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Appuntamento con Cosetta

Un  racconto  di Carlo Tassi

Verso le dieci della sera di una passata vigilia di Natale.

«Aiuto… aiuto… aiuto… per favore…» La voce stridula rompeva il silenzio della stanza di continuo, da oltre un’ora.

«Aiuto… aiuto… aiuto… vi prego…» Non c’era modo che la smettesse, e nessuna comprensione in chi l’ascoltava.

«Venite ad aiutarlo, santiddio!» esclamò qualcuno dal letto a fianco. «Verrà mai nessuno in questo posto senza misericordia?» chiedeva esasperato.

L’uomo pigiò il pulsante dell’emergenza. Quel lamento del vecchio che insisteva e non lo faceva dormire era un tormento che gli sollevava la pelle, come un’unghia che graffia una lavagna. Poi il tormento divenne uno strazio che lentamente iniziò a bruciargli nel petto, nello stomaco, nelle tempie.

“Dove sei finita Cosetta? Perché non vieni? Mi son cacato addosso, mi brucia tutto il sedere, mi fa male il tubo, m’impedisce di fare pipì, mi sento scoppiare…” Il pensiero restava imprigionato dentro, nessuno lo poteva sentire. Usciva solo un filo di voce stridula, affannata, rantolosa, che ripeteva sempre la stessa cosa: «Aiutatemi per favore… aiuto, aiuto… per favore, vi prego…»

Arrivò un’infermiera a passo veloce, e accese il neon della stanza. Il paziente che aveva chiamato le diede un’occhiataccia. «Ho suonato io. Sarà un’ora che implora e si lamenta!» spiegò.

«C’è stato il cambio turno. Ora ci penso io, lei cerchi di dormire.» rispose l’infermiera. «Che c’è Ginetto cosa c’è che non va?» disse rivolgendosi all’altro.

“Perché gli parla se sa che non la può capire? A che serve? Certo, quando domattina se ne tornerà a casa le seccature di stanotte se le dimenticherà in un attimo…” pensò il paziente del letto 52 a fianco. «Non gli può dare qualcosa per farlo dormire?» chiese all’infermiera.

Il paziente del 52 era stanco, avvilito. Avrebbe voluto stare in un’altra stanza ma erano tutte piene. Si sentiva in trappola, esattamente come l’altro, anzi peggio. Perché lui la testa non l’aveva mica persa, lui il cervello ce l’aveva ancora a posto.

L’infermiera non replicò, stava controllando il monitor dei parametri vitali di Ginetto, e Ginetto la guardava ma non la vedeva. “Ho sete, mi brucia la gola. Nessuno mi dà da bere. Chiedo solo un sorso d’acqua, perché nessuno mi aiuta?” Il pensiero era intrappolato e s’attorcigliava dentro quel fragile corpo implorandone i bisogni. «Ho sete… ho sete… ho sete…» riuscì a sussurrare Ginetto. La sua voce era un rantolo, ma sembrava che l’arrivo dell’infermiera gli avesse restituito un attimo di senno.

«Non posso darti da bere Ginetto, non riusciresti a mandarla giù l’acqua. Ti stiamo idratando con le flebo, stai tranquillo!» disse la donna mentre regolava la valvola della sacca appesa al trespolo sopra il letto.

“Ma che gli parlo a fare se tanto non capisce?” si chiedeva la donna tra sé, e anche il paziente del 52 se lo chiedeva. Ginetto era in preda al delirio e loro lo sapevano. Soffriva di demenza senile da due anni e ormai la sua vita era appesa a un filo. Da alcune settimane i rimasugli di lucidità di Ginetto s’erano tutti esauriti, e anche l’energia vitale si stava consumando velocemente.

Magari rivolgergli la parola serviva a mantenere una parvenza di normalità, a fingere che fosse tutto a posto o quasi. Lo imponeva la coscienza di chi gli stava intorno, chissà. La verità è che a volte le cose si fanno e basta, senza tanto chiedersi il perché.

«Ma dateglielo questo sonnifero così s’addormenta e finalmente si respira tutti quanti!» sbottò il paziente del 52. Avrebbe voluto un po’ di tregua, un po’ di silenzio per poter riposare e tornare ai suoi svagati pensieri, interrompere quello strazio insomma.

«Rosati, non possiamo dargli sonniferi, non li sopporterebbe, è rischioso.» gli rispose l’infermiera.

«Allora datelo a me, non riuscirò a dormire stanotte se quello continua a lamentarsi.»

«Neanche lei può prendere altri sonniferi, il medico è stato chiaro.»

«E allora domani chiedo che mi mettano in un’altra stanza. Sono cinque notti che non chiudo occhio a causa dei suoi lamenti.»

«Rosati, domani è Natale, ci sarà solo il medico di turno e tutti i letti sono occupati. Il responsabile per queste cose lo troverà solo il ventisette. Porti pazienza Rosati… A proposito, buon Natale!» chiarì l’infermiera.

«Sì sì, buon Natale!» rispose lui, anche se quell’augurio suonava più come un’imprecazione. Si domandava cosa mai avesse fatto di male per subire questa ennesima ingiustizia. S’era rassegnato da tempo a dover passare le feste in ospedale, ma si chiedeva perché mai dovesse scontare tutta questa angoscia proprio il giorno di Natale. Sentire i rantoli e le suppliche continue di quel poveretto era diventato insopportabile e non riusciva a darsene pace.

Dopo che ebbe finito di sistemare Ginetto, l’infermiera diede una rapida occhiata alla scheda con le terapie da somministrare a Rosati, poi, con un accenno di sorriso, se ne andò.

“Cosetta, vieni… Cosetta, vieni dai. Vieni dai… Cosetta dove sei? Sono solo e nessuno mi aiuta. Cosetta amore mio, non ti ho detto mai quanto ti amo? Ho sete e nessuno mi dà da bere, ho la pipì e non me la fanno fare. Voglio tornare a casa da te Cosetta. Mi brucia il sedere e non riesco a muovermi, non riesco a fare niente e non viene nessuno ad aiutarmi. Nessuno mi aiuta…” Il pensiero si agitava in quel corpo inerme, urlava oltre lo spazio e il tempo, oltre le altrui ragioni.

Ottantacinque anni di pelle e ossa. Le gambe rattrappite, immobili, piegate su se stesse. I polsi legati e le braccia sottili e inferme, troppo deboli per liberarsi da quella gabbia a forma di letto. Gli occhi infossati che roteavano nel buio delle palpebre chiuse come sigilli. La bocca spalancata, senza denti e con la lingua seccata e gonfia che vibrava affannosamente ad ogni rantolo. La voce rauca, stridula, che con bizzarra tenacia sfidava il silenzio nonostante l’ormai chiara mancanza di una lucida e autentica volontà.

Privato di tutto. Senza più mutande, senza più dignità. Ridotto a un fantoccio senza più nemmeno una faccia da ricordare, giusto da compatire. No, non era questa la fine che s’era immaginato.

Ogni respiro in più pareva una scommessa, eppure non smetteva. Non voleva cessare di battere questo suo cuore testardo, non ancora.

Così, disperso nei suoi perduti ricordi come per aggirare il presente, oltre quel letto maledetto, oltre quel corpo irriconoscibile, inutile, insignificante, Ginetto chiamò i suoi morti. Chiese aiuto a loro perché loro se ne stavano tutti lì dentro di lui, ben al riparo nei suoi pensieri. E lui adesso stava insieme a loro e non si sentiva più solo. I suoi occhi erano opachi, s’erano spenti da tanto tempo. Ma a che serviva la luce di fuori, con quelle ombre che si muovevano tutt’attorno farfugliando cose che non riusciva a capire? A che serviva se ora poteva vedere nel buio dentro di sé? Un buio che stava per illuminarsi e colorarsi sfidando l’incomprensibile?

Ora da quel buio qualcuno era arrivato.

Qualcuno che conosceva bene e che aveva nominato spesso e a lungo.

Qualcuno che amava e aveva amato da sempre.

“Cosetta, amore mio, finalmente! Ho sete, tanta sete. Portami da bere, portami a casa, portami con te!” era il suo pensiero a parlare ancora.

Lui la vedeva, giovane e bella come un tempo, come sempre. E fu come un tuffo al cuore, come fosse del tutto normale.

In quell’istante nessuno sentì o vide nulla. Rosati dormiva perché, grazie al cielo, il suo compagno di stanza aveva smesso di lamentarsi.

In quell’istante Cosetta gli parlò: “Gino sono qui, sono venuta a prenderti, a portarti via con me…”

 

È Natale. Forse Cosetta se l’era ricordato e gli aveva finalmente dato retta, chissà.

Il fatto è che ora erano di nuovo insieme, proprio come voleva lui.

È Natale, Gino, ora anche per te!

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Carlo Tassi

Ferrarese classe 1964, disegna e scrive per dare un senso alla sua vita. Adora i fumetti, la musica prog e gli animali non necessariamente in quest’ordine. S’iscrive ad Architettura però non si laurea, si laurea invece in Lettere e diventa umanista suo malgrado. Non ama la politica perché detesta le bugie. Autore e vignettista freelance su Ferraraitalia, oggi collabora e si diverte come redattore nel quotidiano online Periscopio. Ha scritto il suo primo libro tardi, ma ha intenzione di scriverne altri. https://www.carlotassiautore.altervista.org/

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Ogni giorno politici, sociologi economisti citano un fantomatico “Paese Reale”. Per loro è una cosa che conta poco o niente, che corrisponde al “piano terra”, alla massa, alla gente comune. Così il Paese Reale è solo nebbia mediatica, un’entità demografica a cui rivolgersi in tempo di elezioni.
Ma di cosa e di chi è fatto veramente il Paese Reale? Se ci pensi un attimo, il Paese Reale siamo Noi, siamo Noi presi Uno a Uno.  L’artista polesano Piermaria Romani  si è messo in strada e ha pensato a una specie di censimento. Ha incontrato di persona e illustrato il Paese Reale. Centinaia di ritratti e centinaia di storie.
(Cliccare sul ritratto e ingrandire l’immagine per leggere il testo)

PAESE REALE

di Piermaria Romani

 

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