie di tutti e di nessuno.

Guardo la piazza dove siamo adesso. Una piazza grande con un obelisco ai caduti al centro. Una costruzione di cemento con l’elenco dei nomi dei militari Pontalbesi morti durante la Seconda guerra mondiale. I nomi di quei poveri giovani sono elencati uno sotto l’altro con le lettere dei nomi e dei cognomi incollate su una piastra di marmo posizionata nella parte centrale dell’obelisco. Tutt’intorno ci sono gli alberi, le panchine sotto gli alberi e un parcheggio che circonda il ‘monumento’, (così viene chiamata in maniera impropria l’area centrale della piazza che comprende obelisco, piazzetta con sassolini bianchi, alberi e panchine).

I bambini usano come sinonimi ‘andare a giocare in piazza’ e ‘andare a giocare nel monumento’ perché si identifica in questo modo l’area centrale delimitata dalle piante e il monumento ai caduti abbraccia la vegetazione diventando un tutt’uno col resto della piazza.

A giocare nel monumento ci siamo sempre andati anche quando eravamo piccoli. Era uno dei posti privilegiati di quella generazione di bambini che adesso ha intorno ai cinquant’anni. Si poteva giocare a nascondino, a rialzo, a bandiera, a rincorrersi. Nel monumento si facevano, e si fanno tutt’ora, alcune cerimonie ufficiali. Il quattro Novembre si depone una corona d’alloro sulla tomba dei poveri caduti e il Sindaco fa un discorso commemorativo.

La lunghezza e il contenuto del discorso dipende dalla bravura del Sindaco di turno. Ne abbiamo sentiti di molto lunghi e di telegrafici, di taglio intimista e, diversamente, di fedele ricostruzione storica. A parer mio poco cambia, quella povera gente è morta, le famiglie hanno sofferto, chi è rimasto ha convissuto con il trauma della perdita fin che ha respirato. La guerra è una vicenda umana tremenda: uccide un po’ tutti, chi combatte e chi resta.

Chi nasce e chi muore si trova travolto da un tempo in cui la vita normale è alterata da una vicenda drammatica che nessuno sa né come né quando finirà. Anche nella Seconda Guerra Mondiale è stato così. A maggior ragione in Lombardia, dove ci sono stati militari giovanissimi mandati al fronte, disertori, tedeschi, traditori, partigiani da sempre e partigiani dell’ultima ora che si sono intrufolati per puro opportunismo, come fanno sempre le cattive persone.

Alcuni Sindaci hanno letto il discorso, altri lo hanno declamato, altri ancora improvvisato. A volte hanno partecipato anche i bambini della scuola elementare e alcuni di loro hanno letto qualche poesia di guerra. Quasi sempre c’è stata anche la Fanfara dei bersaglieri. In un paese piccolo come Pontalba non si possono pagare fanfare particolarmente quotate. Sono piccoli gruppi di bersaglieri in pensione che suonano i tromboni.

Non corrono molto, ma tanto a Pontalba non serve, per attraversare il paese di corsa ci vogliono dieci minuti in tutto e chiunque riesce a farlo. Anche la premiazione degli Avisini (donatori di sangue) meritevoli si svolge nel monumento e anche l’ingresso del nuovo Parroco prevede sempre una tappa all’obelisco con tanto di discorso del prete uscente, del prete entrante, del delegato del vescovo, di fra Moreno e di suor Giorgina.

Anche altre iniziative si svolgono nel monumento e la partecipazione dei Pontalbesi è sempre assidua: è un luogo all’aperto circondato da strada e parcheggio. Ognuno può andare e venire quando vuole e non si paga niente per assistere alle cerimonie. Per tutti questi motivi c’è sempre tanta gente e il giorno dopo si commenta l’accaduto nelle botteghe e negli angoli delle strade del centro storico.

Sono convinta che il ‘monumento’ sia uno dei fulcri della vita civica di Pontalba e che tale resterà ancora per un bel po’. Tutti i miei concittadini sono affezionati a questa piazza, al suo obelisco, ai sassi bianchi e alle panchine di cemento.

Quando ero piccola la temevo un po’. Era un luogo in cui si tenevano molte cerimonie ufficiali, in cui si investivano preti e sindaci, in cui si ricordava la guerra e la pace, la vita e la morte. Un luogo in cui le autorità facevano grandi discorsi che io non sempre capivo ma che mi sembravano molto importanti. Ho sempre vissuto l’ufficialità di quel luogo con molto rispetto e conseguente timore. Una specie di chiesa laica e all’aperto.

Mi sembrava che in quel luogo bisognasse sempre entrare in silenzio e che all’obelisco ci si dovesse avvicinare con devozione. A differenza di molti miei coetanei sono andata poche volte a giocare là, mi incuteva timore. Tra l’altro, quando ero piccola, pensavo che dentro l’obelisco ci fossero le ossa di quei poveri militari morti e anche questo mi impediva di giocare con serenità. Poi ho scoperto che nell’obelisco di ossa non ce ne sono.

Ci sono solo i nomi attaccati a quella lapide di marmo, freddi e statici come ciò che ricordano. Quando sono un po’ cresciuta mi è venuto il dubbio che in realtà nell’obelisco non ci fossero ossa e ho chiesto spiegazioni a mia madre. Lei si è messa a ridere: “ma Costanza non vedi come è stretto e lungo l’obelisco e quanti nomi di militati morti ci sono scritti sopra? secondo te gli scheletri potrebbero stare tutti lì dentro?”

Ho dovuto riflettere e convenire che mia madre aveva ragione.
“Forse non ci sono scheletri interi, solo qualche pezzo” le ho risposto.
“Ma no Costanza, i corpi non sono mai tornati. Questi poveri ragazzi sono stati dispersi in guerra. Chissà dove sono finti i loro resti. Non sono mai stati trovati”.

È stato così che ho definitivamente realizzato che nella nostra piazza è conservata una grande tristezza, che il nostro obelisco è la rappresentazione di un dramma eterno, di corpi restituiti alla terra chissà dove e chissà come che non hanno mai avuto una definitiva sepoltura, come succede quando una famiglia accompagna un suo caro estinto al cimitero. L’obelisco è il ricordo di un dramma, di tante vite finite in fretta. In molte altre piazze d’Italia è così, per la verità.

In questa piazza si mescola il sacro e il profano, la vita e la morte, i sassi e le piante, i bambini e i vecchi, i giochi e l’amore, la rabbia e il rancore, la notte, il giorno, l’alba e la nebbia. Una piazza importante, un luogo necessario.

Ritorno al presente e smetto di pensare alla guerra. Adesso siamo qui seduti sulla panchina. Guardo i sassi bianchi e ripenso al ragno che è entrato nell’orecchio di Teresa. Carla sta parlando al telefono e Oristano si è messo a chiacchierare con Camilla che passava in bicicletta per andare al bar Della Torre a farsi prestare un po’ di monete da un euro, perché era improvvisamente rimasta senza.

“Ma cosa avranno mai tutti oggi di arrivare con i soldi di carta?” dice Camilla.
“Non chiederlo a me” gli risponde Oristano “Ho già sufficienti guai coi ragni”.
Poi comincia a raccontare a Camilla la storia del ragno e io guardo i sassi bianchi e penso che siamo davvero fortunati a non essere nati in tempo di guerra.

Costanza e il suo mondo sono solo apparentemente diversi e distanti dal mondo che usiamo definire “reale”, e quasi sovrapponibili ad ogni mondo interiore. Chi fosse interessata/o a visitare gli articoli-racconti di Costanza Del Re, può farlo cliccando [Qui]

Insisto nella proposta:
“Gino Strada e Teresa Sarti”, un bel nome per una scuola primaria.

 

Quattro anni fa scrissi un post dal titolo Cominciamo a chiamare le scuole con il loro nome in cui verificavo che una buona parte delle scuole pubbliche della provincia era ancora senza un nome e suggerivo alle colleghe, ai colleghi e ai cittadini di cominciare a riappropriarsi delle scuole anche a partire dal decidere insieme quale nome dargli.

Leggo sulla stampa locale che il Partito Democratico di Ferrara ha proposto di intitolare uno spazio della città a Gino Strada “simbolo di pace, di giustizia, di solidarietà, di educazione e collaborazione, di cura e vicinanza ai più deboli e fragili.”

Nel mio piccolo sono d’accordo, condivido la proposta e mi associo.
Suggerirei di ampliarla includendo anche il nome di Teresa Sarti Strada, prima moglie di Gino e fondatrice insieme a lui di Emergency.

Pensando ai vari spazi della città, proporrei una scuola infatti nel comune di Ferrara ci sono 6 scuole dell’infanzia statali di cui 2 non ancora intitolate, 29 scuole primarie di cui 11 non ancora intitolate, 11 scuole secondarie di primo grado di cui 5 non ancora intitolate, 10 scuole secondarie di secondo grado: tutte intitolate.
Riassumendo su 56 plessi, 18 devono ancora essere intitolati.

In dettaglio la indirizzerei verso una scuola elementare (che adesso si chiama “primaria” ma a me piace continuare a chiamarla così e a definirmi un “maestro elementare”), proprio perché si occupa degli ‘elementi’ base del sapere ma anche di quelli della relazione, in sintesi la scuola elementare educa (o dovrebbe farlo) anche alla pace, alla cooperazione, alla giustizia, alla solidarietà, alla cura ai più deboli e fragili.

Le modalità per le intitolazioni di scuole sono contenute nel post che ho citato all’inizio quindi ora si tratta di verificare concretamente quante altre persone sono interessate ad iniziare a percorrere questa ‘strada’; compagni di viaggio ce ne sono, ce ne saranno e altri se ne troveranno.
Comunque la pensiate, vale la pena ricordare una bella frase attribuita a Buddha: “Non puoi viaggiare su una strada senza essere tu stesso la strada”.

P.S. Non mi preoccuperei troppo delle falsità messe in giro dalla Destra [leggi Qui], visto che non hanno alcun riscontro ma ricorderei a chi pratica shitstorming (in pratica, il lancio della me…a, lo sport che praticano certe persone di destra) che c’è stato chi, come il direttore della Padania Luigi Moncalvo. che è stato condannato e ha pagato 150 mila euro di risarcimento per aver fatto le stesse accuse assolutamente prive di fondamento.

SE 20.000 VI SEMBRAN POCHI…
A Firenze nasce una nuova opposizione. L’unica.

Per raccontare cosa è successo ieri, 18 settembre 2021, a Firenze, bisogna partire dall’inizio.
partigiani
Firenze, 5 agosto 1944: La Brigata Partigiana “Vittorio Sinigaglia” entra in Oltrarno.
Comincia cosi la canzone dei partigiani della brigata. Nel corso degli anni, alla sua riscoperta è seguita una popolarità rinnovata, e Insorgiam è entrato a far parte del repertorio di diverse formazioni toscane e non solo:
Insorgiam
ci chiamano gli schiavi,
sbirri della Libertà,
i bastardi non figli degli avi
che fecero la nostra Unità.
Il fascismo ci rese ribaldi
vili servi del gran capital
freme a noi tra di noi Garibaldi,
muoia dunque chi vili ci fa.
La canzone continua: Passa passa l’orda gigante e si leva / l’era nuova di pace e d’amor. / Ogni popolo è il solo padrone / della patria e del proprio avvenir; / non più guerre, non più distruzione, / solo forza che sa costruir. [Un po’ di storia e il testo integrale di Insorgiam!] 

Ne abbiamo ampiamente parlato su questo giornale [Qui] e [Qui] La lotta dei lavoratori della GKN di Campi Bisenzio contro la chiusura dello stabilimento, la delocalizzazione della produzione e il licenziamento in blocco di tutti i dipendenti, ha assunto da subito un carattere nuovo, inedito.

I 422 della GKN, i protagonisti, non si sono limitati a scendere in strada, a occupare la fabbrica e a impostare una vertenza locale con il loro padrone, ma hanno subito ‘guardato oltre’.

Hanno coinvolto tutte le realtà sociali e di movimento di Firenze. Hanno preso contatto con i lavoratori che in tutta Italia subiscono oggi la minaccia del licenziamento. Hanno lanciato un appello che chiede la solidarietà di studenti, lavoratori, disoccupati e cittadini di buona volontà.

Hanno addirittura scritto insieme a un pool di esperti una proposta di legge che vieta il ricorso ai licenziamenti alle Aziende che oggi delocalizzano, ma che fino a ieri hanno ottenuto contributi pubblici.

Dunque una lotta esemplare, che cerca di bucare il muro di silenzio di partiti e media, ed è riuscita a costruire un larghissimo e colorato fronte comune. Da qui la scelta del motto partigiano fiorentino, quel #Insorgiamo! che da alcune settimane disturba il sonno del presidente di Confindustria Carlo Bonomi.

Il risultato di questo grande lavoro di base (i lavoratori della GKN stanno ancora girando l’Italia per raccontare la loro proposta), della loro  lungimiranza e maturità intellettuale nell’impostare la lotta come “una lotta di tutti”, si è visto nell’imponente manifestazione di ieri. Più di 20.000 persone, un corteo combattivo ma composto, tantissime bandiere (rosse i maggioranza).

E’ stata ‘una cosa così grossa’ che giornali e televisioni questa volta devono rompere il silenzio tenuto nei giorni che hanno preceduto la manifestazione. Questa volta, per dovere di cronaca, devono parlarne, almeno un poco. Per una manciata di secondi, e nelle pagine interne. Solo Il manifesto concede alla notizia la sua prima pagina.

E se, come previsto, il segretario nazionale della Cgil non si fa vedere, sfila tra gli altri lo scrittore e drammaturgo fiorentino Stefano Massini. Per raccontare questo grande fiume di gente – tantissimi i giovani e giovanissimi – e le decine e decine di facce, bandiere e striscioni, la cosa migliore è lasciar spazio alle immagini:

corteo manifestazione
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Scrivono nella loro pagina Fb i lavoratori della GKN: “Siamo giunti alla fine di questa immensa giornata di lotta. Firenze è insorta, ci ha abbracciato. Ecco le nostre parole”:
https://www.facebook.com/insorgiamoconilavoratorigkn/videos/409606300551155/

PRESTO DI MATTINA
Umanizzare il destino

Cosa è stata l’esperienza del Chassidismo/Hassidismo [Qui] (dall’ebraico ḥăsīd, ḥăsīdīm, “pii”) per gli ebrei del XVIII secolo, dispersi e perseguitati nell’Europa centro-orientale? Non è stata una dottrina, e tanto meno un’ideologia. Semmai è stato uno stile di vita, un modo di stare nella difficile e immiserita realtà quotidiana di quel tempo, tenendola comunque aperta agli altri, ai loro bisogni materiali e spirituali.

Un modo di vedere con uno sguardo mistico, di fraternità con lo slancio e il grido del cuore più che con l’ascesi, immedesimandosi negli occhi dell’altro, per accorgersi di una presenza di grazia, di una luce, di una gioia, nascoste proprio là dove non ce lo si aspetterebbe mai; un esserci nelle vicende e nelle storie degli impoveriti e dei disprezzati, in quei destini cui sembrava precluso ogni futuro, esistenze senza speranza perché private della gioia di vivere.

Agli ebrei isolati, schiacciati, la cui vita era stata confinata ai margini, in un contesto in cui l’Europa era sottosopra per le guerre tra gli stati, per il cambiamento delle frontiere e delle idee, il movimento degli hassidim ha ridato allo smarrimento dei singoli il senso del divino nascosto nell’umano e la fiducia di appartenere comunque alla comunità anche se dispersa, in diaspora perché «Dio passa attraverso l’uomo. Il bambino che dorme, la madre che lo accarezza, il vecchio che ascolta il brusio degli alberi: Dio è vicino a ognuno, in ognuno Dio è presente» (E. Wiesel, Celebrazione hassidica. Ritratti e leggende, Milano, 181).

«La leggenda hassidica [è stata il] tentativo di umanizzare il destino», ha scritto Elie Wiesel [Qui] (ivi, 87). Ad iniziarla fu il mistico, veggente ‒ il “Maestro dal buon nome” ‒ Israel Baal Shem-Tov [Qui], che seppe rincuorare moltissimi grazie al suo sorprendente appello alla gioia nascosta e da cercare nel fondo oscuro di ogni disperazione.

Era un uomo del popolo. Non aveva titoli, né amici influenti, né una vasta conoscenza del Talmud. Anzi, non essendo figlio di un rabbino, si atteggiava a illetterato, ignorante. «che salmodia alcune preghiere fondamentali con difficoltà e quasi controvoglia». Ma proprio questo abbassarsi gli aprì la strada presso tutti i diseredati, che si riconoscevano in lui attingendo alle visioni ardenti della sua fede in Dio: «Nel suo universo, i mendicanti sono i principi, i muti sono i saggi. Vagabondi dotati di poteri percorrono la terra, la riscaldano e la cambiano. È questo l’hassidismo: l’accento sulla presenza, e anche sul cambiamento. Nell’hassidismo tutto è possibile, tutto diventa possibile per la sola presenza di un essere che sappia ascoltare, amare e offrirsi» (ivi, 10-11).

Agli ultimi ed emarginati del suo popolo, il “Maestro dal buon nome” assicurava che ognuno di loro viveva nella memoria di Dio, costantemente alla sua presenza. Abitato da una luce divina nessuno di loro era escluso dai drammi e dalle feste del loro popolo, ciascuno a suo modo e secondo le proprie possibilità vi partecipava.

Dio infatti è oltre ogni frontiera: più grande delle classificazioni, distinzioni, degli uomini qualunque siano; egli si volge là dove lo si onora, è là dove lo si celebra con e nella vita, oltre ogni formalità rituale e liturgica. Non bisognava perdere il coraggio né la speranza, perché loro non erano inferiori a quelli che volevano imporsi con i loro titoli e con la loro scienza. Nessuno infatti può vantare diritti e privilegi sugli altri perché tutti, allo stesso titolo, apparteniamo a Dio.

Ciò che infatti occorre veramente imparare e che «il cercare è più importante del trovare; la grandezza dell’uomo sta nella sua capacità d’umiltà; cominci con il sottomettersi a Dio: crescerà e sarà libero.

Diceva loro che a volte deve bastare il “credere che ci sia segreto” (senza sapere di credere) e anche che l’uomo ha bisogno di poco per elevarsi e realizzarsi; basta che lo voglia, che lo voglia con tutto il cuore.

«La tristezza deve essere combattuta con la gioia e non con un’accresciuta tristezza. L’uomo che si guarda non può non sprofondare nella malinconia, ma quando apre gli occhi sulla creazione intorno a sé conoscerà la gioia. E questa gioia conduce all’assoluto, alla liberazione, a Dio» (ivi, 31-32).

Il Chassidismo, movimento della fratellanza e della riconciliazione ‒ ricorda ancora Wiesel ‒ costituì l’altare su cui fu immolato un intero popolo: «A volte il bambino che è in me mi dice che il mondo non meritava questa Legge, questo amore, questo messaggio di spiritualità, questo canto che accompagna l’uomo sulla sua strada solitaria, il mondo non meritava le favole e le parabole che gli hassidim gli raccontavano, per questo furono i primi a essere designati per la voragine. Questi hassidim di cui mio nonno condivise il destino nella vita e nella morte, io li ho conosciuti. Commoventi per la semplicità, innamorati della bellezza, sapevano adorare. E avere fiducia. In allegria sapevano dare, ricevere, sapevano spartire, partecipare. Nella loro comunità, nessun medicante pativa la fame lo shabbath. Nonostante la loro miseria e la costante minaccia che pesava sui figli e sugli anziani, non rivendicavano né esigevano nulla da nessuno, nulla dagli altri, non pensavano che tutto fosse loro dovuto. Eternamente sorpresi dal più piccolo segno di bontà, di compassione, rispondevano con la gratitudine. Non potevano quindi sopravvivere in una società in cui regnava la crudeltà fredda, organizzata e impersonale» (ivi, 9-11).

In questi racconti la realtà viene capovolta, e ciò che non si vedeva appare e riemerge dal fondo di essa: nell’assenza si scorge la presenza; nell’empietà la compassione; nella malattia la guarigione; nella povertà la ricchezza; nella stoltezza la sapienza e al fondo dal dolore, occhi stupiti, vedono rinascere la gioia e, al fondo di una indicibile empietà, fiorire la grazia della pietà:

«Sembra sorprendente che gli hassidim siano rimasti fedeli a se stessi all’ombra del filo spinato e dei carnefici. Nei ghetti celebravano la vita e la santificazione. Nei vagoni chiusi che li portavano a Birkenau gli hassidim danzavano la sera del Simkhat-Torah. Mi ricordo di alcuni che, nel blocco 57 a Auschwitz, si ostinavano a volermi insegnare a cantare. È un miracolo? Un miracolo mal riuscito? Forse, ma c’è ben altro. C’è la scintilla scoccata nei Carpazi e che non si è spenta. Anzi ravviva il fuoco in noi. L’hassidismo si consolida a Gerusalemme e risorge ovunque nella diaspora ebraica» (ivi, 41).

Similmente, non dobbiamo neppure dimenticare gli Tzadikim Nistarim (i giusti nascosti) che appartengono a tutti i popoli, adoperatisi per ribaltare le sorti già segnate degli ebrei. È dedicato a loro, “Giusti tra le Nazioni”, il Giardino dei Giusti a Gerusalemme, ove si ricordano tutti coloro che durante l’Olocausto hanno rischiato la vita per mettere in salvo gli ebrei dalla persecuzione.

Il Talmud e la mistica ebraica ricordano che in ogni generazione ci sono almeno 36 giusti nascosti. Essi vivono tra di noi, nessuno li conosce e nemmeno loro stessi sanno ciò che li accomuna, ovvero la capacità di riconoscere la sofferenza degli altri e di condividerla, portandola su di loro.

Incalzato e interrogato interiormente da questa “leggenda chassidica”, vite e storie intrecciate che hanno inteso “umanizzare” il destino contrario, oppositore, nemico e persino sciaguratamente malvagio, indicibilmente disumano, le cui vicende e memoria continuano ad essere narrate anche oggi, mi sono chiesto perché dopo tanti anni le leggo e rileggo senza stancarmi, anzi con accresciuto stupore e commozione più della prima volta?

Ho pensato che amo queste storie perché continuano ad umanizzare anche la mia fede e il mio ministero pastorale. Ti aprono gli occhi ogni volta perché tu riconosca il dolore della gente accostandoti a loro un poco, chiedendo loro cosa li affligge e provando a fartene carico e così un nuovo tratto di strada si apre per loro e per te.

Umanizzare è ricominciare sempre di nuovo a consolare, a “riscaldare” come dice Wiesel. Ed è pure credere contro ogni speranza al cambiamento. Con la stessa forza espressa da una bella frase di Bebe Vio la tiratrice di scherma campionessa alle paralimpiadi di Tokio deturpata e mutilata dalla meningite: “Se sembra impossibile allora si può fare”.

Umanizzare è rifiutare la disperazione, è anche assumere le proprie contraddizioni: «l’umiltà dentro l’orgoglio, la semplicità lungo il superamento, Khesed (amore) all’interno di Din (giudizio), la carità nella giustizia: non c’è scelta, non si può che imporre un significato a ciò che forse non ne ha e attingere gioia in una tristezza senza nome e senza fine», (ivi, 39).

Così si umanizza se stessi anche imparando dalle storie di ospitalità degli hassidim che trovano spazio all’altro, proprio là dove non sembra essercene più; che aprono ciò che è stato chiuso, rialzano chi è caduto e ‒ come dice un detto rabbinico ‒ se qualcuno eserciterà veramente l’ospitalità verso qualcun altro questi otterrà gli stessi privilegi e l’umanità dei suoi ospiti.

Godrà pure dell’umanità di Dio, della sua presenza, la stessa di quando egli visitò Abramo alle Querce di Mamre e fu da lui ospitato. Di qui, da questo gesto di ospitalità nacque a Sara e ad Abramo, coloro che non potevano più generare per la vecchiaia, nacque Isacco, il figlio della promessa, l’inizio di una discendenza numerosa come la sabbia che è sul lido del mare e come le stelle nel cielo.

E tuttavia, questo cammino di umanizzazione implica una lotta. Sì, è necessario scovare un nemico insidioso, furtivo, direi invisibile, fine come la polvere che si vede solo controluce, aprendo le finestre e lasciandone filtrare i raggi.

È l’orgoglio usurpatore: quello che scalza il posto all’altro, ne occulta la presenza, ne immobilizza l’azione, demolisce la socialità, inquina la religiosità rendendola mostruosa, idolatrica; tenta di eclissare la presenza di Dio anche agli occhi dei poveri, degli afflitti, dei miti, di chi cerca giustizia e persegue la pace e per esse è perseguitato, di chi ancora percorre un cammino di misericordia e riconciliazione. Ma per quanto duri, oltre il suo tempo, un’eclissi non basterà ad oscurare per sempre la presenza dell’Altro e degli altri. Questa presenza nascosta diverrà così un lievito generativo di trasformazione e cambiamento dello sguardo e delle pratiche umane.

La polvere dell’orgoglio ricopre tutto fino a rendere inconoscibile ogni cosa; uniforma la realtà, rivestendola di una coltre che annulla la dignità dell’umano e il valore delle cose; è così maestra ai suoi alunni di ignoranza. Ricopre infatti il loro volto con un velo di orgoglio. Ne basta un velo appena, come una cataratta che opacizza a poco a poco la coscienza, si accumula poi ispessendosi fino a portare alla cecità totale: “L’ignoranza è orgoglio, e l’orgoglio è ignoranza” (Detto Sufi).

Contro di essa muovono le storie degli hassidim, che mi avvincono l’animo perché sono fatte della stessa stoffa della fede. Sono come un sassolino impertinente, resistente, non rassegnato. Non diversa è la fede: una pietruzza da nulla che incastratasi tra lo stipite e il battente della porta della vita la tiene aperta, giusto lo spazio sufficiente a far passare un soffio d’aria, uno spiraglio, un respiro appena in cui palpita un alito di umanità. È allora umanità che si respira.

Disse il Baal Shem Tov: «Un uomo dotato tende all’orgoglio e non se ne accorge. Solo se si lascia umiliare, si rende conto di quanto sia pieno di orgoglio. L’orgoglio è come un uomo, che viaggia in una carrozza e si addormenta. Il cocchiere sale su una montagna e, all’improvviso, si trova su un vasto altipiano. Quando il viaggiatore si sveglia e gli si dice che si trova su una montagna, fa fatica a crederci. Solo quando inizia la discesa, comincia a rendersi conto di quanto fosse salito in alto».

E Rabbi Noah di Lekhivitz disse: «L’uomo viene spesso chiamato “piccolo mondo”. Questo appellativo si spiega così: se un uomo è “piccolo” ai propri occhi, egli è veramente un “mondo”. Ma se un uomo è “un mondo” ai propri occhi, allora è veramente “piccolo”» (D. Lifschitz, La Saggezza dei Chassidim, 651).

Come allora non sentirsi parte di questo piccolo (ma grandissimo) mondo degli hassidim per non celebrarlo, narrando sempre di nuovo le loro storie, tramandandone la memoria?

Scrive Elie Wiesel nella prima pagina del suo libro:
«Mio padre, Spirito illuminato, credeva nell’uomo.
Mio nonno, fervente hassid, credeva in Dio.
Mi hanno insegnato l’uno a parlare, l’altro a cantare.
Amavano entrambi le storie.
E a volte quando racconto odo le loro voci.
Quei sussurri, di là dal turbine, vogliono
ricongiungere il superstite alla loro memoria».

Siate tutti in benedizione, ora e sempre.

Per leggere gli altri articoli di Presto di mattina, la rubrica di Andrea Zerbini, clicca [Qui]

LE ULTIME, TREMENDE PAROLE DI FRANCESCO.
Se anche il Papa dimentica il sacramento dell’Amore

 

Il Papa è tornato a parlare e lo ha fatto in una conferenza stampa nel viaggio di ritorno dalla Slovacchia. Ha toccato questioni delicate e complesse, con parole che mi sono giunte come pugni nello stomaco. Sentire dire che “l’aborto è un omicidio con l’aiuto di un sicario” a me, che sono madre di 4 figli, è sembrato un obbrobrio.

Per me la vita è sacra ma è altrettanto sacro il diritto all’autodeterminazione. Nel libro di Teresa ForcadesSiamo tutti diversi (edizioni Castelvecchi) che ho curato con Cristina Guarnieri, lei spiega che nel magistero la chiesa considera  il diritto alla vita un diritto fondamentale ma considera tale anche il diritto all’autodeterminazione.

Ora. nella questione complessa dell’aborto i due diritti confliggono: la domanda che sorge allora è:” chi può risolvere tale conflitto? “Per il magistero della chiesa  il diritto alla vita ha sempre la precedenza.
Per me la risposta è semplice, nessuno al di fuori del corpo/ spirito che porta in serbo quella vita, può risolvere tale conflitto.

Perché dico questo? Perché la vita umana non può essere usata in modo strumentale. La legge non sta sopra di noi ma sta davanti a noi e c’è uno spazio di libertà (anche se oggi parlare di libertà mi sembra quasi ridicolo) che si chiama coscienza/autodeterminazione, nel quale nessuno può entrare se non con il permesso.
Non riconoscere alle donne questo spazio è privarle della loro umanità.

Da millenni l’uomo maschio controlla i corpi delle donne in modo ossessivo, il controllo riproduttivo è poi il caposaldo su cui si radica il patriarcato. I figli sono del padre, a loro si dà il cognome del padre, il padre è l’autorità.
Forse oggi I padri sono meno ‘padri’ nell’immaginario collettivo, il loro ruolo si è modificato dagli anni 60′ in poi, ma il dio Padre, lo Stato Padre, il Santo Padre, i padri della scienza, continuano a dettare leggi prive di anima, negando un patto sociale che è alla base delle comunità.

Le donne di questa comunità sono parte, come tutti del resto, ma se a loro continua a venire negato il diritto all’autodeterminazione è forse possibile parlare di  comunità?
La mia amica Monaca (che non è a favore dell’aborto ma di una sua depenalizzazione, posizione che condivido) aveva risolto il caso con il magistero, ponendogli una domanda: come mai la chiesa nel caso di un padre il cui figlio abbia bisogno di un trapianto di un rene, se lo ha compatibile, non viene obbligato in alcun modo a donarlo?
Inoltrò la sua domanda al Vaticano, aggiungendo anche che la donazione di un rene ha un grado di mortalità e di complicanze ben minore di una gravidanza e di un parto. La sua domanda rimase senza risposta.

Con la stessa logica del controllo dei corpi delle donne sono, poi, le parole che Papa Francesco riserva al secco no al matrimonio di gay e lesbiche, ma a un compassionevole si ( sic) alle unioni civili. Il matrimonio è un sacramento che riguarda solo una donna e un uomo, a suo dire, perché nella teologia della complementarità il matrimonio è strettamente legato alla riproduzione. Ma non è forse vero che la chiesa non ha mai negato il matrimonio a una donna attempata che certo ha perso la sua prerogativa di riprodursi? O lo negherebbe a una donna priva di utero? O a un uomo infertile?

La teologia della complementarità, o la visione laica binaria, negano alla base l’unicità di ogni singolo essere umano, senza distinzione di sesso, perché l’ uno diventa la metà dell’altro.
Ma nella struttura sociale, e nell’immaginario che regge questa prospettiva, le donne si trovano sul gradino più in basso.

La cosa curiosa è che il sacramento del matrimonio è la manifestazione dell’amore di Dio e, l’amore di Dio lo troviamo nella trinità, e questo amore non ha nulla a che vedere con la complementarità.
Dunque, in questo caso, lo stesso Papa sembra non riuscire ad entrare in quella prospettiva trinitaria che è alla base della nostra fede cristiana.

Sempre la mia amica Teresa Forcades a questo proposito scrive: “Ecco perché sono a favore del matrimonio omosessuale. Non ritengo sufficiente che la Chiesa diventi tollerante nei confronti  degli omossessuali, né che semplicemente smetta di discriminarli o colpevolizzarli, sono a favore del sacramento dell’amore fra due persone, sia etero sia omosessuali, a patto che  fra loro vi sia un amore autentico […] il problema del matrimonio  non è se sia  etero o omosessuale, ma la qualità dell’amore che lo anima.”.

Nel 2015, in un articolo pubblicato sul blog 27ora dal titolo Il femminismo ci libererà dalla violenza sui deboli [Vedi qui], affrontavo la questione della assunzione di responsabilità alla pari delle donne nello spazio pubblico e  quanto questo mettesse in crisi gli immaginari di riferimento e le fondamenta della società patriarcale.

Scrivevo: “La venerazione per la Ragione pura che, dall’Illuminismo in poi è stato il motore del progresso in campo scientifico ma anche in quello politico sociale e culturale fino alla creazione degli Stati di diritto ai quali si deve l’abbattimento graduale di diseguaglianze e discriminazioni allora impensabili, oggi sembra in crisi e non risponde più alle esigenze di una democrazia sempre più avanzata. La ragion pura ha gradualmente spogliato l’immagine paterna, a cui l’idea di Stato è legata, della forza empatica e umana di cui era anche portatrice, trasformando la sua autorevolezza in autoritarismo, ha svuotato la parola del suo autentico senso incarnato riducendola a codice astratto privo della conoscenza esperienziale che passa per un corpo sessuato.”.

Mai come oggi queste parole mi sembrano vere!
Sembra che lo stesso Santo Padre abbia perso il senso della parola incarnata.

RUSPE E DIRITTI UMANI:
come far passare un violento sgombero come “buona pratica”

Noi di Ferraraitalia eravamo presenti allo sgombero violento del Campo Nomadi di via delle Bonifiche, abbiamo visto il Vicesindaco Lodi troneggiare su una ruspa ad uso foto-ricordo, abbiamo sentito le dichiarazioni deliranti dei nuovi padroni di Ferrara e della fedelissima claque leghista. 

Oggi, anche noi rimaniamo allibiti dalla totale falsificazione, dal travisamento dei fatti da parte di questa fantomatica Associazione 21 luglio. Che nessuno conosce, che non ha mai messo piede a Ferrara, ma che ha evidentemente sponsor (politici) potenti ed entrature importanti, tanto da venire ascoltata da una Commissione del Senato della Repubblica. Ugualmente siamo stupiti e dispiaciuti che un quotidiano come Avvenire, un giornale e un corpo redazionale che abbiamo sempre stimato, si sia ‘bevuto’ la notizia falsa e pilotata politicamente, senza neppure alzare il telefono per fare le dovute verifiche.
Sotto riportiamo la risposta arrabbiata e dolente della
Associazione Cittadini del Mondo. La condividiamo parola per parola.
(Redazione di Ferraraitalia)

A Roma qualche giorno fa, alla Camera dei Deputati – apprendiamo da Avvenire.it del 13/9/21 –  l’Associazione “21 luglio”  ha presentato il libro “Oltre il campo : superamento dei campi rom in Italia”.  Il presidente dell’associazione Carlo Stasolla ha messo in evidenza le pratiche virtuose di 8 città, tra le quali Ferrara, che hanno superato i campi “integrando le persone e rispettandone la dignità”, insomma esempi virtuosi da indicare nelle linee guida.
Questo fatto sorprendente di citare il metodo ‘positivo’ ferrarese con le ruspe si è  ripetuto più volte nonostante varie smentite delle organizzazioni locali.

Già nel febbraio 2020 il Comune di Ferrara, su indicazione di Stasolla, era stato invitato, tra le Amministrazioni virtuose, alla Commissione per i diritti umani del Senato. In quell’occasione abbiamo scritto ai giornali e alla stessa Associazione 21 luglio portando anche testimonianze fotografiche del violento sgombero del campo.

Naomo Lodi con Ruspa
L’attuale vicesindaco fi Ferrara Nicola Naomo Lodi in posa sulla ruspa

Una storia alla rovescia che ha visto in successione: manifestazioni xenofobe sfociate nell’intervento immediato dopo-elezioni con il vicesindaco leghista – già noto in campagna elettorale per la sua maglietta “+ rum – Rom” – in bella posa su una ruspa; consiglieri comunali che invitavano ad usare mezzi ‘trincia-rom’; sostenitori  della Lega che si facevano fotografare con lanciafiamme contro i rom.

Ora anche la beffa: ci viene detto durante la stessa presentazione che Ferrara avrebbe “speso solo 12mila euro per superare l’area di via delle Bonifiche abitata da decenni da 44 sinti italiani”. Informazione chiaramente a scopo elettorale, di per se numericamente ridicola, forse questa è stata la spesa delle ruspe!

Corteo Lega contro campo nomadiNella realtà cittadina, abbiamo assistito ad una esplosione di fanatismo che ha coinvolto 44 persone, italiane, che hanno perso buona parte dei loro averi e sono state sparpagliate, sistemate provvisoriamente nella lontana periferia della città, in appartamenti comunali ripristinati per l’occasione e che hanno dovuto essere riforniti di tutto poiché quasi niente si è salvato del precedente insediamento dopo l’intervento delle ruspe (sempre presumibilmente con i 12mila euro di cui sopra).

Il diritto ad una casa dignitosa è fondamentale per tutti, per questo ci siamo sempre opposti a questo sgombero propagandistico che non ha mai prospettato una soluzione abitativa stabile, né inserimenti lavorativi, né miglioramenti di nessun genere.

Alcune organizzazioni di volontariato si sono preoccupate di tamponare gli effetti dello sgomberogarantire la scuola ai bambini e di mantenere, se non l’unità del gruppo, almeno l’unità di alcune famiglie. Questo intervento umanitario ha fatto comodo anche all’Amministrazione comunale che, con l’impegno degli altri, può vantarsi di non avere avuto gli sfollati per strada.

In questo quadro risulta incomprensibile il reiterato elogio dell’Associazione di Stasolla a queste pratiche violente, un tentativo di normalizzare una politica che ha poco in comune con l’integrazione e la dignità umana.

CITTADINI DEL MONDO
Ferrara, 16/09/2021 

Cover: L’attuale sindaco Alan Fabbri e il Vicesindaco Nicola Lodi (detto Naomo) guidano il corteo di sostenitori e simpatizzanti leghisti, per dare avvio allo sgombero. 

                                                                

I PICCOLI Contadini Libertari sfidano i GRANDI del G20.
Firenze, 18 settembre: Marcia per la Terra.

 

Sono passati già 10 anni da quando a Parigi si sono incontrati, per la prima volta, i ministri dell’agricoltura dei 20 Paesi ‘grandi’ della Terra per affrontare i problemi della Agricoltura con la A maiuscola, l’agricoltura globalizzata.
Il 17 e 18 settembre il G20 dell’Agricoltura – a presidenza italiana – si terrà a Firenze [qui il sito ufficiale del ministero]
. Giovedì sera, al Teatro della Pergola, il ministro dell’agricoltura Patuanelli aprirà i lavori con l’Open Forum [per seguirlo in streaming].

Purtroppo bisogna riconoscere che da quel primo incontro del 2011, nonostante i meeting internazionali che sull’argomento, dal 2015 in avanti, si sono susseguiti con cadenza annuale, il panorama dell’agricoltura mondiale non è migliorato un granché. Come la pandemia e le crisi migratorie originate dal cambiamento del clima ci testimoniano, i terreni sono sempre più sfruttati dall’agricoltura industriale e si impoveriscono, la desertificazione di vastissime aree del pianeta per il riscaldamento globale, i disboscamenti della foresta pluviale per far posto a coltivazioni intensive, gli incendi ecc.  Intanto, il problema della fame nel mondo è ben lontano dal trovare una soluzione.

In verità, i problemi negli anni si sono ulteriormente aggravati e di nuovi se ne sono aggiunti, vedi il passaggio sempre più frequente di forme batteriche e virali dagli animali all’uomo (l’encefalopatia spongiforme altresì detta Mucca Pazza nei primi anni 2000, l’ HPAI o Influenza Aviaria ad Alta Patogenicità nel 2009/2010 e nel 2019 il Covid, che si dice sia arrivato  dai pipistrelli venduti nei mercati cinesi). Perché la ricerca e la scienza non sono intervenute tempestivamente? Non hanno forse capito in tempo cosa stava succedendo? E i 20 Grandi cos’hanno fatto finora? Si sono riuniti … e poi?

Come sostengono i piccoli e piccolissimi agricoltori della rete Genuino Clandestino  [Qui] e di Terra Bene Comune [Qui] le questioni sono state affrontate, e continuano ad essere affrontate, dal punto di vista sbagliato.
Per i contadini che si ribellano all’industrializzazione sempre più spinta dell’agricoltura e alla mentalità del profitto ad ogni costo, che vede l’agricoltore come lo sfruttatore della terra e della natura: la Terra è un Bene Comune e come tale va difesa e conservata con cura; la Terra è di tutti, non deve essere accaparrata, non deve servire all’arricchimento di qualcuno, ma al mantenimento e al benessere delle comunità che vivono su quella Terra.
La Terra è un complesso di forme viventi e non viventi che vanno rispettate e quindi rigenerate, perché la Terra stessa è un Unicum vivente Generatrice di vita. L’agricoltura industriale ne causa l’impoverimento, la sterilità e la morte.

Tornando al G20 di Firenze, i 2 temi all’ordine del giorno, i focus dei seminari saranno: la Resistenza Antimicrobica (AMR), che si stima causi circa 700 000 decessi umani all’anno a livello globale, e Agricoltura e Cambiamento Climatico [Vedi qui].
Per fare un po’ di luce su queste due importantissime questioni, riporto informazioni e valutazioni espresse da una fonte difficilmente contestabile, l’EFSA (Autorità Europea per la Sicurezza Alimentare) .  Ecco quanto si legge nel loro sito:
“… la resistenza agli antimicrobici (AMR) è la capacità dei microrganismi di resistere ai trattamenti antimicrobici. L’uso scorretto o l’abuso di antibiotici sono considerati le cause della crescita e della diffusione di microorganismi resistenti alla loro azione, con conseguente perdita di efficacia delle terapie e gravi rischi per la salute pubblica.”.

L’Autority Europea continua a studiare, consigliare, raccomandare…
2007 – L’EFSA  pubblica istruzioni per il monitoraggio armonizzato della resistenza agli antimicrobici in due importanti batteri zoonotici (Salmonella e Campylobacter) in animali e alimenti.
Aprile 2008 – Gli esperti dell’EFSA esaminano in che modo il cibo può diventare un veicolo per la trasmissione all’uomo di batteri resistenti e formulano raccomandazioni per prevenirne e controllarne la trasmissione.
Novembre 2009 – L‘EFSA, l’ECDC, l’EMA e il Comitato scientifico della Commissione Europea per i rischi sanitari emergenti e di nuova individuazione (SCENIHR) pubblicano congiuntamente il parere  in cui è trattato il tema delle infezioni: joint scientific opinion on AMR focused on infections that can be transmitted to humans from animals and food (i.e. zoonotic diseases che possono essere trasmesse dagli animali e dagli alimenti all’uomo (ovvero le malattie zoonotiche).

Ma soltanto nel giugno 2017 la Commissione partorisce il Piano d’azione sanitario unico dell’UE contro l’AMR [Vedi qui], come richiesto dagli Stati membri nelle conclusioni del Consiglio del 17 giugno 2016.
Luglio 2017 – Una relazione dell’EFSA,EMA ed ECDC presenta nuovi dati sul consumo di antibiotici e sulla resistenza agli antibiotici. I dati evidenziano un miglioramento della sorveglianza in tutta Europa. Il rapporto conferma il nesso tra consumo di antibiotici e resistenza agli antibiotici sia nell’uomo sia negli animali destinati alla produzione di alimenti.

EFSA conclude: “…per contrastare la resistenza agli antimicrobici occorre un approccio OLISTICO e multisettoriale che coinvolga diversi settori (medicina umana, medicina veterinaria, ricerca, zootecnia, agricoltura, ambiente, commercio e comunicazione)…”[leggi dal sito ufficiale].
Questo approccio olistico manca completamente nell’agricoltura industrializzata, mentre è alla base dell’agricoltura biologica e naturale, quella praticata dalle piccole aziende dagli agricoltori e i contadini che curano la loro terra senza sfruttarla.

I grandi numeri negli allevamenti intensivi, le monocolture, le monosuccessioni colturali impediscono l’applicazione della visione olistica della produzione agricola, che spesso si riduce ad una sola e unica fase di produzione, in cui la terra rappresenta solo ‘un substrato’. e dove l’operatore agricolo non conosce nemmeno il processo che sta a monte e a valle del proprio ‘pezzo di produzione’. Proprio come in una catena di montaggio.

Il secondo argomento all’ordine del giorno al G20 è Il cambiamento climatico.
Così recita il trafiletto di presentazione del seminario sul sito ufficiale:E’ una delle più grandi sfide del nostro tempo e i suoi impatti negativi indeboliscono la capacità di raggiungere uno sviluppo sostenibile e minacciano la resilienza (sostantivo diventato di gran moda dal governo Draghi in poi, N.d.r.) del settore agricolo. Per questo motivo, sono necessari un forte impegno politico, investimenti nella ricerca e il trasferimento dei risultati agli agricoltori affinché essi possano trovare strategie e soluzioni efficaci per la mitigazione e l’adattamento al cambiamento climatico”

La stragrande maggioranza degli esperti individua nell’agricoltura “industrializzata” e nell’allevamento intensivo una delle cause principali dell’emissione in atmosfera di gas serra:  Lo sostiene, ad esempio, un documento che trovo nel sito ufficiale della Confederazione Svizzera: “i più importanti [fattori che concorrono all’emissione di gas serra] sono il metano (CH4), il protossido di azoto (N2O) e l’anidride carbonica (CO2). Essi derivano dalla digestione dei ruminanti, dai concimi azotati o dalla combustione di carburanti e combustibili fossili per macchine ed edifici agricoli. La CO2 viene anche assorbita o liberata dai terreni agricoli tramite il loro utilizzo (lavorazione del suolo, concimazione, avvicendamento delle colture)” [Qui].

Se guardiamo all’Italia, l’ISPRA (Istituto Superiore per la Protezione e la Ricerca Ambientale) valuta che il settore agricoltura concorra per il 7% circa alle emissioni nazionali di gas serra, al 94% delle emissioni nazionali di ammoniaca. Sempre l’ISPRA sostiene che esistono delle tecniche agricole che ne permettono una sensibile diminuzione, purtroppo “a differenza di altri settori, le emissioni derivanti dall’agricoltura, proprio per la peculiarità del settore, cioè di produrre cibo, sono in parte incomprimibili e pertanto diventerà sempre più rilevante il contributo di questo settore alle emissioni di gas serra”. https://www.isprambiente.gov.it/it/archivio/eventi/2020/04/il-quadro-emissivo-in-italia 

Peculiarità del settore”? “Emissioni incomprimibili” ???
In realtà la produzione di cibo nei Paesi avanzati (G20) è ampiamente superiore alla domanda. A dispetto dell’enorme quantità di spreco alimentare nelle società cosiddette avanzate, c’è lo strozzinaggio che la rete commerciale che la GDO (Grande Distribuzione Organizzata) impone ai produttori agricoli in generale per raggiungere un reddito decente dell’impresa.
P- per inciso, dalla fine degli anni 80′ non si parla più, infatti, di contadini, ma di imprenditori agricoli, che possono anche non sporcarsi le mani con la terra, ma strizzano il lavoro degli operai agricoli i dipendenti e vivono sul profitto dell’impresa – che li obbliga a produrre sempre maggiori quantità di prodotti che devono vendere a prezzi sempre più bassi.
Insomma, una impresa agricola industrializzata funziona nel medesimo modo di una impresa industriale.

Al ricatto del prezzo di mercato si ribellano gli agricoltori della rete Genuino Clandestino e Terra Bene Comune . Dicono No alla logica del profitto, allo sfruttamento della Terra, degli animali, e delle persone: i lavoratori, gli operai agricoli. E vogliono essere ascoltati e riconosciuti, chiedono spazi di terra e di vita.
Sabato 18 settembre alle ore 13,00 i contadini libertari di Genuino Clandestino e Mondeggi Bene Comune, insieme ai simpatizzanti della Terra e ai difensori della Natura, si troveranno in Piazza Poggi a Firenze per dire basta alle falsità dei 20 grandi della Terra e riaffermare il diritto ad un’agricoltura veramente rispettosa della Terra, ad un cibo sano non malato all’origine, a una vita in armonia con la natura. La marcia partirà alle 14,00.

Su questo quotidiano potete leggere il testo integrale dell’Appello dei contadini libertari che convocano la Marcia per la Terra [leggi Qui].
Per partecipare alla Marcia – scherza uno dei giovani organizzatori – non è però necessario essere un contadino, lavorare la terra o coltivare un orto. La Marcia è aperta a tutti, perché la salute, l’ambiente e la giustizia sociale riguardano tutti.”.

VI GARDEN FESTIVAL: COLTIVA IL TUO GIARDINO INTERIORE
Nei Centri di Giardinaggio AICG di tutta Italia, dal 18 settembre al 17 ottobre 2021

 

VI Edizione Garden Festival:  COLTIVA IL TUO GIARDINO INTERIORE
Eventi, mostre e verdi connessioni
Nei Centri di Giardinaggio AICG di tutta Italia
dal 18 settembre al 17 ottobre 2021

Da sabato prossimo anche in provincia di Ferrara torna il Garden Festival d’Autunno

 “Il faut cultiver notre jardin” scriveva Voltaire, la vita va alimentata plasmando la nostra esistenza e gli ambienti dove viviamo.
E mai come dedicarsi al giardinaggio, mettere le mani nella terra, prendersi cura dell’orto – piccolo o grande che sia, in un campo o su un balcone – può influire positivamente sulla salute, rimettendo in moto e facendo rinascere il nostro mondo interiore. Un cervello va nutrito come è necessario nutrire le radici di un albero.

L’edizione 2021 del Garden Festival d’Autunno – promosso da AICG, Associazione Italiana Centri Giardinaggio nei Garden Center aderenti di tutta Italia – intende proprio far riflettere sulle connessioni strette che ci sono tra Natura e mente. Ecco che la grande ricchezza di sollecitazioni offerte nei Centri di Giardinaggio in Autunno aiuterà i visitatori ad ampliare le proprie conoscenze e prospettive sul mondo vegetale, animato da esseri intelligenti che applicano strategie di cooperazione, a trovare energie nuove per vestire la propria casa, il balcone, il terrazzo, il giardino, di quel riflesso di benessere interiore e di rinnovati ideali di vita.

Nei Centri di Giardinaggio AICG dunque si potranno trovare speciali angoli che racconteranno lo stretto legame esistente tra uomo e natura, partendo da una selezione di piante di produzione rigorosamente italiana.  Saranno molti gli stimoli proposti, ma tutti con un unico comune denominatore: l’abbinamento delle piante alle sfumature cromatiche per ciascun ambiente del vivere quotidiano, sia in casa che all’aperto. Questi angoli – di fatto dei moodboard o tavole di stile – saranno costruiti come una vera e propria narrazione visiva, dove nulla è lasciato al caso, con il preciso scopo di stimolare suggestioni e restituire una particolare atmosfera, uno stile di giardino interiore che può essere più o meno incolto, selvaggio, formale, ordinato, creativo.

Saranno angoli che racconteranno le piante e la loro infinita bellezza, evidenziando la magnificenza dei colori e delle vegetazioni, procureranno emozioni e regaleranno suggerimenti di attività tipicamente autunnali da svolgere per comprendere quanto importante sia questa stagione, spesso associata al letargo, ma che invece è una stagione del fare e del sapere per organizzarsi ed anticipare la rinascita.

Saranno anche angoli-scenografia dove i visitatori potranno sostare per fare selfie e shooting e poi condividere con hashtag universali come #autunnoingarden #gardenfestival #aicg.
In questi angoli, ognuno dedicato ad uno specifico ambiente della casa interna ed esterna, si potranno trovare:

  • Collezioni di piante
  • Tavolozza dei colori di tendenza
  • Complementi d’arredo
  • Consigli di lettura, con una selezione di titoli che interpretano il messaggio introspettivo di questa edizione
  • La guida ad un’attività da svolgere in Garden con i consigli sapienti del personale qualificato o a casa propria attraverso un piccolo manuale illustrato.
  • Attrezzature, nutrienti, terricci e vasi

Il tutto per sensibilizzare riflessioni sulla profonda esigenza del nostro tempo di un vivere sostenibile: conoscere la natura che ci circonda, di cui siamo parte, e generare benessere.

In settembre il progetto «Piantiamo Italiano» di AICG patrocinato da Ministero delle Politiche Agricole si fonde con il Garden Festival d’Autunno, ponendo l’accento sulla vasta e varia produzione delle piante aromatiche nel nostro Bel Paese; in ottobre promuovendo la produzione vivaistica italiana di piante da siepe e la sorprendente arte topiaria che ci ammirano in tutto il mondo. Il Progetto Piantiamo Italiano punta a sensibilizzare i consumatori ad un acquisto consapevole, attento all’impatto ambientale e al risparmio energetico a sostegno della filiera florovivaistica italiana. 

Il colore rosa sarà ancora una volta uno dei leitmotiv del Garden Festival d’Autunno: anche quest’anno, infatti, proseguirà la collaborazione con l’Associazione Italiana Ricerca sul Cancro e il Ciclamino AIRC ravviverà di rosa i nostri giardini interiori che si alimentano di solidarietà.

Il ciclamino, robusta e generosa pianta autunnale, in fiore anche per tutto l’inverno, sarà disponibile in molte varietà e sfumature di colore ma sarà, appunto, il ciclamino rosa a farla da padrone: dopo i risultati positivi dell’iniziativa “Margherita per AIRC” che ha consentito di finanziare cinque annualità di una borsa di studio per giovani ricercatori, AICG ha scelto nuovamente di sostenere, nell’ambito del Garden Festival d’Autunno, una Campagna AIRC quella del “Nastro Rosa AIRC”. Per tutto il mese di ottobre e per ogni vaso di ciclamino di colore rosa venduto, i Centri Giardinaggio aderenti devolveranno 1 euro a sostegno della ricerca contro il cancro al seno dell’Associazione Italiana per la Ricerca sul Cancro.

Le sorprese in ogni Centro Giardinaggio
In ogni singolo Garden ci saranno anche aiuole dimostrative e didattiche, occasione preziosa per ricevere consigli dagli esperti sulle tecniche colturali migliori per le piante d’Autunno. Si troverà anche uno speciale QR code per approfondire conoscenze, creare connessioni con il mondo green di AICG e trovare guide da consultare anche da casa, sulle attività pratiche, sulle piante e sulle letture consigliate.
Il QR code verrà esposto nei cartelli dentro ai singoli corner dedicati al tema dentro al punto vendita.

Infine, poiché ogni Centro di Giardinaggio che aderisce al Garden Festival d’Autunno avrà la libertà di interpretare la Festa d’Autunno come meglio ritiene (anche in virtù delle normative Covid che si dovranno rispettare), saranno numerosissime le idee, le novità, i suggerimenti, le atmosfere, le ambientazioni che troveremo. Ma tutte saranno finalizzate a farci riflettere sull’importanza della riconnessione con la Natura, alla ricerca di ritmi più lenti e relazioni più trasparenti, di una vita più sostenibile a livello ambientale e sociale.

Su www.autunnoingarden.it si potrà visualizzare la mappa interattiva con l’elenco di tutti i Centri di Giardinaggio che partecipano al Garden Festival d’Autunno, divisi per regione.

A tavola in compagnia: la condivisione di un tempo di qualità
Il suggerimento su come decorare la tavola autunnale; da ricordare che ogni pianta può avere più usi per la circolarità dei prodotti; la lettura consigliata per questo periodo è “Come coltivare le erbe aromatiche. L’arte e la scienza di coltivare le proprie erbe aromatiche” di Holly Farrell; i consigli di piantumazione: Echeveria agaoides, orion e metallica, Monarda hibryda “Pink Supreme”, Muscari latifolium, Narciso tete a tete, Perovskya lancey blue, Viola cornuta.

AICG
È un ente senza scopo di lucro costituito nel 2012 per sviluppare un’identità professionale e un processo virtuoso di sviluppo delle aziende che operano nel settore specializzato del giardinaggio e florovivaismo (centri di giardinaggio o Garden Center),
L’Associazione ha lo scopo di tutelare, qualificare, promuovere e sviluppare la cultura del verde, con una particolare attenzione alle piante italiane, all’interno dei centri giardinaggio.

Per informazioni:
AICG Associazione Italiana Centri Giardinaggio
www.aicg.itsegreteria@aicg.it – tel. 031/301037

Ufficio stampa: Ellecistudio
Tel. 031301037
paola.carlotti@ellecistudio.itchiara.lupano@ellecistudio.it

A Ferrara dal 23 al 26 settembre 2021
TORNA LA FESTA DEL LIBRO EBRAICO

 

Torna per la XII edizione, la Festa del Libro Ebraico, uno dei principali eventi culturali ideato e organizzato dal Museo Nazionale dell’Ebraismo Italiano e della Shoah-MEIS di Ferrara. Attraverso presentazioni di libri, incontri, performance live, proiezioni e concerti, il festival letterario ha permesso a migliaia di persone di entrare in contatto con la ricchezza culturale dell’Ebraismo e si è confermato un appuntamento fisso per la città estense.

Dal 23 al 26 settembre il giardino del Museo ospiterà sotto la sukkah, la tradizionale capanna costruita in occasione della festa ebraica di Sukkot, decine di ospiti prestigiosi: dallo scrittore israeliano Eshkol Nevo, al Professore emerito Luciano Canfora, dal politico ed economista Romano Prodi, agli scrittori Igiaba Scego ed Alessandro Piperno.

Il tema conduttore sul quale si interrogheranno e rifletteranno i protagonisti della XII edizione della Festa del Libro Ebraico è la CASA. Forse la parola più pronunciata in questi ultimi mesi, “Casa” è un luogo ma anche uno stato d’animo, un rifugio o una trappola; può significare famiglia, stabilità, sicurezza, ma alle volte anche oppressione e insofferenza. Per l’Ebraismo, la casa è sempre stato uno strumento di elezione per la trasmissione dell’identità e dei valori; una risorsa che ha permesso la sopravvivenza di un popolo in diaspora. Il vocabolo in ebraico usato per indicarla è Bayit, la cui lettera iniziale – Bet – è la prima consonante dell’alfabeto e ha una forma chiusa su tre lati, simbolo di protezione ma anche di permeabilità culturale.

L’iniziativa ha il patrocinio della Regione Emilia-Romagna, del Comune di Ferrara, dell’Unione delle Comunità Ebraiche Italiane e della Comunità Ebraica di Ferrara. È realizzata inoltre con la collaborazione dell’Istituto di Storia Contemporanea di Ferrara e la sponsorizzazione di Coferasta.

“La Festa del Libro Ebraico – spiega il Presidente del MEIS Dario Disegni – è da più di un decennio uno degli eventi cardine che rappresenta il cuore e la missione del Museo. Negli anni abbiamo avuto l’onore di ospitare a Ferrara autori italiani e internazionali tra i più rappresentativi della letteratura contemporanea. Per il secondo anno consecutivo, nonostante le difficoltà e i limiti imposti dalla pandemia, non abbiamo voluto rinunciare a un festival che porta con sé il valore inestimabile della cultura. Questi tre giorni saranno una vera e propria Festa di nome e di fatto, che celebra il libro, l’identità ebraica e il dialogo”.

“La capanna con il tetto di frasche nella quale, secondo la Torah, gli ebrei devono risiedere per sette giorni – aggiunge il Direttore Amedeo Spagnoletto – rappresenta la precarietà sulla quale deve riflettere l’umanità nel contesto più intimo della dimora. Ma è anche il simbolo di uno spazio aperto all’ospitalità, un luogo accogliente, proprio perché semplice ed essenziale, dove tutti possono riconoscersi e dialogare. Ambientare la Festa del Libro Ebraico in questa cornice così speciale significa, in fondo, riconoscere al testo scritto queste peculiarità. La lettura crea una relazione unica in ognuno e contemporaneamente ci apre a mondi nuovi con i quali instauriamo un contatto eterno”.

IL CALENDARIO
Si inizia il 23 settembre alle 17.00 con l’inaugurazione (evento su invito). Intervengono Dario Disegni, Presidente del MEIS; Daniele Ravenna, Ministero della Cultura; Mauro Felicori, Assessore alla cultura e paesaggio della Regione Emilia-Romagna; Alan Fabbri, Sindaco di Ferrara e Noemi Di Segni, Presidente dell’Unione delle Comunità Ebraiche Italiane.

Alle 18.00 si apre al pubblico con un tuffo nel passato: una conversazione a più voci dedicata alla vita a Pompei, Gerusalemme e Roma nel cruciale decennio 70/80 del I secolo. Il Direttore del Museo Archeologico Nazionale di Napoli ne discute con il Professore emerito di Filologia classica all’Università di Bari Luciano Canfora (autore de “Il tesoro degli ebrei. Roma e Gerusalemme”, Laterza 2021) e Samuele Rocca (autore di “Mai più Masada cadrà”, Salerno, 2021). Modera l’archeologa e Digital Media Curator Astrid D’Eredità.

Venerdì 24 settembre, la mattinata (9.30-11) è dedicata alle scuole con “A cosa serve una casa?”, un laboratorio di filosofia per bambini a cura della filosofa, educatrice e scrittrice Sara Gomel.
Alle 12.00 si presenta il libro “Il merito dei padri. Storia de La Petrolifera Italo Rumena 1920-2020” (ed. Il Mulino, 2020) di Tito Menzani, Emilio Ottolenghi e Guido Ottolenghi: la storia di un’impresa e una famiglia, tra gli ostacoli della guerra e le leggi razziali, cadute e risalite. Guido Ottolenghi conversa con Romano Prodi (Presidente Fondazione per la Collaborazione tra i Popoli) moderati dal neo Rettore dell’Università degli Studi di Ferrara Laura Ramaciotti.

Alle 16.00 il Direttore del MEIS Amedeo Spagnoletto e il Presidente dell’Istituto di Storia Contemporanea di Ferrara Anna Quarzi presentano il libro di Edith Bruck “Il pane perduto” (La nave di Teseo, 2021), vincitore del Premio Strega Giovani e del Premio Viareggio-Rèpaci, in collegamento con l’autrice.

Sabato 25 settembre si conclude con “Il violinista sul tetto” la seconda edizione dell’ARENAMEIS “Una risata ci salverà”, il cinema all’aperto ospitato nel giardino del Museo. A precedere la proiezione del celebre musical che ha fatto la storia del cinema, una imperdibile sorpresa riservata al pubblico. Per l’occasione si potrà inoltre visitare dalle 19.30 la mostra “Ebrei, una storia italiana”, mentre l’evento e la proiezione inizieranno alle 20.30.

La festa si chiude domenica 26 con una intera giornata dedicata ai libri: alle 10.00, un laboratorio per i bambini dai 7 ai 10 anni a cura del MEIS. Alle 10.15 il Direttore del CDEC (Centro di Documentazione Ebraica Contemporanea) Gadi Luzzatto Voghera presenta il libro di Raniero Fontana “André Neher. Apertura di spirito, coraggio della fede” (Pazzini, 2020), dedicato al filosofo e teologo francese naturalizzato israeliano André Neher, grande conoscitore della Kabbalah, la mistica ebraica.

Alle 11.30 viene presentato in anteprima I-Tal-Ya Books, il progetto internazionale di censimento digitale di circa 35.000 libri ebraici, frutto della collaborazione tra l’Unione delle Comunità Ebraiche Italiane, la Biblioteca Nazionale Centrale di Roma, la National Library of Israel. Dopo i saluti di Noemi Di Segni, Presidente Unione delle Comunità Ebraiche Italiane; Oren Weinberg, Direttore National Library of Israel; Sally Berkovic, Amministratore Delegato Rothschild Foundation Hanadiv Europe; intervengono: Yoel Finkelman, Curator Judaica collection della National Library of Israel, Francesca Bregoli, Professore Associato di Storia (Queens College, NY), Andrea De Pasquale, Direttore dell’Archivio Centrale dello Stato, e Chiara Camarda, Catalogatrice dell’I-Tal-Ya Books Project. Modera Gloria Arbib (Steering Committee I-TAL-YA Books Project e membro del Consiglio di Amministrazione della Fondazione MEIS). Segue la TECA Digitale: dimostrazione e ricerca del Catalogo unico dei libri ebraici. Le traduzioni sono a cura dei tirocinanti della SSLMIT Università di Trieste – Pagine Ebraiche.

Alle 16.30 Shaul Bassi racconta il volume da lui curato “Il cortile del mondo. Nuove storie dal Ghetto di Venezia” (ed. Giuntina, 2021) assieme alla scrittrice Igiaba Scego, autrice di uno dei contributi contenuti nel libro. Modera la curatrice del MEIS Sharon Reichel.

Appuntamento conclusivo alle 18.00 con “Io sono la mia casa”, l’incontro che vede come protagonisti lo scrittore israeliano Eshkol Nevo, dal cui libro “Tre piani” (Neri Pozza, 2015) il regista Nanni Moretti ha tratto il suo ultimo film presentato al Festival di Cannes, e lo scrittore Premio Strega Alessandro Piperno, tornato in libreria proprio in questi giorni con il romanzo “Di chi è la colpa” (Mondadori, 2021), moderati dalla Direttrice del Circolo dei Lettori di Torino e scrittrice Elena Loewenthal.

INFO E PRENOTAZIONI
Tutti gli eventi tranne l’ARENAMEIS sono gratuiti. È consigliata la prenotazione. L’ingresso dei prenotati è consentito fino a 10 minuti prima dell’inizio dell’evento, dopo tale orario l’ingresso sarà possibile anche per i non prenotati nei limiti della capienza consentita dalla normativa Covid. Per accedere, sarà necessario esibire il Green pass. Per informazioni e prenotazioni: tel. 0532 1912039 e 342 5476621 (attivi martedì-domenica 10.00-18.00), email a meis@coopculture.it. In caso di pioggia gli eventi si terranno negli spazi interni del museo. L’ingresso all’ARENAMEIS ha il costo di 4 euro e comprende la visita alla mostra “Ebrei, una storia italiana”.

Alcuni eventi potranno essere seguiti in diretta sulla pagina Facebook del MEIS @MEISmuseum: scopri di più su meis.museum/fle2021/

LA FESTA DEL LIBRO EBRAICO IN PILLOLE
Giunta alla sua XII edizione, la Festa del Libro Ebraico è uno dei principali eventi culturali ideato e organizzato dal MEIS. Attraverso presentazioni di libri, incontri, performance live, proiezioni e concerti, il festival letterario ha permesso a migliaia di persone di entrare in contatto con la ricchezza culturale dell’ebraismo e si è confermato un appuntamento fisso per la città di Ferrara. Sono stati protagonisti delle passate edizioni ospiti internazionali del calibro di Abraham B. Yehoshua, David Grossman, Eike Schmidt e Christian Greco.
La Festa si terrà dal 23 al 26 settembre 2021 e avrà come tema conduttore il concetto di Casa. L’argomento scelto si sposa armonicamente con lo spazio nel giardino del museo che ospiterà la festa: la sukkah, la capanna costruita in occasione della festa ebraica di Sukkot, che ricorda la precarietà della vita e il valore dell’accoglienza.

IL MUSEO NAZIONALE DELL’EBRAISMO ITALIANO E DELLA SHOAH
Il Museo Nazionale dell’Ebraismo Italiano e della Shoah nasce a Ferrara con la missione di raccontare oltre duemila anni di storia degli ebrei in Italia.
Da Sud a Nord, per secoli gli ebrei italiani hanno contribuito e partecipato all’evoluzione del Paese, attraversando periodi difficili, segnati dalla persecuzione e dall’isolamento e fasi di integrazione e scambio. Ciò che emerge è un’esperienza comune, che riguarda tutti. Al MEIS ognuno può riscoprire un pezzo della sua storia.

Ufficio Stampa
Museo Nazionale dell’Ebraismo Italiano e della Shoah – MEIS
Rachel Silvera
+39 0532 769137
ufficio.stampa@meisweb.it

La “Civiltà” prima dei Talebani:
la feroce violenza delle truppe di occupazione USA/Nato

 

di Patrick Boylan

Il noto programma TV australiano Four Corners ha trasmesso un video di un soldato australiano mentre uccide un civile afghano a sangue freddo. Si riaccende così la polemica intorno alle ‘forze speciali’ e a come vengono addestrate.


Questo video mostra l’uccisione spietata di un civile disarmato afghano

L’indifferenza degli altri soldati della pattuglia davanti a questa uccisione spietata dimostra come essa veniva considerata ‘ordinaria amministrazione’ da almeno una parte delle truppe d’occupazione nell’Afghanistan. E questo fatto ci deve far riflettere.

Talebani preferiti alle truppe occidentali: perché?

Come mai la stragrande maggioranza degli afghani ha preferito la repressione dei Talebani all’oppressione occidentale?  I nostri mass media cercano invano di negare questo fatto evidente, facendoci sentire in TV soltanto le voci di quegli afghani pro-occidentali che rimpiangono la partenza delle truppe di occupazione. Ma si tratta di una piccola minoranza soltanto, concentrata in alcune grandi città. In tutto il resto del paese, le popolazioni hanno festeggiato la partenza delle truppe USA/NATO. Come mai?

Michael Moore ci ha fornito la spiegazione nel lontano 2004 con il suo film-documentario Fahrenheit 9/11 che fa vedere alcuni video ripresi dalle truppe USA/NATO in Afghanistan e in Iraq mentre massacrano senza pietà i civili. Il film, vincitore della Palma d’oro al Festival di Cannes 2004, è visibile gratis in streaming sul sito di Moore per tutta questa settimana.

The Guardian: “un ritratto devastante del fallimento della guerra”

Julian Assange ha dato poi la stesa spiegazione nel 2010, postando sul suo sito Wikileaks il celebre Diario di Afghanistan: migliaia di documenti autentici che forniscono, nelle parole del giornale britannico The Guardian, “un ritratto devastante del fallimento della guerra in Afghanistan e una rivelazione delle ripetute uccisioni, sempre taciute, di centinaia di civili.”

Uccisione a sangue freddo di un giovane afghano disarmato

Poi nel 2020 è spuntato fuori, grazie al giornalismo investigativo del noto programma TV australiano Four Corners (simile a Report e Presa Diretta in Italia), anche un video ripreso dalla telecamera fissa sull’elmetto di un soldato australiano.  Il video – che l’emittente australiana ABC ha riproposto quest’anno in occasione del ritiro delle truppe NATO dall’Afghanistan – fa vedere l’uccisione in sangue freddo di un giovane afghano che, per non essere visto dalla pattuglia che perlustrava i suoi campi, si era nascosto nell’erba alta.

Centrato con tre pallottole alla testa mentre alzava le mani

Il cane usato dalla pattuglia ha individuato il giovane e un soldato della pattuglia, avvicinandosi a lui, l’ha centrato con tre pallottole alla testa mentre alzava le mani.  In una mano teneva l’equivalente afghano del rosario – stava pregando.  Non aveva armi.
La ferocia dell’esecuzione non sembra turbare né l’assassino né gli altri soldati – sembra, per loro, ordinaria amministrazione.  E c’è una spiegazione per questo atteggiamento così spietato.

Addestrati al gusto di uccidere

 

I soldsoldato armatoati appartenevano alle forze speciali australiane (i SAS), quelle che un’inchiesta dello stesso Ministero della Difesa australiano nel 2020 aveva accusato di avere una “cultura della violenza” (1.)  Infatti, i giovani soldati del 2° Squadrone delle SAS venivano addestrati a sparare in testa a prigionieri afghani inermi per inculcare in loro il gusto di uccidere (2.).

La cultura della violenza

In seguito allo scandalo sollevato dal servizio della ABC australiana, il 2° Squadrone è stato sciolto dal Ministro della Difesa. Ma la cultura della violenza sembra tipica, non soltanto dell’intera arma, ma di una parte significativa di tutte le truppe di occupazione, come già dimostravano i video clip che Michael Moore ha fatto vedere in Fahrenheit 9/11 e i fatti che Julian Assange ha documentato nel suo Diario di Afghanistan.

La banalità del male

Non ci deve stupire, dunque, che le nostre truppe non abbiano conquistato le menti e i cuori delle popolazioni dei paesi che occupano. Né ci deve stupire la loro “tranquilla spietatezza” nello sterminare una parte di quelle popolazioni – stermini trattati come “ordinaria amministrazione” – perché è che la stessa guerra che inculca questa mentalità. E’ la stessa guerra che produce ciò che Hannah Arendt ha definito, descrivendo l’operato del Comandante SS Adolf Eichmann, “la banalità del male”.

(1.) “Killing Field: Exposing killings and cover ups by Australian special forces in Afghanistan. Four Corners. Australian Broadcasting Corporation. 16 March 2020. Archived from the original on 7 June 2021.
(2.) “SAS soldiers made to shoot prisoners to get their first kill, 39 Afghans ‘murdered’, inquiry finds”. Doran, Matthew (19 November 2020). abc.net.au.  Archived from the original on 19 November 2020. Retrieved 9 June 2021.

Nota: questo articolo è apparso con altro titolo su PeaceLink il 13 settembre 2021.

Le donne di Shamsia Hassani sui muri di Kabul

Le donne di Shamsia Hassani sui muri di Kabul

Shamsia Hassani è nata in Iran nel 1988 dove i suoi genitori sono emigrati a causa della guerra, è rientrata in Afghanistan, il suo paese. nel 2005. Ha studiato arte all’Università di Kabul, divenendo professore associato di scultura.
Si dedica, per prima in Afhanistan, alla Street Art dal 2010, le sue opere sono diventate famose anche in Occidente. I suoi lavori mettono al centro la difficile condizione delle donne e la lotta per la loro liberazione. Le donne afgane, che spesso Shamsia Hassani rappresenta mute, senza la bocca, in queste settimane si nascondono dentro le case, cercando disperatamente un luogo sicuro per sfuggire alle violenze.

Anche Shamsia Hassani si è nascosta. Dopo il ritiro americano e la presa del potere da parte dei Talebani, anche i suoi account sono rimasti muti per alcuni giorni, facendo temere il peggio per lei, finché su Instagram non è un comparso un ultimo post nel quale l’artista ringraziava per i tanti messaggi ricevuti e faceva sapere di essere al sicuro. Ora nel suo sito si legge un arrivederci: KABUL ART PROJECT tornerà presto”.[Vedi qui]

Visto il divieto del nuovo governo fondamentalista, non potrà più mettere piede all’Università di Kabul. Ma mentre scrivo mi piace immaginarla scendere in strada, col favore della notte, per continuare a dipingere il bisogno di libertà delle donne afgane sui muri di Kabul.
In una intervista del 2013 al giornale indipendente  Art Radar [leggi il testo integrale dell’intervista], Shamsia Hassani raccontava la scelta del graffitismo e il senso della sua arte: ” Non è come in Europa, [qui] i graffiti sono qualcosa di illegale, io Io uso in modo diverso per un messaggio diverso, Voglio colorare i brutti ricordi della guerra sui muri e se colorerò questi brutti ricordi, allora cancellerò [la guerra] dalla mente delle persone.”.

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Alle lettrici e ai lettori
In questi giorni drammatici, queste stesse opere di Shamsia Hassani stanno girando per i social network. Anche io vi chiedo di condividere questa mia breve presentazione e queste splendide immagini. Sarà un modo per dar voce a tutte le donne afghane che stanno vivendo l’inferno.

NOTA: Un grazie particolare all’amico Kiwan Kiwan che mi ha segnalato le opere di Shamsia Hassani

Festivaletteratura. Giuseppe Culicchia e Giorgio Bazzega:
le prime persone da incontrare sono quelle che non vorresti incontrare

Per Ferraraitalia sono tornato al Festivaletteratura di Mantova. Mi è stata lasciata piena libertà redazionale, per cui nell’ affollatissimo programma di quella giornata (il 9 settembre) ho scelto l’ incontro con uno scrittore che continuo a seguire dalla sua prima opera (circostanza per me singolare): Giuseppe Culicchia, che scoprii leggendo nel 1994 Tutti giù per terra, la sua opera prima – una di quelle opere d’arte seminali, prive di virtuosismi e di maniera e quindi tali da spingere all’emulazione, anzichè alla semplice ammirazione. Un po’ come fece il punk, o certa pop art.

Nell’iniziativa di Mantova l’occasione era rappresentata dalla pubblicazione del suo recente Il tempo di vivere con te (Mondadori, 2021), in cui Culicchia trova finalmente, dopo più di quarant’anni, le parole per raccontare il rapporto tra se stesso bambino e suo cugino Walter, più vecchio di nove anni, di Sesto San Giovanni, una figura mitica della sua infanzia.
Un ragazzo adorabile, pieno di vita, un fratello maggiore, un modello, la persona di cui aspettava impaziente le visite estive a Grosso Canavese. Giuseppe Culicchia, come tutti (tranne la madre di Walter, che custodiva il segreto), venne a sapere che Walter Alasia, il suo amato cugino, era un brigatista rosso la notte in cui la Polizia venne a cercarlo a casa, lui aprì la porta della camera da letto sparando ai poliziotti, venne ferito a sua volta e poi finito nel giardino di casa, mentre cercava di fuggire. Era il 15 dicembre 1976.
Walter Alasia aveva vent’anni, Giuseppe Culicchia undici.
Uno dei due poliziotti morti nello scontro a fuoco con Walter Alasia era Sergio Bazzega, maresciallo in forza all’Antiterrorismo.

Ebbene, a Mantova, seduti allo stesso tavolo a parlare di Walter e degli anni di piombo, c’erano Giuseppe Culicchia, cugino di Walter Alasia, e Giorgio Bazzega, figlio del maresciallo ucciso da Walter. All’epoca dei fatti, Giorgio Bazzega aveva due anni.

Giorgio ha ricordato il padre come un figlio che non lo ha potuto conoscere in vita: attraverso una ostinata, rabbiosa a tratti, opera di ricostruzione retrospettiva della sua figura. Così abbiamo saputo da Giorgio che Sergio era uno di quei poliziotti che si batteva per la democratizzazione del corpo di Polizia, tanto da aver scritto per l’Unità un articolo su questo tema il giorno prima di venire ucciso; tanto da essere soprannominato ‘il comunista’ in caserma.
Giorgio ha poi parlato del suo percorso di ragazzo con simpatie di destra, pieno di rabbia, che avrebbe voluto ammazzare i brigatisti uno per uno.

Poi un giorno incontra Manlio Milani, presidente dell’associazione vittime della strage di Piazza della Loggia, che gli fa cambiare il punto di vista sulle cose. Come solo può riuscire a fare chi attraversa il dolore dilaniante della perdita della compagna per un’esplosione, a tre metri da te, appena dopo averci parlato. Come solo può riuscire a fare chi attraversa il senso di colpa assurdo di non averla protetta abbastanza.
Manlio Milani ha cambiato la vita di Giorgio Bazzega, avviandolo a quel percorso di ‘giustizia riparativa’ che lo ha fatto uscire dal ruolo di vittima votata alla vendetta. Percorso durante il quale ha conosciuto anche ex terroristi – perché il fine del percorso è quello di unire i lembi di un’umanità lacerata (carnefici, vittime e rispettivi parenti) – e ha scoperto che sono persone, non mostri; e ha cercato di comprendere, non di giustificare, le ragioni che li hanno condotti a compiere certi atti.

Non sto divagando: la figura centrale dell’incontro di Mantova non è stata Giuseppe Culicchia, nonostante sia stato lui a scrivere il libro. La figura centrale è stata quella di Giorgio Bazzega, che ha confessato candidamente di avere incontrato lo scrittore ad un certo punto del suo percorso, già costellato di altre conoscenze anche più ‘pesanti’.
Viceversa, Culicchia ha evidenziato che la cosa più bella che gli ha portato il libro è stata proprio la possibilità di conoscere Giorgio, e di portare in giro il libro assieme a lui. E’ parsa evidente la sommissione dello scrittore all’ esperienza raccontata con trasporto da Giorgio Bazzega: una sorta di rispetto, un passo indietro che ha sgombrato il campo da ogni possibile personalismo legato alla sua veste di narratore. Raramente mi è capitato di vedere uno scrittore di successo spogliarsi così istintivamente della propria componente narcisistica, lasciando il proscenio non a Walter, suo amato cugino, ma alle sue vittime.

Culicchia ha infine ripreso una vecchia polemica tra Italo Calvino e Pier Paolo Pasolini, quando il secondo rimproverava al primo di rifiutare il confronto coi fascisti. E in un’epoca caratterizzata da persone che urlano la propria verità e rifiutano, denigrano, odiano la verità degli altri, mi hanno particolarmente colpito le parole finali di Giorgio Bazzega, quando ha detto che “le prime persone da incontrare sono quelle che non vorresti incontrare”.

La patria della democrazia e il cortile di casa

 

Un fiume di bandiere bianche, azzurre e rosse sfila sul lungomare de L’Avana. Biciclette, moto, motorini, sventolano l’orgoglio cubano manifestando contro il bloqueo di cui soffre il grande alligatore da sessanta anni.
Sei decenni, da nove anni prima della mia nascita. Un embargo sostenuto e promosso da dodici presidenti americani, democratici e repubblicani, tutti uniti contro l’avamposto del terrore bolscevico, una piccola nazione a galla nel cristallino mare dei Caraibi.

Ovvio, le sanzioni ai tempi del “simpatico” dittatore Fulgencio Batista, mica c’erano. Allora no, il massacratore e affamatore del suo popolo era un amico, l’isoletta era un ottimo bordello a buon mercato, quattro bracciate da Miami, l’attraversata la si poteva fare sul pattino. E poi i diritti umani, sono scritti sulla carta dal ’48, mica poi valgono per tutti. Ma cosa avevate capito?

Cioè uccidere svariate decine di propri connazionali durante delle azioni di polizia, mica è reato dappertutto, ma che credete? L’occidente è democratico, loro sono comunisti, noi siamo per la libertà, che importa se non tutti se la possono comprare. Abbiamo pure una statua di donna con una costituzione sotto braccio, e una torcia sul pugno, davanti al mare che inneggia al nostro sogno.

Che c’entra se la sanità da noi è pubblica solo per chi ha un lavoro, una assicurazione, un conto in banca, mica possiamo curare tutti. Abbiamo i campus, dove menti eccelse hanno creato, inventato, portato alla luce tutto lo scibile umano, quei figli di nessuno di europei sono immigrati a frotte nel secolo scorso e noi li abbiamo accolti. Magari non tutti sul tappeto rosso, abbiamo fatto due corsie: coi soldi a destra, senza a sinistra. Che importa se la scuola non tutti se la possono permettere, c’è sempre quella pubblica, quella dove non ci si annoia mai e ogni settimana c’è un mattacchione che spara. Una colt per ogni americano, non siamo mica dei banditi barbudos come loro. Anche noi abbiamo i nostri martiri per la libertà, spesso li abbiamo pure uccisi noi stessi, ma che vuol dire?

Loro avevano il terrorista Che Guevara e quel loro leader (che quei barbari chiamano lidér), che abbiamo provato ad ammazzare alcune centinaia di volte.

Come non si può? Noi siamo la patria della libertà, uccidendolo cercavamo di rendere il mondo un posto migliore, così come abbiamo fatto qualche altro migliaio di volte.

Da loro non c’è dissenso, c’è gente in galera per le proprie idee. Il fatto che da noi il partito comunista fosse fuori legge non è un caso. Inutile andare indietro di un secolo e rivangare ancora la storia di quei due anarchici italiani. Se in galera da noi il novanta per cento dei detenuti è latino o afro americano, sono loro che delinquono, che colpa abbiamo noi.

Loro volevano fare la rivoluzione, pensate bene, che orrore. Che c’entra se l’abbiamo fatta anche noi due secoli prima. Loro sono dei guerrafondai, quel loro Che Guevara era un sobillatore, in Africa, in Bolivia e poi manco era cubano.

Come? L’abbiamo ucciso noi? E chi lo dice? La CIA. Ma sì, un errore, un piccolo processo lo abbiamo pure fatto. Gli abbiamo tagliato le mani e le abbiamo inviate alla casa Bianca. Ma era per capire se aveva le unghie pulite.

Siamo stati in guerra 222 anni in 239 anni di storia? Si ma per liberare il mondo e per esportare la democrazia, che credete, mica ci fa piacere. Non ci siamo divertiti nemmeno a far ammazzare Allende, ma era un marxista a due passi da casa nostra. Perchè loro invece? Nessuna guerra? Come nessuna! E la Baia dei porci? Ah, siamo stati noi a tentare di invaderli… del resto erano talmente vicini, voi che fareste con un ladro nel cortile di casa vostra?

Guantanamo è una nostra base sull’isola, qual è il problema? Come un campo di concentramento? E chi l’ha detto? L’ONU. Il solito branco di cazzoni.

E cosa c’entrano gli indiani adesso? Non andiamo a rivangare storie vecchie di secoli.

Noi siamo morti per liberare l’Europa.

Come? Non saremmo entrati in guerra se il Giappone non ci avesse bombardato la baia? Cazzate messe in giro dai soliti musi gialli. Tutti uguali, coreani, vietnamiti. Comunisti. Il napalm? E’ un defogliante, a volte in un campo bisogna disinfestare per poi raccogliere.

Insomma basta, mi avete stancato. A Cuba non c’è né libertà né democrazia, i diritti umani non sono rispettati (cazzo c’entra Floyd, quello era negro).

Un omicidio al minuto. E’ per ringiovanire la popolazione, noi siamo la patria di Rambo.

Medici non bombe”, come non l’abbiamo detto noi. E chi l’ha detto? Fidel Castro?

Il servizio sanitario nazionale migliore di tutta l’America? Come, quello cubano? Come, l’ha messo in piedi quel terrorista di Guevara? Come, il tasso di mortalità infantile è più basso a Cuba?

Ma noi stiamo sconfiggendo il Covid. Abbiamo avuto solo cinquecentocinquantamila morti.

Noi il vaccino lo paghiamo e ce lo teniamo pure. Soberana2 è gratuito e lo cederanno gratis alle nazioni del terzo mondo? Non hanno mai avuto fiuto per gli affari.

I dannati cinesi e palestinesi hanno preparato una mozione per eliminare il blocco e le sanzioni a Cuba, quelle sacrosante sanzioni che il nostro caro ex presidente con 242 nuove misure ha pure rafforzato. . La mozione è passata con 30 voti a favore, 15 contrari e due astenuti, ma a noi che ce ne fotte, noi siamo democratici, l’ONU è solo un branco di fannulloni. Per fortuna che i nostri cari alleati, come la Giovine Italia, hanno votato per noi.

Sì, quegli stessi cubani che un anno fa fecero sbarcare una brigata di medici per aiutarli durante la pandemia.  Ma che gli frega a loro della solidarietà, gli italiani sono allineati, sono cari amici nostri. Sono un popolo libero. Abbiamo solo cinquantanove basi in quel paese del sole, del mandolino e della mafia, con tredicimila nostri valorosi marines. Mica li abbiamo occupati, anzi li abbiamo liberati.

I partigiani? E che c’entrano. Noi li difendiamo dal pericolo di una invasione. Di chi? Ma dei sovietici.

L’Unione Sovietica non c’è più? E che significa? Comunque li abbiamo liberati dai comunisti. Abbiamo anche chiesto l’aiuto di amici all’interno della loggia Propaganda 2. Care persone.

E comunque con voi comunisti non ci parlo più, volete sempre avere ragione voi. Manteniamo le sanzioni anche se la mozione è passata, perché noi siamo democratici.