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SAUDADE PER ANTONIO TABUCCHI
Un compleanno in assenza (per i suoi 80 anni)

Saudade per Antonio Tabucchi. Un compleanno in assenza (per i suoi 80 anni)

C’è uno strano testo disperso di Tabucchi che si intitola Lettera a un editore (non inviata). Lo scrittore si chiedeva cosa mai potessero pensare di lui in un paese (il Portogallo) che, pur essendo stato fondamentale nella sua vita professionale e privata (basti ricordare i suoi anni di insegnamento della Letteratura portoghese nelle università italiane, e il fatto che sua moglie, Maria José de Lancastre, appartiene ad una nobile famiglia portoghese), non era la sua terra nativa, e rifletteva sui complessi codici di appartenenza che ci legano al mondo che ci circonda.

Insoddisfatto delle due categorie più evidenti, secondo le quali o si è autoctoni o si è stranieri, ne evocava una terza, suggeritagli dal termine portoghese di estranjerado con il quale vengono chiamati i portoghesi che vivono altrove e tornano a casa solo per le vacanze. Sono persone che non sono né autoctone né straniere, più o meno come lo era lui in Portogallo: autoctono per vocazione, ma straniero per nascita.

E questo nonostante il forte amore per il Portogallo, di cui aveva mirabilmente studiato la letteratura, mentre si sentiva a disagio nel paese natio: l’Italia neo-fascista e berlusconiana, che non si era mai stancato di stigmatizzare, al punto che – per una serie di circostanze – avrebbe finito per allontanarsene scegliendo di vivere piuttosto in Portogallo e in Francia.

Era estanjerado dunque anche in Italia, per l’Italia (dalla quale comunque non avrebbe potuto sradicarsi mai e di cui portava con sé dovunque quanto più contava, la lingua) mentre, per ovvi motivi, non poteva dirsi autoctono negli altri due paesi prescelti. Apparteneva a tutti e tre, e allo stesso tempo per ciascuno dei tre era dislocato altrove: estranjerado dovunque, mentre per cultura, passione, predilezione, perfino per lingua, era insieme italiano, portoghese e francese.

Insomma Tabucchi è stato un grande scrittore europeo, in un’Europa che non aveva (e non ha ancora) saputo/voluto abbattere le frontiere creando una comune societas. Ma chissà che questa mancanza di collocazione non abbia contribuito a nutrire, almeno in parte, la sua inquietudine, facendo di lui un intellettuale esemplare, il modello di quello che si può chiedere a un’arte narrativa in grado di unire maestria tecnica e impegno, invenzione e capacità di segnalare in modo lieve (come si conviene alla vera gravitas) un profondo turbamento esistenziale. In questo, e non solo in questo, insomma, il nostro autore era maestro, perfetto figlio di un secolo che si era avviato a Parigi, in anni nei quali negli altri paesi mancava – e sarebbe a lungo mancata – la libertà.

Gli scrittori devono avere due paesi, quello al quale appartengono e quello nel quale vivono realmente”, ha scritto Geltrude Stein nel suo Paris France.

Tabucchi di paesi ne aveva tre, ma diversamente da quanto scriveva la Stein (“Il secondo è ‘romanesque’, è separato da loro, non è reale, anche se è realmente là”), nessuno dei suoi era ‘romanesque‘, nessuno era separato da lui, ognuno era reale, anche se non era ‘realmente là’. Ma come sappiamo, la saudade – parola e malattia lusitana tanto cara ai suoi personaggi, alle atmosfere dei suoi racconti e romanzi – si nutre anche di questo.

Non è un caso allora che Tabucchi abbia scelto a proprio nume tutelare un poeta alloglotta e moltiplicato per eteronimi come Pessoa, che tramite un “baule pieno di gente” ha dato voce all’altro da sé realizzando la struttura cubica e ortogonale di una diffrazione della personalità.

Uno scrittore che ha scritto che “Tutto è noi e noi siamo tutto”, aggiungendo “ma a che serve questo, se tutto è niente?”, e che ha sostenuto che “la letteratura, come tutta l’arte, è la dimostrazione che la vita non basta” (è da qui che nasce non solo il tabucchiano Elogio della letteratura che apre il postumo Di tutto resta un poco – la sua splendida raccolta di saggi -, ma la conclusione: “Trovate un uomo a cui la vita basti: costui non farà mai letteratura”).

Il trascorrere da un luogo all’altro, da una patria all’altra (fino a vivere e a morire altrove, in quel Portogallo dove adesso riposa accanto ai grandi scrittori portoghesi), sono diventati un modo per tradurre nel quotidiano la transitabilità non solo della vita ma dell’arte.

Alla percezione di irreversibile e nostalgia, e al desiderio dominante di essere altrove, Tabucchi ha dato parola letteraria inventando storie nelle quali gli spostamenti, gli interscambi di città (Pisa, Roma, Parigi, Lisbona, Madrid…) e di personaggi sono frequenti, dove in definitiva a dominare è l’eterotopia, cioè un tempo (per definizione inafferrabile) che si concretizza in uno spazio tangibile che ricava però dalla sua singolare genesi una sorta di straniata consistenza.

Gli spazi della narrativa tabucchiana, benché localizzabili (anche se spesso è difficile essere veramente sicuri che ci si trovi in un luogo preciso) sono luoghi fuori dai luoghi, luoghi ripetibili, duplicabili, quasi anonimi. Gli incontri più significativi tra i suoi personaggi avvengono sui treni, negli scompartimenti ferroviari, nelle stazioni, negli ospedali, nei caffè, nelle biblioteche, nei musei.

A dominare è l’effetto specchio, che moltiplica l’io, lo confonde con l’altro, anche nel luogo che Foucault ha considerato eterotopico per eccellenza: il cimitero. Un luogo dove il tempo si accumula mentre perde la sua identità (come avviene anche nelle biblioteche e nei musei) e dove è possibile mantenere un contatto con l’assenza; un luogo dove, come nello specchio, si riflette ciò che non esiste ma che ci assomiglia e a cui si continua a dare un nome.

Il passaggio dall’eterotopia all’eterocronia diventa allora possibile; i tempi, i luoghi si sovrappongono, così come la partenza e il ritorno. Tutto si condensa e cerca significato nel luogo-non luogo ossimorico per eccellenza che domina l’inizio di uno dei suoi romanzi più belli (Requiem) e la città di Lisbona: il Cemitério dos Prazeres.

A moltiplicarsi ogni volta per i tanti suoi lettori, in ogni paese, in ogni lingua, è la suggestione della scrittura: quanto fa leggere e induce a tornare a rileggere i suoi libri (da Notturno indiano a Sostiene Pereira, dal Gioco del rovescio a Tristano muore, dalla profetica Testa perduta a Si sta facendo sempre più tardi…), trovandoli ogni volta diversi, ricchi di piste che avevamo perduto e/o dimenticato, sempre pronti come sono, quei libri, a divertire, ad appassionare, a sollecitare turbamenti e domande, non solo sulla finzione, ma sulla vita, sul suo destino, sul suo senso.

Nella cover: Tabucchi a Stoccolma nel settembre 2019 (© Anna Dolfi)

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TERZO TEMPO
Save the Bridge

Inaugurato il 28 aprile del 1877, Stamford Bridge è uno degli impianti sportivi più antichi del Regno Unito, nonché il primo e finora unico stadio nella storia del Chelsea Football Club. Tuttavia, il proprietario fondiario di Stamford Bridge non è lo stesso Chelsea, bensì un’organizzazione non profit creata nel 1993 e composta perlopiù da tifosi dei Blues: una sorta di azionariato popolare che, oltre alla suddetta proprietà, detiene anche i diritti di denominazione del club londinese. L’organizzazione in questione, cioè la Chelsea Pitch Owners, fu istituita dall’ex presidente del club Ken Bates al termine di una vicenda legale che mise a rischio il futuro di Stamford Bridge, sul cui terreno, se non fosse stato per lo stesso Bates, sarebbe sorto probabilmente un elegante complesso residenziale.

Cominciamo dall’inizio di questa vicenda, cioè dal fatto che il già citato Ken Bates, proprietario e presidente del Chelsea dal 1982 al 2003, non riuscì ad acquistare la proprietà fondiaria di Stamford Bridge dal suo predecessore Brian Mears, il quale si ostinò a non venderla. Senonché, nel 1984 lo stesso Brian Mears trasferì quella proprietà alla società di sviluppo immobiliare Marler Estates in cambio di un milione delle sue azioni: una cessione che, dati gli interessi della stessa società, non prometteva nulla di buono per il Chelsea e per il suo stadio. Pochi mesi più tardi, infatti, il presidente della Marler Estates ottenne il via libera dal consiglio distrettuale di Hammersmith e Fulham alla riduzione di Stamford Bridge, il quale, stando a tale progetto, sarebbe dovuto diventare “uno stadio molto più piccolo e compatto”. Insomma, la situazione apparve piuttosto critica, e nel 1986 il club londinese lanciò la campagna “Save the Bridge allo scopo di sensibilizzare i tifosi e raccogliere 15 milioni di sterline, cioè il prezzo al quale sarebbe stato possibile riacquistare la proprietà fondiaria del suo stadio.

Nel frattempo, il Chelsea continuava a usufruire di Stamford Bridge in leasing, cioè quello concesso a Bates nell’atto di cessione del 1982. Tuttavia, quell’accordo sarebbe scaduto nel 1989 e, in virtù della vendita effettuata da Brian Mears, il Chelsea avrebbe dovuto rinegoziarlo non più con il suo ex presidente, ma bensì con la Marler Estates. Data la difficoltà di questa trattativa, la strategia di Bates fu piuttosto chiara: esasperare l’avversario attraverso una serie di piccole dispute legali e, di conseguenza, guadagnare sempre più tempo. Sta di fatto che nel 1989 la Marler Estates cedette la proprietà fondiaria di Stamford Bridge a un’altra società di sviluppo immobiliare, la quale presentò immediatamente un avviso di sfratto al Chelsea: si trattava della Cabra Estates, i cui legali dovettero anch’essi scontrarsi con la tenacia di Ken Bates. Stando a quanto dichiarato dall’avvocato che affiancò lo stesso Bates, quest’ultimo si aggrappò a una clausola secondo la quale il Chelsea avrebbe avuto il permesso di riqualificare Stamford Bridge – e quindi di prolungare la sua permanenza in tale stadio – nel caso in cui avesse portato a termine i lavori di ristrutturazione avviati nella prima metà degli anni ’70. Così, in un modo o nell’altro, il club londinese cercò più volte di dimostrare che avrebbe concluso quei lavori.

Il punto di svolta dell’intera vicenda arrivò nel 1992: il Regno Unito entrò in recessione, il mercato immobiliare subì una forte crisi e, nel giro di pochi mesi, la Cabra Estates fu costretta ad avviare la procedura di liquidazione del suo patrimonio. La Royal Bank of Scotland assunse il controllo della proprietà fondiaria di Stamford Bridge, e il 15 dicembre di quello stesso anno raggiunse un accordo con il Chelsea: oltre al rinnovo ventennale del leasing, il club inglese riuscì a ottenere un’opzione di acquisto fissata a 5 milioni di sterline. Di lì a breve, Bates trasferì tale opzione alla neonata Chelsea Pitch Owners al fine di evitare ulteriori “convivenze” con proprietari o investitori esterni, e nel dicembre del 1997 la stessa organizzazione non profit acquistò la proprietà di Stamford Bridge grazie a un prestito erogato proprio dal Chelsea, il quale ottenne in cambio l’utilizzo dello stadio in leasing per i successivi 199 anni.

Il risultato di tutto ciò è che adesso i tifosi dei Blues possono decidere le sorti di quello che, da più di vent’anni, è a tutti gli effetti il loro stadio. Al momento, sono state vendute circa 22.000 partecipazioni azionarie della Chelsea Pitch Owners, e per acquistarne una basta compilare un semplice modulo in PDF che è scaricabile dal sito ufficiale del club [Qui].

Le Voci da Dentro /
La scuola di umanità di H. J.

Leggendo queste frasi poetiche si riescono a cogliere contemporaneamente sia il silenzio della solitudine che la melodia della speranza. Si avverte la ricerca della meditazione come percorso che può attraversare il dolore conseguente al senso di colpa per arrivare ad una sorta di redenzione.
Mauro Presini

La scuola di umanità

di H. J.

Solitudine, isolamento, dolore, soffrire nel silenzio. Nessun maggior dolore che ricordarsi dei tempi felici nella miseria.

L’esperienza porta consapevolezza. Il mondo ha sete di valori veri.

Il canto della liberazione, la capacità di ascolto, la semplicità, l’umiltà, la pazienza che apre il cuore dell’anima.

L’umile insegnamento della pace.

Ansia, nausea, confusione, disillusione, disperazione… lì sembra di aver già consumato la vita senza mai trovare la pace.

Vivere la prigione come una Redenzione. Una perfetta dose di sofferenza. Le tenebre del giorno cercano un senso. Sognare di riparare il misfatto. Essere pieno di progetti per domani, nonostante il dolore e la perdita.

La triste condizione è la mancanza di ideali e valori.

Umiliato e confuso, nel suo cuore non c’è traccia di risentimento, perché non giudica nessuno.

In ogni situazione della vita, anche la più negativa, è nascosta la via per un’altra via; per dimenticare la via del male. Cercare la felicità.

Qualcuno ha odio verso la sua persona, egli non odia l’altro.

Un fuoco nero lo consuma, si sente stanco a fare nulla.

Quello che è deprimente è l’inazione perpetua.

La solitudine di ogni momento.

Seduto a guardare il nulla.

Malinconia, angoscia, monotonia, promiscuità.

Non ha più una vita intima.

Gli manca la famiglia e l’odore della terra bagnata con l’acqua del mattino.

Si sente perso nel deserto del cuore umano.

 

Cover: un’ opera di un detenuto nelle carceri di Ferrara

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Gaia Tortora vince la 59° edizione del Premio Estense

A Gaia Tortora il Premio Estense 2023, edizione dei record.  Federico Rampini si aggiudica il prestigioso riconoscimento Gianni Granzotto. Sgarbi: “il premio più democratico d’Italia”.

Sembra esserci davvero tutta la città in un Teatro Comunale elegante e scintillante, insieme al gotha del giornalismo italiano e all’imprenditoria di una regione innovatrice e produttiva, che dalle grandi difficolta esce sempre a testa alta. Proprio come “Testa alta, e avanti”, di Gaia Tortora, che vince la 59° l’edizione del Premio Estense, l’edizione dei record. Record per il numero dei libri candidati, ben 69, per le presenze, anche di tanti giovani, per la sua giuria popolare che dibatte, sullo stesso piano, con una giuria tecnica prestigiosa, ribaltando, a volte, ogni pronostico. Il che lo rende “il premio più democratico in Italia”, sottolinea Vittorio Sgarbi nel suo intervento in chiusura delle votazioni.

I membri della giuria tecnica sono: Alberto Faustini, Michele Brambilla, Luigi Contu, Tiziana Ferrario, Paolo Garimberti, Jas Gawronski, Giordano Bruno Guerri, Agnese Pini, Venanzio Postiglione, Alessandra Sardoni e Luciano Tancredi.

A far parte della giuria popolare, invece, vari rappresentanti della società civile cittadina. Come lo scorso anno, abbiamo il privilegio di osservare da dentro la vivace discussione che porta alla scelta del libro vincitore.

Della quartina finalista, vi abbiamo parlato, ma ve la ricordiamo: “Traditori. Come fango e depistaggio hanno segnato la storia italiana” di Paolo Borrometi (Solferino), “L’anno del fascismo. 1922. Cronache della marcia su Roma” di Ezio Mauro (Feltrinelli), “Mura. La scrittrice che sfidò Mussolini” di Marcello Sorgi (Marsilio Specchi) e “Testa alta, e avanti” Gaia Tortora (Mondadori).

Il filo conduttore di questa scelta, è la memoria, ricorda Alberto Faustini, presidente della giuria tecnica, al momento del dibattito per le votazioni. La vicenda di Enzo Tortora, la donna dimenticata di Marcello Sorgi, il racconto dell’anno fondamentale della storia italiana (il 1922) di Ezio Mauro e dei traditori che ci sono stati, e ancora ci sono, in Italia, fin dallo sbarco alleato del 1943, di Paolo Borrometi.

Il dibattito far le due giurie sarà intenso e acceso. Ricco, appassionato, coinvolgente, emozionante. Un testa a testa fino alle fine, il vincitore decretato dopo cinque votazioni, quasi un ex aequo (peraltro invocato da due finalisti che, per la prima volta nella storia del premio, hanno “fatto irruzione” nella sala dei votanti dalla vicina sala al ridotto del Teatro da cui osservavano la discussione).

Emerge subito l’importanza di come la storia vada fermata sulle e nelle pagine, indagata, capita, sviscerata, compresa e raccontata. “Sono ancora troppi i misteri italiani, spesso coperti dal segreto di stato. Il cittadino ha diritto di sapere”, sottolinea Tiziana Ferrario. Temi attuali, come il “cancel culture” ante litteram della scrittrice Mura, avvolta da una misoginia che riporta alla triste cronaca dei nostri giorni.

La storia della bolognese Maria Assunta Volpi Nannipieri, in arte Mura, raccontata da Marcello Sorgi, che riuscì vendere, in un paese illetterato, fino a un milione di copie scrivendo romanzi di letteratura rosa con un pizzico di erotismo, tollerato dal regime, in quanto era stata anche a lungo la fidanzata del giornalista Alessandro Chiavolini, racconta tutto il cortocircuito della censura fascista, la sua contraddittorietà. Il suo romanzo, “Sambadù amore negro”, del 1934, la mise al bando, in fondo, solo per la copertina che raffigurava una donna bianca abbandonata tra le braccia di un uomo di colore. Nessuno lesse il libro, al centro della lotta intestina ai vertici del regime, fra Galeazzo Ciano, genero di Mussolini, e il potente capo della polizia Bocchi.

Il libro di Ezio Mauro viene, da qualcuno, definito “perfetto”: è didattico, perfetto per le scuole, ha una scrittura eccellente, lineare e non barocca, segue il metodo del cronista. Misurato dal numero delle suole e dei taccuini consumati, il cronista indaga, ripercorre i luoghi in cui si sono consumati i fatti. Ed Ezio Mauro ha sempre fatto questo, come con il racconto della caduta dei Romanov. Per “L’anno del fascismo. 1922. Cronache della marcia su Roma” ha effettuato ricerche accurate negli archivi di stato, spulciato testimonianze, cercato le storie, come solo lui è in grado di fare, definito “retroscenista” dei fatti. Comunicandosi emozioni, nell’indifferenza italiana, in un “paese ipnotizzato”, incapace di capire dove tanta violenza avrebbe portato.

Il libro di Paolo Borrometi, invece, racconta dei traditori del nostro paese, di chi si è servito dello Stato ma anche dei tanti eroi che hanno servito lo Stato. Un disegno inquietante non ancora compreso né completo. L’importanza di portare alla luce e parlare di quest’ombra e lato oscuro del paese, per sapere, ricordare e non dimenticare, viene sottolineata da una giovane studentessa del liceo cittadino Dosso Dossi. Lei è Elisa Rizzi è ed è andata a Milano, a piazza Fontana. Ha letto, studiato, cercato di sapere e di capire. Anche grazie alla sua professoressa. Alcuni giurati ammettono, altri forse solo lo pensano, vorrebbero avere una figlia o una nipote così. C’è speranza, penso io, fra me e me.

Agnese Pini non esita a supportare il libro di Gaia Tortora. Si tratta di “una memoria familiare che diventa collettiva”, sottolinea, “non un errore giudiziario ma un orrore giudiziario. E poi rimette in questione il ruolo di certa stampa”, quella sensazionalistica, che non esita a condannare prima di ogni sentenza. “In questa vicenda si legge tutta l’epicità della condanna degli innocenti, narrata dal Vangelo fino a Dante”, conclude, “una storia intima, vista e raccontata dagli occhi di una quattordicenne, impegnata, nel giorno dell’arresto plateale del padre, nel suo esame di terza media”. Un padre assente ma che, a causa del carcere, è diventato presente. Un carcere che sapeva la verità. “Perché nel carcere” dirà Gaia al momento del ritiro del premio, “tutti sanno la verità, appena entri”.

Jas Gawronski fa una emozionante confessione, un mea culpa sincero, quello di avere avuto qualche dubbio di fronte a un Enzo Tortora in manette.

Molti di noi ricordano quel viso attonito e incredulo, noi che guardavamo Portobello, che avevano nelle nostre camerette il gioco in scatola che riproduceva quel mercatino televisivo, un gioco compagno di tante domeniche spensierate.

Personalmente dubbi non ne ho mai avuti. Un processo mediatico terribile e spietato, invece, aveva deciso ancora prima di ogni sentenza di tribunale. Una gogna, la gogna. La mia memoria va, d’istinto, a Raul Gardini, a Maureen Kearney del recente film, “La verità secondo Maureen K.”, di Jean-Paul Salomé, a “Il penitente” di David Mamet.

Il libro di Gaia – una biografia emotiva come ricorda Faustini, perché il giornalismo è anche emozione, – è scorrevole, la scrittura è lieve, c’è amarezza ma non ci sono odio né rancore; del sistema, non è tutto da buttare, questa donna coraggiosa continua a credere nella democrazia e nella giustizia. Incredibile, ma vero. Meritava di vincere.

“Nel mio cuore considero la vittoria al fotofinish con il mio amico Paolo Borrometi un ex aequo, sono due libri che raccontano la storia d’Italia seguendo filoni paralleli, sui quali ci sarebbe ancora molto da dire. Dedico questo riconoscimento a quella ragazza di terza media e quindi ai ragazzi delle scuole e delle carceri dove continuo ad andare, soprattutto in quelle minorili. Vorrei che i ragazzi, attraverso il mio libro, comprendessero che giudicare subito è sbagliato e che utilizzassero la loro testa per farsi una propria idea”. Gaia Tortora

Il 39° Riconoscimento Gianni Granzotto. Uno stile nell’informazione” è stato assegnato a Federico Rampini, editorialista del “Corriere della Sera” e già corrispondente de “la Repubblica” da New York dal 2009. Giornalista dal 1979, Rampini è stato vicedirettore del “Sole 24 Ore” e inviato e corrispondente da Parigi, Bruxelles, San Francisco, Pechino. Ha insegnato nelle università di Berkeley, Shanghai e in Bocconi. Lo ritira ricordando l’amico Andrea Purgatori, che lo aveva vinto nel 2020.

Foto Premio Estense

 

Per certi versi /
Preferisco il cielo

Preferisco il cielo

I sensi
Non sono
Più opachi
Quella patina
Che attutiva
E feriva
Il mio gusto
Della vita
Si è dipanata
Le ferite
Però
Non vanno
Mai a dormire
Proseguono nei sogni
Nel profondo sonno
Il loro salasso
Di energie
Lo sento
Avverto i miei cali
Improvvisi
E progressivi
La vista
Sul baratro
Tuttavia
Non mi dà
Vertigini
Preferisco
Il cielo
Ogni domenica Periscopio ospita Per certi versi, angolo di poesia che presenta le liriche di Roberto Dall’Olio.
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La Comune di Ferrara scende in campo:
un’affollata assemblea di cittadine e cittadini. Con la voglia di contare

“La Comune di Ferrara” scende in campo: un’affollata assemblea di cittadine e cittadini. Con la voglia di contare.

Possiamo definirla un successo di critica e di pubblico l’Assemblea organizzata da LA COMUNE DI FERRARA alla Sala macchine della Factory Grisù tenutasi il mattimo di ier1, sabato 23 settembre 2023. La partecipazione ha superato le 100 presenze. Tanti i giovani e giovanissimi.

Si è trattato di una esperienza nuova, inedita per Ferrara: nei contenuti come nei metodi.
Il gruppo di cittadine e cittadine che ha dato vita a LA COMUNE DI FERRARA non ha proposto una piattaforma elettorale preconfezionata, ma alcuni spunti di discussione, alcune idee su cosa fare per promuovere una Ferrara meno povera, più verde, più democratica, più inclusiva.

Alessio Papa, “il custode del tempo”

Presentato anche il sito www.lacomunediferrara.it (ora visitabile da tutti).
Nel sito tutti i temi sono declinati al futuro: brevi testi raccontano “un dopo”, nel quale un cambiamento si è realizzato.
Una visione utopica, distopica o fantascientifica? Un Libro dei sogni? No, hanno detto gli organizzatori, ma solo un modo di concentrarci sul radicale cambio di rotta che, dopo le elezioni del prossimo giugno, il nuovo governo di Ferrara dovrà prendere, assumendo scelte politiche coraggiose da verificare passo per passo con la cittadinanza di Ferrara.

Il sito verrà aggiornato nei prossimi giorni con i contributi emersi dall’Assemblea di oggi.

Tra le cittadine e i cittadini, ci sono anche le bambine e i bambini. Anche loro hanno partecipato: giocando e lavorando per immaginare una “città gentile”.

Divisi in piccoli gruppi per dare a tutti la possibilità di esprimersi ed ascoltarsi, ci si è chiesti quali qualità e caratteristiche deve avere un candidato/a sindaco/a e quali caratteristica dovrebbe avere una campagna elettorale innovativa che interessi veramente le persone e le coinvolga.

“Presto – precisa Anna Zonari, portavoce de La Comune di Ferrara – verranno resi noti i prossimi passi e appuntamenti.”.

La Comune di Ferrara
Per aderire e per proporre idee e contributi:
info@lacomunediferrara.it

Altri scatti della Assemblea partecipata:

Foto di Valerio Pazzi e Andrea Firrinceli

In copertina: la città pensata dai bambini e dalle bambine. In evidenza: la scuola, la caserma dei pompieri e tanto verde.

AUTONOMIA DIFFERANZIATA: LA SECESSIONE DEI RICCHI

Autonomia differenziata, la secessione dei ricchi.
Intervista al prof. Gianfranco Viesti dell’Università di Bari sul SECESSIONE .

di Roberta Lisi
pubblicato su Collettiva il 19.09.2024

L’economista Gianfranco Viesti (foto Sara Minelli)

Il presidente del Veneto Zaia sostiene che affermare che l’autonomia differenziata sarebbe la secessione dei ricchi significa non avere argomenti per contrastare. Lei, professore, argomenta in un intero libro questo concetto. Ci spiega?

L’atteggiamento assolutamente prevalente dei sostenitori dell’autonomia regionale differenziata è quello di negare qualsiasi confronto nel merito. È l’intelligente tentativo politico di tenere la materia oscura, il meno comprensibile possibile per i cittadini e le cittadine fino all’approvazione delle intese fra il governo e le regioni. Perché appena si comincia a discutere del merito, delle competenze, dei meccanismi economici e delle conseguenze che può provocare, diventano evidenti gli enormi problemi che questo processo può provocare. L’autonomia differenziata del ddl Calderoli e le conseguenti richieste di Lombardia e Veneto sono talmente negative da meritarsi il termine di secessioniste.

Ci illustra perché?

Per due principali motivi. Il primo è la straordinaria ampiezza delle competenze richieste. Quelle di Veneto e Lombardia non sono delle proposte serie, mirate a organizzare meglio il riparto delle competenze tra Stato e Regione. Sono delle proposte tutte politiche: l’atteggiamento delle due Regioni è quello di chiederle tutte le materie possibili. Se venissero concesse tutte queste competenze si tratterebbe di una secessione di fatto. L’Italia, unico Paese al mondo, avrebbe al suo interno delle regioni-Stato in grado di governare da sole tutte le principali politiche pubbliche. Ma comodamente sarebbero parte di un Paese componente dell’Unione europea e della Nato. Non avrebbero, cioè, problemi di politica estera e di politica monetaria, ma sarebbero totalmente sovrani al proprio interno.

E poi?

Il secondo motivo per cui si tratta di richieste di tipo secessioniste è ciò che esse postulano: i cittadini che vivono in quelle regioni devono essere trattati meglio dei cittadini che vivono nelle altre. Tra le richieste di entrambe le regioni, infatti, quella di ottenere molte più risorse dal bilancio italiano di quelle che oggi vengono spese all’interno del loro territorio, per usarle come meglio credono, senza vincoli di destinazione. Le risorse del bilancio dello Stato, è bene ricordare, derivano dalla tassazione nazionale, cioè lo Stato tassa e le Regioni possono spendere questi soldi come meglio credono. Stabilire per principio che alcuni cittadini italiani, per il fatto di vivere in una certa regione, debbano essere trattati meglio di altri è, a mio avviso, un atteggiamento secessionista che mira a dividere su diversi livelli di diritti delle cittadine e dei cittadini italiani.

L’autonomia differenziata era stata subordinata all’approvazione dei livelli essenziali delle prestazioni sociali. A questo fine era stata istituita una commissione, ma mi pare di capire che essa si sia perlomeno arenata. Alcuni dei suoi componenti si sono dimessi sostenendo non ci fossero le condizioni per portare a termine il compito assegnato. Cosa è successo?

L’attuale maggioranza, per rendere formalmente più digeribile questo processo secessionista agli occhi degli italiani, e soprattutto per non perdere voti nelle regioni del Centro-Sud, ha alzato una spessa cortina di fumo e cioè ha cominciato a parlare di Lep. I livelli essenziali delle prestazioni, nonostante il nome non adatto, sono un pezzo fondamentale del nostro contratto sociale nazionale: sono i diritti che devono essere riconosciuti a tutti i cittadini italiani, indipendentemente da dove vivono, quindi sono importantissimi. L’iniziativa del governo è solo fumo negli occhi perché mira esclusivamente a definirli, ma solo definirli non serve, devono essere finanziati e poi raggiunti. Non c’è assolutamente nulla nella proposta del governo che parli di finanziamento e di raggiungimento dei livelli essenziali, anzi è previsto che tutta l’operazione sia a costo zero per la finanza pubblica. E siccome sarebbe davvero esagerato pensare che in seguito a questa definizione dei livelli si spenda più al Centro-Sud e meno proprio nelle regioni più forti, è del tutto evidente che si tratti esclusivamente di una cortina fumogena. Insomma, definire i livelli essenziali è importante, è importante soprattutto però misurarli, finanziarli e stabilire dei percorsi per raggiungerli.

E peraltro abbiamo l’esempio dei Lea in sanità.

Esattamente. I Lea sono la definizione dei diritti in materia di prevenzione, di servizi territoriali e di servizi ospedalieri di cui tutti i cittadini e le cittadine dovrebbero godere. Sono definiti in maniera molto dettagliata, ma non sono finanziati. Ogni anno il ministero della Salute li misura e certifica che non sono raggiunti nella maggioranza delle regioni, soprattutto in quelle del Sud, ma a seguito della misurazione non succede assolutamente niente. Quindi sono un indicatore utile per capire la situazione, ma certamente non sono uno strumento di alcuna utilità per cambiare.

C’è chi afferma che per finanziare i Lep basterebbe fare riferimento alla spesa storica utilizzata fin qui per finanziare i diritti nelle varie regioni. Cosa non va nell’assumere la spesa storica come parametro di riferimento per l’autonomia differenziata?
Tarare i diritti sulla spesa storica significa fotografare le disparità esistenti, perché la spesa storica non nasce da una misurazione dei bisogni e dei diritti. E non lo dico solo io, l’Ufficio parlamentare di Bilancio l’ha scritto in atti ufficiali. Insomma, Veneto e Lombardia vogliono una cosa molto semplice: un trattamento da regioni a statuto speciale che ruota attorno al concetto di aliquota di compartecipazione, che sostanzialmente si traduce nel fatto che a queste regioni in futuro si offriranno molte più risorse rispetto a oggi. Non solo. C’è ulteriore richiesta di queste regioni, e su questo si è aggiunta anche la Puglia, di cui non abbiamo nessunissima notizia: quella di avere pezzi del patrimonio pubblico nazionale. In sostanza l’autostrada del sole fino al ponte sul Po diventerebbe di proprietà della Lombardia. Mi pare, se questo dovesse diventare realtà, il simbolo del crollo dell’unità nazionale

Il ddl Calderoli rischia di portare con sé un ulteriore elemento di frattura del Paese. Con l’autonomia nel campo dell’istruzione e della sanità, si rischierebbe di vedere saltare il contratto collettivo nazionale di lavoro per lavoratori lavoratrici di questi settori?

Assolutamente sì. Questa è una delle conseguenze che potrebbero produrre le richieste di Lombardia e Veneto.
Vorrei però dire in premessa che dobbiamo smettere di chiamarlo col nome di Calderoli, il ddl è stato approvato all’unanimità dal governo è quindi è più corretto chiamarlo disegno di legge Meloni. Insomma credo che sia bene richiamare alla loro responsabilità anche gli uomini e le donne di Fratelli di Italia. È il governo Meloni che sta proponendo al Parlamento di suicidarsi, cioè di votare un percorso per la concessione dell’autonomia che impedisce al luogo della rappresentanza e della sovranità popolare di discutere.  Poi, per stare al merito della domanda, tra le conseguenze dell’eventuale scellerata concessione alle regioni dell’autonomia in materia di istruzione e sanità, oltre che alla regionalizzazione della scuola e la definitiva morte del servizio sanitario nazionale, una delle tante importanti conseguenze di queste eventuali decisioni sarebbe un abbattimento molto forte dei diritti e dei poteri dei lavoratori e delle lavoratrici. La regionalizzazione comporterebbe la fine, non solo del contratto collettivo nazionale, ma anche della tutela che i lavoratori e le lavoratrici riescono ad avere dall’azione sindacale nazionale. Trovo veramente sorprendente che uno dei tre sindacati confederali nazionali non si accorga di questo e sia dall’inizio completamente silente su questo tema dell’autonomia differenziata, visto che farebbe un enorme danno anche alla sua attività di rappresentanza. Mi sto riferendo, naturalmente, alla Cisl.

Ma tutto questo che lei ci ha raccontato cosa c’entra con l’articolo 5 della Costituzione?

Dobbiamo premettere che tutto questo che vi ho raccontato non è che una piccola parte dei problemi a cui andremo incontro se il disegno del governo si realizzasse. Molti costituzionalisti sostengono che le due cose non si tengono: ovviamente la Corte costituzionale non può essere chiamata a una valutazione prima dell’approvazione del testo. Non solo, intelligentemente i sostenitori dell’autonomia differenziata hanno fatto attenzione per evitare bocciature preventive, tutte le specifiche norme attuative saranno emanate attraverso decreti del Presidente del Consiglio dei ministri. Quindi chiamare in causa la Corte costituzionale potrebbe essere molto tardi rispetto a un processo che, quando avviato, difficilmente potrà essere fermato. Occorre fare di tutto per evitare che questo processo parta, nessuna autonomia differenziata deve essere concessa in tale contesto politico. Bisogna soprattutto raccontarlo alle cittadine e ai cittadini italiani del Nord, del Centro e del Sud che non sanno niente di questa storia e che invece dovrebbero essere perfettamente informati. A essere danneggiati non sarebbero solo i cittadini del Sud, ma quelli di tutto il Paese.

Presto di mattina /
Un architetto muratore

Presto di mattina. Un architetto muratore

Un architetto muratore

Il mattone e la calcina
Nei cortili dei muratori
E l’albero della mattina
Quando cominciano i lavori
E tu guardi com’è di fuori
Dove va sui tetti viola
La debole nube bambina
E odi la voce sola
Di un uccello dai vuoti prati
Dove sono ritornati
Fiori tante volte morti.
(Franco Fortini, Tutte le poesie, Ebook, Mondadori, Milano 2015, 207).

ferrara novità fatta di verità antiche carlo bassiFerrara: novità fatta di verità antiche (Interbooks, Padova 1991) è il libro scritto da Carlo Bassi nel quale, nei panni del moderatore, egli racconta di un dibattito immaginario a Palazzo Crema, durato ben quattro giornate, tra i maestri muratori del passato che operarono nella nostra città tracciandone la forma.

Tra essi egli ricorda dapprima Pietrobono Brasavola come muratore-capomastro, ingegnere ducale, che lavorò a Ferrara nel 1400. Autore della seconda addizione di Borso, Brasavola fu l’inventore delle baldresche: “strutture molto ardite che permettevano di avere al piano terreno le aree più libere” e una loggia rialzata sopra come a Casa Romei e in via Vecchie.

Carlo Bassi ricorda poi Biagio Rossetti, che con il Palazzo Roverella, costruito ad appena otto anni dalla sua morte, scriveva con i cotti, le pietre e il marmo, “una pagina straordinaria di sapienza architettonica, di competenza grafica, di cultura plastica”, intendendo così ribaltare l’opinione dei più accaniti critici del tempo che lo definivano “un grezzo muratore”.

L’immagine di un architetto-muratore può apparire un’indebita commistione, quasi un ossimoro, tanto che verrebbe da dire: a ciascuno il suo. E tuttavia gli antichi maestri muratori la pensavano diversamente. Progettare era, al tempo stesso, edificare, un fare insieme alle maestranze, un praticare quanto disegnato sulla carta.

Fu grazie a questa prossimità, a quest’amalgama, avvolgendosi della cultura, delle storie e dei problemi della città, che ne sortì come un’alchimia, qualcosa di nuovo e nuove più ampie prospettive che si addizionarono all’antico.

Così il rinnovamento della città andava fabbricandosi proprio dall’immergersi fin nelle fondamenta, nelle sue verità e carte più antiche, come ricorda il titolo dell’opera di Carlo Bassi.

Genius loci

Per l’architetto Carlo Bassi fu questa continua frequentazione del Genius loci della città, calcando le orme degli antichi e del loro sentire plurale – interdisciplinare diremmo oggi – e pure sinottico, a plasmare la sua forma mentis et cordis.

Il dialogo di Carlo con l’“intelletto amoroso” dei maestri del passato che diede forma a Ferrara generò in lui l’orientamento convinto a pensare diversamente l’architettura, come fosse un itinerario: partendo dall’architettura per arrivare alla poesia, come disse in un’intervista a Telestense: “vorrei che l’architettura fosse percepita come poesia”.

Il Genius loci di una città, il suo DNA, si esprime infatti con il linguaggio poetico; è “quella quidditas segreta, quel pathos e quel sentire nascosti che dimorano nei luoghi, nei vissuti stratificati degli ambienti – così mi scriveva in una lettera (22.20. 2013) – è ciò che fa di una architettura e di un luogo un avvenimento unico, irrepetibile” (ivi).

È quell’attitudine, il Genius loci, a ‘con-venire’, a ‘col-laborare’, intenti a custodire, innovare ed edificare insieme leggendo le varie stratificazioni, “la verità del luogo” che permane integro, che rende una città “radiosa e magnetica” nonostante i mutamenti del tempo e della storia.

La scrittura stessa di Carlo nelle sue lettere testimonia uno stile grafico che ispira immagini poetiche. Una volta gli risposi così: “Assomigliano le tue lettere ad una architettura marina, permettimi questa immagine di stagione. Aprendo la tua lettera sul tavolo mi sembra infatti di vedere un tratto di mare: onde eleganti che si rincorrono tranquille, la tua scrittura azzurrina, andante e un poco mossa” (14.07.2014).

Non è certo una questione puramente estetica, quella di arrivare alla poesia attraverso l’architettura per renderla semplicemente bella: è un’istanza etica quella che nasconde: perché scoprire il tracciato poetico nascosto porta alla luce i mondi e i vissuti abitati di una città, di una chiesa, di una via o di un monumento, porta all’incontro con i suoi umanesimi, con la sua socialità e religiosità, le segrete aspirazioni.

Pensare all’architettura come a una fedeltà a cose future anzi, eterne

In un’altra lettera mi scriveva: “Quello di cui sono certo è che alla fine due sono stati nella mia vita professionale i temi centrali ai quali ho dedicato tutta la mia passione: lo spazio sacro per gli uomini di oggi e la lettura della città fuori dagli schemi per catturarne la poesia. Perché è la poesia il fine ultimo di queste mie passioni…

È a Milano la chiesa che è il mio riferimento, Gli Angeli custodi, commissionata allo studio Bassi-Boschetti, dopo quella esperienza esaltante ci sono state quelle di Buccinasco, di Malcantone, di Saronno ,di Melzo, di Limbiate, tutte oggetto di una passione indicibile.

Mi piace dire: “Signore, lo zelo per la tua casa mi consuma” (Sal 69, 10). Come mi piace pensare all’architettura come “sostanza di cose sperate”, che è la definizione della fede nella Lettera degli Ebrei” (09.10.2013). Ma lo sperare credendo non è la sostanza stessa di ogni poesia, di ogni umana attesa, fosse anche la più disperata?

Nella stessa lettera egli cita poi la parola di un autore sudamericano: “la disperanza”, come figura sintetica del suo stato d’animo in quel momento: “I due significati di speranza e disperazione si alternano nell’arco della giornata e tengono il mio animo in tensione. Ma fino a quando?”(ivi).

Non sorprende allora che nell’introduzione di Roberto Pazzi a Perché Ferrara è bella. Guida alla comprensione della città (Corbo, Ferrara 1994, XII) si legga: «Carlo Bassi si è imbarcato sull’eternità della sua città, costruendo questa mappa della navigazione delle sue forme, apparentemente affidata alle leggi scientifiche dell’architettura, in verità arresa alla poesia».

Una visione senza alcun dubbio poetica

perchè ferrara è bella carlo bassiNella Nota al testo di Perché Ferrara è bella lo stesso Carlo Bassi precisa: «questa visione di assieme ci consente di renderci conto di come alla fine tutto si tenga e di come le ‘geometrie’ che siamo andati scoprendo, e che sono a nostro avviso uno dei motivi segreti che fanno Ferrara bella, siano sostanza intrinseca alla complessa realtà dei suoi stessi spazi.

Sono tutti segni specifici, visibili, di una realtà urbana che non è solo un esempio eminente ed universalmente citato di urbanistica rinascimentale, ma essa stessa poesia, se affidiamo a questa parola magica anche il dominio sull’architettura della città concepita come compiuta struttura di pensiero.

Allo stesso modo della grande pittura dei Maestri dell’Officina, della universalità dell’Ottava d’Oro di Ludovico Ariosto, della sofferta carica esistenziale del poetare di Torquato Tasso e della proustiana narrazione della città entro le sue mura del romanzo di Giorgio Bassani

Le varie parti dell’organismo urbano, infatti, sono analizzate secondo un metodo che è proprio delle indagini urbanistiche vere e proprie, anche se con attenzioni molto sofisticate, ma che si è voluto deliberatamente caricare di amorosi sensi attraverso l’approfondimento di frammenti di un discorso urbano capace di intense suggestioni esistenziali.

Frammenti che abbiamo chiamato “luoghi”, identificandoli come concentrazioni di qualità poetica e come momenti di attenzione e di attrazione psicologica ed esistenziale che hanno coinvolto la nostra personale esperienza» (ivi, XVI).

Chiunque ascolta le mie parole e le mette in pratica, vi mostrerò a chi è simili

Il centenario della nascita di Carlo Bassi, l’anno stesso della sua consorte Paola Ferraresi, è stato venerdì 15 settembre. E sabato 16 nella chiesa del monastero delle Clarisse al Corpus Domini ho celebrato l’eucaristia con i parenti e gli amici. È una chiesa a misura di Paola, diceva Carlo, perché la poesia di quel luogo era tutt’uno con la preghiera; lì lo spirito di Francesco, Chiara e Caterina de Vigri erano riuniti in un unico abbraccio con tutta la città, la sua storia, la sua arte, la sua poetica.

Mi trovavo a commentare il vangelo del giorno: «Chiunque viene a me e ascolta le mie parole e le mette in pratica, vi mostrerò a chi è simile. È simile a un uomo, un architetto che, costruendo una casa, ha scavato molto profondo e ha posto le fondamenta sulla roccia».

Una parabola che in Luca serve a mostrare il vero discepolo: facitore e non solo editore della parola e, parallelamente, in Matteo conclude il discorso di Gesù sul monte, quello delle beatitudini, che costituiscono la rivelazione del suo progetto di umanità nuova, il ribaltamento delle sorti e destini umani.

Sono le ultime ma decisive istruzioni ai discepoli per realizzare la costruzione dell’uomo interiore, di colui che si rinnova di giorno in giorno perché, non solo ascolta, ma vive praticando la novità del vangelo. Colui che pratica/ospita la parola, come chi ospita l’umanità dell’altro, è simile a colui che edifica la sua vita scavando molto profondo e ponendo la sua umanità come una casa sulla roccia: su quella roccia che è l’umanità del Cristo.

Pensavo a Carlo ed ho visto nel racconto evangelico una sintonia con il suo pensiero non solo per il fatto di un uomo che vuole costruire una casa. Così come non basta lo studio dell’architettura, l’apprenderne la scienza, ma occorre giungere alla poesia a quel processo che nel praticarla le dà vita e la realizza nel suo senso più profondo, come un sentire e abitare pienamente l’umano.

Allo stesso modo il discepolo, se ascolta la Parola ma non la vive, resta senza fondamento, costruisce un edificio pericolante, esposto agli eventi minacciosi, perché è mancante di quella relazione unitiva che porta fin nell’intimo del vangelo ne rivela la sostanza di cose sperate e che si raggiunge solo se questo diventa la tua stessa casa.

Anche nel discorso delle beatitudini si potrebbe così rilevare un’architettura poetica. Le beatitudini sono il farsi della parola, l’incarnarsi, il divenire e venire di Gesù parola di Dio nella nostra umanità, “Verbo incarnato delle umane genti”: Gesù come la poesia umana di Dio.

Con uno sguardo amoroso

L’architettura poetica, che è quel fare con la vita, l’edificarsi in vita concreta, scaturisce da uno sguardo generato da un “intelletto amoroso”, l’espressione è di Carlo, sguardo di comprensione e di pietà, quel disegnare, progettare che non rimane sulla carta ma che diventa vita per gli altri, avvolta nella cultura dalla storia della città e delle persone.

Carlo Bassi desiderava così che nella descrizione urbanistica vi entrassero i “romanzi” delle vite delle persone, le loro vicende; che essa interagisse con l’ambiente vitale, raccogliendo il passato per scrutare il futuro vivendo il presente.

Il vangelo è il progetto di Dio sulla carta, ma realizzato nella vita di Gesù. Scritto nel suo corpo, il vangelo è anche il progetto urbanistico della città futura, affidato agli uomini e alle donne amati da Dio: quello della nuova Gerusalemme, continuato attraverso il dono dello Spirito lungo la storia e in ogni luogo fino ai confini della terra.

In particolare le beatitudini nascono dall’intelligenza e sentire poetici di Gesù, perché scaturiscono dal suo intellectus amoris, dall’intelligenza del suo cuore trafitto e aperto per aver preso su di sè e condiviso fino in fondo i destini e le vite degli uomini e delle donne delle beatitudini per ribaltarne le sorti, per intraprendere con loro la costruzione della casa di Dio tra gli uomini: una cattedrale vivente.

Il pensiero va così a quella iniziata dall’architetto spagnolo Antoni Gaudì, una cattedrale ancora in corso d’opera, con i cantieri aperti. Parimenti anche il vangelo è architettura in divenire mai finita e affidata a noi come la Sagrada Familia. Gaudí si ispirò alle grandi cattedrali gotiche e simbolicamente voleva ripercorrere la vita di Gesù di nuovo tra noi sulla terra, tanto che le tre facciate dovevano rappresentare la Natività, la Passione e la Gloria.

I sette muratori

Sabato scorso, al termine della celebrazione, in sacrestia, il figlio di Carlo, Paolo mi ha fatto dono di una poesia di Franco Fortini come ricordo del centenario dei suoi genitori, dicendomi che era un testo molto caro a Carlo, frequentato e meditato spesso.

La poesia inizia con un imperativo: E tu pregali, i sette muratori.

Pietro Cardelli redattore della rivista on line di poesia e poetica formavera e fondatore del collettivo Liberamente, ha studiato l’uso dell’imperativo negli scritti di Fortini, questo modo verbale è riconosciuto come uno dei suoi elementi stilistici più ricorrenti e distintivi.

Viene usato in quelle frasi in cui si vuole modificare una situazione esistente, attraverso un ordine, un consiglio, un’esortazione o un’invocazione, una preghiera. Ed è il nostro testo una supplica all’azione, a lasciar spiragli in ciò che è murato, prima nel testo poi nella realtà, fessure proprio dentro la morte, un passante alla vita.

Il sentire poetico diventa forza dell’agire, sua vibrante espressione, impulso al movimento a favore di chi sta con le spalle al muro come chi muore. Ai sette muratori si chiede di lasciare spiragli di vita, perché almeno passi la sostanza di ciò che si è sperato insieme a chi fa vivere, e non venga meno, ma continui a lasciar passare luce, pane, acqua, il profumo dei fiori, le spighe, l’uva, la frescura dei boschi; non venga meno alla fede, anche nel transito ultimo, quella memoria sovversiva del Risorto che scalda il cuore proprio nel morire.

Un imperativo orante ai sette muratori, ma rivolto anche a noi chiamati alla responsabilità creatrice del ricordo e della sua trasmissione; vocati a lasciare spiragli nei muri chiusi della memoria dei dimenticati e farla nuovamente viva; non resti come un’architettura senza poesia, senza amoroso sguardo, né come un’intelligenza senza cuore o un ricordo senza speranza di futuro.

E tu pregali, i sette muratori,
Pregali, pregali, i sette maestri
Muratori che devono murare,
Perché lascino a te
Sette spiragli al muro,
Perché arrivino a te
La luce e il pane.
E da uno ti venga
Una sorgente d’acqua,
Ricordo di tuo padre;
E da un altro ti venga
Il profumo di fiori
Delle sorelle che avevi;
E da un altro ti vengano
Spighe lunghe di grano
Con tutto il loro frutto;
E da un altro ti venga
La vite della vigna
Con i grappoli pieni.
E da un altro ti venga
Qualche luce di sole
Che ti riscaldi il cuore
Che non si spenga tutto.
E il vento, il fresco del vento,
Il vento fresco dei boschi
Arrivi fino a te,
Che ti rinfreschi il capo,
Non marcisca il tuo capo.
Oh tu pregali, pregali, pregali
I sette muratori!
(Fortini, ivi, 113)

Per leggere gli altri articoli di Presto di mattina, la rubrica quindicinale di Andrea Zerbini, clicca sul nome della rubrica o il nome dell’autore.

Ferrara Film Festival /
Cinema e salute, futuro e impegno civico – Day 4 e 5

Il Ferrara Film Festival porta tanti temi e tante novità. Le giornate del 19 e 20 settembre parlano di malattia e di lavoro

Periscopio continua a seguire il FFF8. Per leggere i Day 1, Day 2 e Day 3

La giornata di martedì 19 settembre è stata caratterizzata da un dibattito intorno a temi importanti, come la malattia, e la relazione cinema-salute, ovvero di quanto e come il cinema possa parlare della malattia.

Alle ore 16, per la rassegna “Retrospettiva Cinema & Salute”, il festival ha proposto il toccante film britannico “Living” di Oliver Hermanus, con Bill Nighy, Aimee Lou Wood e Alex Sharp. Candidato a due Premi Oscar 2023, il film, ne abbiamo parlato, diretto dal sudafricano Oliver Hermanus e sceneggiato dal premio Nobel per la letteratura Kazuo Ishiguro, è un riuscito remake del capolavoro di Akira Kurosawa del 1952, Ikuru (Vivere), nella classifica dei 100 più grandi film secondo il Time. Nella Londra degli anni ’50, un burocrate privo di senso dell’umorismo decide di prendersi una pausa dal lavoro per sperimentare la vita dopo aver ricevuto una triste diagnosi. Sarà una sorpresa, per tutti, un messaggio di come la malattia ci faccia capire le vere priorità.

La Premiere del tardo pomeriggio, “Sisters of Ukraine” (categoria “Premiere docu”), storia di due volontari di Barcellona che si recano in un convento nell’Ucraina occidentale dove le suore stanno aiutando i rifugiati dopo l’invasione russa, è stata preceduta dal cortometraggio “The Delay”, diretto da Mattia Napoli.

Un’opera che tocca il difficile tema della malattia degenerativa e dell’andare fuori fase e fuori binario.

Arturo è un bravo interprete, una persona solitaria, metodica e regolare. Da qualche tempo, però, sta avendo problemi a svolgere il suo lavoro: è andato fuori sincrono. I suoni arrivano in ritardo rispetto a ciò che vede. La sua è una malattia degenerativa: il ritardo cresce giorno dopo giorno. Dopo aver perso il lavoro e aver provato inutilmente a eliminare qualsiasi fonte sonora, Arturo, quasi per caso, inizia a osservare il mondo con un nuovo e assurdo approccio. Quello che appare come un assurdo e limitante handicap può però diventare un’opportunità per osservare la realtà da un nuovo punto di vista. La disarmonia tra suono e sguardo crea sorprendenti effetti, a volte comici, a volte spiazzanti. Realtà difficile, ma… Senza poter più comunicare con il resto del mondo, Arturo ha la possibilità di diventare una persona più ricca e migliore di prima. Perché la bellezza è ovunque, basta saperla vedere e trovare.

Alle ore 22 è andato in scena “Peripheric love”, dello svizzero Luc Walpoth, con Iazua Larios, Fabio Troiano, Alessio Lapice. Maria, una giovane donna peruviana che lavora come babysitter presso una famiglia di industriali torinesi, è incinta. Suo marito Giorgio, che fa il guardiano presso la fabbrica di proprietà di quella stessa famiglia, è sterile.

Come gli darà la notizia, cosa penserà di lei? Quando Maria chiede a Giorgio di rifare il test di fertilità lui, colpito nell’orgoglio e offeso, si allontana da lei e riprende a bere, un vecchio vizio pareva superato.  Incapaci di ritrovare uno spazio di relazione, i coniugi si evitano e si avvicinano sempre più ai loro nuovi confidenti. Ma si amano profondamente. Maria studia il momento giusto per dargli la notizia, cercando di fargli capire che forse non si è sterili per sempre. Giorgio resiste alla voglia di bere, pur convinto ormai che lei gli nasconda qualcosa. Quando per caso trova i documenti medici che dicono che la moglie è incinta, crolla e soccombe ai propri demoni. Incapacità di comunicare che porta a strade che non si incrociano, almeno per un po’, ma che ad un certo punto (ri)convergeranno.

Anche qui questa intensa première è stata preceduta da due interessanti cortometraggi, “Al di là del mare”, di Carlo Alberto Biazzi, con Eros Pagni, Serena Grandi, Marco Iannone e la prima apparizione sullo schermo del giovane Gabriele Casavecchia e “Scomparire”, di Daniele Nicolosi.

“Al di là del mare” narra la storia del piccolo Nicola che, nel dopoguerra, perde il padre partito per Buenos Aires in cerca di fortuna. Il nonno, per non arrecare troppo dolore al bambino, gli racconta che il papà è stato rapito dal mare. Nicola non accetta questa situazione e riesce a trovare il coraggio di andare a cercarlo. Girato tra la Liguria e la Toscana, il film, che ha vinto il Premio del pubblico, il Premio miglior attore a Eros Pagni, il Premio miglior fotografia al “Napoli Cultural Classic” (2023), il Premio miglior attore a Marco Iannone al “Ciak Film Festival” (2023) e il Grifone d’oro al miglior mediometraggio al “Love Film Festival” (2023), sarà su Prime Video e Chili il 30 ottobre.

“Scomparire” è, invece, il cortometraggio diretto da Daniele Nicolosi, presentato in concorso nella sezione Dramma al “Prato Film Festival” 2023, con Andrea Bosca ed Euridice Axen. Un uomo incontra una donna in una casa di montagna. Improvvisamente l’uomo si sveglia e si ritrova nel suo appartamento in una Torino del 2046 dove la tecnologia ha preso il sopravvento anche sulle relazioni umane. A scomparire sono sia i personaggi, sia i ricordi, sia, soprattutto, gli eventi passati (e presenti) che non si ripeteranno mai più. Passato, presente e futuro si incontrano e si intersecano mettendo i protagonisti, e lo spettatore stesso, anche di fronte a delle scelte.

Il programma di mercoledì 20 settembre è stato, invece, caratterizzato dall’’incontro, alle ore 19, all’interno del format Studios Lounge Live, con Stefano Fresi, protagonista di “Romanzo Criminale” (2005) e “Smetto quando voglio” (2014). In quest’ultima pellicola, ispirata alla serie tv americana “Breaking Bad”, Fresi interpreta il personaggio di un laureato in chimica, costretto a lavorare come lavapiatti in un ristorante cinese, per il quale riceve una candidatura al David di Donatello come miglior attore non protagonista.

L’attore ha raccontato aneddoti della sua carriera sul set, dando consigli e suggerimenti ai giovani che vorrebbero intraprendere un percorso professionale nel mondo del cinema. “Fondamentale”, ha esordito, “è saper mantenere l’umiltà nei confronti del mestiere, perché non si smette mai di imparare e lo si fa da tutti. Il mio consiglio è quello di appassionarsi a tutto. Significa che se vuoi fare l’attore non puoi non conoscere la storia del cinema o il modo in cui i più grandi attori si sono approcciati nell’interpretazione di un personaggio che li ha resi celebri”. “E poi, ha concluso, “credo sia necessario guardare tanti film e farlo il più possibile all’interno delle sale cinematografiche. È un qualcosa che ormai si sta perdendo come abitudine, ma i film vanno visti lì, quando è possibile”.

Ma la vera novità è stata la proiezione serale della première italiana del film francese “La verità secondo Maureen K.” di Jean-Paul Salomé, con Isabelle Huppert, Grégory Gadebois, François-Xavier Demaison, Pierre Deladonchamps, già nella sezione Orizzonti l’anno scorso al Festival di Venezia e in sala da oggi, 21 settembre.

Un’indagine thriller ambientata nel mondo del nucleare e della politica. Tratto dalla vera storia dell’irlandese Maureen Kearney, un’esponente sindacale tutta d’un pezzo che ostacola il mondo e i giochi dei potenti, in un mondo fatto e dominato dagli uomini.

Maureen Kearney (Isabelle Huppert) è la sindacalista delegata della CFDT (Confederazione Democratica Francese del Lavoro) di Areva, una multinazionale francese del settore nucleare, mandato dopo mandato. E non intende affatto mollare, di fronte alla sete di giustizia, della quale è paladina. Sposata con un musicista (Grégory Gadebois) sempre dalla sua parte, è decisa, impassibile, algida. Un vero bulldozer.

Quando viene a sapere dell’accordo segreto che il nuovo dirigente sta stringendo con la Cina, e che minaccia il posto di lavoro di cinquantamila operai, si dimostra disposta a tutto pur di farlo uscire allo scoperto. Allora cominciano le minacce, le intimidazioni, i pedinamenti, fino all’ultima tappa e decisiva, la brutale aggressione. La polizia non le crede, ha fretta di trovare il responsabile, se non il capro espiatoria, e in poco tempo da vittima a diventa la principale sospettata.

Il duo Isabelle Huppert – Jean-Paul Salomé si riunisce dopo il successo di “La padrina – Parigi ha una nuova regina” (2019), per raccontare una storia vera di coraggio personale e di vergogna collettiva, in cui la violenza privata e quella politica si fondono sulla pelle di una donna, costretta dalle circostanze e dalla propria forza di carattere a una battaglia più grande di lei. Con tanto di inquadratura hitchcockiana dello chignon nel quale la Kearney ha appena raccolto i capelli, un attimo prima di subire violenza, e di lunga dissolvenza a nero che sospende la visione dei fatti nei minuti cruciali. Colori, poi, perfetti.

Il film è il personaggio stesso, perché è lei la “questione” al centro del piatto: il suo essere donna, l’aver subito già violenza che la fa diventare la vittima perfetta, il suo essere fragile e il suo essere forte allo stesso tempo. Una Huppert favolosa, in un film dove donne aiutano donne, donne che spesso restano inascoltate.

Foto in evidenza e della giornata del 20 settembre di Valerio Pazzi

VEDERCI SGRETOLARE
Alla Rivana incontro-dibattito sulle malattie rare e autoimmuni

Venerdì 7 ottobre 2023 alla Rivana di Ferrara, via Gaetano Pesci 181, si terrà un incontro-dibattito sul tema delle malattie rare e autoimmuni. Una realtà purtroppo in aumento tra le patologie che colpiscono le persone di tutte le età. L’iniziativa è salutata dall’Assessorato alle Politiche Sociali del Comune di Ferrara e coadiuvata dai rappresentanti delle associazioni di categoria (CFAD, CFU, AISM, AssiSLA e Fondazione ACAReF).
Per informazioni sull’evento: 3480528603 (Marcella)

Un futuro per la chimica industriale ecocompatibile è possibile.
Un impianto innovativo in Germania per il riciclo delle plastiche con una tecnologia messa a punto dal Centro Ricerche Natta di Ferrara.

Un futuro per la chimica industriale ecocompatibile è possibile. L’esempio è la prossima apertura di un impianto innovativo in Germania per il riciclo delle plastiche, basato su una tecnologia messa a punto dal Centro Ricerche Natta di Ferrara 

BASF, SABIC e Linde, rispettivamente un’azienda chimica tedesca, una chimica saudita e un’azienda di ingegneria tedesca avviarono il 24 marzo del 2021 (con conferenza stampa) un progetto per realizzare il primo steam cracker elettrificato al mondo presentando domanda di finanziamento pubblico per la costruzione di un impianto dimostrativo presso il sito BASF di Ludwigshafen (Germania).

Gli steam cracker svolgono un ruolo centrale nella produzione dei composti chimici di base e i processi di scomposizione chimica degli idrocarburi di partenza in olefine e composti aromatici, richiedendo una notevole quantità di energia.

Ovviamente tali apparecchiature, di cui una unità era in esercizio anche nel petrolchimico di Porto Marghera (ora chiuso), sono indispensabili nel processo di riciclo molecolare delle materie plastiche per il trattamento dell’olio pirolitico.

Di solito, in questi enormi forni, le reazioni si innescano a temperature intorno agli 850 gradi Celsius; temperature che, almeno fino ad oggi, si raggiungono attraverso la combustione di materiale di origine fossile.

Alimentando il processo con energia elettrica, questo nuovo progetto mira a ridurre notevolmente le emissioni di CO2.

Utilizzando elettricità derivata da fonti rinnovabili, la nuova tecnologia potrebbe ridurre le emissioni di CO2 fino a meno del 90%.

Il 14 settembre 2023 le tre società comunicano (conferenza stampa riportata da Polimerica) che sono in dirittura d’arrivo i lavori di costruzione dell’impianto dimostrativo per il riscaldamento, mediante forni elettrici, di un’unità di steam cracking di idrocarburi, per produrre olefine, presso il sito BASF di Ludwigshafen.

Sono stati infatti installati i nove trasformatori necessari per convertire la corrente nella tensione richiesta dai forni, quindi l’impianto dovrebbe essere pronto entro la fine del 2023, a poco più di un anno dall’inizio dei lavori.

Una volta messi i funzione i nuovi forni elettrici, saranno testate in parallelo due diverse tecniche di riscaldamento, per trattare circa 4 tonnellate di idrocarburi l’ora con un consumo stimato di 6 megawatt di energia rinnovabile.
Con il riscaldamento diretto viene applicata una corrente elettrica direttamente ai tubi che corrono all’interno del reattore:
Nel secondo approccio, il riscaldamento indiretto, si sfrutta l’effetto radiante di elementi riscaldanti posti intorno ai tubi.

L’unità dimostrativa, integrata in uno steam cracker in funzione a Ludwigshafen, servirà a valutare l’efficacia del processo, da cui ci si attende – a regime – come già detto dai responsabili delle aziende – una riduzione delle emissioni di CO2 di almeno il 90% rispetto alle tecnologie oggi in uso.

Con tale innovazione si ottiene una sensibile riduzione dei costi energetici e soprattutto un fenomenale miglioramento per quanto riguarda l’inquinamento ambientale.

Il progetto, come previsto, è finanziato dal Ministero tedesco dell’Economia e della Protezione del clima attraverso un contributo di 14,8 milioni di euro nell’ambito del programma “Decarbonizzazione nell’industria”, supportato dal fondo NextGenerationEU dell’Unione Europea.

Contemporaneamente LyondellBasell porta avanti l’ingegnerizzazione per costruire l’impianto commerciale di riciclo chimico di materie plastiche presso il sito di Wesseling (Germania), utilizzando la tecnologia proprietaria MoReTec, messa a punto presso il Centro Ricerche Giulio Natta di Ferrara.

Questo impianto di riciclo su scala commerciale trasformerà i rifiuti di plastica pretrattati in materia prima per la produzione di nuova plastica.

I rifiuti di plastica utilizzati sull’impianto di riciclo saranno forniti da una joint venture (Source One Plastic) realizzata tra  LyondellBasell e 23 Oaks Investments, Leiferde in Bassa Sassonia (Germania).

L’impianto della Source One Plastic selezionerà e riciclerà, utilizzando energia eolica e biomassa una quantità di rifiuti di imballaggio in plastica generati da circa 1,3 milioni di cittadini tedeschi all’anno. Questi rifiuti  oggi non vengono riciclati e sono per lo più  inceneriti.

Yvonne van der Laan, vicepresidente esecutivo di LyondellBasell, ha affermato: “ … Stiamo lavorando attivamente per far progredire l’economia circolare … Questa tecnologia differenziale ad alto rendimento ci consentirà di convertire i rifiuti di plastica in olio di pirolisi e gas di pirolisi da utilizzare nei nostri cracker come materia prima per la produzione di nuovi materiali plastici … “.

Queste informazioni rappresentano una ulteriore dimostrazione che “si può” collaborare fra Pubblica Amministrazione e aziende private con diversa mission per raggiungere lo stesso obiettivo, a differenza di quanto sembra accadere da noi dove le uniche notizie relative alla petrolchimica sono quelle che arrivano da Brindisi con la chiusura, ora sembra parzialmente smentita (???), dell’impianto P9T di LyondellBasell oppure, precedentemente, la chiusura dell’unico cracker di ENI Versalis presente nel nord del Paese.

“La Petrolchimica nel nostro Paese non avrà un futuro se non avvierà un ciclo di innovazioni che sappiano affrontare lo strapotere delle grandi aziende del settore, che hanno impianti di enormi dimensioni, con costi delle materie prime sensibilmente inferiori a quelli sopportati dalle nostre aziende”.

Cover: Ludwigshafen (Germania). la multinazionale tedesca chimica e il più grande produttore chimico del mondo.

Parole a capo /
Roberto Dall’Olio: Alcune poesie per mio babbo Orfeo

Roberto Dall’Olio: Alcune poesie per mio babbo Orfeo

Mio padre non mi ha detto come vivere; ha vissuto e mi ha fatto osservare come lo faceva.
(Clarence Budington Kelland)

Sul mezzo traguardo
Del Tourmalet
Mi sono accorto
Di te
Caro babbo
Non c’eri
Mi sono accorto
Freddo
In una stanza
Gelida
In un sacco
Da frigo
Non c’era più
Il tuo solito
Viso
Ho pianto
Non ti riconoscevo
Scavato
Da giorni
Di sole flebo
Gli occhi
Da tempo chiusi
Ora spalancati
Fissi
La bocca aperta
Li ho chiusi
Nei loro abissi

*

le sere d’estate
andavamo
da Siro
al circolo del tennis
fuori San Vitale
aveva una altalena
bellissima
mi legava
lui e il babbo
e mi facevano
volare
è così la vita
gli sentivo dire

*

In campo
Luci soffuse
Nicola Pietrangeli
Novant’anni
Come te babbo
Per festeggiare
Il tennista
My Way
Piaceva tanto
Anche a te
The voice
Vibrante
Calda
Profonda
Tra le due
Sponde
Dell’oceano
Ti ho pensato
Con la tua racchetta
Cecoslovacca
Imparasti il tennis
Da Rossi Amelio
Prigioniero degli Inglesi
Dieci anni
La tua Maxima
Di legno
Che fu la mia
Poi Aznavour
La sua voce
Caucasica
E da Rive Gauche
Piaceva a tutti noi
La mamma tu e io
Che folata
Prima che il silenzio
Se la porti via

*

Il babbo
Aveva due mani
D’oro
Costruiva
I giochi
Per me
Per gli amici
I fucili
Come i pellerossa
Le pistole
I soldatini
I carri armati
Il camion
Del rusco
Le racchette
Da ping-pong
Il puzzle
Più pazzo
Del mondo
Cantava
In bagno
Le fotografie
Le diapo
I film a manovella
Dei tre porcellini
Visti anche
Dai miei bambini

*

Come erano verdi
I tuoi occhi
Babbo
Tingevano la pineta
Della vita
Facevano luce
Nei fondali
Dei giorni spenti
Mi ricordano
Ancora
Quei golfi
Di Oristano
Tharros
L’Inchnusa
Dove siamo
Passati anche
Noi
Con piedi leggeri
Come erano verdi
I tuoi occhi
Babbo
Dei prati alla Drava
erano luce
In cantina
Quando
Si facevano
Le bottiglie
Come dicono
A Bologna
Verdi
Eleganti
Sul letto
Che ha tenuto
Il tuo ultimo
Respiro

*

Mia mamma
Sulla tomba
Sente tutti
Ma proprio
Tutti
Gli anni
Passati col babbo
Le sue lacrime
Fanno vivere
I fiori finti
Del congedo
I nostri cuori
Sono bulbi
Sotterrati
Ogni volta
Nei prati
Del cimitero
Mi dice
Che sono bravo
La tengo su
Di morale

Non sono bravo
Sono suo figlio

Roberto Dall’Olio (1965), bolognese, docente di filosofia e storia al Liceo Classico Ariosto di Ferrara. Ha pubblicato diversi volumi di poesia. E’ del 2015 il poema “Tutto brucia tranne i fiori” Moretti e Vitali editore- nota di Giancarlo Pontiggia postfazione di Edoardo Penoncini – con il quale ha vinto il premio Va’ Pensiero 2015. Con l’editore L’Arcolaio ha pubblicato il poema Irma con note di Merola, Muzic, Sciolino, Barbera e la raccolta di poesie “Se tu fossi una città” con nota di Romano Prodi. Nel 2021 ha pubblicato Monet cieco (Ed. Pendragon), I ragazzi dei giardini, Ed Pendragon, 2022. Ha pubblicato il saggio Entro il limite. La resistenza mite in Alex Langer (La Meridiana, 2000). Redattore della rivista “Inchiesta” diretta da Vittorio Capecchi. Vive a Bentivoglio nella pianura bolognese dove è presidente della sezione locale dell’ANPI. Ogni domenica Periscopio ospita Per certi versi, angolo di poesia che presenta le liriche di Roberto Dall’Olio.

LO SCAFFALE POETICO
Segnalazioni editoriali interne (o contigue) al mondo della poesia.

  •  DORIS BELLOMUSTO, Fra l’Olimpo e il Sud, Poetica Edizioni, 2021
  • AGNESE COPPOLALa sete della sera, La vita felice, 2021

La rubrica di poesia Parole a capo curata da Pier Luigi Guerrini esce regolarmente ogni giovedì mattina su Periscopio. Per leggere i numeri precedenti clicca[Qui]

Intelligenza Artificiale, Ambiente Computazionale, Realtà Aumentata…
Un Nuovo Capitalismo sta espropriando (gratis) tutte le informazioni. E le nostre stesse vite

Intelligenza Artificiale, Ambiente Computazionale, Realtà Aumentata… <br> Un Nuovo Capitalismo sta espropriando (gratis) tutte le informazioni. E le nostre stesse vite.

Dove ci sta portando la potenza inarrestabile della Intelligenza Artificiale guidata da un Nuovo Capitalismo? Concentrazione della ricchezza e del potere, iper-controllo sulle persone, manipolazione sistematica tramite l’ingegneria sociale sono rischi che aumentano man mano che, insieme all’integrazione tecnologica digitale, cresce l’isolamento sociale e la paura. Mai come oggi riprende vigore la fatidica domanda: “Che Fare?” (prima che sia davvero troppo tardi).

C’è un processo globale in corso che non sembra in alcun modo arrestabile [Qui il mio precedente intervento su Periscopio]. Si tratta della  crescita esponenziale del numero di oggetti che vengono connessi alla rete internet mediante i più svariati tipi di sensori. Miliardi di questi dispositivi catturano elaborano ed inviano informazioni che vengono raccolte ed elaborate, per essere quindi utilizzate nei modi più diversi ed originali. 

In maniera un po’ semplicistica  e a lume di senso comune, chiamiamo internet delle cose (IoT) il sistema fisico che consente tutto questo, chiamiamo big data la massa di informazioni digitali che vengono raccolte ogni minuto secondo e chiamiamo  (I.A.) l’insieme di algoritmi implementati su reti di calcolatori sempre più potenti che possono consentire la ricerca, l’organizzazione e l’elaborazione automatica di questa enorme e crescente massa di dati.

Trasformare, partendo da sensori installati ovunque, ogni spazio fisico, dall’interno di una casa (demotica), ad un ufficio (smart office), da una fabbrica (industry 4.0) ad una intera città (smart city), in un “ambiente navigabile” nel quale veder tutto ciò che accade; automatizzare grazie all’informazione elaborata i processi della casa, dell’ufficio, della città (e infine del mondo). Portare l’elettronica in ogni oggetto rigido, non solo nelle cose inerti ma anche anche in ogni cosa elastica e malleabile, negli oggetti del mondo vegetale ed animale: tutto questo rappresenta l’orizzonte della rivoluzione digitale in atto.

Tutto questo indica anche una precisa direzione di sviluppo tecnico che porta i sensori sul e dentro il corpo umano, come già fatto con successo per gli animali domestici e da allevamento, attraverso le tecnologie indossabili e la micro sensoristica (nano bot) associata alle bio tecnologie. 

Se tutto questo è centrale a livello tecnologico e scientifico, esso rappresenta anche l’ultimo territorio di conquista del capitalismo; un territorio – quello digitale –  che era ancora quasi sconosciuto e perfettamente vergine solo 20 anni addietro: un territorio che è stato colonizzato con modalità predatorie che ricordano la conquista violenta del west nord americano e di buona parte del mondo da parte delle potenze coloniali occidentali.
Se al centro di quelle conquiste violente vi era la ricerca della ricchezza monetaria, dell’oro e di risorse materiali preziose, l’acquisizione di nuove terre e la ricerca di nuovi mercati, al centro di questa vi è l’informazione.

Ogni informazione che sia immessa nella rete internet è preziosa: in un certo senso, tutto è informazione, nella misura che ogni cosa può diventare fonte di informazione utilizzabile. Lo è a puro titolo di esempio, il cane dotato di chip e di localizzatole GPS (Qui), il bambino che gioca con il suo giocattolo digitalizzato,  l’anziano collegato al proprio salvavita (Qui), lo sportivo con il suo fitness tracker (Qui), Lo sono ovviamente i PC, gli smartphone, i tablet, i telefoni, le carte di credito e debito; lo sono le telecamere installata sulle piazze e sulle strade, le auto con il loro navigatore , i dispositivi antifurto GPS, e così via.
Il cane dell’esempio cosi come la persona connessa (in qualsiasi modo) sono, in quest’ottica, dei giacimenti dai quali estrarre il bene più prezioso: l’informazione.

E tra questi, giacimenti, il corpo (il nostro corpo) è forse il giacimento di informazione che diventa sempre più importante. Movimenti nello spazio, azioni di manipolazione, parole e scritti innanzitutto; ma anche e soprattutto stati interni del corpo: pressione, battiti cardiaci, temperatura, composizione sanguigna solo per citare i più noti.
Non è eccessivo affermare che già oggi e sicuramente nel prossimo futuro, elaborando questi flussi crescenti di dati, gli algoritmi di Intelligenza Artificiale (pur non avendo reale coscienza) finiranno col conoscerci molto meglio di come noi conosciamo noi stessi.

Il nuovo capitalismo ha saputo trovare modi altamente creativi per estrarre valore economico e soprattutto finanziario dalla gestione di questo mare di dati tradotti in informazioni utilizzabili attraverso gli algoritmi della cosiddetta Intelligenza Artificiale.
Lo attestano in modo esemplare la crescita esponenziale di imprese del mondo digitale come Google e FaceBook e le politiche di acquisizione di tali imprese per accaparrarsi il maggior numero di fonti (ovvero piattaforme digitali molto frequentate) pagandole miliardi di dollari. Il loro successo clamoroso deriva infatti direttamente dalla loro capacità di impadronirsi dei dati generati tecnicamente (dovuti soprattutto agli utilizzatori della rete), elaborarli e tradurli in informazioni che possono essere valorizzate e rivendute.
In particolare, è proprio su questo che si fonda uneconomia predittiva” che estrae conoscenza dal passato per indirizzare al meglio il business del presente e del futuro, un economia capace di anticipare i comportamenti dei consumatori ed orientarne pesantemente degli stessi consumatori.

Ad interessare come giacimento informativo da cui tutto origina, non sono i contenuti delle nostre comunicazioni online ma i dati che attestano i nostri comportamenti in termini di spostamenti, scelte di consumo, orari, luogo reali e virtuali visitati, preferenze; insomma tutto quello che può essere desunto dai nostri comportamenti nel mondo virtuale e dai nostri comportamenti nel mondo “reale” captati attraverso i diversi tipi di sensori.

Nessuna regola sulla privacy – pur indispensabile – può oggi proteggerci seriamente da questo prelievo coatto di informazione. 

Da un punto di vista più sociologico la creazione di un simile ambiente computazionale, (ambiente intelligente), è parte integrante dal processo di liquefazione della società descritto da Zygmunt Bauman. Più precisamente, la digitalizzazione in corso rappresenta propriamente una liquefazione del mondo fisico, un inglobamento del mondo reale (“offline”) nel mondo virtuale (“online”), la trasformazione di quella che poteva essere detta fino a pochi anni fa “realtà sensibile” in una “realtà aumentata” e navigabile tecnologicamente..

Il sistema tecnologico computazionale libera l’informazione espropriata agli umani (miniere di dati) da ogni sua radicamento dalla vita sociale, la sgrava da ogni considerazione morale, politica, valoriate, contestuale, sociale. Essa diventa puro dato tecnico computabile automaticamente. 

Piaccia o meno, da tutto questo – in particolare dalla crescita esponenziale dell’internet delle cose, della potenza computazionale, e dall’Intelligenza Artificiale – derivano alcune conseguenze fondamentali dalle profonde implicazioni sociali, filosofiche ed antropologiche.

La prima riguarda l’aumento proporzionale di creazione di valore finanziario attraverso l’estrazione di informazioni e l’esproprio di dati personali utilizzati per alimentare un economia predittiva, radicata in una società del rischio che è, paradossalmente, iper-organizzata e al contempo descritta (dai media)  come estremamente insicura e pericolosa e come tale percepita dai cittadini. In assenza di rimedi drastici (che non si vedono all’orizzonte) tale processo concentrerà la ricchezza verso l’alto in misura superiore a quanto già succede oggi.

La seconda riguarda l’aumento esponenziale del controllo sui singoli cittadini (meglio: consumatori) con la possibilità non solo di sanzionare e punire ma anche di escludere dal sistema (ad esempio bloccando i conti correnti a fronte di una violazione, o al mancato rispetto di norme imposte dal potere costituito).
Si ha sotto questo duplice profilo un effetto paradossale:  il trionfo dell’iper competizione propria del libero mercato di ispirazione neoliberista e – contemporaneamente – il trionfo del potere coercitivo dello stato sul cittadino.

Una terza conseguenza connessa alla enorme e crescente disponibilità di informazioni in real time elaborabili tramite algoritmi di Intelligenza Artificiale, fa balenare la possibilità di una società basata sulla sperimentazione costante e potenzialmente estesa a tutta la popolazione mondiale; una società caratterizzata da pratiche di ingegneria sociale diffuse, profonde e sistematicamente pervasive.
In tale situazione è la politica stessa che rischia di essere spazzata via, in quanto lenta ed obsoleta, per essere sostituita da decisioni strategiche che possono essere prese in modo più veloce ed efficiente dagli algoritmi dell’Intelligenza Artificiale.

Concentrazione della ricchezza e del potere, iper-controllo sulle persone, manipolazione sistematica tramite l’ingegneria sociale sono rischi che aumentano man mano che, insieme all’integrazione tecnologica digitale, cresce l’isolamento sociale e la paura.

Mai come oggi riprende vigore la fatidica domanda: “Che Fare?” (prima che sia davvero troppo tardi).

Cover: immagine tratta dal sito “Miccia corta”.

Per una Ferrara Futura:
un progetto alternativo con al centro la ripubblicizzazione e la gestione partecipata del servizio rifiuti e del servizio idrico

La scelta del candidato/a da opporre alla destra e ad Alan Fabbri è importante, ma occorre esprimere un programma di fondo per la città realmente alternativo, a partire da una nuova pratica di democrazia e dai beni comuni.  Ora sono in ballo (o lo saranno prossimamente) la gestione del servizio dei rifiuti urbani e di quello idrico. Vogliamo finalmente voltare pagina?

Mancano un bel po’ di mesi alla scadenza elettorale amministrativa del 2024 che coinvolgerà anche il Comune di Ferrara ed è partita, soprattutto sulla stampa locale, la corsa al toto-nomi del possibile candidato/a sindaco, in particolare per quanto riguarda il campo largo del Centrosinistra e della Sinistra.

Ora, non c’è dubbio che tale scelta sia rilevante, sia perché il sistema elettorale relativo ai Comuni assegna al candidato/a sindaco un ruolo molto importante (persino troppo, a mio parere, spingendo in una direzione di personalizzazione che non fa bene alla politica), sia perché le caratteristiche di questa figura, in un contesto come quello ferrarese, dove si tratta di provare a mandare a casa l’attuale Amministrazione di Destra, sono tutt’altro che ininfluenti rispetto a quest’ultimo obiettivo.

Però, sono convinto che partire dalla scelta dal candidato (e troppe volte fermandosi qui) significhi farlo con il piede sbagliato. Non faccio quest’affermazione semplicemente per ribadire un’impostazione che dovrebbe essere acquisizione condivisa, persino un po’ troppo scontata, e cioè che occorre, se non prima, almeno contemporaneamente, esprimere un programma di fondo per la città e il/la candidata che dovrebbe sostenerlo e attuarlo.

Il tema della centralità del programma deriva, prima di tutto, dal fatto che, se si vuole sconfiggere la destra anche a Ferrara, occorre mettere in campo un progetto realmente alternativo,  non solo rispetto alle politiche sbagliate di quest’ultima, ma anche nei confronti della lettura della città e delle scelte compiute nel passato dalle Amministrazioni di centrosinistra.

Se non si supera in avanti l’idea che la partita non è la “rivincita del passato” nei confronti dell’attuale Amministrazione, non si andrà molto lontano. Sia perché  – almeno questa è la mia convinzione – la vittoria alle passate elezioni della destra è più figlia degli errori delle precedenti Amministrazioni di centrosinistra che del “merito” di Fabbri e dintorni, sia perché la destra, in questi anni, ha costruito sì politiche regressive ma anche gestito la sua base di consenso in modo non banale.
Ancor più, le trasformazioni di questi anni e di quelli che ci attendono, da una parte, e la possibilità di rimotivare e far nuovamente tornare ad essere protagoniste le persone, a partire da quelle che più hanno subito i colpi della “policrisi”, dall’altra, impongono la necessità di tornare a dotarsi di un forte e strutturato progetto di futuro per la città, capace di darsi uno sguardo lungo e innovativo. Non si tratta tanto di pronunciare autocritiche, che lasciano il tempo che trovano, quanto piuttosto di avanzare idee e proposte realmente in grado di andare alla radici dei problemi aperti, ragionare con un punto di vista aperto e nuovo, supportando tutto ciò con la costruzione di una forte partecipazione dei cittadini, facendo leva anche sui segnali di risveglio sociale e civile che, per fortuna, abbiamo visto all’opera anche a Ferrara da un po’ di tempo in qua.

Non intendo certo cimentarmi con l’insieme di questo “ vasto programma”. Molto più limitatamente, mi interessa affrontare un tema specifico, quello della gestione dei servizi pubblici locali, che però può essere assunto come cartina al tornasole del ragionamento più generale cui ho accennato sopra.
É questo un tema fondamentale rispetto all’idea di futuro della città, perché rimanda alla alternativa tra un ruolo pubblico (e partecipativo) più forte per costruire legami sociali, idea di comunità, costruzione di spazi non soggetti alla logica del mercato e la spinta contraria alla privatizzazione e agli interessi aziendali e di profitto dei soggetti a questi orientati.

Porre il tema della gestione dei servizi pubblici locali  significa anche ripensare e correggere le politiche portate avanti dalle passate Amministrazioni di centrosinistra – come dall’attuale Amministrazione regionale guidata da Bonaccini – che hanno aperto al modello misto pubblico-privato, a partire dalla gestione dei nidi comunali, e pensato ai dipendenti comunali come costo da abbattere, seguendo una vulgata di stampo neoliberista, per cui il ruolo pubblico doveva necessariamente restringersi. Ovviamente, questa strada è stata perseguita con ancora maggior forza dall’Amministrazione di destra, che ha applicato tale ricetta anche all’esternalizzazione delle biblioteche comunali.

Oltre a questi servizi, ora sono in ballo (o lo saranno prossimamente) la gestione del servizio dei rifiuti urbani e quello idrico.

Sulla gestione del servizio dei rifiuti urbani, ho già avuto modo di soffermarmi su questo stesso quotidiano (leggi qui) e non ho nulla da aggiungere, se non che le decisioni in proposito sarebbe meglio affidarle alla prossima Amministrazione, senza fare fughe in avanti oggi, e che l’opposizione dovrebbe pronunciarsi con maggiore chiarezza sulla questione.

Vale invece la pena di approfondire il tema della gestione del servizio idrico. Sapendo che è un tema decisamente più complesso di quello della gestione del servizio dei rifiuti, per almeno 3 motivi.
Il primo è che alla scadenza delle concessioni, si tratta di costituire un’unica azienda di dimensioni provinciale. Questa scelta è imposta ancora dal Decreto SbloccaItalia del 2014 che ha previsto questo dispositivo, in una logica di accorpamento dei soggetti gestori con l’implicito “invito” ad un rafforzamento delle privatizzazioni. Ora, il servizio idrico vede la gestione di Hera spa nel comune di Ferrara e nell’Alto Ferrarese, mentre il Basso Ferrarese è interessato dalla gestione di CADF, una spa a totale capitale pubblico. Entrambe queste concessioni scadono alla fine del 2027, sulla base di una recente e pessima legge regionale, che ha disposto l’allungamento degli affidamenti in essere, giusto per fare un grande favore a Hera e Iren, che sono i maggiori protagonisti del servizio idrico in regione.

In secondo luogo, le risorse da mettere in campo per la gestione pubblica sono, da una parte, più rilevanti rispetto a quelle relative al solo servizio dei rifiuti del comune di Ferrara, ma, dall’altra, ci si può avvalere sia del ruolo di CADF sia di quello di ACOSEA (l’ azienda proprietaria delle reti idriche del Comune di Ferrara e di altri Comuni, in particolare dell’Alto Ferrarese), entrambe società pubbliche.

Terzo motivo, quello politicamente più rilevante, a fine 2027 si dovrà decidere tra l’alternativa secca della messa a gara del servizio (e cioè la sua privatizzazione, con un prevedibile ruolo decisivo di Hera),oppure della gestione totalmente pubblica del territorio provinciale.

Ci tengo a sottolineare quest’aspetto: all’ordine del giorno non ci sarà la ripubblicizzazione del servizio, ma la scelta tra privatizzazione o gestione pubblica, avendo peraltro alle spalle l’esito del referendum del 2011, che riempe tale opzione di un chiaro significato di rispetto della volontà democratica. Tutto ciò mi porta a dire che il percorso decisionale a questo proposito dovrà essere messo in campo già all’inizio della prossima consiliatura, non aspettando certamente la fine del 2027, e, quindi, sarà bene che i prossimi programmi per la scadenza elettorale di Ferrara si occupino di ciò. Anche perché occorre indicare in modo preciso se si intende o meno sviluppare un reale percorso partecipativo, non come è stato fatto in tema di gestione del servizio dei rifiuti di Ferrara, dove abbiamo assistito ad una forte tiepidezza da parte della passata Amministrazione di centro-sinistra e ad un sostanziale ostruzionismo da parte dell’attuale Amministrazione.

Insomma, la difesa dei beni comuni e la loro gestione pubblica e partecipata rappresentano uno snodo fondamentale per l’idea del futuro di Ferrara, per dare ad essa un ruolo forte nel delineare un profilo di città che sceglie la transizione ecologica e il rafforzamento dell’intervento pubblico anche a tale fine. Materia per discutere e per dire da che parte si vuole stare ce n’è in abbondanza.

Per leggere gli altri articoli ed interventi di Corrado Oddi su Periscopio, clicca sul nome dell’autore.

Ferrara Film Festival – Day 3
Omaggio al 40° anniversario di “Scarface” con Steven Bauer, première di “Gran Turismo”, ancora corti

Ancora novità al Ferrara Film Festival:  la retrospettiva “Scarface”, la première di “Gran Turismo” e ancora alcuni cortometraggi interessanti.
Il FFF8 continua e noi di Periscopio continuiamo a seguirlo.
Leggi il Day 1 e Day 2

Lunedì 18 settembre, il programma del Ferrara Film Festival, quest’anno ricchissimo, è continuato con la première italiana di “Gran Turismo – La storia di un sogno impossibile”, del sudafricano Neill Blomkamp, in uscita al cinema il 20 settembre.

Dal videogioco cult alla pista, il lungometraggio, targato PlayStation Productions, ha un cast di eccezione: David Harbour, Orlando Bloom, Archie Madekwe, Darren Barnet, Emelia Hartford. È la storia vera di Jann Mardenborough, un adolescente appassionato di Gran Turismo, il celebre videogioco di corse automobilistiche che ha un sogno: possedere una vera auto da corsa e diventare un pilota professionista. Un sogno difficile da realizzare per un adolescente di umili origini. La sua occasione arriva grazie a un contest in cui i migliori giocatori di Gran Turismo si sfidano su vere auto da corsa. Storia di una passione consumata tra le mura di una cameretta a Cardiff, storia di un’ascesa.

La Première cinematografica è stata preceduta dal cortometraggio “Sir”, diretto da Maurizio Ravallese, un’opera che usa la magia come espediente per parlare delle relazioni umane-familiari e la malattia, con forza e grande intensità.

Maurizio Ravallese, foto Valerio Pazzi

“Sir “è un fantasy di campagna moderno, sul tema della malattia che si insinua nelle vite di una famiglia, come purtroppo spesso accade, colpendo la nonna, membro più fragile e delicato. Il padre di famiglia è uno sciamano, capace di curare quasi ogni male, fisico o spirituale, ma questa volta non può nulla. Magia, riti di guarigione che nessuno mette in dubbio, ma che questa volta non funzionano, impotenza, forte dicotomia corpo-spirito, paesaggi freddi e selvaggi tendenti al blu e grigio-calore di casa, pur sofferente, dalle tonalità giallo-arancione.

Il regista affida il compito di apprendista strega alla figlia del protagonista, che grazie alla sua curiosità e ingenuità, riesce a curare la nonna. Questo perché lei ha il potere più grande e sacro di tutti: quello del perdono. Interessanti i giochi di luce e la fotografia.

A seguire, un altro corto, “Soluzione Fisiologica”, diretto da Luca Maria Piccolo, vincitore dell’“Adriatic Film Festival 2023”, categoria Best Actor, Best Editing e del “Cinema Secondo Noi 2023″, categoria Best Short Film, Best Actress, in concorso ai David di Donatello nel 2023 e vincitore della 24/a edizione del Lucania Film Festival 2023. Recentissima menzione speciale al Factory Film Festival di Bari.

Interpretato da Stefano Accorsi, Paola Minaccioni e Edoardo Purgatori, quella che sembra un’ordinaria telefonata tra un uomo e un sex worker nasconde un intento più complesso. Un gesto di profonda comprensione, un atto di amore incondizionato.

Un altro ospite di fama internazionale, l’attore Steven Bauer, è stato protagonista dell’evento “Meet the Stars” alle 21.30, al Teatro Nuovo, in cui ha dialogato con il produttore Edward Walson, ricordando la propria esperienza sul set di “Scarface”.

A seguire, proprio il capolavoro diretto da Brian De Palma, con Al Pacino, Steven Bauer, Michelle Pfeiffer, è stato proiettato con una retrospettiva che ne celebra il quarantesimo anniversario dalla sua uscita nelle sale cinematografiche. Il gangster-movie che racconta l’irresistibile “carriera” di Tony Montana, lo sfregiato: da piccolo delinquente cubano a boss della malavita e del traffico di droga negli States. Capolavoro che tutti conosciamo.

Foto in copertina di Valerio Pazzi

Parole e figure /
Nasce “Babalibri in Musica”: in anteprima su Periscopio “La zuppa di sasso”

Esce a fine settembre la nuova collana della casa editrice milanese Babalibri: “Babalibri in Musica”,  un’intelligente unione fra lettura e musica classica. In anteprima su Periscopio “La zuppa di sasso”.

Alcuni classici del catalogo di Babalibri combinati con musica classica d’eccellenza eseguita dal vivo e il gioco è fatto, ecco una bella e piacevole fiaba musicale, letta da attori professionisti e che può essere ascoltata tramite un QR code presente nel libro.

È “Babalibri in Musica”, un’esperienza di ascolto totalmente nuova e che promuove la relazione fra modalità espressive diverse e complementari: due narrazioni differenti, unite armonicamente in un’unica forma di ascolto, si alternano, dialogano, guidano il bambino in un viaggio in cui parole e suoni, ritmi e colori si mescolano, dando vita a un’esperienza insieme poetica, musicale e visiva. Un progetto di grande qualità e sensibilità.

La direzione della collana è affidata a Maria Cannata, che da anni lavora nel mondo della letteratura per l’infanzia occupandosi, in particolare, della creazione di fiabe musicali.

Importanti i nomi degli attori professionisti che partecipano all’iniziativa: Giuseppe Cederna, Anna Bonaiuto, Marina Massironi, Angela Finocchiaro, Alessia Canducci.

Lo stesso dicasi dei musicisti: Riccardo Schwartz, Irene Veneziano, Carlo Bernava, Andrea Dussò, Caterina Di Domenico, Rachele De Maria.

Il primo volume in musica, in uscita il 29 settembre, è “Sulla mia testa”, scritto e illustrato da Emile Jadoule, 44 pagine colorate animate da Gaspare, l’uccellino che si sistema sulla testa di Gastone e non se ne va più. Sta troppo bene lì. E il fatto più strano è che nessun altro sembra vederlo.

Una storia di amicizia, un’avventura lieve e profondissima nei pensieri e nelle emozioni di un bambino, dove le “Bagatelle” di Ludwig van Beethoven, eseguite da Irene Veneziano, conducono l’ascoltatore attraverso una vasta gamma di stati emotivi, gli stessi che abitano, di momento in momento, i pensieri di Gastone. Emozioni su emozioni.

La voce di Angela Finocchiaro sorride lieve e dà corpo a questo personaggio apparentemente piccolo piccolo, in realtà capace di fare quello che gli altri non ricordano più: per fare magie e superare paure e costruire amicizie, basta davvero poco, solo un po’ di immaginazione.

Il secondo volume in musica, sempre in uscita il 29 settembre, è “Una zuppa di sasso”, 34 pagine, scritto e illustrato da Anais Vaugelade.

In un paesaggio innevato, sullo sfondo grigio di un cielo notturno, un vecchio lupo bussa alla porta di una gallina. Tiene sulla schiena un grosso sacco. La gallina apre la porta, il lupo le chiede ospitalità… Con garbo e intelligenza, il lupo riuscirà a ottenere una zuppa che sfamerà l’intero villaggio durante una grande cena in cui i pregiudizi lasceranno spazio a un nuovo senso di amicizia. Anche qui sentimenti potenti.

La voce di Alessia Canducci scandisce il ritmo di questa storia e fa vivere ognuno dei personaggi lasciando intravedere le loro paure, i loro pensieri, la loro spensieratezza. E poi c’è la musica di Edvard Grieg, tratta da “Pezzi lirici”, eseguita da Andrea Dussò, che segue il passo lento del lupo, accompagna, anticipa e contiene ogni momento. Aggiunge un nuovo percorso di ascolto che permette di andare più in profondità e insieme di librarsi più su a cogliere, ancora prima di leggerla in quel finale così commovente, l’armonia che è sottesa a tutte le cose.

 

Per ascoltare l’audio di “Una zuppa di sasso” in anteprima: QUI

ÉMILE JADOUL

Nasce ad Avennes, in Belgio, nel 1963. Si forma all’École Supérieure des Arts Saint-Luc di Liège. Vive in una casa in mezzo al bosco circondato da conigli, volpi e persino orsi. Quando non disegna nel suo atelier, tiene corsi di illustrazione.

ANAÏS VAUGELADE

Nasce a Parigi nel 1973. Dopo aver vissuto a lungo in campagna, torna a Parigi, dove segue i corsi di una scuola d’arte. Racconta e illustra storie “tenere e impertinenti, storie imprevedibili come i bambini”.

 

Libri per bambini, per crescere e per restare bambini, anche da adulti.
Rubrica a cura di Simonetta Sandri in collaborazione con la libreria Testaperaria di Ferrara

Quando a tentare di togliersi la vita sono i giovanissimi:
Nel 2022 sono state quasi 6.000 le richieste d’aiuto arrivate a Telefono Amico Italia

Oltre 3.700 sono state le richieste d’aiuto per gestire pensieri suicidi in sei mesi, il 37% in più rispetto al primo semestre del 2022. È quanto emerge dai dati diffusi da Telefono Amico Italia, che dal 1967 offre supporto a chi si trova in un momento di crisi, soprattutto per prevenire gesti estremi, in occasione della recente Giornata Mondiale per la Prevenzione del Suicidio, che si è svolta domenica 10 settembre.

Segnalazioni che sono arrivate prevalentemente da giovani tra i 19 e i 35 anni (il 18% tra i 26 e i 35 e il 17% tra i 19 e i 25) e da adulti tra i 46 e i 55 anni (il 16%), ma negli ultimi anni è stato registrato un aumento di contatti anche da parte dei giovanissimi (under 19) che chiedono aiuto soprattutto via Whatsapp e mail. Lo scorso anno sono state raccolte da Telefono Amico Italia quasi 6.000 richieste d’aiuto da parte di persone attraversate dal pensiero del suicidio o preoccupate per il possibile suicidio di un proprio caro. Si tratta di un numero enorme che, se prosegue la tendenza dei primi sei mesi del 2023, si rischia di registrare un ulteriore aumento. D’altra parte la stessa ISTAT, seppur con con dati del 2021, ci dice che la percentuale di adolescenti in cattive condizioni di salute mentale è passata dal 13,8% nel 2019 al 20,9%.

 A confermare tale emergenza è anche l’Ospedale pediatrico BAMBINO GESU’ di Roma, che dichiara di aver registrato ben 387 casi nell’ultimo anno per tentato suicidio e ideazione suicidaria tra i giovani e i giovanissimi. 15 anni l’età media e il 90% sono ragazze. Nel 2022 le consulenze neuropsichiatriche effettuate al pronto soccorso del Bambino Gesù sono state complessivamente più di 1500. Ogni giorno almeno 4 tra bambini e ragazzi accedono in emergenza per problematiche mentali. I ricoveri nel reparto protetto di Neuropsichiatria, dove vengono gestiti i casi più complessi, sono stati 544 (+10%). Il 70% di queste ospedalizzazioni ha riguardato casi di ideazione suicidaria o di tentato suicidio.

La depressione e i disturbi d’ansia tra i giovanissimi – come è stato sottolineato nel recente convegno sull’emergenza neuropsichiatrica, promosso a Roma dall’Ospedale pediatrico Bambino Gesù in occasione della Giornata Mondiale della Prevenzione del suicidio, che ha visto la partecipazione di pediatri, neuropsichiatri, esperti di salute mentale e rappresentanti delle istituzioni – sono in aumento esponenziale da anni e i numeri altissimi di Telefono Amico Italia (02 2327 2327) e del Bambino Gesù ci dicono che siamo di fronte a una vera e propria emergenza psichiatrica, aggravatasi in particolare dopo l’esperienza traumatica della pandemia.
I problemi di salute mentale per cui i ragazzi vengono portati in urgenza in un pronto soccorso pediatrico sono sempre di più legati all’autolesionismo messo in atto fin da bambini. È un dato che colpisce e che testimonia una sofferenza psicologica dei ragazzi che non va ignorata ma che ancora non trova sufficiente ascolto e risposte adeguate.

Come intervenire tempestivamente per aiutare i ragazzi in difficoltà?

Dobbiamo fare attenzione ad alcuni importanti segnali.
Si dovrebbe fare attenzione se il soggetto non riesce a seguire le attività scolastiche – spiega Maurizio Pompili, Professore Ordinario di Psichiatria presso Sapienza Università di Roma e Direttore della UOC di Psichiatria presso l’Azienda Ospedaliero-Universitaria Sant’Andrea di Roma -, se non si applica negli sport, è ritirato dagli amici, dagli affetti, ha problematiche somatiche non ben identificabili, fa uso di sostanze in maniera importante. Bisognerebbe, inoltre, cercare di avere l’aiuto dei compagni. È importante istruire i giovani a riconoscere tra i loro pari la persona che ha bisogno d’aiuto. Bisognerebbe fare anche attenzione alle verbalizzazioni: frasi come “a che serve vivere”, “non ce la faccio più”; all’alterazione delle abitudini, ad esempio quelle del sonno (sonno disturbato, insonnia o ipersonnia); all’aumento del consumo d’alcool. Infine, bisogna prestare attenzione a cambiamenti d’umore: se un soggetto precedentemente angosciato appare improvvisamente risollevato, come se avesse risolto i suoi problemi dall’oggi al domani, potrebbe aver preso la decisione di suicidarsi. Ha capito come risolvere il suo problema nel modo più estremo”.

Non sono poche le associazioni costituite in questi anni in memoria di adolescenti e giovani morti suicidi che si adoperano per cercare di tendere una mano a chi sta male e non sa a chi chiedere aiuto. Sabina Pignataro (sull’edizione online della rivista Vita) ha raccolto i numeri utili da chiamare, ma soprattutto dato parola ad alcuni genitori: [Vedi qui]  

Ferrara Film Festival – Day 2. Tanta Ferrara nella serata di Lucrezia

Day 2.  Storie, storie e ancora storie. Tanti film e volti noti e meno noti sfilano sulla passerella del FFF8, c’è molta Ferrara. Alcuni cortometraggi da ricordare. E poi lei, Lucrezia.

Dopo una grande apertura nel segno di Giancarlo Giannini [leggi su Periscopio il Day 1], la kermesse estense porta molte sorprese, e nelle proiezioni del pomeriggio del secondo giorno c’è davvero tanta Ferrara. Non solo in termini di pubblico, numeroso e molto attento, ma fra i registi, gli attori e la città stessa che fa da splendida e incantevole scenografia a racconti che trattano dai temi sociali a quelli più storici, se pur in chiave ironica. Magnifica cornice.

A salire sul palco, Anna Elena Pepe, Sebastian Maulucci, co-registi del cortometraggio “Miss Agata” (Anna Elena interpreta anche la protagonista), con gli attori Andrea Bosca e Yahya Ceesay, il registra teatrale Massimiliano Piva e l’aiuto regista Francesco Meatta.

Anna Elena Pepe e il team di “Miss Agata”, foto Valerio Pazzi

La “comedy-drama”, che ha appena vinto il ‘Premio Starlight International Cinema Award’ come migliore sceneggiatura a Venezia 80, affronta, con il sorriso tipico della commedia all’italiana, temi sociali importanti: le donne e il dolore del trauma dopo una violenza (il ‘disturbo da stress post traumatico’), la paura, l’incapacità a ricostruirsi una vita normale, l’indifferenza delle istituzioni e l’incapacità della società ad affrontare temi che non fanno notizia. Ci sono poi i pregiudizi verso gli immigrati, gli stereotipi, ma anche tanta dolcezza nella musica che sa di casa e che fa ballare, per un attimo spensierati, per la strada. Per le vie di una città di Ferrara che è bellissima e che prende e restituisce una luce diversa. Di Anna Elena Pepe vi abbiamo parlato, non resta che seguirla con attenzione…

Eccoci allora ad una delle première europee più attese: “Tre storie in bottiglia”, la vera sorpresa della giornata. Il regista ferrarese – romano d’adozione – Giuseppe Gandini, con, fra gli altri (ci sono una trentina di attori, fra i quali molti concittadini), Massimo Olcese, Ignazio Oliva e Christian Borromeo, ci conduce in una magica ‘enoteca’ dove le bottiglie di vino raccontano storie: la’‘enobreria’, brillante trovata, lasciateci dire.

Giuseppe Gandini e il team di “Tre storie in bottiglia”, foto Valerio Pazzi

Due avventori e l’Oste (interpretato dallo stesso Gandini) assaggiano tre vini diversi e, magicamente, tre storie iniziano a intrecciarsi lentamente.

Il regista, racconta sul palco con i suoi attori, ha ultimato il suo progetto dopo sei anni di raccolta fondi, tre anni di riprese e due anni di pandemia, che non lo hanno fermato.

Il protagonista principale del lungometraggio è il vino, il suo colore, il suo odore, il suo sapore, la sua forza. Un prodotto versatile e autentico perché viene dalla terra, è fatto dell’uomo e l’uno narra dell’altro. Il vino aggrega, fa parlare, dialogare, comprendere, sognare, innamorare, ha tanto da raccontare. Parla di gusto, di svago, di lavoro, di amicizia e di amore. Con la stessa intensità.

Il film contiene tre episodi che, pur slegati, si intrecciano nella narrazione, episodi, peraltro, girati in tempi diversi (2019, 2021 e 2022), anche perché i fondi e le riprese in aziende e consorzi vinicoli sono arrivati gradualmente.

“Il primo episodio è stato girato a Montefalco, grazie al Consorzio del Sagrantino e alla Regione Umbria”, ha raccontato Gandini in un’intervista. “Per il secondo ho trovato un imprenditore toscano vicino a Pisa, nel Chianti; il terzo invece, con un finanziamento privato, sono riuscito a girarlo a Castello di Torre in Pietra, vicino a Roma”.

La trama dei tre episodi? Il primo narra la storia di un brillante fotografo alla ricerca della foto perfetta e difficilissima, l’occasione della vita, che, come oggetto, avrà l’odore del vino. Nel secondo, il protagonista è un giovane rampollo di famiglia (i Cinciallegra) che attraverso un’obbligata esperienza in vigna, cambierà la sua visione del mondo. Il terzo è una storia romantica fra non più giovanissimi, una sorta di moderno ‘Romeo e Giulietta’ fatta di tenerezza e romanticismo. Tutto a lieto fine. Assolutamente da vedere.

Interessante poi il cortometraggio “Un cuore, due colori”, di Marco Maraniello (sul palco i due attori protagonisti Alessandro Orrei, Francesco Piccirillo), che precede l’ultima première cinematografica della serata.

Una storia intensa, coinvolgente e commovente che racconta di Gennaro (Francesco Piccirillo) e Lorenzo (Alessandro Orrei, noto al grande pubblico per il ruolo di Mimmo nella fiction “Mare fuori”), due ragazzi diversi, agli antipodi, conosciutisi grazie ai social, che, a Napoli si trovano, apparentemente, su due fronti opposti. Juventus vs Napoli, agio vs disagio, Posillipo vs Quartieri Spagnoli, spensieratezza vs complessità, ricchi vs poveri. A unirli la passione per il pallone, una partita di calcetto dove, alla fine, sportivamente, ci si scambia la maglietta e il fischietto. Il match, infatti, non li vede totalmente contrapposti: Gennaro, a causa di una malformazione cardiaca, è costretto ad arbitrare.

Team di “Un cuore, due colori”, foto Valerio Pazzi

Ma i fronti sono opposti solo apparentemente. L’amicizia e il destino uniranno i due lembi di un incredibile e tragico disegno. Verso lo stesso cuore generoso, dove ci si salverà insieme, dove la ricchezza e il benessere serviranno a ben poco. Il corto è in corsa per il David di Donatello 2024. Gli auguriamo buona e immensa fortuna.

Infine, al suo debutto sul grande schermo, “L’incantevole Lucrezia Borgia (Première Event) di Marco Melluso e Diego Schiavo, con Tullio Solenghi e Lucrezia Lante della Rovere, che racconta l’appassionante storia di Lucrezia Borgia d’Este, donna tormentata da scandali e pettegolezzi e per secoli ritenuta simbolo di crudeltà e amoralità.

Ve ne avevamo accennato durante le riprese, oggi finalmente lo vediamo. Grande curiosità.

Il film è divertente, racconta la vita di Lucrezia, figlia del cardinale spagnolo Rodrigo Borgia (il futuro papa Alessandro VI), come una telenovela moderna, con tanto di telefonini, social e like. L’originalità, a parte la stessa colorata e vivace modalità narrativa, sta nella riscoperta del personaggio di Lucrezia, dello svelare la manipolazione cui tutta la sua vita è stata oggetto, da parte di una famiglia ingombrante e intrigante, i Borgia, del suo essere vittima di interessi e giochi di potere superiori, di cui lei è stata, spesso inconsapevole, pedina.

Lucrezia & team, i registi Marco Melluso e Diego Schiavo, foto Valerio Pazzi
Lucrezia Lante della Rovere, foto Valerio Pazzi

La sua bellezza ed eleganza l’hanno condotta a matrimoni combinati voluti da altri, le stesse, insieme alla sua generosità, che hanno salvato la città, ai tempi del matrimonio con Alfonso d’Este, della guerra scatenatasi fra la Francia e il papato di Giulio II (lo spietato e temuto avo dell’attrice, Giuliano della Rovere) e dell’amicizia con l’umanista Pietro Bembo.

Tanta storia raccontata con il sorriso e resa intellegibile al grande pubblico.

E poi si vede tanta Ferrara, soprattutto dal cielo, bellissima nelle sue geometrie regolari. Una piacevole riscoperta anche per i ferraresi.

Foto di Valerio Pazzi

100 anni con Lorenzo Milani. Un incontro per conoscerlo meglio. Attraverso le sue lettere

100 anni con Lorenzo Milani. Un incontro per conoscerlo meglio. Attraverso le sue lettere.

Alla canonica di Sant’Agostino di Ferrara si è tenuto un interessante incontro dal titolo “100 anni con Lorenzo Milani… un cammino che continua”.
Di fronte ad una platea di un centinaio di persone, sono intervenuti Nicola Martucci, presidente provinciale Azione Cattolica, Cristiano Zagatti, sindacalista CGIL ex segretario della Camera del Lavoro di Ferrara, Gian Carlo Perego, Arcivescovo di Ferrara e presidente di “Migrantes” e  Luisa Ghezzo, insegnante.

Il centenario della nascita del priore di Barbiana incrocia un altro centenario, la morte di don Giovanni Minzoni di Argenta, assassinato dalle squadracce fascisteSe per Giovanni Minzoni è stata aperta la causa di canonizzazione, per Lorenzo Milani no. Come don Minzoni, anche don Lorenzo è stato un profeta che ha lavorato sulla parola, un anticipatore, un facilitatore, un maestro.

Lettere di Lorenzo Milani, a cura di Michele Gesualdi, prefazione del Cardinale Matteo Zuppi, San Paolo Edizioni, 2023

L’occasione del centenario è per tutti motivo di conoscerlo meglio nella sua autenticità. Don Milani non va citato, ma rilanciato e vissuto.
Qual è la teologia di don Lorenzo?
Ce ne si accorge leggendo alcune sue lettere che sono state condivise durante la serata, perché è vero che tanto è stato scritto su di lui, ma per approfondire il suo pensiero, per capire il vero don Lorenzo credo sia fondamentale la sua corrispondenza, le tante lettere da lui scritte durante la sua breve vita.

La pubblicazione dell’opera omnia del 2017 dei Meridiani Mondadori ha raccolto oltre un migliaio di lettere che si possono dividere in due gruppi: quelle scritte ai famigliari e quelle indirizzate ad un esteso gruppo di corrispondenti. Di quelle lettere, nel 1973, la madre Alice curò una raccolta che ne conteneva 175.
Proprio le parole della mamma ci hanno guidato nella preparazione di questo incontro: “Tanti hanno scritto della durezza, dell’ironia, della spietatezza di mio figlio, uomo e prete e per un verso hanno ragione … voglio che Lorenzo sia conosciuto meglio, che si dica anche della sua allegrezza. Mi preme che si conosca il prete, quel sacerdote unico che Lorenzo è stato … mi preme che si sappia la verità, che si renda onore alla Chiesa anche per quello che lui è stato nella Chiesa; e che anche la Chiesa renda onore al lui… quella Chiesa che lo ha fatto tanto soffrire, ma che gli ha dato il sacerdozio e la forza di quella fede che resta per me il mistero più profondo di mio figlio… Se non si comprenderà il prete che Lorenzo è stato, difficilmente si potrà capire di lui anche il resto.

Don Lorenzo ha scritto un solo libro, Esperienze Pastorali, perché il più famoso Lettera ad una professoressa è frutto della scrittura collettiva della Scuola di Barbiana. Anche il volume L’obbedienza non è più una virtù è la raccolta dei documenti del processo di don Milani in riferimento alla lettera che scrisse ai cappellani militari.

Il primo ospite, il professor Nicola Martucci, espone brevemente il contesto storico in cui visse don Lorenzo: nasce il 27 maggio del 1923 a Firenze, dove entra in seminario nel novembre del 43 e viene ordinato prete a luglio del 1947. L’epoca in cui don Lorenzo matura la sua vocazione e sceglie di perseguirla corrisponde al termine del secondo conflitto mondiale e alla successiva ricostruzione nazionale: un tempo in cui la chiesa vive, grazie al suo ruolo peculiare in tale ricostruzione (presenza nell’assemblea costituente, partito guida del paese di matrice cattolica la Democrazia Cristiana, presenza capillare sul territorio grazie al sistema delle parrocchie e alla vitalità dell’associazionismo laicale) il sogno di una nuova cristianità. Questo progetto di una società fondata sui valori cristiani e caratterizzata da una cultura dominante che prende spunto dagli stessi valori si infrange sulla realtà dei mutamenti sociali che presto investono anche l’Italia.

Con il processo di modernizzazione e sviluppo industriale crescono, soprattutto in certe zone del paese e in determinati ceti sociali, benessere e reddito. Don Lorenzo dal 7 dicembre del 1954 viene mandato “in esilio” a Barbiana dal cardinale Florit. Qui decide di prendersi cura dei poveri figli degli abitanti del piccolo borgo sulle montagne fiorentine.
Il 28 ottobre del 1958 è eletto papa Giovanni XXIII, che da pontefice inatteso e visto dai più come “di passaggio”, si rivela il grande visionario che decide e da avvio al Concilio Vaticano II, convinto, grazie alla sua esperienza “cattolica” di Chiesa che fosse necessario un “aggiornamento” nella vita della Chiesa e della sua azione pastorale, e che fosse oramai improcrastinabile un cambio di paradigma nella relazione fra la Chiesa e il mondo.
Giovanni XXIII inizia un processo che porta la Chiesa universale a guardarsi allo specchio, a cercare le sue origini per chiarire la propria identità e potere così dialogare al meglio con il mondo nel quale vive e che rappresenta luogo di manifestazione e di salvezza di Dio.

Durante l’incontro vengono citati alcuni  contemporanei di don Milani e a lui legati, tra i quali un altro prete “scomodo”, don Primo Mazzolari. Cremonese, calato a pieno nel suo tempo. Don Mazzolari visse il suo ministero mettendo al centro temi di grande attualità e pregnanza evangelica come l’amore verso i poveri, l’attenzione ai “lontani”, la vita e l’identità della Chiesa, la pace.
Si da lettura della lettera indirizzata a don Piero, in cui Lorenzo risponde all’amico prete che per lui era impossibile, come gli avevano chiesto, difendere i padroni industriali, mentre i lavoratori erano privi di diritti. Porta l’esempio di uno dei suoi ragazzi che ha cominciato a lavorare a dodici anni nell’industria tessile a Prato, senza assicurazione, esposto agli infortuni, con un orario di lavoro di dodici ore.

Il sindacalista Cristiano Zagatti parla di una sua passata esperienza in cui ha incontrato per diverso tempo gli studenti delle scuole superiori. In quelle occasioni rimase molto stupito nel vedere l’ignoranza dei ragazzi sull’esistenza dei diritti dei lavoratori e sulla possibilità di espressione nei luoghi di lavoro.
Per spiegare loro come affrontare il mondo una volta fuori dalla scuola, utilizzò argomenti concreti, partendo dal vissuto dei ragazzi stessi: riflessioni sull’organizzazione del loro istituto (i rappresentanti degli studenti e dei genitori, ad esempio) o la programmazione della rete dei mezzi di trasporto a disposizione degli studenti e così via. Così come si affrontano i problemi scolastici attraverso i rappresentanti di istituto, il sindacato è luogo in cui l’unione è il mezzo per affrontare i problemi dei lavoratori.

L’intervento del vescovo Gian Carlo Perego è introdotto dalla lettura della lettera ai sacerdoti della Diocesi fiorentina, indirizzata, per conoscenza, anche al Cardinale Florit. In questa lettera, scritta a quattro mani con don Bruno Borghi (che sarà il primo prete operaio italiano), i due prelati esprimono profondo dissenso per le dimissioni non motivate di mons. Bonanni dal suo incarico di rettore del Seminario Maggiore di Firenze.

Il vescovo Perego, riprendendo il contesto già spiegato da Martucci, ricorda  alcuni testimoni chiave del momento storico in cui operò don Milani: Giorgio La Pira, allora sindaco di Firenze, don Primo Mazzolari, il presbitero intellettuale ed editore Ernesto Balducci e don Bruno Borghi. Queste persone, nonostante la Chiesa istituzionale fosse composta da cardinali non proprio aperti a quello che il Concilio Vaticano andava facendo, Costituivano nella Firenze di quel tempo un laboratorio di pensiero e di apertura al dialogo che dovrebbe vivere anche oggi: la capacità di coinvolgere i laici.  Il vescovo Perego porta come esempio il sindaco La Pira, che nella costruzione di nuovi quartieri di Firenze, si preoccupava di edificare prima i centri di aggregazione, di cultura e i servizi, poi le case, progettate a non più di quattro piani, per favorire il senso di comunità tra le famiglie.

Nell’ultimo intervento Luisa Ghezzo, parla del progetto Erasmus, a cui ha partecipato a Parigi, nel 2002. Di primo acchito ci si potrebbe chiedere come questa esperienza possa essere inerente alla metodologia di Don Lorenzo Milani. Leggendo però le lettere, ci si rende conto come Il priore di Barbiana, insegnando ai suoi ragazzi le lingue europee per mandarli in viaggi studio-lavoro nelle città d’Europa e non solo, sia stato un precursore del progetto Erasmus.

Il nome del programma deriva dall’umanista e teologo olandese Erasmo da Rotterdam (1466/69-1536), che viaggiò diversi anni in tutta Europa per comprenderne le differenti culture. L’idea di permettere lo scambio tra studenti europei ebbe origine nel 1969, grazie all’intuizione dell’italiana Sofia Corradi (soprannominata “Mamma Erasmus“), pedagogista e consulente scientifico della Conferenza permanente dei rettori delle università italiane: questo ruolo le permise di far conoscere la sua idea in ambito accademico e istituzionale. Oggi il progetto ha consentito ad oltre mezzo milione di studenti italiani di visitare stati all’interno e all’esterno dell’Unione Europea.

Luisa Ghezzo condivide alcune lettere inviate da Don Milani alla professoressa Elena Brambilla, e una al maestro Mario Lodi, pedagogista e insegnante di scuola elementare che ha ridisegnato il valore educativo della scuola cambiandone aspetti e metodologie.
Elena Pirelli Brambilla, facoltosa amica ed estimatrice di don Milani e della sua scuola, appartenente al gruppo di cattolici progressisti con cui i Milani erano entrati in contatto, per affinità di interessi culturali e di impegno sociale, è docente di Lettere e filosofia presso l’Università degli Studi di Milano negli anni ’60, moglie dell’amministratore delegato della famosa società Pirelli.

Nella prima lettera Don Milani chiede a Elena se può regalare ai ragazzi della scuola, un corso su giradischi di lingua tedesca. Nella seconda, datata 4 giugno 1963, Don Lorenzo sta organizzando il viaggio a Parigi di 5 ragazzi e chiede ad Elena se ha conoscenze di persone francesi che possano parlare in francese con i ragazzi.
Nella terza lettera dell’ 11 settembre 1966, Don Milani racconta ad Elena che finalmente riesce a far partire per l’Inghilterra Carla, la prima ragazza della scuola di Barbiana ad andare all’estero.

Luisa Ghezzo spiega poi che proprio nel 2023 cadono i vent’anni dalla sua partecipazione al Progetto Erasmus. All’inizio del mese di agosto si è tenuto in Sardegna un incontro con gli studenti che erano con lei a Parigi nel 2002. Ha ritrovato i suoi amici di allora cui ha chiesto un commento sul significato che ha avuto per loro vivere un anno in Erasmus. Ne è uscito un breve documentario intitolato “Se tutti facessero l’Erasmus non ci sarebbe la guerra”, una frase pronunciata da una sua compagna di studi irlandese molto simile alla conclusione della lettera indirizzata dai ragazzi di Barbiana a Mario Lodi.

Lampedusa meravigliosa.
Gesti straordinari di persone normali: una piccola isola contro il cinismo della politica

Lampedusa meravigliosa. L’ Amore vincerà sull’odio.

Non abbiamo ancora ben chiaro, a questo mondo, la potenza di alcune forze che si sprigionano dagli esseri umani in determinate circostanze.
O anzi, è più corretto dire che non indaghiamo abbastanza quelle che non fanno notizia, quelle del bene.
Quanto possano essere feroci in guerra gli uomini, lo sappiamo. Quanto siano capaci di infliggere sofferenze purtroppo, anche.

Ma ad esempio, abbiamo davvero capito quanto potentissimo amore per il prossimo sia esploso nella piccola, benedetta isola di Lampedusa in questi giorni?
Da chi si è gettato in acqua per salvare persone disperate, aggrappate alle rocce di costa Tabaccara, migranti che stavano per affogare proprio quando toccavano già la terra, a chi ha aperto la propria casa per condividere un piatto di pasta con questi viaggiatori erranti del nostro tempo che giravano affamati e sperduti per i vicoli. Senza conoscerli prima, senza guardare il colore della loro pelle, con l’unica paura che tutti ne avessero avuto abbastanza dopo tutto quello che avevano passato, in terra e in mare.

Farebbe molto bene a tutte e tutti noi, nutrire un po’ le nostre anime guardando i volti, lo sguardo, di questi isolani. Togliendo di mezzo ogni romanticismo, e concentrandoci proprio sulla potenza, sulla forza che sta intorno a questi atti, a questo modo di intendere lo stare al mondo.

Lampedusa in questi giorni si è riempita di migliaia di piccoli gesti, visibili ed invisibili, pieni di un altro mondo possibile. Un altro modo di intendere il perché di un’incontro così irrituale, per qualcuno come i turisti, forse unico e irripetibile, con quegli esseri umani che vengono dal deserto e dal mare, da paesi lontani. Ognuno di quelli che li hanno compiuti, quei gesti di cura e di amore verso chi aveva bisogno di aiuto, non pensa in cuor suo di essersi trovato lì per caso. Troppo grandi le forze che vengono messe in gioco, che si palesano, grazie ad un abbraccio con chi ha ricevuto solo bastonate fino ad allora, una bottiglietta d’acqua data in mano, con un sorriso, invece che lanciata in mezzo alla massa, come fossero animali di uno zoo.

Stava andando a cena con gli amici, Antonello Malta, vigile del fuoco, quando si è trovato davanti una decina di ragazzi del Burkina Faso che chiedevano qualcosa da mangiare. “Uno di loro si è perfino inginocchiato. Erano stremati” racconta Antonello. “Avanti ragazzi, tutti in veranda che adesso mangiamo!”. E con la madre ha organizzato una bella spaghettata. “Ma tutti i lampedusani lo stanno facendo” ci tiene a dire. Il selfie che lo ritrae insieme agli ospiti speciali, attorno al tavolo, felici, rende più di qualsiasi parola.

“Servono scarpine per bambini, chi ne ha le porti in negozio” scrive Anna sulla chat di wazzup.

Gesti immensi, che paragonati al cinismo con il quale la “politica” affronta queste sfide, davvero sembrano compiuti da giganti. Ma non è il caso qui di fare questi paragoni: chi ha fatto e fa tutto questo perché “sente” un altro in difficoltà, non va raffrontato a chi non sente nulla.
Una condizione, quella dei “ciechi e sordi” alle sofferenze altrui, così terribile da far provare pietà per loro: quando mai potranno, coloro che stanno tutto il giorno a pensare alle navi militari che devono affondare i barchini, ai consensi da prendere a seconda di quanti esseri umani sono capaci di respingere in mare o di far chiudere in un lager, provare la gioia dell’aver aiutato, dell’aver curato?

E’ il privilegio questo, della gente normale. Che compie gesti come questi, perché gli viene dal cuore. “Sono come noi, potrebbero essere fratelli, madri, padri, figli. Sono come noi”, ripete un ragazzo lampedusano con una bandana nera e la candela in mano, mentre partecipa alla fiaccolata in memoria di Mama Traorè, cinque mesi, annegata davanti agli occhi della sua giovane mamma proprio davanti al molo.

Il sindaco di Lampedusa, Filippo Mannino, ha indetto il lutto cittadino per questa piccola preziosa vita andata persa tra le onde. “Per tutti i morti in mare, che sono i nostri morti” dice, mentre apre la processione insieme a Don Carmelo, il parroco, e a centinaia di concittadini . Il Sindaco ha anche dichiarato che “serve una Mare Nostrum, una missione militare in mare per soccorrere i naufraghi senza che siano costretti ad ammassarsi a Lampedusa, ma possano essere trasportati direttamente nei porti siciliani” e ha aggiunto una volta si pensava che le ong fossero un pull factor, ma non è vero. Dovremo collaborare tutti insieme, chiedere il loro aiuto”.

L’amore, la cura. Se fosse questo l’approccio anche istituzionale, il raziocinio di una politica pragmatica per affrontare la questione, ne uscirebbe finalmente risanato. Si toglierebbero le scorie ideologiche che fino ad ora hanno solo prodotto caos e sofferenze.

Molti migranti in questi giorni girano per l’isola. L’altra sera si sono uniti in un ballo liberatorio insieme a turisti ed abitanti, dopo l’orrore patito in Libia e in Tunisia. Si è scaricata la tensione, insieme, e la musica è una terapia speciale. L’amore e la cura. Il contrario dell’odio e della paura. “Paura che non bisogna avere la tentazione di cavalcare” dice il Presidente Mattarella.

Per fortuna che c’è Lampedusa a renderci un grande paese capace di piccoli gesti straordinari.

Nota: Questo articolo di Luca Casarini è uscito ieri, il 16 settembre, con un altro titolo, sul quotidiano l’Unità.

Per leggere tutti gli articoli e gli interventi di Luca Casarini su Periscopio, clicca sul nome dell’autore.

 

Diario in pubblico /
Vivere col rimbombo

Diario in pubblico: vivere col rimbombo.

L’è dura!!!! Nella calda giornata di questo settembre fuori dalla norma, aspetto con timore, quasi paura, ciò che dovrò sentire dagli implacabili lavori del parcheggio in costruzione che alla fine mi entrano addirittura in casa. Le note profonde della voce del capocantiere sostituiscono ormai i tonfi ritmici dei macchinari. Discute, urla. bestemmia alternandosi con un’altra voce più umana, e tutto mentre faticosamente tento di ristabilire un contatto più armonioso col mondo e con questa non voluta esperienza.

Tutto inutile! Come nel più profondo girone dell’inferno sono punito chissà per quale orrendo peccato commesso e il giusto contrappasso è il rimbombo eterno. Quel che mi stupisce, però, è l’indifferenza con cui il vicinato accoglie lo stravolgimento (son sei mesi) del proprio ritmo vitale. Le “autorità” tacciono.
Ho sperato di contattare la sovrintendenza ai beni artistici e ambientali essendo il palazzo in cui vivo dichiarato d’interesse nazionale. Silentium. Voci annoiate mi rispondono dall’ufficio. Insomma, la “naturale” reazione del servizio pubblico.

Aggiusterò a mie spese la cornice ottocentesca del quadro che le vibrazioni hanno staccato dal muro, cercherò di resistere e di farmi una ragione che la proprietà (così viene chiamata dagli operai) abbia la bontà di contattarmi. Ma credo sia una pia illusione.

Domanda indiscreta. Ma i grandi architetti, i prof. universitari di architettura hanno consapevolezza di questo lavoro? Hanno constatato quali novità (!) abbia portato la risistemazione di un intero quartiere?

E mentre la pioggia cade s’affievolisce il rombo. Tregua o resa ai diritti della natura?

Tra percorzo, resistenza, social, femminicidi, sbarchi, Giorgia ed Ely… guardare un telegiornale è un’impresa difficilissima: come seguire i 5 minuti del Vespa nazional-ortodosso. Perfino la- una volta- stimata Gruber crolla con la perfida intervista alla purtroppo debole Schlein. Mi rifugio allora tra i libri e ammasso le ultime novità, sperando che la sistemazione dei miei libri offerti alle biblioteche pubbliche abbia una risposta e un fine “ferrarese”

Va molto la parola ‘mago’ e non a caso, dopo i maghi classici da Thomas Mann a Coimbin o quelli più reali e amati, cioè i giocatori del calcio, ecco l’ultimo romanzo di un bravo scrittore, Emanuele Trevi, La casa del mago (Ponte alle Grazie, Milano, 2023). L’argomento a me molto caro perché vissuto di persona parla di un guaritore d’anime il padre dello scrittore psicanalista junghiano e quindi non a caso questo romanzo si pone tra le fondamentali scoperte e prezioso tesoretto di questa annata culturale.

Altro tema svolto con classe e consapevolezza è quello affrontato da una scrittrice israelo-francese Anne Berest, La cartolina (edizioni e/o, Roma, 2022). Una cartolina mette sulle tracce dei parenti morti ad Auschwitz la scrittrice che rivive così gli ultimi cento anni della sua famiglia. Straordinario.

Così mi trascino tra i rimbombi, sperando che nella mente tutto s’aggiusti senza provocar altri danni oltre quelli dell’età.

Per leggere gli altri articoli di Diario in pubblico la rubrica di Gianni Venturi clicca sul nome della rubrica o il nome dell’autore.

Gli Spari sopra /
I giovani? Possono solo fare meglio di noi

Siamo sicuri che la generazione di oggi sia peggiore della nostra?

Noi siamo quelli delle grandi compagnie, dei motorini, della socializzazione, dell’ adolescenza infinita e degli ultimi giochi antichi, ma poi siamo diventati grandi. O avremmo dovuto diventarlo. Ora i cinquanta, sessanta e settantenni sono la classe dirigente di questo mondo. Sono quelli che se hanno lottato, lo hanno fatto infinitamente meno delle generazioni precedenti, quelle nate dalla guerra e dalla dittatura, spesso col condimento della fame.

Ora ci rivolgiamo ai ragazzi come ad entità a sé stanti, come fossero esseri catapultati su questo pianeta da Marte. Ma i genitori siamo noi, non gli alieni. Gli adulti o presunti tali sono quelli che decidono, spesso dirigono, altre volte supportano i padroni del vapore. Non raccontiamoci che Gesù Cristo è morto dal freddo, lui che era il padrone della legna.

Sono mille i difetti che noi vediamo nei giovani figli di altri, ovviamente mai nei nostri. Noi babbioni siamo un flusso continuo di lamentele, sono maleducati, sono sdraiati, non hanno voglia di fare un cazzo, fosse mio figlio il cellulare non lo vedrebbe più eccetera, una sequela di masturbazioni mentali sul come era bello il mondo di ieri in confronto al mondo di oggi.

Ricordo agli smemorati che alla fine degli anni settanta e negli anni ottanta le strade traboccavano di eroina, la violenza era ovunque, addirittura intrinseca nelle periferie e nelle borgate. Meglio o peggio di oggi? Non lo so, non ho il calibro per determinarne lo spessore.

Certo in molti avevamo grandi sogni sul futuro del mondo, ma quali di questi abbiamo realizzato? (Forse solo la S.P.A.L. in serie A, ma quella è un’altra storia, grande e piccola)

Siamo quelli che hanno assistito inermi e in silenzio allo smantellamento delle utopie, in cui dicevamo tanto di credere. Abbiamo visto il cadavere delle nostre idee galleggiare nel fiume per poi riemergere sulla spiaggia del cambiamento pimpante, arzillo e in doppio petto. Abbiamo seppellito le idee di rivolta e di ribellione sotto un confortante e inevitabile mucchio di terra chiamato “tengo famiglia”.

Il capitalismo si è mangiato la speranza di un mondo migliore senza che noi ce ne accorgessimo, oppure ce ne siamo accorti ma abbiamo continuato, fischiettando, a innaffiare il nostro orto.

I giovani sono figli nostri, sono una speranza, non sono il problema. Sono quelli a cui noi, che siamo quelli di erano meglio i nostri tempi, abbiamo lasciato un mondo di merda.

Un globo terracqueo (cit.) unipolare, unidirezionale, dove i potenti (spesso nostri coetanei) spingono bottoni, facendo le guerre, per saturare i propri patrimoni e conti in banca, adiacenti tra buoni e cattivi. Dove nel continente più ricco del mondo vivono le persone più povere, dove lo sfruttamento è da secoli sistema e si pretende pure che chi muore di fame lo faccia in silenzio, senza scappare né protestare.

Questo mondo è gestito da gente nata negli anni ’50 e ’60. Con tutto ciò cosa c’entrano i giovani? C’è qualcuno che me lo spiega?

Ultimamente, pur essendo un nostalgico della mia adolescenza, faccio fatica a sopportare i paragoni tra le epoche. In cinquant’ anni il mondo è cambiato talmente in fretta che i film di fantascienza della nostra gioventù sono invecchiati male, salvo poche eccezioni.

In una cosa le generazioni non sono cambiate: le colpe dei padri vengono scaricate sui figli, per pulirsi la coscienza e lasciare loro le scorie puzzolenti di una decadenza causata principalmente da noi.

Ma io ho lottato, ho fatto, ho cercato … .Ognuno parlerà con la propria coscienza. I giovani possono solo fare meglio di noi.

Il Ferrara Film Festival entra nel vivo – Day 1

L’ottava edizione del Ferrara Film Festival parte in forza, ma l’attenzione è tutta per lui, il Maestro Giancarlo Giannini.

È partito in quarta, il Ferrara Film Festival, giunto alla sua ottava edizione, con il logo proiettato verso l’infinito. Un programma ricchissimo e con grandi novità – vi avevamo avvertiti – che Periscopionline intende seguire al meglio. Tanti gli ospiti nazionali e internazionali, tanti i film in programmazione, molti dei quali premières.

L’apertura è stata eccezionale, a partire dagli incontri allo Studios Lounge live. Ma tutti l’attenzione e l’attesa sono per lui, vincitore di quasi 50 riconoscimenti e oggi con un posto sulla Walk of Fame a Hollywood.

Protagonista della serata inaugurale del Festival, durante la quale ha ricevuto il Dragone d’Oro alla Carriera, inaugura il “Meet the Stars” della kermesse.

Premio alla carriera a Giancarlo Giannini, foto Valerio Pazzi

Eccolo, arriva, passo lento e rassicurante, entra con i suoi capelli canuti ondulati e gli occhi azzurri magnetici. Il magnetismo è nell’aria, il passaggio sul tappeto rosso è leggero.

Lo aspettavano tutti, giovani e meno giovani. Porta con sé la storia del cinema e del nostro paese. Sul palco del Teatro Nuovo ci sono solo due sedie: una per lui, il Maestro Giancarlo Giannini, e una per Anna Bisogno, Professore associato di cinema e televisione all’Università Mercatorum, l’ateneo digitale delle Camere di Commercio italiane, con il non semplice compito di accompagnarlo in un dialogo con il pubblico che sarà un’emozione meravigliosa. Sarà bravissima. L’incontro è avvolgente, caloroso, empatico, intenso, di quelli che non si dimenticano e restano, per sempre, una ricchezza del cuore e dell’anima.

Anna Bisogno e Giancarlo Giannini, foto Valerio Pazzi

Un perito tecnico di formazione che voleva fare grandi scoperte e trovatosi a fare cinema quasi per caso, dopo un articolo 13 di un regolamento militare che gli permise di ottenere un congedo illimitato. E poi Napoli, Roma e l’Accademia d’Arte Drammatica.

Ricorda il teatro e il suo ruolo nel folletto Puck (affidato, prima di lui, quasi sempre a ragazza) in “Sogno di una notte di mezza estate” di William Shakespeare, il “Romeo e Giulietta” di Franco Zeffirelli, Anna Magnani che voltava le spalle al mondo con i suoi lunghi capelli neri (in “La lupa”, sempre sotto la direzione di Zeffirelli). E ancora Mina e Rita Pavone, che segna l’incontro felice con Lina Wertmüller (nel 1966 gli offre il suo primo ruolo da protagonista nel musicarello Rita la zanzara, al fianco appunto della irrefrenabile Pavone). Lina che per lui era il piacere di vivere e la positività continua.

Quest’uomo trasmette energia pura e gioia di vivere, quella che, racconta, è il regalo che dovremmo farci ogni giorno. Ogni giorno c’è una scoperta, anche piccola, a dare senso alle nostre giornate, piccoli misteri che aiutano a non interrogarsi sul grande mistero sul quale non ha senso interrogarsi. “Sono credente e non ho paura della morte”, dice, “è il percorso naturale della vita stessa. E poi dopo potrò fare tante domande e ricevere risposte”.  Domandarsi perché è la curiosità, il sale della vita, il suo principale ingrediente. “I bambini sono i più grandi e primi filosofi”, sorride, “domandano sempre perché”.

D’altronde il Maestro ha anche scritto un libro, “Sono ancora un bambino (ma nessuno può sgridarmi)”, in cui racconta le sue idee, le sue invenzioni, gli aneddoti della sua vita, pubblicato in Italia nel 2014 da Longanesi e vincitore del Premio Cesare Pavese 2015, nella sezione romanzi. Lo sguardo dei bambini ma lo sguardo in generale sulla vita fanno la vita stessa e fanno, soprattutto, l’attore. “Non mi immedesimo mai nei personaggi”, dice, “l’attore è sempre il tramite per raccontare una storia”. Attraverso di lui arrivano le parole.

La passione, poi, deve guidare ogni professione, deve essere motore e nervatura di ogni nostra azione. “Bisogna fare bene le cose, osservare, sbagliare per imparare. Come quando si prepara il sugo al pomodoro” racconta ridendo. “Si guarda la nonna o la mamma e si rifà, ogni giorno si sperimenta, magari con un nuovo ingrediente. Gli errori servono sempre”. Del passato gli mancano tanto anche i sapori.

Emanuela Arcuri. Giancarlo Giannini, Maximilian Law, foto Valerio Pazzi

Coraggio, perseveranza, impegno, studio, dedizione, questo ci pare questo immenso artista, un Uomo innamorato della Natura. “Guardandoci intorno, scopriamo la bellezza, essa sta ovunque”, racconta a un pubblico sempre più ipnotizzato, “nella perfezione degli alberi, delle piccole radici che prendono posizione sulla terra”. Tutto ciò che ci circonda è un autentico miracolo. E lui fa sicuramente parte di questo grande miracolo.

In Comune con tanti ospiti, foto Valerio Pazzi
Emanuela Arcuri, foto Valerio Pazzi

Cari lettori, ci siamo concentrati sul Maestro. Ma, ovviamente, alla sua premiazione è seguita una proiezione, quella, in anteprima europea, di “Sweetwater”, preceduta dall’incontro con il regista argentino Martin Guigui e l’attore Jeremy Piven. Ispirato a una storia vera, è un film sul giocatore di basket professionista Nathaniel Clifton (affettuosamente conosciuto come ‘Sweetwater’ in famiglia e tra gli amici, probabilmente per il suo amore per le bevande analcoliche e il carattere calmo), il primo giocatore afroamericano a firmare con la National Basketball Association (NBA) negli anni ’50. Il regista Martin Guigui, che è anche l’autore della storia, ha avuto l’idea per il film mentre ascoltava alla radio i playoff NBA tra New York Knicks e Indiana Pacers a South Burlington, nel Vermont, mentre era seduto nel parcheggio del famoso negozio di forniture Staples. ‘Sweetwater’ è interpretato da Everett Osborne.

Sito del Ferrara Film Festival

 

Fotografie di Valerio Pazzi

Per certi versi /
Il mare non ha tempo

Il mare non ha tempo

(In memoria di mio babbo)
Il mare non ha tempo
Lo emargina
Dalle sue pagine
Rotocalco
Uno spazio si diffonde
Nel guardare
Mi sento inadeguato
Mi sento io
Dopo tanto tempo
Ma ho perso
Tranciata
Una parte di vita
È una lotta
Tra ricordare
E scordare
Lo svago
È oro colato
Non ha tempo
Il mare
Non ha tempo
E la casa era chiusa
Tutta in ordine
Come se nulla
Fosse stato
C’eravamo noi
Addietro
C’era mio babbo
Tutto è in ordine
La pineta
Non profuma
L’erba è finita
I daini
Girano in paese
Nei campi verdi
A brucare
No
Non ha tempo
Il mare
Ogni domenica Periscopio ospita Per certi versi, angolo di poesia che presenta le liriche di Roberto Dall’Olio.
Per leggere tutte le altre poesie dell’autore, clicca [Qui]

Numeri /
Liberté (de peu), disparité, avidité:
i paradigmi della società neoliberista

Liberté (de peu), disparité, avidité: i paradigmi della società neoliberista

Secondo uno studio di World Ultra Wealth realizzato da Altrata, i ricchi sono coloro che posseggono come patrimonio (non come reddito) almeno un miliardo di dollari (mille milioni), mentre i super- ricchi (395mila persone nel mondo) ne posseggono almeno 30, per un totale di 45.430 miliardi di dollari, mentre i ricchi (da 1 a 30 miliardi) ne hanno “solo” 36.200 miliardi. In totale sono 81.630 miliardi. Se fossero redistribuiti a tutti gli 8 miliardi persone andrebbero 10mila euro a testa.

Gli ultra ricchi in Italia sono 8.930 persone per una ricchezza totale di 978 miliardi, circa il 10% del totale nazionale, in media hanno 110 milioni a testa. Il maggior numero è in Usa (130mila), seguito da Cina (47 mila), Germania (quasi 20mila), Giappone (quasi 15 mila), UK (14mila), Canada (13.320), Hong Kong (12.615), Francia (11.980), Italia (8.930) e India (8.880). Anche nel 2022 il patrimonio dei super ricchi è cresciuto e si trova ora al 10,6% di tutta la ricchezza mondiale.

Da 30 anni sono in continua crescita anche perché gran parte di questa ricchezza è frutto della distorsione dello sviluppo capitalistico. Al di là dell’ideologia neo-liberale, che si fonda sul libero mercato e la concorrenza, gran parte di questi patrimoni (sia in Occidente che nei paesi autocrati o dittatoriali) è frutto di monopoli, soprattutto artificiali, di rendite, di sistemi economici distorti al riparo di una vera concorrenza e di leggi che riducono sempre più l’imposta di successione, la progressività, per non dire dell’evasione nei paradisi fiscali.

L’Occidente è considerato più “avanti” di altre aree mondiali da molti nostri esperti per le sue maggiori libertà individuali che consentono a ciascun individuo di poter godere di molte libertà, rischiare, mostrare i propri talenti ed essere appunto “liberi”. Ma se questa libertà di arricchirsi non viene temperata da leggi (antitrust, limitazione dei monopoli, imposte sull’eredità e progressive) in modo che gran parte della ricchezza generata si traduca in diritti sostanziali per tutti come lavoro, salute, scuola, pensioni, sostegno ai poveri (cioè in welfare sociale distribuito a tutti), la deriva è verso un mondo in cui le disuguaglianze superano quelle dei faraoni o degli imperatori di un tempo e, come tale, la società “liberale”, cioè basata sulla mera libertà individuale, non sostenuta dalla “sostanza” (direbbe Aristotele), diventa sempre più una formalità che troverà sempre meno consensi in quanto la grande maggioranza sarà sempre “più libera ma più povera delle cose che contano nella vita”.
Le previsioni sono di un ulteriore aumento dei super ricchi in tutto il mondo, ma cosa ce ne facciamo di un mondo così demenziale?

E l’Occidente che ha diffuso questo modello capitalistico e predatorio ovunque, non sarebbe ora che invertisse questo trend, proprio in nome dell’etica, dell’”egalité, fraternité e liberté a cui continuamente si richiama con patenti di valori che non avrebbero le società dittatoriali?

Storie in pellicola /
Se basta un minuto…

“Ce l’hai un minuto?”: un Corto di Rai Cinema in esclusiva assoluta in streaming free su Rai Cinema Channel. Sono passati alcuni anni, ma sempre divertente.

La nascita del cinema coincide con l’uscita del film La sortie des usines” (“All’uscita dalla fabbrica”), dei fratelli Lumière, il 22 marzo 1895. Durata 49 secondi. Anche se alcuni storici, come Jean-Claude Morin, indicano che il primo film presentato al pubblico daterebbe 1891, ovvero il Dickson Greeting” – un piano fisso di 10 secondi – di Laurie Dickson, l’assistente di Thomas Edison che aveva ideato il cinetoscopio (un dispositivo destinato però solo alla visualizzazione individuale), resta il fatto che la breve durata caratterizzava il cinema degli esordi. Breve sarebbe stato fino agli anni Trenta.

Quello che oggi è il cortometraggio – la definizione varia da paese a paese, in Francia lo sono i film che durano meno di 40 minuti, in Italia quelli fino a 52 minuti – resta ancora un prodotto relegato a festival dedicati e specializzati, tranne piccole eccezioni su alcune piattaforme. Se non si può giudicare un film dalla durata, ammettiamo che a noi di Periscopio piacciono molto, non certo perché di pochi minuti, ma perché sono chiari, concisi, incisivi, precisi spesso quasi chirurgicamente e mirano direttamente al cuore e alla mente. E poi sono sempre di più il prezioso trampolino di lancio per giovani autori.

In un recente Speciale su Periscopio (lo trovate in fondo alla Homepage) abbiamo fatto una prima carrellata di alcuni corti recensiti, ma vi abbiamo annunciato essere solo l’inizio. Corti che passione, infatti, ci piacciono davvero tanto, e nella nostra continua ricerca scopriamo delle perle. Per cui intendiamo continuare.

Oggi è il turno di “Ce l’hai un minuto?”, di Alessandro Bardani (oggi al cinema con “Il più bel secolo della mia vita”), con Giorgio Colangeli e Francesco Montanari, nove minuti di allegria e simpatia prorompente. Anche se del 2012, è un piccolo momento di svago da non perdere, peraltro interamente visibile, on line e gratuitamente [Qui]

Candidato al David di Donatello 2012 come miglior cortometraggio, l’opera ha ricevuto oltre 50 riconoscimenti nazionali e internazionali (nel 2013, è proclamato da Cinemaitaliano.info, come “Corto più premiato in Italia dell’anno”), vincendo anche il premio “Il Giro del Mondo in 80 Corti”, svoltosi in 10 tappe, con la partecipazione di opere da tutte le parti del globo, durante l’Amarcort Film Festival, nell’edizione 2016.

Oggi piace ancora molto. Una commedia arguta, intuitiva e concisa che scherza con le barriere della comunicazione, soprattutto linguistiche.

“Ce l’hai un minuto?”, questo chiede Oreste (Giorgio Colangeli), un simpatico e loquace signore romano, al frettoloso Madhi (Francesco Montanari), un ragazzo palestinese, prima di fornirgli le indicazioni stradali necessarie per arrivare dalla periferia romana fino in Palestina. Non sarà un racconto semplice…

L’incipit pare quasi condurre nel bel mezzo di un thriller, grazie anche al montaggio alternato che fa vedere e vivere in parallelo la folle corsa di un furgoncino, con un mediorientale dall’aria nervosa alla guida, che fa pensare al peggio (Francesco Montanari) e l’indolenza di un placido signore dai capelli bianchi che inganna il tempo, osservando la strada dal tavolino di un bar. E che, scopriremo, scrive e legge in arabo.

Due persone che non si sarebbero mai incontrate ma che, grazie alla richiesta di una semplice informazione, vedono trasformare tale fortuita circostanza in una divertente commedia degli equivoci, che per una parola pronunciata (o interpretata) male vede mutare strade e località dei dintorni di Roma in un immersivo tour dell’Asia Minore. Con incredibili dettagli sui porti, i traghetti, i personaggi da coinvolgere, le soste da fare, i bivi ai quali girare.

L’idea nasce, una sera d’estate, una di quelle sere che trascorri a chiacchierare con un amico passando dai ‘locali a Roma’ al ‘G8’”, dice il regista in un’intervista. “Ero con Andrea Rappartipoli… un tizio, improvvisamente si avvicina a noi trafelato, di corsa e affannato ci chiede un’indicazione porgendoci un foglietto, lì però non c’era scritta la destinazione che ci aveva chiesto lui ma un’altra, completamente diversa… questo misunderstanding ci ha fatto prima sorridere, poi tutto d’un tratto mentre eravamo sulla strada di casa Andrea diventa serio e mi dice: “Questo è un corto!”. Da lì è iniziato questo fantastico cammino… Abbiamo scritto il soggetto e poi con Luca Di Prospero ho scritto la sceneggiatura”, conclude.

Un lungo viaggio arricchito da divertenti aneddoti e malinconici ricordi, un’evasione dalla solitudine che si trasforma in un incontro surreale e ironico tra i due empatici protagonisti. Con tanto di piccola sorpresa finale, che, battuta dopo battuta, fa tornare a sorridere.

Ce l’hai un minuto? di Alessandro Bardani, con Giorgio Colangeli, Francesco Montanari, Marco Rulli, Alessandro Bardani, Mary Aliquò, Vittoria Spinella, Italia, 2012, 9 minuti

Backstage

GIÙ LA MASCHERA DEGLI IMBONITORI.
Ecco il programma della città da amare…

Giù la maschera degli imbonitori: ecco il programma della città che vogliamo.

La città che vogliamo ha le scuole aperte tutto l’anno, anche d’estate, e tutto il giorno, anche di pomeriggio. I ragazzi non vengono più risucchiati nell’imbuto della solitudine digitale perché nella scuola, terminate le lezioni, sono accolti, socializzano tra pari, trovano una sponda nello studio, praticano gratuitamente attività sportive, ricreative e culturali.

Quando i genitori finiscono di lavorare, si torna a casa assieme.
Ognuno fa il suo mestiere. Le istituzioni assicurano servizi e welfare, come dovrebbero. I genitori lavorano e fanno i genitori, e sulle donne non grava più il peso defaticante del welfare famigliare che le sfianca e, oltretutto, le discrimina. Più servizi, più Fil, più occupazione femminile, più Pil, che alla fine è quello che (solo) pare contare nei report. Si corre perfino il rischio che cresca la natalità e che si alzi di qualche grado la temperatura del gelo demografico in cui siamo sprofondati da tempo ormai.

La città che vogliamo ha cacciato maghi, illusionisti e imbonitori. Con un profluvio anestetico di volute roboanti e di eventi spettacolari hanno dato esibizione della propria grandezza muscolare, dietro cui però c’è il nulla se non il tentativo goffo di nascondere gli olezzi che provengono delle stanze del palazzo del potere, usando la leva della distrazione di massa. Ma le maschere sono cadute, finalmente.

La città che vogliamo mette al centro i Quartieri, la partecipazione e valorizza il proprio tessuto sociale, composto da associazioni, piccole attività imprenditoriali, artigianali e culturali. Le ascolta, le incontra, si cresce assieme. Di certo non le spegne con la scusa del decoro, come invece succede oggi.

I Quartieri, oggi dimenticati, saranno il cuore di questa città.
In ogni quartiere ci saranno assemblee periodiche aperte ai cittadini, e parteciperanno anche gli amministratori per un confronto continuo che non si chiuda una volta archiviata la propaganda elettorale. Oggi a Ferrara non c’è più uno spazio pubblico dove incontrarsi per parlare, per conoscersi.

In ogni quartiere ci sarà anche un Consiglio dei Ragazzi, i cittadini del futuro e del presente, che con le loro idee potranno essere di grande stimolo per migliorare la città, intanto che imparano le regole della democrazia e della partecipazione.

Nella città che vogliamo il sindaco continuerà, nell’interesse dei minori, a trascrivere i certificati di nascita, nell’attesa di una legge nazionale che garantisca il riconoscimento dei figli di tutte le coppie omogenitoriali.

La città che vogliamo accoglierà gli immigrati come cittadini di serie A, perché sono cittadini di serie A, e di cui tra l’altro c’è anche un gran bisogno, e non li andrà certo a cercare in singolari battute di caccia indegne di un paese civile.

In onore di tutte le donne coraggiose e contro qualsiasi discriminazione, la fermata dell’autobus di fronte al Castello di Ferrara sarà la “Fermata Rosa Parks”.

Se vi piace il nostro programma, condividetelo, passate parola.

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Parole a capo /
Gabriela Fantato: Nel chiarore e altre poesie

La poesia è l’arte della concentrazione, della riduzione. Per il lettore – la cosa più interessante è andare ‘a ritroso lungo il raggio di luce’, cioè ripercorrere le vie per cui si è giunti a questa concentrazione, stabilire in quale attimo, nel frazionamento a noi tutti comune, per il poeta comincia a balenare la luce di un denominatore linguistico.”
(Iosif Brodskij)

Farsi del male

                           a Valeria

Le ferite sono profonde,
quei solchi neri ti attraversano
_ il braccio,
Una scrittura che solo tu
sai tradurre nel silenzio.

Nascondi i tagli
sotto la manica lunga
a chi non vuol sapere.
Scavi, cerchi il tuo nome
nella carne
sino all’ osso sbiancato,
a lui chiedi, come la voce
di una madre perduta
inventi ancora quel tuo gioco
a nascondino.

Piccola, sei piccola
nei tuoi sedici anni contati
al calendario,
attorcigliata al bianco
aspetti che qualcuno venga,
passi di lì,
tra le vene e i nervi fragili,
venga dietro l’angolo
proprio dove stai tu.

Vengo a cercarti senza nome,
e intanto il tuo corpo
lontano, abbandonato
in questa primavera.

(inedita)

 

Nel chiarore

Non so la nudità di un volto
immerso nel chiarore,
non la luce che abbaglia
– alla nascita.

Sul ramo sventola l’allegria
di una foglia piegata
poco prima del volo,
un incolmabile richiamo
a ciò che resta immobile.

Guardo questa distesa
nella fragilità luminescente
preziosi sono i resti di ciò che era
intero, afferrato – nel nulla.

La terra, la terra tutta
è calpestata, divorata
da passi – dove vanno gli umani?
Dov’è la traiettoria
della cometa mentre incontra
la predicazione di un santo?

Improvvisa una musica,
nel tentare l’uragano
di una parola
e domani un temporale
sarà acqua del battesimo.

Nel cavo della mano
gesti possibili, ancora
– non inventati.

(inedita)

***

Poesie da TERRA MAGRA ( Il Convivio editore, 2023)

Ritorni

Dalla spiaggia ritorno sempre
con un sasso, un ramo liscio
o una conchiglia.
Ho pezzi minuscoli
di isole che non ricordo.
Scaglie, ossa persino e
frantumi di colonne.

Stanno nella ciotola, vicini
come bambini nel cortile.

Non so se ricordano il nome che li fece
– interi, la pianta che li univa
e il dolore, prima dell’arsura.

Le voci, certo le voci
le hanno addosso,
una sintassi di calcare e vento.
Le guardo riposare,
non chiedo, non posso sciupare
– il patto.

 

Infanzia della specie

Laggiù nel bianco,
tra il basalto e strati d’arenaria
si affaccia – l’infanzia,
e coltiva ancora il grano
dentro i sogni.

La vita cresce selvatica
dentro ogni perimetro,
le ossa raccolte,
una preghiera semplice,
imparata da piccoli…

Siamo cellule
nell’eco della specie,
un’origine senza un nome,
senza nome.


Custodire

               ai miei figli

I passi non sono più una fuga,
sono echi dentro la testa,
gesti nel bianco delle lenzuola.

Il timore è nato oggi al mondo,
la gioia disegna
il suo nome sul muro,
la mano la tiene, senza
afferrarla mai.

Impariamo la corsa
il primo giorno che siete nati
e siete già qui…
Impariamo il silenzio
e il pianto.

 

Figli

I figli vanno dove nessuno sa,
vengono da un incontro di cellule,
dal caso o da un destino.

Il compito resta ancora
                   sfuggire le trappole,
                  dissodare il terreno
con la determinazione di chi
semina fagioli, ogni anno a marzo.
E non sa se ci sarà la mano
a raccoglierli.

Gabriela Fantato poetessa, critica e saggista, tradotta in inglese, francese, arabo e spagnolo. Suoi testi sono presenti nell’antologia: Nuovi poeti italiani 6 (Einaudi, 2012) e il poemetto A distanze minime in «Almanacco dello Specchio» (Mondadori, 2010).Tra le sue pubblicazioni ricordiamo le più recenti: Codice terrestre (La Vita Felice, 2008); L’estinzione del lupo (Empiria, 2012); La seconda voce (Transeuropa, 2018); Terra magra (Il Convivio, 2023).
Ha curato con L.Cannillo La Biblioteca delle voci (Edizioni Joker, 2006). Interviste a 25 poeti italiani. Ha diretto la rivista «La Mosca di Milano». Attualmente è nella redazione della rivista «Metaphorica» (Edizioni Efesto); Ha scritto testi per la musica, andati in scena nei maggiori teatri italiani, con le musiche di Carlo Galante.

La rubrica di poesia Parole a capo curata da Pier Luigi Guerrini esce regolarmente ogni giovedì mattina su Periscopio.
Per leggere i numeri precedenti clicca sul nome della rubrica.