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Lo sportello n. 7   

Che la signora Antonia fosse una persona per bene nessuno lo aveva mai messo in dubbio. Ecco perché chi la conosceva si chiedeva come mai fosse capitato proprio a una come lei. Questa era solo la prima delle domande senza risposta che affioravano alla mente di costoro. La seconda domanda era: forse la signora Antonia aveva fatto qualcosa, di cui nessuno tuttora è a conoscenza, per meritarsi un destino così particolare?

Molti sostengono che porre domande alle quali nessuna risposta è possibile sia da cretini. I più pragmatici dicono: ormai è andata così, arrovellarsi sulle colpe presunte, sulla doppia personalità e sul perché proprio lei è un esercizio insensato. Di che aiuto può ormai esserci? Perciò, per non incorrere nell’obiezione dei pragmatici rischiando di fare la figura dei cretini, sarà meglio lasciar perdere e cominciare dall’inizio.

I vicini di casa le mostravano da tempo una tiepida simpatia di maniera, il marito dimostrava una totale mancanza di solidarietà per la semplice ragione che era morto da tre anni e in mancanza di figli, fratelli, parenti stretti e amici degni di questo nome non le erano rimasti altro che i vicini di casa e qualche negoziante dalla  scarsa  clientela disposto ad ascoltare la sua storia e a sopportare le sue vanterie.

Tra i vicini di casa c’era una mia sorella maggiore, sposata da tempo con un colonnello dei carabinieri, che un giorno ha deciso di mettermi al corrente delle vicende della signora Antonia. Questo è quanto sono venuto a sapere da mia sorella Ada in un ventoso pomeriggio di autunno avanzato.

“Vedi Giorgio – ha iniziato lei mentre folate impetuose scuotevano i rami della vecchia quercia che sovrasta l’ingresso della mia casa di campagna – al mondo non c’è giustizia.”

Di fronte a questa osservazione potevo solo tacere. Ada era capace di rovesciarti addosso ovvietà a un ritmo impressionante, ma io le volevo bene, nonostante fosse la mia sorella maggiore.

Mi raccontò che la signora Antonia, dopo trent’anni di duro lavoro come maestra d’asilo e poi come insegnante di scuola primaria in una scuola della periferia nord di Roma aveva deciso che era giunto il momento di informarsi sulla sua posizione contributiva. Aveva sessantadue anni e cominciava davvero a essere stanca di correre dietro a quella pipinara chiassosa e insolente.

“Ce l’aveva messa tutta, capisci? Si era laureata a cinquantatré anni per poter fare il concorso come maestra elementare. Ora poi, chissà perché, la chiamano scuola primaria! – esclamò Ada quasi scandalizzata – e poi era riuscita a vincerlo. E lo aveva vinto senza raccomandazioni! Chi potrebbe oggi vincere un concorso statale senza raccomandazioni? Solo una persona speciale come la signora Antonia. Capisci?”

Ada aveva anche la brutta abitudine di chiedere ‘Capisci?’ oppure ‘Capito?’ dopo aver pronunciato una delle sue banalità provocando così doppia irritazione nell’ascoltatore, il quale oltre a perdere tempo veniva trattato da idiota. E poi   raccontava le storie della vita in un modo spiazzante, ti faceva supporre che la vicenda sarebbe finita in un modo completamento diverso da come poi realmente si erano svolti i fatti. Inutile chiederle ‘Dove vuoi andare a parare?’, perché era evidente che se ne era dimenticata, viveva ogni avvenimento come un frammento di presente scollegato dal passato e dal futuro.  Ma era mia sorella, e io continuavo ad avere pazienza e a volerle bene.

“Se avesse avuto una raccomandazione pensi che te l’avrebbe confessato?” non potei però trattenermi dal chiederle.

“Bè, caro Giorgio, sei proprio maligno! – tagliò corto Ada, sempre abile nel sottrarsi alla logica – Insomma dopo tanti sforzi e dopo avere perso il marito (‘Davvero una brava persona!, questo nessuno lo può negare, uno come i carabinieri di una volta’), insomma si meritava anche lei un po’ di tranquillità. E’ pur vero che non avendo figli aveva sfogato il suo istinto materno verso i bambini, ma nonostante questo era davvero stanca. E così  decise di ricongiungere i contributi versati al Comune come maestra d’asilo con quelli versati allo Stato come insegnante elementare per poter accedere alla sua meritata pensione. Insomma, era proprio arrivato il momento giusto, ecco.”

Intanto l’idea che si possa ‘sfogare’ l’istinto materno verso dei poveri bambini innocenti, definiti da Ada “pipinara insolente”, contiene un sottofondo minaccioso che mi sembrò ingiusto. Ada usava spesso parole e verbi impropri. Ma soprattutto mi rendo conto che se dovessi riferire quanto raccontato da mia sorella con tutte le sue divagazioni inutili, i ‘Capisci?’ e i suoi commenti fuorvianti ne nascerebbe un romanzo incredibilmente insulso di almeno centottanta pagine. Perciò sarà meglio che le tolga la parola e prenda in  mano le redini della storia. Sì, sarà meglio che la racconti a modo mio.

Antonia – eliminiamo la parola ‘signora’ – si recò alla sede INPDAP di Roma nord per avere informazioni sulla sua posizione pensionistica. Non aveva idea di cosa l’attendeva, nessuno l’aveva avvertita. Sul cartello attaccato alla porta a vetri dell’ingresso c’era scritto ‘Martedì e giovedì si riceve il pubblico per le pensioni’.

“Bene! – si disse – Sono fortunata, meno male che oggi è giovedì”.

Dopo aver strappato dalla macchinetta di plastica il suo numerino di carta controllò sul display: davanti a lei 5 persone attendevano di essere ricevute allo sportello n. 4.

Sospirò, si sedette e si guardò intorno. Un ufficio nuovo, grigio ma abbastanza luminoso e piuttosto elegante, il display in alto e i computer dietro le vetrate plastificate degli sportelli davano la sensazione di un luogo efficiente, moderno, uno di quei luoghi dove i problemi vengono risolti in fretta da impiegati gentili e competenti. Unica nota stonata: un massiccio poliziotto di sorveglianza vagava su e giù per l’atrio con in vista un gigantesco revolver che pendeva dal cinturone.

“Che bisogno ci sarà di un poliziotto privato, per giunta armato?” si chiese. Ma poi pensò ad altro e cominciò a fantasticare sul suo futuro da pensionata.

Quando lo squillo elettronico annunciò il suo turno, Antonia si affrettò a raggiungere lo sportello n. 4. Si accomodò su una confortevole sedia di morbida stoffa e si rivolse all’impiegato protetto dal plexiglas con un cordiale “Buongiorno”, subito ricambiata con altrettanta cordialità.

“Sono un’insegnante elementare. Vorrei conoscere la mia posizione pensionistica – dice lei – devo fare un ricongiungimento dei contributi versati al Comune con quelli versati al Ministero dell’Istruzione.”

“Lei da quanto è in pensione?” chiede l’impiegato sempre cordialissimo, pulito e profumato. Perfino bello, pensò Antonia, da sempre sensibile al fascino maschile, ancor più da vedova.

“Io non sono in pensione. Voglio andare in pensione, ho maturato i requisiti minimi  e vorrei sapere da voi quanto verrò a prendere mensilmente e quanto di liquidazione, se è possibile. Così posso regolarmi se mi conviene lavorare ancora per un paio di anni oppure no.”

“Cara signora, lei ha delle belle pretese! – fa il tipo diventato di colpo scostante – E in ogni caso io non posso fare nulla per lei. Oggi è giovedì e questo tipo di informazioni le diamo soltanto il mercoledì allo sportello n.2.”

“Mi scusi, ma sul cartello attaccato alla porta c’è scritto che il martedì e il giovedì ricevete il pubblico per le pensioni.”

“Certo. Infatti il martedì e il giovedì riceviamo per dare informazioni ai pensionati.”

“Ma sul cartello è scritto “per le pensioni”, non “per i pensionati”. Quindi dovreste darle anche ai pensionandi, cioè a quelli come me che hanno diritto a una pensione. Senza contare che sono trenta anni che ogni mese voi vi prendete una bella fetta del mio stipendio e vorrei sapere che fine fanno i miei quattrini.”

“Torni mercoledì prossimo e sicuramente un mio collega le dirà quello di cui ha bisogno. Oggi riceviamo solo i pensionati.”

“Allora dovete cambiare il cartello. Dovete scrivere che ricevete i pensionati e non che si riceve il pubblico per le pensioni. C’è qualcuno qui dentro che conosce l’italiano? – e comincia a guardarsi intorno e ad alzare la voce – Qualcuno ci sarà, spero. Io ho perso quaranta minuti più un’ora di viaggio tra andata e ritorno in autobus per nulla.”

“Mi dispiace, signora. Se adesso lascia libera la sedia posso chiamare il prossimo visitatore.”

“Io non lascio libero un fico secco. Io da qui non me ne vado se non mi vengono date le informazioni a cui ho diritto. Me ne vado, forse, se nel frattempo cambiate il cartello in ingresso. Forse. Mi riservo di decidere dopo che avrete corretto la scritta.”

L’impiegato si alza in piedi e fa un cenno in direzione della guardia giurata. Quello si avvicina caracollando con la faccia da feroce sceriffo texano.

“La signora qua ci sta impedendo di lavorare. Non se ne vuole andare e blocca la fila. Che vogliamo fare?”

“Mi scusi signora guardia, io voglio solo delle informazioni sulla mia posizione pensionistica, ma il signore qui si rifiuta di darmele. Sul cartello è scritto che il giovedì si danno informazioni sulle pensioni ma lui dice che si danno solo ai pensionati. Se sul cartello fosse stato scritto quello che dice lui non sarei rimasta qui quaranta minuti a fare la fila. Ma c’è scritto informazioni sulle pensioni. E allora? Che vogliamo fare lo chiedo io. Chi mi risarcisce di tutto questo tempo perso solo perché voi non sapete scrivere un cartello in italiano corretto? E lei, cara guardia, perché mi guarda così? Vuole forse spararmi addosso con quel suo pistolone, per caso?”

La guardia giurata cambia espressione. Sospira. Da duro superpoliziotto si trasforma in un bonario contadino ciociaro quale probabilmente è.

“Signora, facciamo così. Se lei ha da fare dei reclami ne ha diritto. Vada pure allo sportello n. 7 dove c’è il vicedirettore che si occupa di queste faccende e la ascolterà volentieri.”

“Certo – fa l’impiegato elegante – Vada allo sportello n. 7. Io qua devo continuare il mio lavoro e non se la deve prendere con me. Non sono io il responsabile dell’organizzazione.”

Antonia li guarda entrambi, cerca di capire se la stanno turlupinando o no ma da quelle facce da poker, allenate da tempo a dissimulare i giochi perfidi della PA, c’è poco da ricavare.

“D’accordo. Farò come dite voi e vediamo come va a finire.”

Si avvia verso il fondo della grande sala dove da un angolo della parete pende un  cartello con su scritto: n. 7. Una grande scrivania dietro il divisorio di plastica trasparente e una poltrona di foggia antica, una specie di pezzo di antiquariato, colpiscono l’osservatore per la loro imponenza quasi regale. Unico problema: su quella poltrona non è seduto nessuno. Lì intorno, vicino a lei, due uomini di una certa età passeggiano nervosamente. Antonia si rivolge a quello che le pare meno nervoso: “E’ qui che bisogna rivolgersi per fare dei reclami?”

Quello la guarda con i suoi occhi dalle sclere arrossate. Ha pochi capelli, lunghi e sporchi, barba grigiastra di almeno tre giorni e l’abbigliamento falso giovanile tipico dell’insegnante furibondo giunto al limite ultimo della sopportazione. La piega delle labbra denota disprezzo, non si capisce se verso se stesso o verso l’umanità tutta o verso entrambi, disprezzo acido misto a idealismo di facciata ormai fuori moda e genuina esasperazione. Deve essere uno di quelli capaci solo di tacere ribollendo o di urlare, quelli che non conoscono vie di mezzo.

“Già! – risponde a voce troppo alta – Peccato che sto aspettando da tre quarti d’ora. E quella non si vede.”

Antonia si allontana da quel tizio pericoloso. Preferisce aspettare una decina di minuti e poi si rivolgerà a un qualche straccio di sindacato per far valere i suoi diritti. Però aspetta, ha una piccola  speranza ma anche una curiosità acuta di vedere chi sarà mai ‘quella’ dello sportello n. 7.

Mentre attende nota un carabiniere di mezza età seduto di fronte a uno sportello – il numero 6 – sul quale è scritto ‘chiuso’. Sbirciando, scopre che il carabiniere sta conversando piacevolmente con un impiegato il quale, chissà perché, pare disposto ad ascoltarlo anche se lì è appeso il cartello con su scritto ’chiuso’. Si avvicina per origliare, senza darlo a vedere, e da alcuni frammenti di dialogo capisce che il carabiniere sta prendendo informazioni sulla futura pensione della moglie, anche lei insegnante elementare. All’orecchio di Antonia giungono parole del tipo ‘riscatto della laurea’, ‘montante contributivo’, ‘periodo calcolato col sistema retributivo’ e giungono perfino delle cifre come ‘circa millequattrocento euro se lascia il prossimo anno’ e ‘liquidazione in due rate perché supera sicuramente la somma di cinquantamila euro’.

Lo sdegno la assale e comincia a picchiarle in testa, si sente avvampare come ai tempi della menopausa. Vorrebbe intervenire, ma con uno sforzo enorme di autocontrollo capisce che è meglio farlo quando il carabiniere se ne sarà andato via. Dopo qualche minuto – intanto la poltrona dello sportello n. 7 è sempre implacabilmente vuota e al gruppetto dei furiosi in attesa si è aggiunta una signora elegante di evidenti pretese eccessive – il carabiniere ringrazia, quasi si inchina, e tutto contento si allontana. Antonia si precipita e blocca l’impiegato dello sportello n. 6 prima che se ne vada anche lui.

“Ho bisogno di qualche informazione sulla mia posizione pensionistica. So che lei è in grado di farlo, ho ascoltato prima mentre parlava con il carabiniere. Sia gentile, in fondo è un mio diritto.”

L’impiegato si guarda intorno con l’espressione dell’animale in trappola. Poi ritorna a sedersi e sussurra ad Antonia che lui può darle qualche informazione, ma solo in modo generico. “Sa, sono calcoli molto complicati. Se vuole delle cifre esatte si presenti una di queste mattine nella sede di questo sindacato – e si sfila dal taschino della giacca un biglietto da visita – e chieda un appuntamento con la dottoressa Genziana Benetuo. Senz’altro le darà una consulenza. Se si iscrive al sindacato le farà pagare solo la tariffa minima per le consulenze. Si può fidare, è una persona seria. Glielo posso garantire perché è mia moglie.” conclude, e dopo un sorriso carico di orgoglio coniugale si congeda con una stretta di mano.

Antonia rimane lì, con il biglietto da visita in mano. Si sofferma per un po’ a osservare il gruppetto di disperati che ronza intorno allo sportello n. 7 e per un attimo, per una volta nella sua vita, si sente quasi furba. Più furba di quanto mai nessuno avrebbe immaginato.

 

Il martedì successivo si incontra a mezzogiorno in punto nella sede del sindacato con la dottoressa Genziana Benetuo. Nello spazio di poco più di mezz’ora Antonia viene a sapere che una volta sistemata la pratica di ricongiunzione dei periodi lei potrà lasciare il lavoro l’anno prossimo e andare in pensione con un assegno mensile di milleseicentoventi o milleseicentocinquanta euro – “centesimo più centesimo meno” – e una liquidazione di circa settantaquattromila euro, ‘centesimo più centesimo meno’. Siccome Antonia non ha voglia di iscriversi a nessun sindacato perché pensa che a conti fatti ‘sono tutti solo dei parassiti’, parole sue, paga la consulenza della dottoressa Benetuo settanta euro senza ricevuta.

“In fondo ne valeva la pena – pensa – adesso so come posso organizzarmi.”

“Povera signora Antonia! – sospira mia sorella Ada – Non aveva proprio capito niente di come va il mondo!”

“Avanti, non mi tenere in sospeso – la incalzo io – Come va a finire tutta questa storia?  Senza farla tanto lunga.”

“E’ andata a finire che quando lei è tornata alla sede INPDAP, nel frattempo inglobata nell’INPS, per ringraziare l’impiegato dello sportello n. 6 del prezioso suggerimento ricevuto, ha visto che seduta sulla poltrona regale dello sportello n. 7, quello dei reclami, bè, indovina chi ci stava lì, su quella poltrona?”

“Forza, chi ci stava?”

“Su quella poltrona era seduta in pompa magna proprio la dottoressa Benetuo. La cosa non le è piaciuta affatto, ha fiutato l’inghippo, ma alla fine ha preferito lasciar correre. Ormai desiderava soltanto aspettare il 1 settembre dell’anno successivo e andare tranquillamente in pensione.”

“E ci è riuscita?”

“No”

“Non mi dire che è morta la notte tra il 31 agosto e il 1 settembre dell’anno successivo.”

“No. Non è affatto morta, anzi, è ancora viva e lotta insieme a noi.”

Ogni tanto Ada fa delle battute veramente stupide, ma io continuo a volerle bene.

“Insomma! – grido esasperato – Che diavolo è successo a questa Antonia?”

“E’ successo che l’INPS, dove aver accorpato l’INPDAP, si è accorta che non ce la facevano a occuparsi delle pensioni dei lavoratori privati più tutta l’assistenza, la cassa integrazione e le pensioni degli statali, e così il governo ha deciso di ricreare l’INPDAP per gli statali (adesso ha un altro nome che non ricordo). E per riorganizzare tutto quanto, dal trasferimento dei dati, dei fascicoli, all’allestimento di nuove sedi, si sono presi altri due anni di tempo per occuparsi delle pensioni degli statali.”

“Quindi tutto congelato per due anni?”

“Due anni per iniziare. Poi per arrivare alla liquidazione delle pratiche un altro annetto buono.”

“E la signora Antonia?”

“La signora Antonia ha creato un’associazione di pensionandi statali furiosi, si è iscritta a un partito politico che appoggia il governo ma minaccia tutti i giorni di farlo cadere, ha  chiamato l’associazione ‘Sportello n. 7’ e si è fatta eleggere rappresentante sindacale. Ha ottenuto perfino il distacco dall’insegnamento e quando andrà in pensione pare che oltre alla pensione come insegnante ne riscuoterà anche un’altra speciale riservata ai sindacalisti che hanno ottenuto il distacco. E’ diventata cara amica della dottoressa Genziana Benetuo, è tutta contenta, piena di energia e combatte come una leonessa contro le disfunzioni del nostro sistema pensionistico. Come niente fra un po’ la candidano alla Camera dei deputati.”

Ancora una volta non potevo fare altro che tacere. Questa sì che era una lezione di vita.

“Insomma, caro Giorgio, la morale della storia è semplice. Al mondo ci sono i furbi e poi gli imbecilli come me e come te.”

Che Ada potesse essere definita imbecille non sarò io a impedirlo, ma onestamente non mi piaceva essere inserito nella sua stessa categoria. E mentre riflettevo e cercavo di obiettare qualcosa a quell’ennesima banalità mi sono reso conto che non ci riuscivo. Inutile lambiccarsi il cervello. Ecco perché alla fine mi sono dovuto arrendere al fatto che a volte quelle che ci appaiono come ovvietà, luoghi comuni e banalità sono semplicemente solide, indiscutibili verità. Ecco perché a voler fare troppo i sofisticati può capitare di finire in compagnia degli imbecilli mentre i furbi procedono per la loro strada senza curarsi di apparire banali.

In copertina: Arturo Martini, Il poeta Cechov, terracotta, 1921-1922

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Ogni giorno politici, sociologi economisti citano un fantomatico “Paese Reale”. Per loro è una cosa che conta poco o niente, che corrisponde al “piano terra”, alla massa, alla gente comune. Così il Paese Reale è solo nebbia mediatica, un’entità demografica a cui rivolgersi in tempo di elezioni.
Ma di cosa e di chi è fatto veramente il Paese Reale? Se ci pensi un attimo, il Paese Reale siamo Noi, siamo Noi presi Uno a Uno.  L’artista polesano Piermaria Romani  si è messo in strada e ha pensato a una specie di censimento. Ha incontrato di persona e illustrato il Paese Reale. Centinaia di ritratti e centinaia di storie.
(Cliccare sul ritratto e ingrandire l’immagine per leggere il testo)

PAESE REALE

di Piermaria Romani

 

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