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Croce Rossa Italiana Ferrara
La forza del volontariato: “Un’Italia che aiuta”

Croce Rossa Italiana, Associazione di Promozione Sociale, ha per scopo l’assistenza sanitaria e sociale sia in tempo di pace che in tempo di conflitto. Posta sotto l’alto patronato del Presidente della Repubblica, la Cri fa parte del Movimento Internazionale della Croce Rossa e della Mezzaluna Rossa. Nelle sue azioni a livello internazionale, nei Paesi in conflitto, si coordina con il Comitato Internazionale della Croce Rossa e con la Federazione Internazionale di Croce Rossa e Mezzaluna Rossa per gli altri interventi. A livello nazionale è organizzata in Comitati dislocati su tutto il territorio.

Volontario della Croce Rossa dal 1987, attuale presidente del comitato di Ferrara, Alessio Zagniconserva intatta l’energia dell’imprenditore morale che opera per passione e mostra il sentimento di chi, pensando alla propria organizzazione, riesce ancora a commuoversi: “le donne e gli uomini di Croce Rossa sono persone fantastiche e io come molti volontari, sento di appartenere a qualcosa di importante”. E aggiunge subito: “Siamo un’organizzazione molto grande e complessa, forse la più grande in Italia, e ci impegniamo tutti molto per mantenere la nostra indipendenza e l’efficienza su cui si reggono funzionalità e buona reputazione. Pur non avendo mai avuto la stretta necessità di lavorare su comunicazione esterna e immagine, cosa su cui oggi invece investiamo molto, sappiamo che Croce Rossa e Mezzaluna Rossa sono i simboli  più conosciuti al mondo. Anche a livello locale, abbiamo riscoperto l’importanza di comunicare meglio: la recente riorganizzazione dell’ente che lo ha trasformato da pubblico a privato ci spinge in questa direzione, ci spinge a lavorare per uniformare pratiche e strumenti a livello nazionale diventando al contempo sempre più radicati sui territori”.

Come siete organizzati sul territorio ferrarese? Che dimensioni ha l’associazione?
La Croce Rossa di Ferrara si estende sul territorio coincidente con la provincia, fatta eccezione per il comitato di Cento-Bondeno che da poco ha acquisito una propria indipendenza. Con la riforma, tuttavia, il livello provinciale è stato eliminato e questo passaggio ha portato più autonomia ai singoli territori, garantendo un più forte radicamento alla realtà locale e consentendo di sviluppare una visione più imprenditoriale, centrata sul corretto investimento delle risorse per garantire servizi ottimali alle comunità che vivono sui territori.
Oggi operano sul territorio ferrarese circa 500 volontari a cui si affiancano 7 dipendenti, di cui 6 tecnici per trasporti sanitari e un’impiegata amministrativa. Tutti noi volontari, me compreso, garantiamo la nostra opera senza ricevere dall’associazione alcun compenso, come peraltro si evince dal nostro bilancio approvato di recente all’unanimità dalla nostra Assemblea Provinciale.

Una tale organizzazione richiede sicuramente un forte impegno e molte risorse per poter funzionare. Quali sono le risorse finanziarie che usate e come le producete?
Siamo un’Associazione di Promozione Sociale, ma lo spirito è quello dell’impresa sociale, con un bilancio importante di oltre 500.000 euro: ci siamo organizzati per offrire servizi di qualità nel modo più efficiente possibile, valorizzando tutte le nostre risorse per adempiere alla nostra missione: salvare vite umane e aiutare le persone in stato di difficoltà o di fragilità.
Le risorse economiche generate, sono assorbite dai costi fissi (la struttura, i mezzi, il personale dipendente) oppure vengono reinvestite per offrire servizi sempre migliori, per disporre delle risorse necessarie a gratificare l’orgoglio dei volontari, che devono sentirsi competenti, parte di una struttura efficace con mezzi all’avanguardia. Lo spirito imprenditoriale serve a gestire correttamente e valorizzare al massimo tutte le nostre risorse.
Non riceviamo alcuna forma di contributo o sussidio pubblico: ci finanziamo vendendo servizi di alta qualità che produciamo grazie alle competenze dei nostri volontari e dei nostri operatori fissi. Dalla vendita dei servizi che eroghiamo in regime di convenzione deriva oltre il 90% delle nostre entrate; abbiamo due macchine che fanno servizio 118 per il Servizio Sanitario Nazionale; realizziamo interventi di assistenza a manifestazioni, grandi eventi e in tutti quei casi nei quali ci viene richiesta presenza per garantire la sicurezza sanitaria: le partite della Spal, il servizio a Ferrara sotto le Stelle, il Capodanno al Castello, il Palio e poi manifestazioni sportive, culturali e molto altro. Gli investimenti in attrezzature e in formazione ci consentono di gestire al meglio questi grandi eventi. Realizziamo trasporti sanitari da e verso gli ospedali coprendo anche lunghe percorrenze, in tutto il mondo. Abbiamo per esempio accompagnato a casa un assistente familiare filippino in stato terminale, abbiamo fatto rientrare malati da paesi anche molto lontani come l’India o l’Ucraina inviando fin là i nostri operatori.
Ci occupiamo anche di formazione, sia per i nostri volontari che per esterni, soprattutto sicurezza sul lavoro (ex legge 626) e primo soccorso. Proponiamo corsi a prezzi competitivi e rilasciando attestati a norma di legge grazie alla nostra scuola di formazione intitolata ad Alessio Agresti, volontario morto in un incidente stradale ormai 16 anni fa. Altre piccole entrate vengono da attività di fundraising (banchetti, raccolte fondi, lasciti, donazioni: uno per l’acquisto di un’ambulanza molti anni fa e quest’anno una donazione importante per l’acquisto di defibrillatori). Queste sono le nostre entrate: mai ricevuti finanziamenti dal Comitato Nazionale o da altre fonti. Per noi è importantissima questa trasparenza sulle entrate anche per salvaguardare la reputazione di Croce Rossa e la qualità del lavoro dei nostri volontari.

Considerato che la gran parte delle entrate deriva dalla vendita di servizi, come vi siete organizzati per ‘garantirvi un mercato’? Incontrate difficoltà nel vendere i vostri servizi?
Oggi riceviamo tantissime richieste: se avessimo il doppio di mezzi e dei volontari ci sarebbe ancora di più da lavorare! Con l’organizzazione attuale rinunciamo invece a molti servizi – i volontari infatti durante il giorno svolgono altre occupazioni – perché non ci è possibile seguire tutto; in questi casi dirottiamo le richieste verso altre associazioni che godono della nostra fiducia e stanno all’interno della rete. Non puntiamo necessariamente all’economicità dei nostri servizi ma, mettendo in campo attrezzature all’avanguardia e grandi competenze, riusciamo nondimeno a essere molto competitivi. Per i grandi eventi, per esempio, mettiamo in campo di attrezzature il cui valore supera i 150.000 euro, tanto per dare un ordine di grandezza. Investiamo quindi sulla qualità elevata dei nostri servizi.

Hai parlato di un fatturato importante: come utilizzate e investite le entrate?
La maggior parte delle nostre entrate contribuisce al costo per il personale dipendente, per l’acquisto di beni strumentali, per le spese vive e per azioni di inclusione sociale. A titolo di esempio, abbiamo pagato nell’ultimo anno almeno 23.000 euro di assicurazioni per veicoli e personale; abbiamo acquistato due ambulanze, ognuna delle quali costa circa 70.000 euro. Oggi disponiamo di tre ambulanze in servizio 118, di 36 mezzi tra furgoni, mezzi speciali per trasporto disabili, autocarro, carrello cucina, carrello posto avanzato, perfino due gommoni, un campo di addestramento per le nostre unità cinofile e un sistema di radiocomunicazioni digitali tra i più evoluti. Tutta attrezzatura molto costosa, anche per le spese di manutenzione (oltre che di acquisto), ma di qualità e indispensabile per lavorare bene. A livello nazionale, considerando le diverse realtà locali di Croce Rossa, siamo forniti davvero di tutto, comprese motoslitte, generatori e spazzaneve dislocati nei centri presenti sui diversi territori. Ci mancano solo gli elicotteri!
Ciò che resta tolte le spese viene investito in azioni di inclusione sociale: assistenza a famiglie, ma anche a chi ci chiede una mano; ma sempre e solo tramite beni e servizi. Generi alimentari per esempio, che acquistiamo usando gli utili per integrare quello che riceviamo dal Banco Alimentare e da Agea, interventi che sono proposti dai servizi sociali, ragazzi bisognosi, carcerati che chiedono anche solo un paio di occhiali. Comunque non eroghiamo mai denaro, ma lo traduciamo in servizi o in beni.

I volontari sono la risorsa distintiva di Croce Rossa: come si avvicinano all’associazione e come la vivono quando entrano?
In Croce Rossa si può entrare a partire da 14 anni, nel settore giovanile, facendo attività che consentano di crescere poco alla volta. Non vi sono però limiti di età né preclusioni di sorta. Tutti i soci di Croce Rossa pagano una quota associativa annuale: ci sono soci ordinari che sono semplicemente iscritti senza svolgere attività diretta, ma la stragrande maggioranza svolge servizio attivo come volontario. Solitamente il volontario si avvicina perché coinvolto da amici e familiari o perché ha visto lavorare Croce Rossa dopo le grosse emergenze, che solitamente accrescono considerevolmente il numero di richieste di ingresso. C’è anche chi si avvicina, ma poi ‘prende paura’: essere volontario è comunque un impegno di grande responsabilità, verso se stessi e verso gli altri. C’è chi cerca di mettere in pratica valori, chi vuol essere in grado di fare qualcosa di utile in caso di bisogno, chi subisce il fascino della divisa, chi si avvicina per semplice curiosità. Certo, chi si innamora di Croce Rossa ci resta tutta la vita; tuttavia anche da noi, nonostante le numerose richieste, c’è un grande ricambio.
Al volontario viene chiesto molto per mantenere in piedi una realtà così complessa, serve molta motivazione. E anche a noi capita, a volte, di non riuscire a valorizzare a pieno le caratteristiche di una persona oppure di non riuscire sempre a trasmettere quel che vorremo, questa passione, questo senso di identità. Cerchiamo comunque, sempre, di valorizzare anche chi può dare solo un’ora alla settimana. Ma resta il fatto che al volontario si chiede veramente tanto. I volontari lavorano come matti, ce la mettono tutta, sono sempre pronti, partecipano e partono quando c’è bisogno, rinunciano, per qualche giorno, al lavoro remunerato e quando tornano, stanchi, si portano a casa le esperienze, le relazioni personali, un ulteriore bagaglio personale.
Le donne e gli uomini di Croce Rossa sono gente fantastica che si impegna e ce la mette tutta; e lo si vede ancor di più quando ci sono emergenze a livello locale o nazionale. L’estate scorsa, sono partiti il giorno stesso del terremoto e senza sapere che difficoltà avrebbero trovato, dovendo allestire tutto e non sapendo, arrivando sul luogo per primi, cosa li aspettasse. Quando arriva la richiesta di partenza loro sono già pronti, sappiamo che la risposta c’è, sempre efficiente, professionale e disinteressata. Questa è la grande ricchezza del volontariato in ogni ambito.
Quando il terremoto ha colpito la nostra regione, i volontari erano già presenti in sede alle 5 del mattino, subito disponibili per ogni necessità del territorio. Sono cose che emozionano, la grande macchina della solidarietà oggi diventata più veloce ed efficiente. E tra i volontari, i giovani, femmine e maschi sono presenti: la loro presenza mostra che essi sono l’adesso, non solo il futuro, come una certa retorica sostiene in modo scontato.

Come pensi e vedi il futuro della Croce Rossa a livello locale?
Oltre all’impegno nei trasporti sanitari, molti non sanno che, per esempio, disponiamo di unità cinofile e Servizio opsa, operatori polivalenti salvataggi in acqua, tutte figure che rientrano nei soccorsi speciali. Abbiamo un’idroambulanza a Codigoro e una a Ferrara; siamo in ottime relazioni con altri territori, Bolzano per esempio, dal quale abbiamo mutuato l’idea del posto medico avanzato (Pma); abbiamo un gruppo logistico molto efficiente. Per noi diventa importante dare evidenza di questa complessità, comunicare meglio questa ricchezza, che è innanzitutto umana, insieme ai nostri valori. A livello locale vale ciò che è anche generale, internazionale: essere risorsa delle comunità e dei propri territori; senza sostituire il servizio pubblico, ma sostenendolo e creando valore aggiunto. Essere associazione ci permette di fare rete meglio: nel futuro vedo una Croce Rossa con ruoli ben definiti, sociale e sanitario, una rete con tutto il mondo del volontariato e delle istituzioni. Il sogno è quello di vedere Croce Rossa agire in un campo comune dove, con chiarezza di ruoli e perfetta sinergia, operano tutti gli attori in rete.

Per conoscere meglio la Croce Rossa di Ferrara http://www.criferrara.it
Immagini tratte dal profilo fb Croce Rossa Italiana – Ferrara

Valore economico contro valori sociali: quattordici lavoratori de Il Germoglio a rischio

L’Italia è una repubblica democratica, fondata sul lavoro.
(Costituzione della Repubblica Italiana, Art. 1, comma 1)

L’iniziativa economica privata è libera.
Non può svolgersi in contrasto con l’utilità sociale o in modo da recare danno alla sicurezza, alla libertà, alla dignità umana.
La legge determina i programmi e i controlli opportuni perché l’attività economica pubblica e privata possa essere indirizzata e coordinata a fini sociali.
(Costituzione della Repubblica Italiana, Art. 41)

Quanto vale la dignità di 14 lavoratori? Quanto vale l’occasione di riscatto per 10 persone disabili che attraverso il lavoro riprendono in mano la propria vita, danno il proprio contributo alla famiglia e alla società in cui vivono?
25.000 euro. Questa è la differenza fra l’offerta economica della ditta di Roma che ha vinto e quella della Cooperativa Sociale ferrarese Il Germoglio, che ha perso per una manciata di decimali l’appalto di un servizio che gestiva da 12 anni, dal 2005.
Da fine settembre Fabio, Marino, Antonella, Marzia, Melissa, Amin, Stefania, Giuseppe, Sergio, Marco, Gladis, Alessio, Laura e Veronica non sanno che ne sarà di loro.

La gara d’appalto è quella per la fornitura, per conto dell’Asl, di ausili protesici ai cittadini del territorio di Ferrara che ne hanno bisogno e ne hanno diritto: letti, carrozzine, deambulatori e altri articoli.
“Tutti i soggetti che si sono presentati erano profit e non ferraresi, Il Germoglio era l’unica cooperativa sociale e l’unica realtà del territorio”, spiega il presidente Biagio Missanelli. Nessuna irregolarità, chiarisce subito Missanelli, e la gara non seguiva nemmeno il tanto vituperato criterio del massimo ribasso, ma quello dell’offerta economicamente più vantaggiosa. “La nostra offerta si è classificata prima sul criterio della qualità, che valeva il 60% del punteggio, mentre la ditta di Roma su questo aspetto è arrivata ultima. Per quanto riguarda il criterio del prezzo, che valeva il 40% del totale, noi siamo arrivati terzi, mentre la Srl romana prima”. 300.000 euro la base d’asta della gara, 225.000 l’offerta economica dell’impresa di Roma, 250.000 l’offerta della Cooperativa sociale Il Germoglio.
“Dal punto di vista delle procedure e dei dati oggettivi è tutto regolare”, ripete Missanelli, che però contemporaneamente afferma che oltre la forma c’è la sostanza. “L’Asl ha peccato di superficialità perché ha trattato questo servizio come una qualsiasi fornitura”, non considerando il valore sociale sia per chi riceve il servizio come utente – 16.000 persone in 12 anni – sia per chi lo fornisce come lavoratore, persone seguite dal Dipartimento di Salute Mentale e ad altri servizi della stessa Asl, oltre ai Servizi Sociali.

Il presidente de Il Germoglio e i lavoratori si pongono alcune domande.
Dodici anni di collaborazione non valgono nulla? “I primi anni, ai tempi di Erba Voglio, fornivamo il servizio come attività di volontariato, attraverso una convenzione, poi è venuto l’appalto”, ricorda Missanelli con una punta di amarezza.
I risultati raggiunti in questi anni dal punto di vista della qualità e della sostenibilità del servizio non valgono nulla? Dieci persone, sulle quattrodici che ora vedono a rischio il proprio posto di lavoro, hanno una disabilità superiore al 50% e hanno fornito un servizio ineccepibile: hanno consegnato gli ausili in magazzino o direttamente nelle case di chi non poteva ritirarli, spiegando ai diretti interessati o ai familiari o ai badanti in modo semplice l’uso, per esempio, del sollevatore o del deambulatore. Inoltre, grazie al loro lavoro, “l’Asl è stata l’azienda più virtuosa in ambito regionale con l’89% di ausili usati recuperati”, rivendicano Il Germoglio e i lavoratori.
L’inclusione, l’autonomia, la dignità di queste persone non valgono nulla? Questi quattordici lavoratori non chiedono assistenza, “rivendicano la dignità conquistata attraverso il proprio lavoro”, “sono formati e hanno le competenze per svolgere il proprio lavoro”, sottolinea con forza Missanelli. Alcuni hanno rinunciato alla pensione per avere lo stipendio e con questo stipendio mantengono le loro famiglie, perché spesso è l’unica entrata mensile: “uno di loro, sessantenne, mantiene se stesso e la moglie, un’altra ragazza, insieme al fratello precario, sosteneva i genitori e il fratello disabile, e questi sono solo due casi”, spiega il presidente de Il Germoglio.

Ora tutte queste situazioni sono a rischio perché “sebbene l’appalto preveda una clausola sociale, questa vale nella misura in cui il committente, cioè l’Asl, decide di farla valere”.
Ecco perché la cooperativa e i sindacati chiedono a gran voce che l’Asl e la ditta romana che ha vinto l’appalto prendano l’impegno di “riassorbire questi lavoratori”. Per questo motivo, dichiara Biagio Missanelli unitamente alla dirigenza di Confcooperative Ferrara “faremo sentire la nostra voce attraverso la stampa, andando nelle piazze, facendo appelli. Tutto quello che serve, senza stancarci, per dare un’impronta etica e sostenibile al nostro lavoro, per noi e per chi dovrà subire in futuro la rigidità del principio di concorrenza contro il principio del buon senso, del principio del massimo risparmio contro il principio del valore pubblico di un servizio, del principio della globalizzazione contro il principio della territorialità”.

Un sorriso per l’Africa: intervista al presidente di Smile Africa Gianni Andreoli

“Ho sempre amato le sfide”, sorride Gianni Andreoli, presidente dell’associazione Smile Africa.
Dopo aver collaborato per anni con associazioni di volontariato in ambito nazionale, Gianni partì per l’Africa, in visita a varie missioni umanitarie. Durante il viaggio attraverso Burundi, Congo, Etiopia, Tanzania, insieme a un gruppo di amici, Gianni maturò l’idea di creare una propria realtà di volontariato. Era il 2007 e iniziava l’avventura umana di Smile Africa (www.smileafrica.it), un’associazione che opera in Africa e in Italia e si impegna in attività culturali e progetti educativi volti a migliorare le condizioni di vita delle persone.
“La prima sede di Smile Africa era il garage di mia nonna”, racconta sorridendo il presidente. Ora la sede è a Rovigo, ma Smile Africa è costituita da più gruppi di volontari presenti e attivi nel territorio italiano, che rappresentano il vero motore dell’associazione.
Nel 2010, durante una missione in Mozambico e Tanzania, Andreoli sentì parlare di Chipole, un villaggio “dove nessuno voleva andare”. Insieme all’associazione ferrarese Afrika Twende, con la quale nacque una stretta collaborazione, Gianni intuì che quello sarebbe stato un progetto per Smile Africa. Gli raccontarono di una “lunga strada bianca, sterrata, in mezzo alla foresta” che isolava quel villaggio dalle altre comunità della Tanzania. Non lo scoraggiarono nemmeno le quattordici ore di jeep tra la città di Dar es Salaam e Songea Chipole, traballando tra buche e fango su una panca di legno; anzi, gli ostacoli divennero il mordente per un’appassionante, bellissima sfida.
In questi anni i volontari di Smile Africa hanno realizzato a Chipole un piccolo ospedale – centro sanitario, con l’intento di fornire una struttura per fronteggiare necessità sanitarie alla popolazione più povera del villaggio e di altri sei limitrofi (Progetto‘Hope Of Life’, “Speranza di vita”). L’ospedale è l’unico nell’arco di 100 chilometri e il suo bacino di utenza raggiunge i centomila abitanti.

Il progetto di Isabella Malagutti

Accanto sorge l’orfanotrofio di Chipole, gestito dalle suore benedettine. In questi mesi Smile Africa sta promuovendo e ricercando fondi per il progetto ‘La Casa del sorriso’, per ristrutturare e riqualificare proprio la struttura che accoglie i bambini orfani, alla quale è annessa una scuola.
A Ferrara una coppia di professionisti – l’architetto Isabella Malagutti e il dottore in fisica Andrea Colombani – cura gratuitamente il progetto degli interventi necessari alla riqualificazione dell’orfanotrofio di Chipole.
I volontari di Smile Africa hanno fotografato e misurato la struttura già esistente, che è stata poi ricostruita virtualmente in 3d da Andrea Colombani attraverso il sistema Bim; Isabella Malagutti ha quindi progettato alcuni micro interventi per costruire e riqualificare la struttura nel rispetto dei principi architettonici locali. Gli interventi previsti non andranno a inficiare la tecnologia costruttiva, in continuità con l’esistente: si utilizzeranno materiali reperibili in Africa e tecniche di costruzione tradizionali.

Gianni, qual è la filosofia del progetto?
Noi pensiamo che non abbia senso costruire fabbricati avveniristici, con tecnologie occidentali: strutture come quelle finiscono per diventare le cosiddette ‘cattedrali nel deserto’, destinate a usurarsi o a essere abbandonate perché difficili da gestire e mantenere. Il nostro obiettivo è quello di collaborare rispettando le tradizioni locali, fornendo alle persone gli strumenti per crescere in autonomia. Si coinvolgeranno quindi i lavoratori del luogo, per formarli e garantire la manutenzione della struttura che verrà riqualificata.
Per l’avvio dell’ospedale, per esempio, il governo locale si è impegnato a stipendiare il personale medico-sanitario che lavora nella struttura. Il convento e la missione delle suore benedettine rappresentano il ‘cuore’, il centro di aggregazione di una comunità: l’ospedale, le scuole primaria, secondaria e la scuola di avviamento al lavoro sono realtà attive grazie alle quali Chipole cresce, valorizzando le proprie risorse. La riqualificazione dell’orfanotrofio grazie al progetto ‘La casa del sorriso’ migliorerebbe gli spazi dal punto di vista logistico e socio sanitario.

Come si può collaborare per far crescere la Casa del sorriso?
Al progetto si può partecipare con le donazioni: è possibile destinare il 5×1000 a Smile Africa Onlus per sostenere le opere e i progetti che l’associazione promuove, (scrivendo nella dichiarazione dei redditi il Codice Fiscale: 01330220292; info@smileafrica.it) o inviando sostegni liberali attraverso il conto corrente dell’associazione.
Chi volesse collaborare attivamente, toccare con mano la realtà di Chipole e impegnarsi a lavorare alla ristrutturazione, infine, può recarsicome volontario in Africa (il viaggio aereo è a proprie spese, mentre vitto e alloggio sono garantiti per il periodo di permanenza): un viaggio in Tanzania rappresenta un’opportunità autentica per incontrare e conoscere i destinatari del progetto. Da qualche anno, in collaborazione con le università di Padova, Rovigo e Ferrara, anche gli studenti possono recarsi all’estero per un periodo di tirocinio.
Come si legge nei racconti di chi ha lavorato come volontario, si tratta di un’esperienza che può aprire occhi, mente e cuore.

Clicca sulle immagini per ingrandirle

volontarie di Smile Africa
Gianni Andreoli con bimbi della missione
bimbi di Chipole

Che cosa ha scoperto andando in Africa?
L’Africa è davvero un altro mondo, quando si decide di partire per l’Africa bisogna abbandonare il pensiero occidentale: là sono totalmente diversi i concetti di tempo e di lavoro. È radicata inoltre la convinzione che in Italia e in Europa sia semplice guadagnare denaro; proprio per questo motivo abbiamo portato in Italia una delle suore benedettine africane che collabora attivamente al progetto: ha assistito ai mercatini, alle manifestazioni e agli spettacoli organizzati con fini benefici e si è resa conto delle difficoltà che i volontari incontrano nel raccogliere fondi per le missioni.
Lavorando nelle zone remote dell’Africa, non solo ho conosciuto un’altra cultura, ma ho riscoperto la mia identità, la mia occidentalità. Ho capito che oltre a dare una mano alle persone in Tanzania, sentivo il bisogno di ritornare a impegnarmi anche nel luogo dove sono nato. Infatti in Italia ci stiamo dedicando alla disabilità e alcuni progetti di Smile Africa sono dedicati ai ragazzi diversamente abili, per favorirne l’integrazione sociale.

Quali difficoltà ha incontrato in questi anni?
È molto complicato fare bene il bene. L’incontro con una cultura diversa richiede molta pazienza. Quando ci si impegna a fare qualcosa per gli altri, è fondamentale la capacità di saper accettare chi ti sta di fronte, senza volerlo cambiare: solo se superiamo questo atteggiamento, riusciremo a costruire società coese. È importante soprattutto tollerare sia i nostri limiti, sia quelli degli altri, senza ricadere nel proprio egoismo, senza dimenticare mai la gratuità. Per me significa non rinunciare a un ideale, vuol dire comunicare verso la vita, costruire una ‘realtà del sorriso’. Questa è la mia filosofia: un atteggiamento di comprensione e di apertura all’altro. Ma non nego che ho attraversato diversi momenti difficili, di fatica e di crisi.

Eppure alla domanda “Non ha mai pensato di lasciar perdere?”, Gianni risponde con un monosillabo inequivocabile: “No”.

La bella estate dei bambini a Ferrara

Anche la pioggia si è dovuta arrendere davanti a quella banda scalmanata e colorata che è il popolo di Estate Bambini. Così, dopo una notte e una mattinata di pioggia intensa, nel pomeriggio di domenica scorsa, le nubi hanno un pochino arretrato, illuminando con bei fasci di luce pomeridiana l’ultima giornata della manifestazione che, da ben 24 anni, anima la piazza dell’Acquedotto. Ma non mi si chieda un resoconto giornalistico sull’evento, perchè quando si parla dei Centri per le famiglie e delle loro innumerevoli attività sono assolutamente di parte, e ridurre a un mero resoconto le attività che per dieci giorni hanno caratterizzato i pomeriggi dei piccoli cittadini e dei loro famigliari sarebbe cosa di poco conto. Mamma non autoctona con bambina piccola, sono stata praticamente adottata dalle educatrici dell’Isola del Tesoro, trovando nel Centro per le famiglie, una solidissima struttura fatta di tante persone che forniscono aiuto, consulenza, pomeriggi di animazione per i bambini o semplicemente due chiacchiere davanti ad una tazza di thè. Io sono italiana e integrata, pensate all’effetto dirompente che questo può avere su chi, spaesato nel vero senso della parola, non parla neanche la nostra lingua. (leggi qui un esempio narrato da Ferraraitalia).

Estate Bambini è quindi il risultato tangibile di questa bella sinergia. Un rapporto di fiducia che lega gli educatori e volontari dell’associazione C.i.r.c.i. e i genitori e che si riverbera sui bambini ai quali, come in un paese delle meraviglie, è regalata una settimana piena di attività, ludiche ed educative, tra le più varie. La festa ha avuto inizio il 1 settembre con la ‘Notte bianca dei bambini’ ed il centro cittadino si è trasformato in luogo di giochi e spettacoli di animazione, per poi continuare, da martedì 4 settembre fino a domenica 10, in piazza XXIV Maggio. Qui la attività proposte sono talmente tante che un elenco esaustivo sarebbe troppo lungo da fare. Credo, aldilà di tutto, che sia importante cogliere lo spirito che anima queste giornate. A iniziare dall’elemento che maggiormente caratterizza in positivo la manifestazione: la presenza dei tanti giovanissimi volontari che, senza sosta, si spendono per la buona riuscita della manifestazione.

Edicola dei giovani volontari
Volontari ad Estate Bambini

Il volontariato dei ragazzi, che nasce all’interno dell’associazione C.i.r.c.i., vede i giovanissimi cimentarsi in diverse esperienze che vanno dall’animazione della baby dance alla lettura di favole e racconti nella Tana delle storie, fino alla cucina nel punto ristoro KinderOne. Sono poi gli stessi giovani volontari del laboratorio teatrale a mettere in scena il bellissimo spettacolo ‘E la nave va’, a cura di Antonella Antonellini e Patrizia Nanu, che ha fatto il pieno di applausi e pubblico. Altrettanto varia e interessante è stata la programmazione all’interno dell’Isola del Tesoro: la biblioteca sempre a disposizione degli appassionati piccoli lettori e una mostra intitolata ‘Mostra Paparapapà’, che rendeva omaggio a tutti i papà che passano a Estate bambini.

Interessante la programmazione dei cortometraggi e lungometraggi dedicati ai più piccoli (da ‘Il Monello’ di Chaplin a ‘Shaun la pecora’, fino a Miyazaki con ‘Il mio vicino Totoro’) nello spazio cinema dell’Isola.

Ho desiderato tornare bambina per poter partecipare sabato notte alla ‘Notte dei piccoli lettori insonni’. I bambini dai sette ai dieci anni, sacco a pelo e pigiamino d’ordinanza, hanno pernottato all’interno dell’Isola del Tesoro tra letture di fiabe, cioccolata calda e battaglie di cuscini. Insomma, spero che concordiate con me: se è vero che l’Italia non è un paese per giovani (parafrasando un famosissimo film) credo proprio che Ferrara sia una città per bambini.

(Foto tratte dalla pagina Facebook di C.i.r.c.i. Ferrara)

BORDO PAGINA
Tra Adriano Spatola e Italo Calvino: intervista a Sergio Gnudi

Biografia minima
Come scrittore e poeta sono attivo dai primi anni ottanta con tre opere “Tra due fuochi”, “Scorie Padane” e “Iperbolia”. Opere che erano certamente sulla scia della tradizione di rottura e di ripensamento dei canoni di Adriano Spatola. Un’azione dirompente nell’ambito della scrittura. Poesia totale è alla base di quelle opere. Dopo molto tempo ho rivoluto gridare non so io nemmeno che cosa, ma certamente produrre qualcosa di nuovo, di stimolante. Nel 2007 è uscito “Del diavolo e della santità” che è il libro di passaggio e di consapevolezza che la rottura dei canoni può avvenire anche attraverso la rilettura degli antichi. Così è nata la trilogia classica “A Cinzia”, “Raccontami o Dea” e “Il filo di Afrodite”. Ma la poesia deve essere totale come aveva insegnato Spatola e allora sono seguite due opere “Stagioni quotidiane” una pseudo bucolica e “Incitamento alla politica” nel 2016. Nel frattempo la mia attività di giornalista, intervistatore e scrittore mi ha portato a ripensare perché così pochi leggono in Italia. E allora nella mia ricerca ho scritto e sto scrivendo libri per ragazzi che hanno avuto un’ottima diffusione nelle scuole “La mamma racconta gli eroi” la cui traduzione in francese ha partecipato al salone del libro dell’Ile de France, e “Le storie di Antonio”. L’espressione attraverso le parole però ti riporta alla contaminazione tra le arti e così insieme con il musicista Beppe Giampà sono nate “Era Febbraio” nel 2015 e “Era ingenuo il tuo sorriso” nel 2016, due reading musicali per il teatro.

Gnudi, il tuo ultimo lavoro dedicato a Calvino e al suo Marcovaldo, presentato anche a Autori a Corte 2017, un approfondimento?
“Era ingenuo il tuo sorriso” nasce inizialmente da una collaborazione con un musicista astigiano, Beppe Giampà, con cui avevo prodotto già nel 2015 “Era febbraio”, un viaggio musicale recitato sulla Resistenza di ieri e di oggi, presentato oltre che a Padova, Asti e Milano anche alla Sala della Musica di Ferrara. Questa seconda collaborazione era comunque inizialmente un lavoro creato per il palco: otto ballate da me scritte e musicate da Giampà e introdotte nello spettacolo da brevi brani del “Marcovaldo”. Un lavoro che nella sua presentazione al palazzetto di Montegrotto Terme ha visto il tutto esaurito. Mancava qualcosa a questo incrocio di espressioni, così è uscito il libro con tredici ballate, illustrato da una brava disegnatrice Arianna Castellazzi. In questo modo ho cercato di chiudere il cerchio delle contaminazioni su un argomento, l’incoscienza di vivere, che Calvino ha voluto lasciarci come eredità. E ho cercato di essere conseguente, magari in forme diverse, alla poesia totale.

Gnudi, infatti un lavoro già multimediale… e sulla scia dell’arte totale preconizzata da un certo Adriano Spatola in fine secondo novecento… stagione di artisti e scrittori intenzionalmente perturbanti sul piano sociale e tua matrice personale storica…
Anche questa è una strada, forse la mia personale, per usare tutte le forme e lavorare sull’archetipo, come dovrebbe fare il narratore di poesia. Questa strada è certamente cambiata da quella intrapresa negli anni ottanta sulla scia di un genio dell’arte totale come Adriano Spatola, che ho avuto la fortuna di conoscere, anche se per poco e sulla scia di persone che, prima di me, alcune con me si sono poste il problema della perpetuazione dello stereotipo che la poesia stava perseguendo. E allora quando si andava ad allestire Casa dell’Ariosto con plastica e terra e luci e parole gettate contro i muri si dichiarava la circolarità dell’arte e non la sua elitaria ripetizione. A me che sono nato a Pontelagoscuro, un quartiere profondamente operaio in quegli anni e in quelli precedenti, pareva normale che l’arte si estrinsecasse in tutte le espressioni umane. “Scorie Padane” nacque in quegli anni, in cui tra una manifestazione politica e un’attività di volontariato, prima ottenni la maturità al Liceo Classico Ariosto e posso assicurarti che non era la normalità allora, poi mi laureai a Bologna in Lettere con una tesi di ricerca in antropologia culturale il cui postulato iniziale era: la cultura classica della scuola e la cultura popolare hanno lo stesso grado di dignità. Ti lascio immaginare lo scalpore in sede di discussione di tesi con Ezio Raimondi. Non potevo non abbracciare in pieno e perseguire fino in fondo la poesia totale del gruppo di Spatola: un’arte che provava la rottura per offrire criteri di approccio nuovi e universali. C’è riuscita? Inizialmente mi pareva che qualcosa si fosse mosso, poi in questi anni mi è parso che tutto sia rientrato, producendo fasulli o scrittori sul tovagliolo della pizzeria.

Perchè secondo te oggi, tempi liquidi, almeno nella superficie prevalente, prevale ovunque certo manierismo senza coraggio propulsivo ed intellettuale?
Un po’ ti ho risposto alla fine della domanda precedente, ma vedrò d’essere più breve e preciso. Vorrei darti intanto la mia idea di tempi liquidi. Sono tempi che non prevedono nessun approfondimento, che non prevedono nessuno o poco studio, sono i tempi dei tuttologi sono i tempi, come hai detto tu, della superficie. Non vorrei essere poi tacciato di vecchio, ma il manierismo, l’utilizzo di standard codificati e sicuri avviene nei momenti di decadenza. Ecco io penso che i posteri penseranno a questi nostri primi decenni del duemila come i tempi della decadenza: questo vale per la politica, per la società e per l’arte. Dopo anni che sembravano preludere all’arte totale per tutti, siamo invece arrivati alla bassa cultura per tutti. Il manierismo rassicura, il coraggio intellettuale in questi tempi e discriminante e discriminato. Quanto c’entra in tutto ciò la globalizzazione uniformante, quanto c’entra in tutto ciò la diversa interpretazione dei valori e delle priorità o quanto c’entra in tutto ciò questo irrazionale desiderio di beni e rifiuto del concetto della morte, sinceramente non so dirtelo.

Progetti prossimo venturi?
Mi sono fatto una promessa quando nel 2007 ho ricominciato a produrre parole: di continuare a farlo fino a quando sentivo di avere ancora qualche cosa di diverso, di nuovo rispetto agli altri da dire, che sia serio o ironico o sarcastico poco conta. Qualcosa di diverso dagli altri.
Fatta questa premessa ti dico che in questo momento oltre a “Era ingenuo il tuo sorriso” sto cercando di far girare anche un libretto contaminato dalla fotografia e già rappresentato un paio di volte in teatro dal titolo “Sensazioni”: cosa è, non lo so e non me ne importa. Sono parole e sensazioni. Alla fiera di Padova di ottobre, oltre che con questi due lavori andrò con una nuovissima produzione fatta con l’astigiano Giampà “La storia delle storie”. Qui si mescolano parole e canzoni sulla storia del Torino calcio, ma anche dei vari periodo storici in questa particolare squadra ha vissuta la propria vita: dalla fondazione nel 1906 al 1994. Passando attraverso il grande Torino. A noi piace molto questo particolare e nuovo approccio. Infine sono in attesa di pubblicazione due libri per ragazzi, che cercheranno di seguire le orme degli altri. Proprio per ultimo sta prendendo forma la modalità delle ballate poetiche che affrontano argomenti di streghe e di storie di vita, ma rispetto a questo avremo tempo di parlare.

Emanuele Tassinari è il quinto finalista del Clara Festival

da CLARA

Ha giocato e vinto in casa Emanuele Tassinari, giovane studente di ingegneria di Renazzo che ieri sera ha vinto la quarta tappa del Clara Festival, a Cento, con una versione di “A man’s world” di James Brown, che ha convinto unanimemente la giuria.
Tappa di Cento che si è svolta a fiera campionaria ormai conclusa, dopo essere stata rinviata di un giorno a causa delle previsioni meteo avverse per domenica. Un pubblico quindi non troppo numeroso ma comunque caloroso, che oltre ai nove concorrenti in gara ha potuto applaudire, fuori gara, Rossella Longo, giovane promessa del panorama musicale italiano, che ha chiuso la sua esibizione con una spettacolare interpretazione di “NewYork New York”.
Ospite fisso del festival Roberto Ferrari, prestigiatore, illusionista e ventriloquo, che con i suoi sketch tematici anche ieri sera ha saputo intrattenere il pubblico ricordando l’importanza di una corretta gestione dei rifiuti e i valori di CLARA, la società pubblica (nata dalla fusione di CMV Raccolta e AREA), che ha promosso la manifestazione per valorizzare i talenti del territorio in un’iniziativa che coniuga musica e ambiente.

La prossima tappa è in programma per domenica 17 alla Fiera di Portomaggiore.

LA CITTA’ DELLA CONOSCENZA
Il cuore oltre la siepe

Lanciare il cuore oltre la siepe non usa più. Forse non abbiamo più un cuore in grado di essere lanciato e non ci sono più siepi che valga la pena scavalcare. Siamo tutti dei burocrati del quotidiano, con i piedi ben piantati per terra, notai dell’esistente. I circospetti della vita, sacerdoti dell’aurea mediocritas. Il massimo è inventare un’app, far partire una start up.
Entusiasmarsi, innamorarsi delle idee, avere prospettive, avere visioni, apparire alla madonna, come scriveva Carmelo Bene, sono tutte cose rischiose per i manager della noia. Meglio inventare l’usato che rischiare il nuovo.
Così ci teniamo i nostri recinti, le nostre certezze, il nostro rovistare nei cassetti delle solite cose. I cassetti già riempiti e ordinati che forniamo alle nuove generazioni perché si abituino a fare come noi, come prima di noi gli altri, perché è sempre l’esperienza del passato a insegnare, perché si sa che il futuro non ha esperienza. È la cecità di Saramago che ci perseguita, ma sebbene lui ce l’abbia descritta non abbiamo ancora imparato a vedere. Tutto è indifferente finché il futuro non si fa presente.
Abbiamo bisogno urgente della terapia dell’utopia, abbiamo bisogno di città capaci di aprire fabbriche di idee e di occupare le piazze con i tavoli delle idee, di vincere il privato con il sociale, che nessuno sia privato della collettività, degli altri, dei loro pensieri e delle loro creatività. Senza prospettiva non si costruisce né si inventa e nemmeno si ha il diritto di mettere le mani in avanti verso il futuro. Senza utopia concreta si vede solo nebbia. Non possiamo essere ciechi di fronte alla necessità di una visione del futuro.
L’obiettivo principale, come scriveva Michel Foucault, non è di scoprire cosa siamo, ma piuttosto di rifiutare quello che siamo per poter immaginare e costruire ciò che potremmo diventare. Imitare i pensieri che possono venire in mente a un cervello creativo, ecco quello che dovremmo fare. La nostra patria è il futuro, è questa carenza di spinta al futuro che ci affligge e ciò non potrà mai rendere migliori i passati che i futuri inevitabilmente diventeranno.
Intanto noi continuiamo a insegnare, a chi vivrà il futuro più di noi, il passato anziché il futuro e certo questo non potrà garantire futuri e passati migliori.
Il “non ancora”, sognare e avere nostalgia del “non ancora”. Dove sono i nostri “non ancora”, la capacità di sognare il futuro dei nostri figli? I “non ancora” che colpevolmente mancano, di cui portiamo la responsabilità, l’incapacità di costruire i progetti di vita, quei progetti di vita che non abitano le nostre scuole e le nostre istituzioni, che anzi li mortificano.
La vita non basta, la vita non ci basta più. Il respiro della vita è sempre verso il lontano, si nutre del vicino per andare lontano, se non ci fate andare lontano con le idee, il pensiero, l’invenzione, l’immaginazione, la creatività finirete per ucciderci. Non il lontano delle finzioni, ma il lontano degli obiettivi da conquistare, per crescere, per continuare a immaginare il lontano da raggiungere.
È questo che non sappiamo insegnare, è questo che non sappiamo far imparare ad apprendere ai nostri giovani chiusi sul presente delle nostre aule, chiusi al futuro che è l’unico che ci sa attendere.
Abitiamo cittadinanze che non sanno reinventarsi nell’ozio delle teste che non sono mai ben fatte e neppure ci proviamo a pensare come potrebbero essere fatte. È il nostro cancro moderno, il peggiore da sconfiggere, quello senza ricerca per guarire.
Le uniche luci che si accendono sono quelle delle strade nel buio delle nostre notti spente alle luci umane sospettosamente spiate dai led delle nostre tecnologie.
Mentre cresce la solitudine digitale, sempre più quella sociale reclama d’essere sconfitta. Reclama di colmare i vuoti, di scrivere negli spazi bianchi, di liberare le potenzialità individuali e collettive.
C’è chi vive con lo shock del futuro, sono i tanti mestatori di paure, i sequestratori dei pensieri e delle idee. Sono i nemici dell’utopia, quelli che non saprebbero come sopravvivere alla collisione con il domani. Se non avessimo da sempre pensato ai futuri possibili, l’umanità non avrebbe mai conosciuto il progresso. Ora la sfida che abbiamo di fronte è però quella di lavorare per i futuri preferibili, rispetto ai futuri probabili.
Non c’è niente di peggio che viaggiare soli con la propria ombra perché porta a dimenticare la meta e dimenticare la meta, come sottolineava Nietzsche, è la stupidaggine più frequente che si possa fare. Noi è questa stupidaggine che stiamo commettendo.

“Non sono razzista, ma…” Piccola riflessione da viaggio

Seduto in disparte come mio solito, assisto alla scena fingendo disinteresse, distacco.
Il fatto in sé è molto semplice: una donna bianca, sulla sessantina dice di essere una cittadina del mondo e condanna la poca “internazionalizzazione” di questa città. Fin qui si può essere o meno in accordo con la suddetta donna. La scena così descritta non andrebbe neppure riportata su di un giornale. Ma allargando il campo visivo si capisce che il quadro è ben più ampio.
La signora è in piedi, il bus, del quale eviterò di fornire dati su numero e tratta, è pieno. Il buon mattino fa sì che gran parte dei viaggiatori sia stipato in poco spazio. La protagonista, donna bianca, capelli cotonati biondi, porta con sé una borsa che tiene attaccata a lei. Si lamenta salendo del ritardo del mezzo, ritardo di qualche minuto. Dice che lei ha viaggiato in tutto il mondo e che se Ferrara vuole fare un balzo in avanti deve aumentare i propri orizzonti, non essere più un paesotto, ma diventare città internazionale. Sorrido. Mi viene da ridere perché mentre dobbiamo tutti subirci la predica, lei a ogni curva, frenata, scossone, fa di tutto per evitare il sedile accanto, unico vuoto dell’intero mezzo. E lo si vede chiaramente che fa di tutto pur di non sedersi, nemmeno avvicinarsi.
Il motivo è presto detto: lì accanto, poggiato con la testa sul finestrino c’è un ragazzo, avrà 25 anni, vestito in buona maniera, sguardo perso a osservare la città che scorre dal finestrino ascoltando musica da grosse cuffie bianche. Il suo enorme peccato è avere la pelle nera d’ebano. Mi fa molto riflettere questa scena, mi sembra sottratta da uno dei migliori film sul razzismo. Ci si deve ‘internazionalizzare’, ma guai a mischiarsi con ‘quelli’ che fanno paura. Un motto della Lega, qualche anno fa, recitava: “difendi il tuo simile, distruggi il resto”. Questo direi che può riassumere alla perfezione tutto il quadro, degno del miglior artista impressionista. E proprio come propone questa corrente, se lo si guarda da troppo vicino sembra un accozzaglia di pennellate buttate senza senso. E’ da lontano che dà il meglio, nella distanza si può avere la visione olistica dell’ipocrisia che ci circonda, di quelli che si lamentano delle tasse alte, ma non chiedono lo scontrino, di quelli che “o mio Dio, ma che succede a questo clima?!” e lasciano la macchina accesa, di quelle persone le quali “non sono razzista ma…”. Proprio come la signora che nel suo piccolo ragionamento qualcosa di giusto la dice, in questo mondo globalizzato e interconnesso bisogna avere una visione globale, ma meglio nemmeno sedersi di fianco a chi, giustamente o no, fa paura perché valutato tramite lo specchio degli stereotipi.

Ma si sa, oggi la condanna precede la prova, basta un sospetto, un dubbio, una semplice combinazione genetica di fattori per essere etichettati: sei nero? Stupri, spacci e rubi. Sei dell’Est? Sei un alcolizzato, stupri e rubi. Sei musulmano? Sei un terrorista e a casa probabilmente hai una moglie bambina che avrai stuprato. E’ questa la realtà che ci circonda, il mondo della ‘post-verità’, il mondo delle opinioni senza prove, degli articoli letti nei soli titoli, nelle condanne date senza sentenze.
Il mio giro sul bus finisce, la mia fermata è arrivata. Quel bus carico di stereotipi e ipocrisia va via lentamente e io mi dico che “anche oggi diventeremo un paese migliore domani”.

FACCI CASO
L’ipocrisia delle parole

Perché dirigente scolastico e non più preside? Evidente: per attenuare il peso dell’autorità tradizionalmente incardinato nel ruolo e nel termine che lo definisce. Come se cambiare il nome bastasse a cambiare la sostanza delle cose. Infingimenti, ipocrisie. La scuola ne è maestra. Anni fa si erano inventati persino il Centro amministrativo provinciale come nuova denominazione dell’ex Provveditorato agli studi. Ma Centro amministrativo andava bene per qualsiasi generica funzione e non richiamava assolutamente il mondo della scuola, tant’è che anni dopo qualche cervellone del ministero deve averlo capito e lo si è ribattezzato in Ufficio scolastico provinciale. Ma anche ‘dirigente scolastico’ è generico, perché pure l’ex vicepreside è un dirigente scolastico. Se ora si chiama vice dirigente scolastico, per favore non ditemelo. Preferisco restare con il dubbio…

Ma il problema va ben oltre i confini della scuola. Si modificano i nomi ai ministeri, alle tasse, si dà giù la polvere per prevenire le allergie, ma la sostanza non muta.
Un po’ ovunque si guarda come sempre più alla forma che alla vera essenza. Le parole fanno paura ed è comunque più facile cambiare un’etichetta che un’abitudine. Così, demagogicamente, si picconano le targhette e restano inamovibili gli attori del gioco, che gestiscono il potere secondo schemi immutabili a dispetto della loro fluttuante nominalizzazione.

Per altri versi l’ipocrisia della ri-nominalizzazione funziona anche in termini di attenuatore, laddove si occupano spazi scivolosi, come la diversità e la devianza. Ecco allora gli ipovedenti, gli audiolesi, i diversamente abili. Talvolta l’intento è valido, ma il risultato è goffo e imbarazzante persino per i soggetti che si vorrebbero tutelare dalle ingiurie dei nomi, talché spesso sono proprio loro i ‘ciechi’ o i ‘sordi’ a rivendicare nominalmente la loro condizione anche attraverso il recupero e l’esibizione delle espressioni più comuni, dribblando ogni caritatevole attenuazione, proprio per confermare che l’emancipazione passa attraverso i fatti più che attraverso le formule. E comunque, più che nelle parole, il potere di lenire o di ferire sta nei comportamenti. Sono loro che concretamente marcano la sostanza delle cose e che, proprio per questo, risultano più duri da assimilare e digerire. Certo, chiamare negro un nero è offensivo, ma chiamarlo nero non basta a elevare la sua condizione se i diritti civili non gli sono riconosciuti e il rispetto nei suoi confronti non è praticato. Definire audileso un sordo non gli rende l’udito (e forse definirlo sordo non è neppure così oltraggioso…).

In sostanza, tornando al pretesto iniziale di questa digressione: alcune espressioni possono sottendere reali odiose discriminazioni. Ma appellare ‘dirigente scolastico’ un preside non basta certo a rende la scuola migliore o meno verticistica. Per stare all’esempio, coinvolgere concretamente studenti, famiglie e società civile nella sua conduzione contribuisce invece ad allargare le basi di partecipazione. Senza tanti giri di parole.

STORIE IN PELLICOLA
Due ruote di libertà

Diretto dalla prima regista donna del suo Paese, l’Arabia Saudita, Haifaa Al Mansour firma un capolavoro, un film intenso e delicato, che affronta la questione femminile attraverso l’ingenuità e la spontaneità di una bambina, la protagonista Wadjida (Waad Mohammed).
Si tratta de ‘La Bicicletta verde’, film del 2012 che colpisce e commuove, dove una simpatica e brillante Wadjida, pre-adolescente di Riad, esprime esuberanza, sfacciataggine, indipendenza e ingenuità nel volere a tutti i costi la sua bella e fiammante bicicletta verde. A nulla valgono gli sforzi, della madre e della scuola, per convincerla che non si tratta di un passatempo da ragazze, che quell’oggetto è un pericolo vero per la virtù femminile. Le libertà dell’infanzia, fatta di giochi spensierati, meno limiti e imposizioni sta per terminare.

A scuola, rigorosamente femminile, si prega, si studia il Corano, si imparano le regole ferree inattaccabili e indiscutibili della religione. In pubblico bisogna fare attenzione a non mostrare ciocche di capelli o caviglie, sotto le pesanti e faticose vesti nere, guai rivolgere la parola a persone di sesso maschile. Quando non si è a scuola si sta chiuse in casa, dove Wadjda vive con la madre (Reem Abdullah) perché il padre (Sultan Al Assaf) è sempre fuori, libero. Ma Wadjda, sveglia, perspicace ed intelligente, restia a perdere quel poco di libertà che ancora le resta grazie solo alla sua età, ha un amico, Abdullah (Abdullrahman Al Gohani), con cui passa tempo a correre velocemente per le strade e a giocare allegramente, un compagno che le insegna ad andare in bicicletta. Di nascosto. E lei vuole la bicicletta, per batterlo in velocità, passa e ripassa davanti al negozio di giocattoli che espone un bolide fiammante verde, passaporto verso la libertà del cielo, della strada, della volontà che si libra leggera. La prenota, la acquisterà, costi quel che costi. Per racimolare i soldi commercia in braccialetti confezionati da lei, pazientemente, abilmente, con precisione e amore, e audiocassette registrate alla radio. Sempre con il terrore di essere colta in flagrante dalla preside Hussa (Ahd Kamel), donna severa e ligia alle regole. L’unico modo per arrivare al malloppo necessario al tanto agognato acquisto sembra però essere quello di vincere la gara annuale di recitazione del Corano organizzata a scuola. Versetti da mandare a memoria, frasi interminabili, suoni complicati, uno sforzo infinito. Ma il sogno vince, con le sue ali, con la sua forza. Gli 800 riyal che servono per la bicicletta vanno trovati.

Altre donne circondano la vita di Wadjda. Le compagne di scuola, quelle ribelli dalle unghie azzurre e quelle allineate, la preside che nasconde un segreto, la madre, che compirà anche lei un cammino di emancipazione dalle sue difficoltà quotidiane e dalla consapevolezza di essere vicina a essere declassata a seconda moglie perché il marito è in procinto di sposarsi con una donna più giovane per avere un figlio maschio. Il vero scopo di tutto.

Ma alla fine, per mamma e figlia arriverà il riscatto di un gesto che significa libertà e la possibilità di essere diverse, in una società che vorrebbe le donne invisibili. Da vedere.

La Bicicletta verde, di Haifaa al-Mansour, con Waad Mohammed, Abdullrahman Algohani, Ahd Kamel, Reem Abdullah, Sultan Al Assaf, Arabia Saudita, 2012, 100 mn.

DIARIO IN PUBBLICO
All’inseguimento… della carta smeraldo

Abbandonati i L(a)idi al declinare della vampa luciferina, cominciano a Ferrara le mansioni legate al faticoso avvio del dopo-vacanze, scandite da una lettera misteriosa in cui si parla di una ‘carta smeraldo’, di straordinari modelli di raccolta dei rifiuti “coerenti con quanto previsto dalla legge regionale per il raggiungimento del 70% di raccolta differenziata” (cit.).
Mi accorgo con disappunto che l’appuntamento che mi è stato dato, in quanto il mio nome brilla come titolare della tassa sulla raccolta rifiuti, coincide con la presentazione in Castello di un libro su Bassani. Perciò, a meno di non recarmi con l’illustre compagnia nel locale adibito all’ottenimento dello smeraldo, mi rassegno a recarmi subito in quel luogo, via Boccaleone, frequentato da decenni come direttore dell’Istituto di Studi Rinascimentali.

Varco con baldanza la porta esattamente alle 10 e 27 e mi trovo coinvolto in una bolgia infernale dove vagano smarriti anziani/e, giovanotti, bambini in fasce, signore in gravidanza, qualche cane tra un minaccioso rumore di protesta. Mi rendo conto che il numero del display segna 68: il mio numero è il 146. Mi siedo titubante tra una seccatissima signora che protesta a bassa voce su questa indecenza, il cui risultato avrebbe naturalmente favorito i ‘negretti’ che occupano tutte le panchine disponibili nei giardini, e un severo signore che invita a non donare vestiti vecchi alla Caritas, chè li vendono per ottenere soldi. Ascolto almeno per mezz’ora le spiegazioni di una pazientissima addetta che ogni cinque minuti, illustra le meraviglie del nuovo contenitore che accoglierà la differenziata purché… purché ci si munisca di un sacchetto possibilmente di plastica biodegradabile e dalle dimensioni non eccedenti l’imboccatura della nuova macchina. Comincia, come una litania, a esemplificare il contenuto lecito del sacchetto: dai peli del gatto agli spazzolini usati, da ceramiche rotte a spazzole.
Il problema delle cacche del cane è assai dibattuto. Si può lasciare nel contenitore dell’umido, forse anche nell’indifferenziata oppure nei comuni cestini che in tutte le città del mondo le accolgono. Allora? In cosa consiste la grande novità? Restano intoccabili tutte le altre raccolte: carta, vetro, plastica e umido. Solo il macchinario nuovo si comporta come un ‘apriti Sesamo’ al tocco prima di un bottone poi, dopo misteriosi rovelli, al contatto con lo smeraldo. Geniale!

Ma un dubbio m’assale mentre il tempo nella soffocante sala sembra non progredire.
Tutto l’ambaradan a cui in egual misura hanno contribuito l’amministrazione comunale ed Hera non potrebbe qualificarsi come una violenza nei confronti del cittadino? E’ giusto che per una sciocchezza simile – a Firenze è bastato un mese perché tutte le differenziate vengano gettate in sportelli a livello del marciapiede e le scelte sono compito degli addetti – si obblighino i volonterosi cittadini a subire file interminabili e a provocare un clima di malcontento che certo non giova all’attuale amministrazione, che maldestramente ha mandato gli inviti nei mesi in cui la gente va in vacanza.
Scoppia dunque il principio primo della ‘ferraresità’, che spesso si confonde con la rancorosità. I vecchi anche se non tutti accusano l’amministrazione di aver fatto un simile casino (pardon!) per le elezioni, o per rendere le cose più difficili, o per trarne un dovuto compenso politico. E dalli con i migranti, con la Gad, come sbraita con approvazione dei più l’imponente signora che si è dovuta trascinare su tutta la via tra ciottoli sconnessi e livore mal sopito. La più bella sentita: “E già! Così si diffondono le malattie. A forza di manovrare l’impugnatura di chiusura!” A nulla vale ribadire che il contatto lo si ha comunque: sia che si maneggino soldi, o s’impugnino i sostegni nei mezzi pubblici o si pongano le mani nel salire. Nulla! O è colpa dei negri o quella di voler spillare più soldi.

E se mi sento frustrato nel constatare quanta rabbia covi tra il ‘popolo’ è altrettanto vero che si deve ammettere che comunque una violenza è stata perpetrata. Se si vuole che la differenziata regga non si rendano furibondi i ‘cives’ permettendo e fomentando una simile bolgia. La paziente addetta dice che non ci si lamenta se si fanno le code in ospedale o a ritirare analisi o alle banche o alle poste; ma si deve ribadire che per spiegare il funzionamento di una macchinetta ‘differenziata’ tanta violenta imposizione è un punto perso sia per Hera che per l’amministrazione comunale.

Guardie e ladri

di Alice Ferraresi

L’intervento estemporaneo della signora Giovanna Mazzoni al comizio bolognese di Matteo Renzi, nel quale gli ha dato rumorosamente (e a favore di telecamere, piccola malizia necessaria nella società del sensazionalismo) del “ladro” di risparmi, ha suscitato diverse reazioni.
La signora Mazzoni era cliente di Carife e ha avuto, come tanti altri risparmiatori, perdite rilevanti dopo la decisione del Governo Renzi, il 22 novembre 2015, di mandare in risoluzione la banca ferrarese. Forse è il caso di ricordare come è avvenuta, tecnicamente, questa ‘risoluzione’, per poi valutare se ci sono dei “ladri” e in quali file militano.

Il 31 luglio 2015 i Commissari Bankitalia, che stanno gestendo la banca dal maggio 2013, fanno approvare all’assemblea degli azionisti Carife una soluzione di salvataggio che prevede una ricapitalizzazione della banca a opera del Fondo Interbancario di Tutela dei Depositi (Fitd), ente che riceve denaro esclusivamente dai contributi delle banche, rilevando le azioni dagli attuali titolari a un prezzo poco più che simbolico (nemmeno trenta centesimi di euro), ma tale da disegnare almeno una prospettiva minima di continuità.
Passano alcuni mesi e i soldi del Fitd non arrivano. Non c’è stata alcuna interlocuzione formale tra il Governo e le autorità europee sulla natura ‘pubblica’ del Fitd e sulla conseguente censura della ricapitalizzazione per ‘aiuti di Stato’: soluzione individuata dalla Banca d’Italia, non da un estemporaneo creativo dell’economia bancaria. Non troverete nessuno che possa allegarvi dei carteggi ufficiali nei quali le autorità europee hanno vietato l’adozione di questa soluzione. Eppure alla stampa viene venduta questa versione: l’Europa non è d’accordo. Come e in che modo si sia manifestato questo disaccordo, non sarà mai chiarito. Di certo non è manifestato attraverso degli atti formali di contrarietà che, semplicemente, non esistono. Esistono invece le dichiarazioni del presidente di Banca Intesa (principale contributore del Fitd) a Cernobbio nel settembre 2015, il quale dice che non saranno certamente loro (Intesa) i soli a pagare per le malegestioni di altri. Chi lavora in banca, un po’ più esperto degli altri, viene attraversato da un brivido ascoltando queste parole: chi saranno gli ‘altri’ a pagare?
La risposta arriva il 22 novembre 2015. La fornisce (formalmente) il Governo: a pagare sono prima di tutto i risparmiatori di Carife (e di altre tre banche, tra cui Etruria). Infatti, la risoluzione abbatte a tavolino il valore di una parte dell’attivo della banca, cioè i crediti cosiddetti inesigibili, a livelli da liquidazione immediata: circa 17 euro su 100 di credito. Parliamo di crediti anche ipotecari, che in alcuni mesi o anni renderanno a chi li recupera ben più di quei 17 euro. Questo abbattimento è la ragione tecnica che giustifica l’azzeramento, di una parte del passivo della banca, che viene individuato nelle obbligazioni sottoscritte dalla clientela nel 2006, 2007 e 2008, anni nei quali il bilancio della Carife chiudeva con un utile di decine di milioni di euro.
Erano finti o gonfiati quegli utili? Probabile che fossero almeno eccessivi, ma se i bilanci venivano licenziati come regolari da profumatamente pagate società di revisione, cosa dovevano pensare i risparmiatori? Che nel 2007 la banca fosse sull’orlo del dissesto?
Alcuni accademici che fanno consulenza economica alla Presidenza del Consiglio continuano a dire che questi sono speculatori, da trattare alla stregua di scommettitori alle corse. Rappresentazione particolarmente odiosa e particolarmente falsa: basta guardare alla composizione sociale, anagrafica ed economica di queste persone per dedurne che ci sono i nostri nonni, i nostri genitori, i nostri vicini di casa. Se uno ha messo parte della sua liquidazione in un’obbligazione acquistata in tempi di banca ‘sicura’ e dopo dieci anni questo risparmio gli viene azzerato dalla sera alla mattina, dovrebbe stare zitto e non lamentarsi in quanto ‘speculatore’?

Non credo sfugga (adesso) alla signora Mazzoni che qualcuno le ha raccontato, al tempo, una mezza balla sulla solidità della banca. Ma chi le ha raccontato questa balla? Consigli di Amministrazione, Revisori contabili, società esterne che fanno questo mestiere. Guardie.
Invece chi, tecnicamente, le ha ‘preso’ i soldi? Difficile non pensare, nei suoi panni, che il ‘ladro’ sia stato il Governo Renzi. Che poi questo ‘furto’ (non in senso penalistico, per carità) abbia avuto diversi complici e più di un basista non fa che accrescere la rabbia e la frustrazione di chi ha perso il suo denaro.

Postilla: l’esperimento fatto sulle quattro banche può essere visto, già adesso, con il disincanto dato dal percorso fatto, nel frattempo, dal resto del sistema bancario. Questo percorso ha portato, tra l’altro, al dissesto delle banche venete e al loro acquisto da parte di Banca Intesa, con un contratto “confidenziale” (neanche parlassimo di segreti di Stato), ma di cui si sa che acquista un patrimonio immobiliare di 500 mln pagando un’imposta al Tesoro di 200 (avete letto bene) euro, una rete di circa mille sportelli, raccolta per 23 miliardi e plusvalenze fiscali per circa 2 miliardi. E il costo degli esuberi viene sostenuto interamente dal Tesoro. Il tutto al prezzo di un euro. E’ legittimo sospettare che l’Europa c’entri poco con il mancato intervento del Fitd? E sia molto più plausibile, invece, che Banca Intesa – che muove le leve del Fitd così come quelle di Banca d’Italia, nella quale detiene un sesto del capitale – abbia, diciamo, lasciato naufragare le banche piccole per uno spregiudicato e cinico calcolo di medio termine, che potrebbe tradursi così: il sistema non fallirà e io ne beneficerò; l’effetto domino sarà contenuto, non travolgerà il sistema e soprattutto io Banca Intesa, il più grosso del sistema, ci guadagnerò, perché potrò assorbire sportelli e immobili a costo zero, scaricando le sofferenze a terzi.
Con l’incredibile, beffardo premio di poter essere considerato il salvatore della patria.

I DIALOGHI DELLA VAGINA
Ricordi di amori fugaci e passioni adolescenti: medicine del presente

Un viaggio di cinque giorni con l’uomo-traghetto e una lettera d’amore rimasta in un cassetto per quarant’anni. Le storie di passione dei nostri lettori.

Il traghetto dell’amor leggero

Cara Riccarda,
la mia storia inquieta è durata appena cinque giorni, ed è stata la mia storia “traghetto”. Uscivo da un amore profondo, nove anni di cui otto di convivenza… finito per mancanza di obiettivi comuni, per inconciliabili tentativi di compromesso, per assenze non colmabili. Ad un corso ho incontrato lo sguardo azzurro e scanzonato di un altro corsista… sposato. Si è seduto vicino a me e da subito ho sentito quella particolare elettricità che si chiama attrazione, che quasi non ricordavo più. Mi ha corteggiata e mi ha fatto sentire bella e desiderabile. Mi è piaciuto, ma ero arrabbiata e delusa per la fine della mia relazione e così, l’ho presa come una rivincita… o meglio come una vacanza. Ho pensato che quei 5 giorni di corso mi sarebbero serviti per riprendermi la mia femminilità dimenticata. E così ho fatto. Senza promesse e senza aspettative, ho avuto la freddezza di vivere quella parentesi come un regalo, un modo per capire che potevo avere ancora delle possibilità di essere felice. Cinque notti di passione, cinque minuti per dirsi addio. E, a distanza di tanto tempo, posso sperare in tanti anni di vita più serena, perché ho capito che ogni fine porta ad un nuovo inizio e che dobbiamo cercare sempre di concentrarci su ciò che di buono ci ha dato un’esperienza, anche la più sofferta.
D.

Cara D.,
conoscevo l’uomo-zattera, quello a cui ti aggrappi quando hai l’acqua alla gola e va bene tutto purchè ti porti via da dove stai annaspando, ma l’uomo-traghetto devo ammettere che è decisamente più confortevole e hai fatto bene a salirci su.
Hai trasformato la rabbia in passione, sempre di fuoco si tratta. Una passione lucida – e non è una contraddizione – è forse il modo più puro per viverla, senza epiloghi nè languidi colpi di coda. Il cerchio si è chiuso in cinque giorni, per te è stato un regalo non solo all’epoca, ma anche oggi che lo racconti.
Come su un traghetto che salpa da un porto per approdare altrove, tu, dalla prua, hai respirato il vento godendoti il viaggio e tutto l’orizzonte.
Riccarda

Passione adolescente, oblio e rimembranza

Ciao Riccarda,
ho letto con molto interesse l’argomento della tua rubrica, mi ha riportato alla mente momenti oramai perduti nel tempo, una passione risalente a 40 anni fa. Mi ricordo che scrivevo molto a proposito di quello che mi stava succedendo perché le cose che provavo erano fortissime. A distanza di tanti anni, ecco una delle tante pagine del diario che risale alla fine dell’estate 1977, avevo 20 anni.
“Questa nostra attrazione così inebriante, che ci sprofonda nell’abisso dell’incoscienza da cosa è nata? Forse è stato il nostro lento frequentarci durante le vacanze estive, o scoprire che abbiamo lo stesso bisogno di dolcezza, coccole e amore. Lentamente qualcosa è sbocciato ed ora quando ci vediamo non possiamo fare a meno di toccarci, baciarci, le nostre menti non ragionano più, prevale solo il desiderio del contatto fisico, i nostri corpi agiscono in sincronia come rispondendo ad un automatismo oramai consolidato. Siamo in balìa delle nostre più pure sensazioni, non riusciamo a contrastare il turbinio di emozioni e ci abbandoniamo a noi stessi. Dobbiamo smettere ma non ci riusciamo, io devo partire, un’altra vita mi attende, tu resterai qui, con lui, vicina al quel mare che abbiamo tanto amato e che ha visto lo schiudersi dei nostri sentimenti e lo sbocciare della nostra adolescenza. Io inizierò la mia vita non so ancora dove, solo il tempo mi dirà se la mia è stata una scelta giusta, so che non ti vedrò più, non ti cercherò più, serberò nella mia memoria e nel mio cuore il ricordo di quei momenti che abbiamo vissuto. Forse un giorno, quando le ferite della nostra passione si saranno rimarginate, riusciremo a parlare con serenità di quei momenti di abbandono totale, ora non è possibile, troppo forte è il dolore causato dal distacco. La tristezza sarà la mia compagna per il prossimo futuro. Un giorno, oramai invecchiato ed al crepuscolo della mia vita rileggerò queste parole e solo allora un sorriso sfiorerà le mie labbra perché saprò di avere vissuto, averti conosciuta ha donato alla mia adolescenza la radiosità e la felicità che solo pochi raggiungono. Per questo motivo seppure con il cuore gonfio dal dolore, ti dico grazie, grazie per quello che hai saputo darmi. (1977)”
Non so se quanto ti ho scritto sia inerente all’oggetto del tuo argomento, spero di si, a me, rileggerlo ha fatto sorridere perché rivedo il giovane pieno di passione e di incertezze di allora. Buona giornata e buon lavoro.
Gigi

Caro Gigi,
non so se quarant’anni fa tu questa lettera l’avessi spedita, spero che oggi in qualche modo lei possa leggerla e sorridere assieme a te. Al di là del contenuto, mi colpisce che questo scritto sia rimasto intatto in un cassetto e nella tua memoria per tutti questi anni. Siamo diventati così automatici nel cancellare sempre tutto per fare spazio in memorie elettroniche fuori di noi, che stupisce la longevità di un pezzo di carta e dei sentimenti che in quel momento non potevi trattenere.
Nel buco nero dell’oblio, spesso ci buttiamo dentro anche le persone, le storie che abbiamo avuto e, quindi, anche un pezzo di noi. Vogliamo dimenticare perchè ci sembra che faccia meno male, soprattutto quando siamo convinti di avere sbagliato qualcosa o qualcuno.
Credo, invece, che dovremmo ricordare il più possibile, pur ponendoci sempre come nuovi di fronte a ogni storia che arriva.
Riccarda

Potete scrivere a: parliamone.rddv@gmail.com

L’acqua che esce dai nostri rubinetti…no, la plastica

La notizia: l’inquinamento dell’acqua causato dalla plastica arriva direttamente nelle nostre case.
L’acqua potabile che esce dai rubinetti in tutto il mondo è contaminata da microfibre di plastica. A dirlo è una ricerca di Orb Media, organizzazione no profit di Washington, che insieme all’università statale di New York e all’università del Minnesota, ha condotto test su campioni di acqua potabile prelevati in città grandi e piccole in tutto il globo.

I risultati pubblicati in questi giorni sono stati sconcertanti: l’83% dei test effettuati ‘worldwide’ sono risultati positivi alla presenza di plastica nell’acqua, con picchi di oltre il 90% negli Usa, compresa la Trump Tower, il palazzo del Congresso degli Stati Uniti o la sede dell’Epa, l’ente per la protezione ambientale americano, mentre in Europa ci ‘fermiamo’ per così dire al 72%. (Leggi qui il rapporto completo)
Facciamoci pure del male. In fondo anche il potere sull’acqua da bere è in mano a grandi gruppi industriali delle acqua minerali.

Qualche tempo fa è uscito un importante dm che si impegna esattamente per il contrario: il Dm Salute del 14 giugno 2017 sui ‘Controlli e analisi delle acque potabili – Recepimento direttiva 2015/1787/Ue – Modifica degli allegati II e III del Dlgs 2 febbraio 2001, n. 31’.
Tra fake news e white washing ormai abbiamo perso la dimensione del “a chi e a cosa credere”.
Io bevo l’acqua del rubinetto e cerco di dimenticare.

Per chi vuole saperne di più invito a leggere il recentissimo documento dell’Istituto Superiore della Sanità relativo alle linee guida per la valutazione e gestione del rischio nella filiera delle acque destinate al consumo secondo il modello dei water safety plan che allego per conoscenza. (Clicca qui)
L’Organizzazione Mondiale della Sanità ha introdotto un decennio fa il modello dei Water Safety Plans (Piani di Sicurezza dell’acqua, Psa) come il mezzo più efficace per garantire sistematicamente la sicurezza di un sistema idropotabile, la qualità delle acque fornite e la protezione della salute dei consumatori. Il modello, seguito in queste linee guida, persegue una valutazione e gestione dei rischi integrata, estesa dalla captazione al rubinetto, per la protezione delle risorse idriche di origine e il controllo del sistema e dei processi, al fine di garantire nel tempo l’assenza di potenziali pericoli di ordine fisico, biologico e chimico nell’acqua disponibile per il consumo.

Ferrara, la città dove un albero vale una gita

Un albero può rendere un posto meritevole di un viaggio. A Ferrara succede. Ci sono alcuni alberi monumentali o famosi che chi abita qui quasi nemmeno nota più. E può capitare di imbattersi in turisti col naso per aria che chiedono con il loro accento americano dove sia, ad esempio, la casa con la magnolia dello scrittore Giorgio Bassani senza che la maggior parte dei cittadini sappia dargli indicazioni che, in effetti, sulle mappe non sono. Poi apri un quotidiano come “La Stampa” e scopri che un giornalista a Ferrara c’è venuto apposta per ammirare e misurare di persona un albero che ha un 250 anni: il gingko biloba del giardino della biblioteca Ariostea, che si può vedere entrando dal cancello in via Giuoco del Pallone 2 (“Il ventaglio del Gingko biloba è un vero fossile vivente”, La Stampa”, 4 agosto 2017, pagina 28). L’autore è Tiziano Fratus, che definisce la pianta “uno dei più bei ginkgo d’Italia” e spiega che “è un superstite, capita spesso ai giganti silenziosi, rappresenta quel che resta di un giardino botanico voluto da Giammaria Riminaldi (1718-1789), presidente del Collegio dei Riformatori, riorganizzatore dell’università e della biblioteca di Ferrara”.

Marcelo Cesena in Biblioteca Ariostea di Ferrara (foto Fausto Natali)

Nell’autunno scorso questo stesso albero ha portato a Ferrara il pianista brasiliano Marcelo Cesena, due volte vincitore dell’International Press come “miglior musicista brasiliano che vive in America”, che ha scelto il giardino della Biblioteca comunale Ariostea come palcoscenico per il suo ultimo videoclip. A conquistare il musicista è stata la bellezza del tappeto di foglie gialle che in autunno cadono del plurisecolare ginkgo. Così Cesena ha chiesto e ottenuto il permesso di registrare davanti a quell’albero un video per il suo prossimo album e nel freddo del 1 dicembre 2016 ha fatto trasportare il pianoforte nero sopra alle sue radici.

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Parco Massari (foto Aldo Gessi)

Altri due alberi centenari hanno portato in visita a Ferrara lo scrittore Tiziano Fratus, che a fine luglio 2017 ha speso un giorno per guardare e misurare i due cedri di Parco Massari che stanno lì, davanti alla cancellata, in corso Porta Mare 65 a Ferrara. Nell’articolo (“In compagnia di due giganti che strisciano e si sollevano”, La Stampa, 28 luglio 2017, pagina 28) il giornalista parla di “uno spettacolo inatteso” e spiega come “all’ingresso sorvegliano due giganti: c’è il cedro del Libano (Cedrus libani) che si manifesta in un tronco corpulento, con due branche che si allargano alla base, strisciano e si sollevano parallelamente al tronco. Il cedro dell’Atlante (Cedrus atlantica glauca) ha un’architettura complessa: è incredibile come gli sia stato concesso di espandersi in ogni direzione, vista la posizione a due passi dal traffico. Emette tre branche, al piede, i rami sono sostenuti da stampelle. Li misuro: 585 e 480 cm di circonferenza”.

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Scena iniziale del film “Il giardino dei Finzi-Contini” dal romanzo di Giorgio Bassani

Proprio un parco – del resto – ha reso famosa questa città in giro per il mondo: “Il giardino dei Finzi-Contini” dove Micol e i suoi amici della Ferrara-bene giocavano a tennis nel romanzo di Giorgio Bassani e poi nel film di Vittorio De Sica. E il Parco Massari immortalato sul grande schermo si potrà visitare pieno di banchetti dedicati al verde per la manifestazione “Giardini estensi – autunno” in programma nel giardino pubblico in corso Porta Mare 65 a Ferrara sabato 9 e domenica 10 settembre 2017, ore 10-22.

L’albero di magnolia nel giardino di casa Bassani fotografato da Paolo Zappaterra

Da non trascurare, infine, la magnolia, che sempre Bassani ha immortalato nella poesia intitolata “Le leggi razziali” che racconta la piantumazione dell’albero nel giardino interno di casa Bassani nel 1939, pochi mesi dopo che quelle leggi discriminanti avevano escluso dalle scuole i ragazzini di famiglia ebraica e proibito a chi era ebreo l’esercizio di diversi mestieri, come quelli di insegnante o giornalista. La casa di Ferrara dove Bassani e la pianta di magnolia sono cresciuti è stata però venduta, è privata e non visitabile. Un’occasione per vedere com’è e com’era quella magnolia che “crebbe/nera, luminosa, invadente/puntando decisa verso l’imminente cielo”, la offre la mostra “Giorgio Bassani e la casa della magnolia” in corso alla Casa dell’Ariosto di Ferrara. In particolare sabato 16 settembre alle 16 ci sarà la possibilità di fare una visita guidata gratuita. La figlia dello scrittore Paola Bassani insieme con la docente di storia dell’arte Silvana Onofri e con l’autore delle foto Paolo Zappaterra accoglieranno i visitatori della rasegna “Giorgio Bassani sotto la magnolia” che mostra la casa di Cisterna del Follo 1 negli scatti di Paolo Zappaterra e nelle istantanee di famiglia con il contributo delle letture dell’attrice Gioia Galeotti. Gli organizzatori spiegano che “numerose persone a Ferrara vanno alla ricerca della casa della magnolia della poesia ‘Le leggi razziali’, magnolia che, piantata nel 1939 nel cortile interno della casa di via Cisterna del Follo, tuttora ‘fuoresce oltre i tetti circostanti’. Ma la casa, venduta nel 1993 non è accessibile al pubblico e solo il vertice della magnolia, diventata ormai un mito, è oggi visibile da alcuni edifici limitrofi o da via Saffi”. In mostra ci sono le fotografie della casa e del suo giardino, con gli arredi originali dalla famiglia Bassani per permettere di “conoscere un luogo bassaniano spesso sottovalutato o frainteso”. La magnolia piantata dalla famiglia Bassani non è visibile dalla strada; e non va confusa con quella che si vede invece spuntare dal muro di cinta dell’edificio all’angolo tra via Cisterna del follo e via Ugo Bassi.

“Giorgio Bassani e la casa della magnolia” è la mostra visitabile alla Casa dell’Ariosto, via Ariosto 67 a Ferrara fino al 30 settembre 2017 da martedì a domenica ore 10–12.30 e 16–18, ingresso gratuito. Sabato 16 settembre 2017 alle 16 la visita guidata. Per info: mail arche.ferrara@gmail.com, pagina Fb https://www.facebook.com/events/144122836185681/, cell. 340 0773526; 331 1055853

Che razza di scuola immaginano i razzisti?

Ho la sensazione che, sempre più spesso, le persone che iniziano un discorso preoccupandosi di specificare: “Non sono razzista ma…” usino questa premessa come fosse una maschera con la quale tentare di camuffare inutilmente, a se stessi e agli altri, la propria ormai evidente condizione di persona che ritiene di appartenere a una presunta razza superiore. Spesso infatti, dopo quella premessa, il discorso si limita a una o più accuse contro le persone straniere che rientrano nella categoria ‘racism for dummies’, cioè quella delle frasi fatte che non è importante controllare se siano vere o meno, basta che siano semplici ed efficaci (rubano il lavoro e la casa ai nostri giovani, non pagano i mezzi pubblici, sono tutti delinquenti, portano malattie, ci stanno invadendo, ricevono 35 euro al giorno, e simili).

La mia ipotesi sarà anche psicologia da strapazzo ma, che sia colpa dell’ignoranza dilagante o dell’inumano che avanza, la percentuale di discorsi di questo tipo sta aumentando in misura direttamente proporzionale al modo in cui certi personaggi, aiutati da certi giornali e da certe televisioni, cavalcano i problemi legati all’immigrazione e alla convivenza per crearsi, attraverso l’invenzione della figura del ‘nemico’, una propria identità personale e un proprio consenso politico a fini elettorali. Questa estate italiana è stata caratterizzata, a livello sia locale sia nazionale, da moltissimi (troppi) fenomeni che possono essere classificati come manifestazioni di odio xenofobo e razzista. Ce ne sono stati di vari tipi e qui ne ricordo solo alcuni fra i più rappresentativi: una persona di origini brasiliane a cui è stato negato il lavoro in un albergo di Cervia; una ragazza che non è stata assunta a Torino perché fidanzata con un ragazzo nigeriano; una quindicenne di Verona esclusa dal concorso ‘Canta Verona Festival’ perché, nonostante fosse nata in Italia, ha origine ghanesi; una coppia di coniugi italo cubani a cui è stata rifiutata una casa vacanze in Sardegna per la quale avevano già versato la caparra.

In questi casi le brave persone italiane coinvolte si sono premurate di difendersi pronunciando la frase “Non sono razzista ma…” prima di una serie di motivazione talmente deboli da far vergognare qualsiasi persona di buon senso. In questi altri casi invece le persone coinvolte non hanno avuto bisogno di pronunciare la frase-maschera perché il loro razzismo è in fase conclamata: una ragazza africana incinta picchiata e insultata a Rimini; la scritta ‘vietato l’ingresso ai negri’ firmata da una svastica in un parco giochi di Milano; un ragazzo bengalese di cittadinanza italiana picchiato perché destinatario di un alloggio popolare; le intimidazioni a un parroco che aveva accompagnato in piscina alcuni ragazzi profughi gambiani, nigeriani e senegalesi. Sotto quale voce classificare poi certe dichiarazioni di importanti politici? Anche in questo caso ne ricordo solo qualcuna: “Lo stupro è più odioso se è commesso da un profugo” (Debora Serracchiani, presidente della regione Friuli Venezia Giulia), “Aiutiamoli a casa loro” (Matteo Renzi, segretario Pd), “Sostegno alle mamme per continuare la razza italiana” (Patrizia Prestipino, Direzione Pd), “Alcune ong ideologicamente pensano solo a salvare vite umane: noi non possiamo permettercelo!” (Stefano Esposito, senatore Pd). E ancora come catalogare la scelta antiumanitaria fatta dal nostro governo con il codice Minniti? E quella di chi voleva alzare le tasse a chi ospita migranti nel proprio Comune (Alice Zanardi, Sindaca di Codigoro)? In questa sede non elenco i numerosi episodi in cui si sono distinti esponenti di Forza Nuova o della Lega Nord sia perché sarebbero davvero troppi, ma anche perché questi personaggi non hanno bisogno di nascondersi con la frase-maschera di cui sopra: sono dichiaratamente fascisti e razzisti e in questo momento, pur riconoscendo questo come un pericolo sociale, credo con Simone Veil “che il vero male non sia il male, ma la mescolanza del bene e del male”.

Per tutti questi episodi ma non solo, in questo momento, sono fortemente preoccupato per la piega disumana che sta prendendo il nostro Paese. Considero tutto questo una regressione e, da maestro elementare, mi chiedo: gli odierni razzisti come si immaginano la scuola? Sostengo da sempre che la scuola sia lo specchio della società. Pertanto deduco che, se il razzismo dilagante si basa su una società di esclusioni e di espulsioni, la scuola razzista sarà fatta di muri e di barriere; se la società razzista è quella delle differenze da separare, la scuola razzista sarà composta di classi diverse a seconda del sesso, della razza, della lingua, della religione, delle condizioni personali e sociali; se la società razzista è quella della superiorità di una razza verso le altre, la scuola razzista sarà quella dei buoni e dei cattivi, del ‘noi’ e del ‘loro’, degli italiani e dei nemici; se la società razzista è quella dove ci sono esseri umani più importanti di altri, la scuola razzista non considererà la vita degli altri come un valore. A questo punto non sono poi così sicuro che i razzisti desiderino una scuola davvero razzista, perché prima o poi capiranno che ciascuno di noi sarà sempre lo straniero di qualcun altro.

Per combattere questa ignoranza, questo odio e questi pregiudizi straripanti, fra le altre cose, ci sarebbe bisogno di una scuola che insegni ad ascoltare le ragioni dell’altro, a parlare insieme, a discutere con criterio, a studiare con cura, a spiegare correttamente, a capire i punti di vista diversi dal proprio, ad affrontare i problemi, a conoscere la condizione umana, ad imparare l’identità terrestre. Una scuola che riesca a far capire che una società diversa, migliore è possibile. Lo so, qualcuno potrebbe scambiare i miei pensieri per discorsi demagogici, ma io sono un educatore e in quanto tale sono idealista, ottimista, utopista e, nel mio caso, addirittura inter(nazional)ista; per questo credo occorra investire e scommettere sull’educazione cioè spiegare, far capire e mostrare le qualità e le potenzialità che ci sono nelle persone. Credo che serva camminare verso l’orizzonte di un’utopia concreta o, per concludere con il grande pedagogista Alain Goussot, penso ci sia bisogno di “fare della scuola il luogo dell’utopia pedagogica dove è possibile vivere e sperimentare quello che la società sembra non offrire e non permettere: fare vivere ad ogni alunno, a prescindere delle proprie particolarità, la possibilità di accedere alla propria umanità e al suo aspetto più nobile, la capacità di pensare e di sentire che l’altro diverso da sé è anche simile.

Pensata in questi termini la pedagogia fa dell’educazione e dell’istruzione un processo di emancipazione e liberazione umana che si oppone a ogni forma di reificazione e di disumanizzazione; la pedagogia aperta alle esperienze vive degli alunni crea gli spazi dell’utopia concreta che forma dei cittadini consapevoli e soggetti attivi della comunità e del suo funzionamento democratico”.  In questo modo, attraverso la conoscenza e l’esperienza, la scuola potrà essere vissuta come un laboratorio di cittadinanza attiva e ciascuno potrà sperimentare direttamente la ricchezza che può essere regalata dall’incontro con l’altro.

STORIE IN PELLICOLA
Quando la rivalità diventa leggenda

Sui circuiti di Formula 1, gli anni Settanta hanno conosciuto la grande rivalità sportiva fra l’austriaco Niki Lauda e l’inglese James ‘Thor’ Hunt, incontratisi per la prima volta sui giri della Formula 3. Il film mozzafiato ‘Rush’, di Ron Howard, ripercorre la lotta estrema e quasi disperata che, nel 1976, ha visto l’incidente, durante il GP di Germania, di Lauda (Daniel Brühl), già campione del mondo su Ferrari nel 1975, e la vittoria di Hunt (Chris Hemsworth), su McLaren, per un solo e fatidico punto. Una sfida all’ultimo giro.

Metodico, preciso, razionale, sicuro, riservato, maniacalmente attento e anche un po’ antipatico, il primo; amante della vita godereccia, scapestrato, insolente, esibizionista e playboy il secondo: bello, biondo e dannato. Pur entrambi con relazioni familiari problematiche, i due personaggi sono completamente all’antitesi, come il sole e la luna, l’acqua e il fuoco, il cielo e la terra, ma in fondo legati da profonda stima e amicizia. Quella tipica dei grandi campioni. Che dello sport colgono il messaggio vero. Se la rivalità diventa storica, con momenti di grandi cadute, drammi e riprese inaspettate, a colpire lo spettatore è anche la pericolosità del mondo della Formula 1 di quegli anni. Dove correre significava rischiare la vita (Lauda accettava un rischio del 20%, Hunt andava ben oltre), dove la pioggia, che offuscava la vista delle visiere forate per non creare condensa, poteva diventare una nemica letale. Una macchina che era quasi una “bara ambulante con le ali”, come la definiscono i piloti stessi, che vuole prendere il volo come Icaro.

Bellissime le espressioni e le sfumature degli attori, i gesti, i cenni, gli sguardi, le cose non dette, le ombre delle auto sull’asfalto scivoloso, i dettagli della meccanica, i particolari.
Alex Zanardi fa un breve cameo nei panni di un radiocronista al GP d’Italia 1976, belle le figure di Clay Regazzoni (Pierfrancesco Favino) e della moglie di Lauda, Marlene (Alexandra Maria Lara). Hunt e Lauda sembrano quasi Caino e Abele, in un momento nel quale l’individuo era ancora al centro della pista ed erano solo il suo carisma, la sua forza, la sua ostinazione o il suo capriccio a decidere la gara, non lo sponsor, la tecnologia o la televisione.
Bellissimo.

Rush, di Ron Howard, con Chris Hemsworth, Daniel Brühl, Olivia Wilde, Alexandra Maria Lara, Pierfrancesco Favino, USA, Gran Bretagna, Germania 2013, 123 mn.

IL RICORDO
Ibio Paolucci: il caldo silenzio dell’onestà

Ibio Paolucci

Per conoscere e comprendere un personaggio come Ibio Paolucci è necessario riesumare il clima nel quale viveva Milano dopo la strage di Piazza Fontana, clima che definirei vigliacco sotto molti aspetti e di cui Ibio fu senza dubbio protagonista.
Il capoluogo lombardo era stato assalito e direi conquistato dalle bande dei giovani fascisti agli ordini di vecchi caporioni con la compiacenza di una polizia addomesticata. Se ne era avuto prova il 19 novembre 1969, quando in via Larga le forze dell’ordine attaccarono un mesto corteo di pensionati usciti dal Teatro Lirico dove si era svolto una pacifica manifestazione sindacale: i vecchi vennero accerchiati e attaccati col manganello, non poterono opporsi, ma in loro aiuto arrivarono dalla vicina università statale le schiere degli studenti capitanati da Cafiero e da Toscano. E cominciò la battaglia, conclusasi con la morte del povero agente Annarumma, il quale andò a scontrarsi col suo gippone contro un altro mezzo della polizia. Con una prontezza impensabile, la versione ufficiale venne data alla stampa: il giovane poliziotto era stato ammazzato dagli studenti comunisti. Sulla base di questa incredibile bugia Milano si spaccò in due, da una parte l’invincibile armata della borghesia, con i suoi potenti giornali e le radio nazionali, dall’altra coloro che pensavano di fare la rivoluzione messicana, atteggiamento rivelatosi infine puerile.

In questo bailamme, spesso anche ideologico, non fu semplice trovare la linea più corretta, cavalcata, invece, con intelligente fermezza, dal comunista Paolucci: credo che allora Ibio abbia sbagliato ben poche volte. Era prudente Ibio, come gli avevano insegnato i vecchi compagni, abituati a vivere e a operare in un mondo in cui erano trattati come poveri scemi con tre narici o come bestie feroci: il mondo doveva essere liberalizzato dicevano i pompieri del qualunquismo conformista. Molti giovani giornalisti furono acquistati dalla borghesia, nacquero giornali apparentemente senza ideologie, ovvero con l’ideologia della non ideologia e risultarono spesso i più feroci oppositori di coloro che volevano un altro mondo, un’altra Italia, più pulita, più onesta. Era il tempo dei grandi giornalisti sgravati da generose scrofe: i porcellini usavano come corrispondenti fidati il giudice massone, il carabiniere dei Servizi legati alle bande mafiose, il poliziotto pronto a qualsiasi comoda verità, il cardinale che benedice le armi pronte a sparare sul popolo.

Se ben ricordo, Ibio non si lasciò affascinare dal facile soldo padronale, sempre più di frequente scelse il silenzio, il caldo silenzio delle persone più oneste e più preparate, a volte scontrandosi anche con i compagni che vedevano in fondo ai lunghi corridoi di viale Fulvio Testi, dov’era la sede dell’Unità, vedevano la luce brillante del liberismo sfrenato che oggi intristisce la nostra società.

Questo ricordo di Ibio Paolucci è stato scritto in occasione del premio ‘Marco Nozza’ per il giornalismo d’inchiesta, investigativo e informazione critica, consegnato oggi a Langhirano (Pr) all’interno della rassegna ‘I sapori del giallo’ (leggi qui il programma)

L’eterna lotta di San Giorgio: luci e ombre nella secolare storia della nostra cattedrale

Bene e male, vita e morte, luce e oscurità. Ferrara è la città dai contrasti insanabili e dalle mille contraddizioni, testimoniati copiosamente nei suoi libri di pietra e marmo.
E’ il 28 ottobre del 2015, quando all’ingresso della Cattedrale consacrata a San Giorgio, il Cavaliere di Dio, vengono avvistate delle scritte che il giorno prima non c’erano. Si tratta di segni inquietanti, ben visibili. Non è difficile comprendere il loro significato. Sono segni satanici: una croce rovesciata, simbolo in realtà cristiano; il numero 666, erroneamente ritenuto il numero della bestia a causa di una traduzione sbagliata della Bibbia; e infine, la grottesca quanto ingenua invocazione “Satana call me”, ovvero “Satana chiamami”. Eppure, questi segni non sono casuali. La stessa cattedrale, in effetti, è l’incarnazione dell’eterna lotta tra il bene e il male. La facciata è oggi coperta perché in restauro, ma chi l’ha già vista si ricorderà delle incredibili figure mostruose scolpite secoli fa, creature ritenute reali, abitanti di mondi lontani. Come ogni chiesa, è metafora di tutto il creato e dell’aldilà, tutto ciò che esiste trova qui il suo posto. E’ sorprendente il Giudizio Universale rappresentato sopra la loggia centrale, una raffigurazione decisamente poco comune per la facciata di una chiesa, ma non è l’oltretomba il protagonista dei bassorilievi: la vita è richiamata dalla molta vegetazione che avvolge tutta la facciata, rendendo il duomo un vero e proprio Albero della Vita. Simboli, numeri, geometrie, ma non solo: c’è chi dice che la battaglia perpetua, a Ferrara, si sia combattuta veramente, e tutto questo sarebbe dimostrato dalle bizzarre colonnine della cattedrale situate sul suo lato destro, perfettamente visibili a tutti i viandanti che provenivano dalla medievale Via San Romano. La leggenda vuole che queste, realizzate con forme strane e indecifrabili dalla corporazione dei Maestri Comacini, fossero state in realtà scolpite in maniera simmetrica, come ci si potrebbe aspettare in una costruzione simbolo di ordine e perfezione. Ma la notte prima dell’inaugurazione, il diavolo si sarebbe divertito a plasmarle a suo piacimento, per rovinare la giornata di festa dell’indomani. Peccato però che il giorno dopo la popolazione fu così sorpresa da complimentarsi con gli scultori per la loro eccellente maestria e fantasia. E’ arrivato però il momento di lasciare le leggende per immergerci nella storia, quella documentata, spesso molto più straordinaria della nostra immaginazione. 17 dicembre 1269: muore, a Ravenna, il ferrarese Armanno Pungilupo, sepolto come un imperatore nella tomba costruita per Teodorico e subito inviata a Ferrara per essere collocata a sinistra dell’altare maggiore nella cattedrale. Ma andiamo con ordine. Armanno era un uomo venerato già in vita per le guarigioni che sembrava dispensare a chiunque. Nel 1254, tuttavia, fu scoperto essere in realtà un cataro, dunque un pericoloso eretico. Una setta contro cui la Chiesa cattolica aveva organizzato proprio all’inizio di quel secolo una vera e propria crociata, con l’obiettivo di sterminarla. Armanno, dunque, fu costretto ad abiurare la propria fede, promettendo di vivere da vero cattolico. Anzi, per tutta la sua vita fu considerato un santo, e tale fu proclamato alla sua dipartita. Il suo corpo era in grado di attirare nella cattedrale ferrarese un gran numero di genti. Tutto questo fin quando, un anno dopo, riesaminando alcuni suoi documenti, ci si rese conto che in realtà Armanno non aveva mai smesso di essere cataro, e la Santa Inquisizione non poteva certo perdonare un falso giuramento. Ci vollero ben trent’anni e dieci papi perché il nuovo santo scontasse la pena, anche se da morto: il suo corpo, il corpo del santo eretico, venne dissotterrato e bruciato barbaramente. La sola sepoltura ancora oggi presente nel duomo è quella di Urbano III, ma questo non basta a sconfiggere l’oscurità e il grigiore che ormai incupiscono l’interno della splendida cattedrale, un tempo color bianco e oro, e che soltanto un buon restauro, previsto per i prossimi anni, potrà regalarci.
La lotta tra luce e oscurità è appena ripresa a Ferrara, una lotta mai definitiva, nella città che anche nel suo stemma custodisce i colori della trasformazione e della rinascita, il bianco e il nero.

Le aliquote irpef, la flat tax e la Lega Nord: come la politica promuove l’ingiustizia sociale

In un contesto in cui la distribuzione del reddito è altamente disuguale l’opera di una politica consapevole dovrebbe tendere a riequilibrare il sistema. Uno dei metodi per farlo è sicuramente la progressività nella tassazione dei redditi cioè chi guadagna di più contribuisce in misura maggiore di chi guadagna di meno. La progressività della tassazione, del resto, è prevista dalla Costituzione del ’48 per cui il sistema era ben noto ed auspicato già dai nostri Padri Costituenti.

La tassazione è un’arma in mano allo Stato che dovrebbe essere usata per difendere gli interessi collettivi dei cittadini. Infatti con una modifica alle aliquote Irpef si può distribuire ricchezza (o un po’ di respiro) alle classi più basse senza impoverire (togliere troppo ossigeno) a quelle più alte. Questo non in chiave, ovviamente, punitiva ma semplicemente in chiave distributiva e in modo da evitare la creazione di oligopoli e l’accentramento di ricchezze tali da compromettere gli equilibri sociali. Inoltre, la tassazione serve per stabilire il principio che il controllo del sistema economico (e di conseguenza sociale) spetta solo allo Stato, che lo esercita per il bene comune e in difesa dei più deboli, di quelli cioè che da soli non potrebbero farcela contro attori economici troppo potenti né potrebbero competere con l’interesse privato dei grandi oligopoli.

Le tasse servono anche per regolare la quantità di moneta in circolazione, in tempi di deflazione si potrebbe ad esempio diminuire l’Iva per stimolare i consumi e, di converso, alzarla quando invece ci fosse un fenomeno inflazionistico in modo da togliere moneta dal circuito economico. Del resto una tassa che colpisce indistintamente i consumi senza fare nessuna distinzione tra milionari e pensionati al minimo (di fatto una flat tax) è quanto di più disuguale si possa immaginare e nelle mani colpevoli dei nostri politici sta diventando sempre più una vera mannaia sulle teste dei cittadini.
Ultima annotazione sul tema “a cosa servono le tasse”: poiché le tasse si pagano con la moneta in circolazione in un determinato Paese, tutti accettano di essere pagati soltanto in quella determinata moneta, ovvero, se siamo in Italia, non accetterò di essere pagato per il mio lavoro in “pizza di fango del Camerun” altrimenti non avrò euro per pagare l’Imu e il bollo dell’auto.

Concetti questi un po’ difficili da far passare in un Paese dove fin dalle elementari si studia che gli ospedali vengono costruiti con i soldi delle tasse dei cittadini, ma come arriviamo dalle tasse alla disuguaglianza? Attraverso la constatazione che si sta usando l’arma della tassazione per difendere gli interessi del capitale e non quelli della cittadinanza e questo fenomeno, benché non crei tutta la disuguaglianza in circolazione, la protegge e la sostiene. Le dà impulso.

La storia ci dice che nel 1974 c’erano ben 32 aliquote che andavano dal 10% al 72% poi dal 1983 iniziarono i cambiamenti e le aliquote da 32 passarono a 9, la prima aliquota sui redditi fino a 11 milioni di lire (5.681 euro) dal 10 passò al 18% e l’ultima sui redditi oltre 500 milioni (258.000 euro) passò al 65%.
Si arriva al 1989 e le aliquote si riducono a 7, la prima aliquota sui redditi fino a 6 milioni di lire (3.000 euro) ritornò al 10% e l’ultima sui redditi oltre 300 milioni di lire (155.000 euro) passò al 50% e, finalmente, ad oggi, dove le aliquote sono solo 5. La prima aliquota sui redditi minimi fino a 15.000 euro corrisponde al 23%, mentre l’ultima aliquota, la più alta, riguarda i redditi oltre i 75.000 euro e corrisponde al 43%.

Cosa è successo dunque? Semplicemente che dal 1974 le aliquote sono progressivamente andate a diminuire per i redditi alti e ad aumentare per i redditi bassi.

Insomma “abbiamo il debito pubblico alto” e dobbiamo fare i sacrifici, ma esattamente chi li deve fare? Nel 1974 chi guadagnava più o meno l’equivalente di 250.000 euro contribuiva per il 72% mentre oggi contribuisce per il 43% allo stesso modo di chi guadagna 75.000 euro che non è esattamente la stessa cosa, anzi un bell’aumento di ricchezza per la fascia già alta della popolazione.

I poveri invece sono passati dal 10% al 23% senza proteste particolari, sindacati in piazza, scioperi o contestazioni ma anzi con l’accettazione tipica dell’uomo moderno che preferisce dibattere per i nomi delle strade o l’abbattimento delle statue del periodo fascista, che vuol dire trattare la storia come i talebani e l’isis, solo che loro sono i cattivi.

Le aliquote Irpef, insomma, potrebbero essere una buona chiave per capire chi deve fare i sacrifici.

Io credo che le tasse non debbano essere né un furto né un ostacolo alla libera iniziativa e quindi che non dovrebbero mai superare un certo limite, ma sono anche consapevole di questa assenza generalizzata della politica che continua a dimostrare insofferenza alle prescrizioni delle norme costituzionali ed indifferenza alla giustizia sociale e che, inoltre, la proposta del partito della Lega Nord peggiori una situazione già pessima. Un partito che nonostante venga definito populista agisce in questo caso proprio contro il popolo quando propone il sistema di tassazione denominato flat tax, ovvero una sola aliquota fiscale buona per tutte le stagioni.

La flat tax metterebbe pace definitivamente a tutti i calcoli cancellando pezzi di costituzione e di giustizia sociale. Anche il ricorso alle previste deduzioni nel contesto di questa proposta darebbero sì un po’ di respiro alla maggior parte dei contribuenti ammassati verso il basso, dando persino a qualcuno la sensazione del miglioramento, ma sostanzialmente andrebbe a dare ulteriore potere economico (e quindi sociale) a chi avrebbe meno bisogno di tutela.
Non si considera una cosa semplicissima, che a un reddito di 24.000 euro all’anno con famiglia a carico, anche 100 euro al mese possono fare la differenza mentre per redditi da dirigente statale di 240.000 euro valgono un caffè al bar. E un top manager alla Marchionne può arrivare anche a 50 milioni all’anno. Ci sono delle differenze che non bisogna nascondere e la politica dovrebbe mediare fra i vari interessi in campo assicurando a tutti la giusta considerazione. Esiste il bisogno del pane, delle scarpe e della casa e il desidero di volare con aereo privato da Londra a Palermo che possono essere entrambi legittimi ma rimangono sempre bisogni o desideri.

Sono concetti diversi e vanno mediati con le esigenze di appartenenza al genere umano, di cittadinanza e di giustizia sociale. Se viviamo tutti sullo stesso pianeta abbiamo degli obblighi reciproci e nessuna parte ci guadagna a vedere l’altra soccombere, bisogna riconoscere l’interdipendenza degli uni con gli altri.

Proporre una flat tax assicura solo che qualche auto di lusso o aereo da crociera o yacht in più sarà venduto, un appiattimento (flat) sempre più marcato delle classi sociali in ricchi e poveri, un aiuto al fenomeno della disuguaglianza. Molto più “popolare” o “populista” sarebbe proporre un sistema di tassazione progressiva che tenga conto degli interessi in gioco e laddove viene evidente che il 72% è un furto ed un invito a delinquere sia anche evidente che non si può considerare alla stessa stregua un reddito di 28.000 euro con uno di 55.000 e uno da 75.000 con un altro di 240.000 e oltre.
Poi ovviamente si assicuri la certezza della pena per chi evade, si aiutino le aziende locali a prosperare difendendole anche con la fiscalità, oltre che con l’accesso al credito, dalle multinazionali, si consideri i prodotti nazionali come ricchezza e prospettiva di lavoro perché solo una buona domanda interna può dare impulso ad un reale miglioramento della situazione economica. Le esportazioni servono a pochi e dimostrano altrettanto poca progettualità e visione del futuro, così come pensare di lasciare più soldi ai ricchi con la speranza che questi li spendano investendo o comprando e aspettando che arrivi qualche briciola di pane ai pesci rossi significa aver fatto passare invano 200 anni di storia (e quindi Smith, Ricardo, Say, Marx, Keynes e poi Mussolini, Hitler, Bretton Woods e il muro di Berlino).

Palazzo delle Saline, tante domande di partecipazione al concorso di idee

da Clara

È scaduto venerdì 25 agosto il termine per l’invio delle domande di partecipazione da parte dei professionisti interessati al concorso di idee per il recupero dello storico Palazzo delle Saline di Comacchio.
Sono svariate decine le domande pervenute agli uffici CLARA, e ora si apre una nuova fase della procedura: per i professionisti che ne hanno fatto richiesta l’azienda ha infatti fissato le date per i sopralluoghi nelle mattine di martedì 29 e giovedì 31 agosto, martedì 5 e giovedì 7 settembre.
Il calendario del concorso prevede poi come data di scadenza per la ricezione delle proposte ideative il 12 dicembre 2017 e la conclusione dei lavori della Commissione giudicatrice entro il 26 gennaio 2018.
Il progetto vincitore otterrà un premio di 10mila euro a titolo di rimborso spese, che verrà considerato anche quale acconto per un eventuale successivo incarico di progettazione definitiva ed esecutiva. Al secondo e al terzo classificato andranno invece premi rispettivamente di 4mila e 3mila euro a titolo di rimborso spese.
Tutti gli aggiornamenti relativi alla procedura in corso saranno come sempre pubblicati nella sezione Società Trasparente del sito www.clarambiente.it.

I RACCONTI DEL LIDO
Un diverso destino per i L(a)idi

E così, dopo la buriana ferragostana, una pseudo calma torna sui L(a)idi e immancabili, rombanti e minacciose, le forze dell’ordine spazzano la battigia, provocando la fuga dei dannati della terra che fino al giorno prima sciamavano indisturbati con estasi ‘comprereccie’ per le non esili dame in cerca di ‘qualcosa da mettersi su’. Ma come mai solo a festa finita? Domanda necessariamente rivolta al silenziosissimo sindaco di Comacchio che (forse) non sembra aver a cuore le sorti dei suoi Lidi sempre più Laidi.

Comunque, ‘Passata è la tempesta’ ‘E odo augelli far festa’.
Il che vorrebbe dire le urla strazianti dei gabbiani che si avventano sui bidoni della spazzatura.
Poco alla volta il silenzio s’impadronisce delle vie che, se non vedono razzolare le leopardiane galline, assistono però al trionfo dei pelosi che a frotte scendono per la solita pisciatina o per il ‘grosso’, mentre i loro colpevoli padroni/e fanno finta di non vedere le orme evidenti del loro passaggio. E qui sarei tentato, ponendomi nei panni del Silenzioso (sindaco) di comminare multe salate agli sventati (ed è un eufemismo) non certo compagni umani dei pets.

Nella calma raggiunta si decide di andare a cena in un paese al confine tra Emilia e Romagna, Sant’Alberto.
Appena usciti dal caos l(a)idesco s’imbocca la Romea nell’ora ‘che volge al disio’. Tra gli alberi s’intravvedono le valli rosate. Voli di fenicotteri e di gabbiani striano il cielo.
Da lontano si scorgono i profili dei monti che la luce calante ammorbidisce nei contorni.
All’altezza di Casal Borsetti si volta a destra e si costeggia un canale le cui rive son popolate di casette ‘di una volta’.
Improvvisamente ricordo che quella strada la conosco poiché avevo portato Lilla dal guru degli animali dove tra i vocii di tanti animali avevo ascoltato il responso e la cura.

Infine, sotto l’argine si scorge una grande scritta: ‘La rucola’.
Una casa contadina, un grande parco e attente ragazze che, immuni dalla leggera falsità imposta dai locali alla moda, t’invitano a sederti, e ti propongono prima di tutto, ma solo il lunedì, il favoloso ‘gnocco’ fritto. E non si faccia ironia a declinare al femminile il termine!
Giungono poi piatti della cucina romagnola di un tempo, che accompagnano i soffici e incredibili gnocchi, fritti secondo la tradizione modenese. Chiedo spiegazioni e arriva lui, il capocuoco, perfetta immagine del bagnino romagnolo tombeur de femmes della mia giovinezza. Ha il codino di capelli grigi, orecchino pendente con crocifisso e la tshirt d’ordinanza. Ci racconta la storia della composizione del gnocco tramandatagli da una nonnina modenese di più di ottanta anni. E ci raccomanda come accompagnamento del gnocco: salumi di casa, formaggi, ricotte, scalogni, costolette d’agnello, faraone, passatelli in brodo, cappelletti romagnoli. Un vero ‘nozzo strangozzo’.
Improvvisamente il tempo si ferma di fronte a un’enorme fetta di zuppa inglese e di ‘brazadele’ (ciambelle) di vari tipi. Allora penso a come avrebbe potuto essere il destino dei L(a)idi se fossero stati concepiti come luogo di passaggio di due tradizioni paesaggistiche e culturali tra Emilia e Romagna.
Spazi infiniti di pini e di dune sabbiose.
Luoghi in cui il tempo avrebbe potuto divenire Storia.

La teoria della vongola: anche la verace passerà

Un piatto di spaghetti con le vongole, per favore!
Sì, ma quali vongole?
Nella Sacca di Goro la vongola verace (Ruditapes decussatus) è scomparsa. All’inizio degli anni Settanta lo sfruttamento indiscriminato del mollusco portò la sua pesca da circa 1200 quintali a stagione a circa 70 quintali in 6 anni. Per rimediare all’errore, al sottovalutato danno, e rinfrancare la pesca e l’economia si introdusse un’altra vongola di origine filippina (Ruditapes philippinarum) con caratteristiche ben diverse: maggiore taglia, maggiore adattamento ecologico, maggiore prole. In poco tempo la straniera philippinarum scalzò l’autoctona decussatus e, usurpato il titolo di verace, oggi è l’unico condimento dei nostri spaghetti.

Anni fa Eugenio Scalfari introdusse la “teoria della cozza”, un’immagine metaforica che applicò alla Dc e a Giulio Andreotti. Al mio provincialismo estense la vongola verace suggerisce un’altra teoria: quella della vongola.
Recentemente Bernardo Valli su ‘L’Espresso’ (30/07/2017) evidenzia il crollo demografico della vecchia Europa. In cinquant’anni la Germania potrebbe perdere 24 milioni di abitanti, un destino comune all’Italia. Se persistono i tassi di fertilità odierni, secondo le informazioni raccolte da Valli, entro il 2080 potrebbe scomparire una quota di abitanti equivalente a quella della Germania dell’Est, un tempo comunista. Valli è consapevole che “sono cifre da fantascienza rese nebbiose, incerte, perché con scadenze reali remote”. Tuttavia vede “una decimazione della popolazione contenibile, meglio attenuabile, con una forte immigrazione. Un’idea quest’ultima che spaventa gli elettori e che può cambiare il panorama politico tedesco”. Sempre su ‘L’Espresso’ Eugenio Scalfari (06/08/2017) dichiara che la vera politica europea è “ridurre le diseguaglianze, aumentare l’integrazione. Si profila come fenomeno positivo, il meticciato, la tendenza alla nascita di un popolo unico, che ha una ricchezza media, una cultura media, un sangue integrato”. Nello stesso numero della rivista Francesca Sironi visita la nostra Lagosanto, il paese italiano con la più bassa presenza di giovani al di sotto dei trent’anni. Testo e foto ne danno un panorama algido, freddo, vuoto. Vuoto di cosa? Di lavoro? Di negozi? Di cinema? No, di cultura: terra rasa, da dissodare, arare, fresare e seminare. Una laguna anossica sul cui fondale le vongole veraci stanno boccheggiando prima della morte.
Queste tre indagini sulla società non considerano la sua parte più caratterizzante e dinamica, quella culturale. Ho la sensazione che si pensi di modificare il corso degli eventi (i.e., bassa natalità, aumento dei pensionati, riduzione del pil) con meccanismi tecnici di migrazione/importazione delle popolazioni senza valutarne le modalità e i successivi impatti culturali: non ricorda la storia della nostra vongola verace? Si diceva: “Dobbiamo guadagnare di più dalla vendita delle vongole, ma le abbiamo già pescate tutte: impiantiamone di nuove, alloctone, più prolifiche! Tanto le veraci ci sono da sempre (!), non scompariranno”.

La mia metafora è semplicistica in quanto non analizza i dettagli ecologico-sociali. La preoccupazione sociale prodotta dall’immigrazione è spesso trattata in Italia solo tecnicamente (si ricordino, per esempio, le ultime considerazioni di Tito Boeri), in termini economici e statistici, considerando in modo asettico numeri, produzione, tassi, invece di persone, culture, etica.
Uno dei punti cardine del problema immigrazione è mantenere e diffondere la cultura (nazionale e locale) per non perdere la tradizione. Sappiamo che questa naturalmente si diluisce con il tempo, muta forme e colori: non scompare immediatamente, si modifica, cambia aspetto. È una dinamica che non possiamo arginare e interrompere. Possiamo però rendere la cultura più comprensibile, fruibile e coinvolgente, agli autoctoni e specialmente agli alloctoni. Una cultura non sussiste indipendentemente dalle altre, perché è solo come parte dell’autodeterminazione del mondo nella sua totalità dinamica e storica che essa può darsi.
Proviamo a seminare l’arte. L’arte ha la capacità nella sua estetica di rendere dinamici tutti gli attori, gli oggetti come i soggetti, le interpretazioni e le emozioni, di modo che tutte le attività dell’uomo vengono rimesse in discussione, rinegoziate. L’esperienza estetica è un’attivazione delle nostre facoltà cognitive, una promozione della vita. L’esperienza estetica permette proprio quelle rinegoziazioni delle pratiche umane che sono necessarie a un essere umano che “non ha alcuna forma di vita impiantata per natura“ (Georg W. Bertram).
L’estetica è un’etica.
Non potendo più apprezzare gli spaghetti alle vongole veraci (i.e., R. decussatus), abbiamo inventato quelli allo scoglio: un coacervo di prodotti freschi e congelati, provenienti da mari differenti, che forniscono, più o meno con soddisfazione, un esempio di gastro-evoluzione. In meno di quarant’anni abbiamo dimenticato il sapore della vongola verace (decussatus) e la sua decimazione: è stata sostituita (quantitativamente) dallo “scoglio”, arduo da scavalcare.
Ed anche la verace passerà.

SEGNALI
A Pozzallo giovani ciceroni fanno riaprire la Torre Cabrera

Ci sono storie che incontri per caso, magari mentre sei in vacanza al mare, in Sicilia.
Storie che ti catturano, con dentro persone che non puoi dimenticare, perché lasciano dentro di te un segno indelebile. Proprio come quella dei ragazzi della scuola ‘Giuseppe Rogasi’ di Pozzallo, in provincia di Ragusa. Il perché è presto scritto: questi ragazzi sono le ‘guide speciali’ di un monumento nazionale che, senza il loro coraggio e impegno, sarebbe impossibile visitare e scoprire. E’ la Torre Cabrera che domina alta e bianca il lungomare di Pozzallo, uno dei centri balneari più importanti e frequentati dell’intera provincia ragusana.
I ‘ragazzi del Rogasi’ ne svelano storia, segreti, misteri dalle 18 alle 22 di ogni sera da lunedì a domenica nei mesi di agosto e settembre. Lo fanno con una preparazione degna dei migliori critici d’arte, grazie a un progetto realizzato nella loro scuola, condito da una passione unica per la loro terra e le loro radici.

La storia di Pozzallo ha origini antichissime, sul suo territorio sono stati infatti ritrovate tracce bizantine e monete romane. Durante il periodo di dominazione saracena gli arabi che ne fecero uno dei porti più importanti della zona.
Nel XIV secolo, Pozzallo era molto conosciuta per le sorgenti di acqua dolce, Pozzofeto e Senia, tanto da essere segnata nei portolani e sulle carte nautiche per i rifornimenti delle scorte d’acqua dai navigli.
La storia più recente di Pozzallo inizia proprio da qui con la famiglia Chiaramonte, Conti di Modica, che qui costruì un ‘Caricatore’: un complesso di magazzini con pontili e scivoli sulla costa, che fece divenire Pozzallo, il secondo snodo commerciale marittimo per importanza della Sicilia dell’epoca.

Proprio per la sua importanza marittima e commerciale, successivamente fu necessario potenziare le strutture difensive della costa. Su richiesta del conte Giovanni Bernardo Cabrera, nel XV secolo il re Alfonso V d’Aragona autorizzò la costruzione di una torre di difesa: la Torre di Cabrera.

La struttura risultò molto imponente e di grande importanza militare per l’avvistamento preventivo dei velieri pirata che in quel tempo miravano spesso ai magazzini del Caricatore, sempre colmi di grano della Contea di Modica, che imbarcato a Pozzallo raggiungeva i più lontani porti del Mediterraneo. Nella torre prestavano servizio soldati e artiglieri e sulle sue terrazze vi erano piazzati cannoni di diverso calibro, mentre cavalieri sorvegliavano la costa. Venivano anche catturati e puniti i criminali o i prigionieri saraceni, imprigionati e giustiziati in una camera particolare, ancor oggi visibile, situata proprio sugli scogli, dove i detenuti venivano incatenati e poi uccisi per annegamento a causa delle acque che si alzavano con l’alta marea. Nelle volte a crociera di qualcuna delle sale, adibite a residenza del castellano, o del conte stesso di passaggio, spiccano gli stemmi scolpiti raffiguranti il blasone della nobile famiglia catalana dei Cabrera.

Mentre scrivo ho sotto mano il cellulare e il messaggio che gli amici di Pozzallo mi hanno appena inviato per dirmi che anche quest’anno sono impegnati a fare le guide. Riguardo le fotografie e sorrido, pensando a quando l’anno scorso mi hanno trascinata nelle stanze della Torre accendendo la fantasia e spingendola tra velieri, storie di pirati, conquistatori e nobili pronti a difendere il loro territorio. E provo gratitudine per la grandezza di questi giovani che, in un Paese meraviglioso e contradditorio come il nostro, ci credono e vanno contro corrente, tenendo viva una memoria altrimenti dimenticata e invisibile.

Giocarsi la vita

La roulette non rende a nessuno, se non a chi la possiede. Tuttavia, la passione per il gioco è comune, mentre la passione per il possesso della roulette è ignota. (George Bernard Shaw, ‘Uomo e superuomo’, 1903)

Enormi sale, arredamenti diversi ma un’unica atmosfera palpabile e percepibile che nettamente le accomuna: tensione, frenesia, febbre, smania, attesa spasmodica col fiato sospeso e cedimento improvviso quando il gioco arriva in battuta finale. Per poi ricaricarsi e ricominciare. C’è chi fuma negli spazi riservati, chi concentra ogni singola risorsa personale su quei numeri che vengono chiamati e scanditi velocemente da una voce incolore, metallica; qualcuno mangia un toast, una fetta di dolce, un gelato, senza mai perdere di vista per un solo istante le cartelle acquistate, mentre qualcun altro ordina da bere tra una scansione e l’altra, controllando i soldi che ha preparato sul tavolo, pronti per nuove puntate. I croupier si muovono come silenziosi e felpati felini tra i tavoli, esibendo mazzette di cartelle, pagando i vincitori e raggiungendo fulmineamente le braccia alzate che li reclamano.

Sono le sale bingo, popolate da clienti di ogni estrazione, giovani e meno giovani, donne, uomini, gruppetti di signore inanellate accanto a solitari e scontrosi pensionati, piccole comitive di amici, frequentatori abituali e occasionali, coppie silenziose che di coppia hanno ormai ben poco, ragazzi in attesa di finire la serata in un qualche altro locale. Una moltitudine che popola uno spazio estraniante in cui contano solo ed esclusivamente i numeri allineati rigorosamente sulla stessa linea o nella stessa cartella: tutto il resto è nulla. E a ogni cinquina, ogni bingo, c’è sempre chi esulta carico di adrenalina e chi, svuotato e deluso, aggredisce con lo sguardo allusivo e colpevolizzante i fortunati del momento. Sferzate emotive che si alternano di continuo in esaltazione e depressione, riempiono quei vuoti che si cerca di colmare dando l’illusione di cancellare frustrazioni, infelicità, noia. Gli stessi meccanismi, le stesse razioni che troviamo nelle sale di slot machine e nei casinò, con una differenza percettiva: mentre il casinò viene ancora visto come un luogo più esclusivo per retaggi di natura storica, le altre pratiche di gioco più recenti sono alla portata di chiunque, senza riserve e limiti, in posti e spazi comuni, facilmente raggiungibili e frequentabili, come bar, tabacchini ed esercizi pubblici, più tranquillizzanti, più ‘normali’, più giustificabili nel mettersi in pace con se stessi nei momenti di ripensamento.

In fondo in fondo, il bingo è un po’ come la tombola che ci ricorda i Natali della nostra infanzia o le feste in parrocchia e il bar è un po’ la nostra seconda casa in cui fermarsi a prendere un caffè e fare due chiacchiere… Incredibile come si riesca ad autoassolversi dai sensi di colpa e a calmare ansia e stati depressivi davanti a quei tavoli magnetici e quelle macchine che assomigliano a luminosi totem da adorare, incitare e maledire. Il gioco ha sempre accompagnato l’individuo alla ricerca di emozioni forti, destinato molto, troppo spesso a diventarne schiavo irrecuperabile. “Smetto!”, ma poi l’indomani è sempre là, avvolto da una ragnatela che lo cattura e immobilizza. Una lenta china discendente dove slot, bingo, scommesse, videopocker, baccarat, roulette, black jack, chemin de fer, inducono alla ludopatia: una vera e propria dipendenza comportamentale, che vede un aumento graduale delle giocate, del tempo trascorso a giocare, delle somme di denaro impegnate nel tentativo di recuperare le perdite, oltre che una progressiva trascuratezza dei propri impegni quotidiani e una distorsione della realtà.

In rete il gioco d’azzardo prospera: casinò virtuali, siti con recensioni, community di giocatori e forum dedicati ad appassionati scommettitori hanno contribuito in modo massiccio all’aumento del fenomeno. Il termine ‘azzardo’, deriva dall’arabo ‘az-zahr’, il dado, perché proprio il gioco dei dadi è uno dei più antichi che si conoscano, come ci dimostrano i giocatori di dadi negli affreschi di Pompei. Giocatori d’azzardo nelle taverne, bari e imbroglioni nei bassifondi, liti tra giocatori di carte, scaltri ladri ai tavoli da gioco, ingenui scommettitori e ciarlatani di strada, popolano i dipinti di epoche e autori diversi tra cui di Murillo, Bruegel, Ribera, Cezanne, Dix, de Vega, Caravaggio, Botero e numerosi fiamminghi tra cui van Herp e van Leyden, invitando il nostro sguardo sul vasto, inquietante mondo del gioco con pennellate e ritratti di un’espressività sconcertante.

Nelle pagine di letteratura, ‘ Il giocatore’ (1866) costituisce un piccolo capolavoro di Dostoevskij, scritto dal grande autore russo, ironia della sorte, proprio per necessità di pagare debiti di gioco. Tutta la vicenda, ambientata nella città tedesca dal nome fittizio di Roulettenburg, ruota attorno a una famiglia stravagante, in cui il precettore Aleksej Ivànovic, innamorato di Paolina, diventa un giocatore incallito per guadagnare quelle somme di denaro che potrebbero avvicinarlo alla ragazza e sbarazzare il campo dagli altri pretendenti. Alla fine, davanti alla possibilità di cambiare totalmente vita, l’uomo sceglie e decide di rinviare al futuro la sua definitiva redenzione. Lo scrittore analizza, nel racconto, il gioco d’azzardo in tutte le sue forme, descrivendo le tipologie di giocatore, dal ricco nobile europeo al poveretto che si gioca tutti i suoi averi, non risparmiando il lettore su caratteristiche e peculiarità legate alla provenienza geografica dei protagonisti: l’altezzoso barone tedesco, il ricco gentleman inglese, il francese manipolatore.
E come Dostoevkij, anche Stefan Zweig parla di gioco compulsivo nella novella ‘Vierundzwanzig Stunden aus dem Leben einer Frau’ (24 ore nella vita di una donna) pubblicata nel 1927. Siamo in un rispettabile albergo della Costa Azzurra degli anni Venti dove, in seguito a un evento scandaloso, una riservata nobildonna inglese confessa ciò che le era accaduto trent’anni prima, quando aveva amato intensamente e per una sola volta un giovane russo devastato dalla febbre del gioco che aveva ormai dissipato tutti i suoi averi. Lei gli aveva donato i soldi per tornare a casa, ma il giorno successivo lo avevano trovato morto suicida dopo un’ultima, drammatica notte ai tavoli del casinò di Montecarlo. Una novella di vita e di morte e nel mezzo, una gamma di sentimenti e sensazioni come stupore, gioia, vitalità, sdegno, rancore, angoscia. Come Stafan Zweig sa descrivere. Il gioco fa la sua irruzione anche in ‘Il fu Mattia Pascal’ di Pirandello (1903): Mattia si imbatte in un metodo per vincere alla roulette, attraverso una rivista acquistata a Nizza. Sappiamo che non esiste alcun metodo se non quello di non giocare o smettere di farlo ma l’uomo, travolto dalla frenesia inarrestabile gioca, punta, vince, si inebria e perde a poco a poco il legame con la realtà. “I primi colpi andarono male. Poi cominciai a sentirmi in uno stato di ebbrezza estrosa, curiosissima: agivo quasi automaticamente, per improvvise ispirazioni…ero come elettrizzato, gli orecchi ronzavano, ero tutto in sudore, gelato…la mano mi andò sullo stesso numero di prima, il 35; fui per ritirarla, ma no, lì, lì di nuovo, come se qualcuno l’avesse comandato.” In un’opera del 1986, ‘La Partita’, Alberto Ongaro racconta di una Venezia del XVIII secolo avvolta da un’atmosfera lugubre, sommersa dal ghiaccio di un inverno inclemente. Il protagonista è il giovane Francesco Sacredo, appena tornato dall’esilio a Corfù, che tenta di recuperare il patrimonio familiare perso al gioco dal padre. Gli viene offerta la possibilità di riguadagnare tutto nel corso di una partita ad alta tensione con la contessa Matilde von Wallenstein e la posta in gioco è altissima: in caso di perdita egli stesso diverrà un bene della vincitrice. Sconfitto, fuggirà per sottrarsi alla sorte prestabilita, ma la sua fuga si trasformerà anch’essa in una partita senza fine col proprio destino.

Opere che descrivono con dovizia di particolari una condizione umana pesante, una prigionia devastante, l’impossibilità di disporre di un proprio volere e della libertà di scelta perche si è entrati in un vortice che non lascia margine di uscita. Epoche diverse, ma sempre la stessa delirante situazione legata al tema della dipendenza da gioco. In Italia la cura della ludopatia, riconosciuta solo in tempi recenti condizione patologica, beneficia di sempre più attenzione, anche se rimane ancora molto da fare. I Sert presenti in alcune regioni, equipe di specialisti e associazioni di mutuo aiuto stanno operando in modo mirato per diffondere conoscenza sul problema in incremento; campagne di sensibilizzazione stanno agendo per disincentivare la nascita e la diffusione di ulteriori punti di attrazione al gioco, chiedendo la soppressione e la chiusura degli esistenti, ben consapevoli che il volume d’affari che riguarda questo business è enorme e quando si tratta di incassi e somme vertiginose di denaro che circola, la ‘partita’ diventa difficile.

L’ANTICIPAZIONE
Internazionale e Teatro Nucleo portano la città nel teatro-carcere di via Arginone

Usare il teatro, il processo teatrale, per innescarne un altro, quello di reinserimento nella società dopo aver scontato la propria pena, e per l’alfabetizzazione funzionale dei detenuti, per insegnar loro la cultura che si esprime attraverso la lingua dei testi teatrali che interpretano. Tutto questo – e altro ancora – è il progetto teatro-carcere, la pratica quotidiana di teatro che da otto anni Horacio Czertok e i suoi collaboratori del Teatro Nucleo portano avanti nella Casa Circondariale di Ferrara.
Per la seconda volta Horacio, gli attori-detenuti e tutti coloro che lavorano al laboratorio teatrale di via Arginone affrontano la sfida di portare la città dentro le mura del penitenziario: il 29 settembre alle 20.30, all’interno del programma di Internazionale a Ferrara, nella sala-teatro della Casa Circondariale ‘Costantino Satta’ andrà in scena ‘L’irresistibile ascesa degli Ubu’.
Lo hanno già fatto nel settembre 2016, sempre all’interno di Internazionale, con ‘Me che libero nacqui in carcer danno’, ispirato alla Gerusalemme Liberata di Tasso, con incursioni del ‘Combattimento di Tancredi e Clorinda’ di Claudio Monteverdi. (Leggi qui l’articolo di Giorgia Mazzotti)

Una sfida nella sfida perché, a causa del tempo richiesto per l’autorizzazione all’ingresso, la biglietteria è aperta già da luglio e le richieste di partecipazione dovranno arrivare entro il 31 agosto e non oltre (costo del biglietto 10 euro, maggiori info per la prenotazione qui).
Proprio da qui comincio la mia intervista con Horacio Czertok, regista dello spettacolo insieme a Davide Della Chiara, con una domanda un po’ provocatoria: perché un normale cittadino dovrebbe affrontare la trafila – comunicazione dei propri dati, regole di condotta, controlli, etc – per venire a vedere il vostro teatro in carcere?
E lui, più che abituato a questo genere di domande, non ha dubbi sulla risposta: “Perché è un atto di civiltà. Noi, gli educatori, i detenuti, la polizia penitenziaria, siamo tutti coinvolti in un processo di trasformazione sociale e abbiamo bisogno del sostegno della città e i cittadini, quindi chi viene a vedere il teatro in carcere fa un gesto socialmente forte. È il vostro carcere, sono i cittadini a pagarlo, quindi venite a vedere come cerchiamo di cambiare le cose e come le persone cercano di cambiare se stesse. L’altro aspetto, infatti, per nulla secondario, è che questi sono spettacoli belli, di buon artigianato, fatti da persone che ci mettono tutte se stesse per essere viste come persone che stanno provando a cambiare: non ci interessa l’applauso ‘peloso’, come lo chiamo io. Io, Davide, gli attori, vogliamo un applauso entusiasta, vogliamo che al pubblico arrivi quel qualcosa che fa dire “Bravi!”, non “Poverini”: il teatro spinge a un gioco di autenticità, lì sta il riconoscimento della loro dignità. Noi non selezioniamo nessuno: una volta che loro hanno chiesto di partecipare alle nostre attività e sono stati ritenuti idonei, vengono e lavorano con noi, mettendosi alla prova e studiando il testo e incarnandolo. Questo li cambia: la necessità di essere autentici e convincenti”.

Parliamo allora dello spettacolo: ‘L’irresistibile ascesa degli Ubu’. Un lavoro su Jarry e sulla sua Patafisica portato avanti insieme a tutta la rete del Coordinamento Regionale Teatro Carcere, che raggruppa sette penitenziari sui dodici dell’Emilia Romagna: “la Patafisica è la scienza delle cose possibili, uno sguardo non retto, ma laterale, che fa capire che il sopra e il sotto e tutto il resto in fondo sono solo convenzioni”.
Farsi beffe del potere, smascherarne i lati oscuri e le logiche perverse attraverso la finzione del palcoscenico, che alza il sipario sul reale e permette di osservarlo con sguardo critico e caustico, riconoscendo con ironia che quei lati oscuri si possono nascondere in ognuno di noi. “Oggi in giro ci sono parecchi Ubu, da Donald Trump a Kim Jong Un, senza contare gli Ubu italiani, ma io non cerco il teatro di attualità: il bello del nostro mestiere è che attraverso i personaggi possiamo di mettere in scena quei caratteri umani universali che attraversano le epoche, rendendoli riconoscibili nel tempo che stiamo vivendo”. “Jarry – continua Horacio – scrive alla fine del XIX secolo, prima della Prima Guerra Mondiale e delle dittature del Novecento, prendendo ispirazione dal Macbeth: ecco perché ritroviamo una coppia malefica, Père Ubu e Mère Ubu, assetati di potere, con lei che spinge questo guerriero, questo capitano, all’apparenza forte, ma che si rivela fragile e incapace di prendersi le proprie responsabilità, di affrontare le conseguenze delle proprie azioni. Cosa alquanto frequente anche ai giorni nostri, dove si fa a gara in quanto a irresponsabilità. Ha una visione ed è questa che ci interessa”.
Ubu – spiega Horacio – è un testo particolare che permette diverse interpretazioni, grottesche o tragiche. Nasce come un gioco, quando l’autore Alfred Jarry era ancora un ragazzo a Nantes, lui e alcuni suoi compagni di liceo con questo testo quasi per marionette si prendono gioco del loro preside, molto crudele e autoritario. Qualche anno dopo Jarry si trasferisce a Parigi per diventare un drammaturgo di successo e riprende in mano l’opera, che va in scena con grande scandalo perché tradisce tutti gli stilemi della drammaturgia teatrale del proprio tempo anticipando alcune delle caratteristiche del teatro dell’assurdo di Brecht”. Ecco perché il titolo è ‘L’irristibile ascesa degli Ubu’, “parafrasando ‘L’irresistibile ascesa di Arturo Ui’, il testo di Brecht contro l’irrefrenabile ascesa di Hitler al potere”.
“Quello che andrà in scena a fine settembre e sul quale stiamo lavorando da circa sei mesi è un primo studio: in pratica abbiamo diviso il testo in due parti e ora lavoriamo sulla prima, sull’ascesa degli Ubu, cioè come Ubu diventa re di Polonia. Da ottobre riprenderemo a lavorare e studieremo anche la caduta, perciò se tutto va bene a maggio porteremo al Teatro Comunale l’intera pièce: ‘Ascesa e caduta degli Ubu’. Chi assisterà a entrambi gli allestimenti potrà vedere come il lavoro si è evoluto: per esempio, per il primo studio di settembre stiamo preparando, sempre in carcere, alcune scenografie che però per il Comunale andranno ampliate”. Se le scenografie sono una novità, ci sarà invece ancora musica dal vivo, come in ‘Me che libero nacqui’: “è una sorta di musical”, scherza Horacio.
In scena ci sono circa una decina di detenuti attori: “uno zoccolo duro, che ha già esperienza”, come per esempio quelli che hanno lavorato allo spettacolo su Tasso, “e intorno alcuni nuovi arrivati, che imparano il mestiere attraverso il lavoro dei compagni, proprio come accadrebbe in una compagnia, dove si impara dai più esperti e dal capocomico”.

Foto di Marinella Rescigno
Foto di Marinella Rescigno

Tornando all’esperienza del teatro carcere in generale, chiedo a Horacio come si lavora nel laboratorio: il metodo cambia a seconda dei testi affrontati?
“Il metodo non cambia, ma cambiano gli aspetti sui quali concentrarsi. Lavorare sul Tasso e sulle sue ottave è diverso rispetto a lavorare sulla lingua di Jarry: il testo è meno evocativo, più terra terra e quindi, se vuoi, più rischioso, rispetto a quello ricercato e aulico della ‘Gerusalemme liberata’, che in un certo senso protegge perché è bello già di per sè. La parola di Jarry è più povera dal punto di vista poetico, ma più diretta, più ruvida e graffiante, fatta apposta per irritare gli spettatori. Ed è su questo che abbiamo lavorato: la parola vicina alla realtà”.

Come si fa a trasmettere tutto questo ai partecipanti, a coinvolgerli, su autori, testi e temi molte volte lontani da tutto ciò che per loro è familiare?
“Lo si fa con grande sforzo, ma il lavoro è proprio questo. Per i detenuti il processo teatrale implica uno sviluppo educativo forte: quella fatta attraverso il teatro è alfabetizzazione funzionale, cioè permette di imparare non solo la lingua, ma la cultura che sta dietro, proprio perché la parola a teatro è fondamentale. E nello stesso tempo, attraverso il confronto con i compagni di laboratorio, c’è un confronto fra culture diverse e così ognuno può vedersi attraverso gli occhi dell’altro: l’integrazione, la crescita, le interazioni, avvengono perché l’altro diventa meno straniero e tu ti senti più straniero a te stesso e ti metti in discussione.
Inoltre, a mio avviso, fare teatro in carcere permette al teatro stesso di riflette su stesso e crescere: è un lavoro culturale, per trasmettere loro tutta una serie di nozioni e farli entrare dentro al testo, farli andare in profondità. Per far questo però, prima abbiamo dovuto pensare alle caratteristiche distintive di quell’autore e di quel testo.
Il fatto che gli attori detenuti non sappiano chi è Jarry, come non sapevano chi era Tasso e quasi nessun altro della biblioteca teatrale, nostra e spesso della loro cultura d’origine, è un aspetto positivo perché sono completamente aperti e vergini, non hanno pregiudizi. Per loro non è un problema ammettere la propria ignoranza e questo è un primo passo per crescere, perché non si devono difendere e non pensano a come gli altri li giudicano per il fatto che non sanno chi è Jarry. Si mettono sotto e lavorano e imparano.
Infine, spesso il teatro offre loro una visione critica, senza ipocrisie, senza infingimenti, della società e attraverso la finzione del teatro arriva una sorta di oggettivazione delle storture di questo modello di società”.

L’irresistibile ascesa degli Ubu
29 settembre Casa Circondariale di Ferrara – ore 20.30
Prenotazione obbligatoria entro il 31 agosto

Nell’ambito del programma ufficiale del Festival di Internazionale a Ferrara
Compagnia dei detenuti-attori del Teatro della Casa Circondariale “Costantino Satta” di Ferrara.
Regia: Horacio Czertok e Davide Della Chiara
Drammaturgia, progetto scenografico, musica: Davide Della Chiara

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Sommersi o salvati: appello a una minoranza troppo silenziosa

Una cara amica, una con cuore e cervello vicini al mio sentire e al mio pensare,  mi ha detto: “Le cose che scrivi sono giuste, ma un po’ scontate. Sappiamo tutti dove sta andando il mondo e la nostra Italia. A che serve parlare, a che serve scrivere? L’unica cosa che conta è il fare”. Si parlava di immigrati e di accoglienza, di dialogo e integrazione, di decreto Minniti e di respingimenti.
Giusto, occorre prima di tutto fare: lavorare, impegnarsi in prima persona, in ogni più piccola realtà perché l’onda montante dell’Inumano non prevalga. Rimango però della mia idea: oggi, soprattutto oggi, parlare, scrivere, farsi sentire, bucare il muro dell’indifferenza e dell’ignoranza è ugualmente decisivo.

Inumano? Ne scriveva poco tempo fa su ‘Il manifesto’ Marco Revelli: “Negli ultimi giorni qualcosa di spaventosamente grave è accaduto, nella calura di mezza estate. Senza trovare quasi resistenza, con la forza inerte dell’apparente normalità, la dimensione dell’“inumano” è entrata nel nostro orizzonte, l’ha contaminato e occupato facendosi logica politica e linguaggio mediatico. E per questa via ha inferto un colpo mortale al nostro senso morale”.
Ezio Mauro su ‘Repubblica’ denuncia una vera e propria “inversione morale”: una maggioranza dell’opinione pubblica che fino a qualche mese fa stava per i soccorritori, plaudiva alla messa del papa a Lampedusa, rivendicava il dovere morale di salvare i disperati…. oggi si scopre improvvisamente minoranza. Nei media (tranne poche eccezioni), in rete (si leggono commenti atroci), nelle direzioni di partito (e non solo a destra), nei bar (mentre si affilano le armi per l’inizio del campionato) è un coro assordante, a più voci, ma tutto orientato verso la chiusura: “Adesso basta”, “Sono troppi”, “Ci stanno invadendo”, “Aiutiamoli a casa loro”.

Me ne sono accorto a mie spese. Ho scritto un mese fa proprio su questo giornale sulla Ius soli e sull’accoglienza. Bene, la stragrande maggioranza dei commenti ricevuti attaccavano la mia “tiritera buonista” e minacciavano fuoco e fiamme  contro gli invasori.
Siamo insomma giunti a uno spartiacque e forse – spero di no – a un punto di non ritorno. La ex maggioranza che metteva sopra di tutto i diritti dell’uomo – e in primis il diritto alla vita – sembra essersi disgregata, come sommersa dall’onda dell’egoismo identitario, magari e opportunamente travestito da realismo.
Ma mi chiedo, dove è finita la minoranza che ancora crede nell’Umano? Certo, in Italia centinaia di migliaia di volontari, operatori, associazioni, gruppi spontanei continuano a lavorare per soccorrere, aiutare, nutrire, accogliere. E anche nella nostra città, sotto la sigla ‘Ferrara che accoglie’ si sono ritrovate decine di realtà, centinaia di persone impegnate attivamente nel campo dell’accoglienza, dell’integrazione, del dialogo interetnico. Rimane però il fatto che, anche a Ferrara – sulla sua stampa, sulle lettere, sui social – questa minoranza virtuosa sembra non riuscire a far sentire la propria voce. Ci prova – per il 16 settembre è previsto in piazza Castello un grande momento di confronto e di festa, ‘Ferrara che Accoglie: musica, talenti e culture internazionali’ – ma l’impressione è che anche nella civile e democratica Ferrara prevalgano le voci della chiusura e del rifiuto.

Per questa ragione alla mia amica ho risposto che non è proprio vero “che tutti sanno com’è la situazione”. E anche se… anzi, proprio quando la maggioranza, invece di guardare gli orrori di una tragedia umana, ascolta solo la propria pancia, è importante parlare, scrivere, dare informazioni corrette, riflettere sulle conseguenze tragiche di un chiudersi in un miope egoismo identitario. Proprio ora è importante levare la propria voce per contrastare questa pericolosa amnesia collettiva verso i principi della nostra coscienza, inutilmente sanciti dalla Carta dei Diritti dell’Uomo, dalla Costituzione Europea e dalla nostra Carta Fondamentale. E’ importante raccontare cosa sta succedendo. Sotto i nostri occhi. Sicuramente riceveremo risposte e commenti ringhiosi e arrabbiati, ma anche questo è da mettere in conto.

Proprio ieri (18 agosto) su tutti gli organi di informazione venivano diffusi con grande baldanza i dati del Viminale sui “primi successi” del Decreto Minniti e dell’accordo tra lo Stato Italiano e il Governo Libico. Uno dei due governi, quello riconosciuto dall’Occidente. Traduco la notizia in parole povere: “Evviva, abbiamo chiuso il rubinetto!”. Ecco i dati. Nel mese di luglio 2017 gli sbarchi – guai a chiamarli soccorsi o salvataggi – sono dimezzati rispetto al luglio 2016. E nei primi quindici giorni di  agosto “gli sbarchi sono crollati”, ridotti a un decimo: 2.245 questo agosto, contro i 21.294 dell’agosto 2016.
Evviva, non sono arrivati! Ma dove sono finiti tutti quanti? Non risulta che per i disperati si siano aperte altre vie di fuga: chiuso il corridoio greco-turco, sprangati i porti maltesi e spagnoli. E chiusi di fatto, da un paio di settimane, anche gli approdi più vicini, quelli italiani. Gongola il Ministro dell’Interno: “Abbiamo spostato la frontiera europea in Libia”. Infatti. Le navi delle ong che avevano salvato migliaia di vite sono ferme: sia le ong – come Medici senza Frontiere- che si sono rifiutate di firmare l’accordo vergognoso per i militari a bordo, sia quelle che hanno firmato. Semplicemente perché non si può salvare più nessuno. La guardia costiera di Tripoli – dell’altro governo libico, quello riconosciuto dalla Russia e corteggiato dalla Francia – ha spostato il raggio d’azione a 80/100 miglia oltre le acque territoriali: Fermi o spariamo! Il governo italiano dà una mano e promette di fornire ai libici un po’ di motovedette, armi comprese.

Riassumendo. Quelli che non sono arrivati e quelli che non arriveranno mai sono tutti in Libia, nei campi di detenzione, sottoposti a violenze, stupri e torture, ridotti alla fame, senza servizi igienici, esposti alle epidemie, sempre più in balia delle bande dei trafficanti di esseri umani. Lo denunciano le agenzie dell’Onu – la più internazionale e ormai la più imbelle delle organizzazioni – e lo testimoniano foto e video che ci arrivano dai lager libici.
Forse alcuni di loro, i più pazzi e disperati, proveranno a fuggire dai “campi di concentramento” e cercheranno di prendere il mare. Ma tranquilli, in Italia sarà sempre più difficile arrivare. Li fermeranno le pallottole. E nessuna nave solcherà più il mediterraneo per salvarli.

Sono pronto ad ammettere il mio idealismo d’antàn, accetto anche tutte le accuse più infamanti: buonista, cattocomunista, venduto agli invasori, traditore della patria. Ma in cambio voglio un po’ di onestà. Un po’ di chiarezza sulla vera frontiera che ci sta davanti: all’Italia e a ognuno di noi.
Non sto parlando di una frontiera fisica, ma di una frontiera morale. In queste settimane si sta consumando non solo un dramma umanitario, ma un vero genocidio. Salvare vite umane, tendere la mano, accogliere i migranti è faticoso, complicato, a volte urtante, tutto quello che volete; ma l’alternativa, l’unica alternativa oggi sul tappeto è essere complici, lasciare i migranti nei lager della Libia o spedirli in fondo al mare. Ecco il bivio, la scelta che ci sta davanti: salvati o sommersi? Stare per la vita umana o condannare uomini, donne e bambini a una fine orribile?

L’Italia, questo governo, sembra aver fatto la sua scelta. Dopo che per anni il nostro Paese – l’isola di Lampedusa in testa – è stato un esempio luminoso di fratellanza e solidarietà, si è deciso di “fare come  gli altri”: chiudere occhi e orecchie, accodarsi a un Europa blindata, scegliere il calcolo geopolitico, rincorrere qualche voto alle prossime elezioni.
Rimane però la ex maggioranza, l’attuale ‘minoranza troppo silenziosa’.  A questa, ai milioni di italiani e alle migliaia di ferraresi, che non hanno ceduto all’Inumano e alla ‘banalità del male’ vorrei rivolgere un piccolo appello. Continuiamo a parlare a raccontare, a scrivere, non stanchiamoci di spiegare l’abisso in cui ci stiamo cacciando.  Condividiamo post su Facebook, cinguettiamo su Twitter, inviamo foto e video su Instagram e Whatsapp. Mandiamo commenti, scriviamo lettere ai giornali, parliamone a tavola.
Schieriamoci per i salvati, non per i sommersi.