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Storia di Maria Rita Storti: da insegnante a premiata produttrice cinematografica

da destra- Maria Rita Storti, Ilaria Battistella, Marco Cassini, Stefano Muroni

Ci sono esperienze, nella vita, che vale la pena di vivere e basta: bisogna solo non aver paura di mettersi in gioco”. Impossibile non dare ragione all’insegnante Maria Rita Storti, la prima a credere nel film sul terremoto dell’Emilia, ‘La notte non fa più paura’, opera prima del regista Marco Cassini. La docente ferrarese nel 2014 si offrì come produttrice di un progetto che stentava a decollare: un film per raccontare il terremoto del 2012, il senso di precarietà che il sisma aveva fatto avvertire ai ferraresi, descrivendo al tempo stesso l’incertezza delle condizioni sociali che rendono instabile la vita quotidiana. Insegnante di Filosofia e Scienze Umane al Liceo di Codigoro, abituata a lavorare e a rapportarsi con i ragazzi, Maria Rita Storti era così convinta di questa idea, così come del talento e della determinazione dei giovani professionisti coinvolti nel progetto, che decise di stanziare il contributo fondamentale per la realizzazione della pellicola, non curandosi di chi guardava con sospetto la sua ‘follia’.

La ‘meravigliosa follia’ della ‘Notte’, è stata un’esperienza umana e conoscitiva importante – racconta Maria Rita -, che mi ha permesso di incontrare persone splendide e di imparare tante cose che non conoscevo del mondo del cinema”.

Autentica, spontanea, curiosa, profonda, empatica, l’insegnante tresigallese ama la cultura: adora leggere, viaggiare, condividere esperienze.
La foto delle sue scarpe da ginnastica immortalate sul ‘Red Carpet’ della Festa del Cinema di Roma (scelta come profilo sulla pagina Facebook) rivela la sua ironia e la sua capacità di essere ‘unconventional’, sopra le righe.
‘La notte non fa più paura’ dal 2015 continua a collezionare prestigiosi riconoscimenti. Ma Maria Rita ha scelto di non adagiarsi sugli allori e di rituffarsi in un nuovo progetto giovane.
Nei giorni scorsi a New York, in occasione della presentazione di New Young Cinema – una community di giovani professionisti del cinema, creata con lo scopo di conoscersi e scambiare esperienze tra italiani e statunitensi – è stato presentato il trailer de ‘La porta sul buio’, opera seconda del regista Marco Cassini. Questo nuovo film vede ancora il coinvolgimento di Maria Rita Storti: “Ho 58 anni, e ‘quelli del film’, che potrebbero essere tutti miei figli, affettuosamente mi chiamano ‘boss’ o ‘zia’. Adesso sono diventata ‘bi-boss’ o ‘superboss’ o ‘zinna’”.

Di che cosa parla ‘La porta sul buio’?
È una storia completamente diversa dalla ‘Notte’. È un film tratto da un testo teatrale scritto da Marco Cassini nel 2009 (il volume è disponibile su Amazon), già rappresentato con successo a teatro. Per il film, girato a Pescara nel maggio scorso, sono state scelte maestranze abruzzesi, ma con un respiro internazionale. È una storia di suspense, con tre protagonisti, ambientata in un appartamento; c’è paura e tensione drammatica ma anche commedia: la porta è il simbolo di un Altro e di un Altrove. ‘La porta sul buio’ si potrà vedere al cinema nel 2018.

Che cosa l’ha spinta a sostenere questa seconda pellicola?
È stata l’esperienza de ‘La notte non fa più paura’, unita alla stima e all’amicizia che ho per Marco, che mi ha fatto scegliere di essere coinvolta anche in questo film. Oltre al regista Cassini ci sono altri professionisti che ammiro e che hanno lavorato alla prima pellicola: Martina Colli per la colonna sonora (stupenda quella della ‘Notte’) e il tresigallese Stefano Muroni, uno degli attori protagonisti.

La prima ‘scommessa’ è andata a segno, con risultati che hanno superato le aspettative. Non ha paura di lanciarsi in una nuova avventura?
Ho deciso di nuovo di fidarmi della mia lungimiranza. Con ‘La notte’, per me la soddisfazione è aver intuito che valeva la pena dare fiducia a questo progetto culturale, che ispirava la mia sensibilità artistica. Amo leggere, sono una lettrice onnivora, mi piace il buon cinema, andare a teatro, viaggiare, oltre alla buona tavola (sorride). Ho scritto anche un testo che è stato messo in scena in teatro a Tresigallo il mese scorso.

Come è andata con ‘La notte non fa più paura’?
Il percorso del primo film è stato accidentato, ma alla fine ha portato risultati sorprendenti: ‘La notte non fa più paura’ ha ottenuto a giugno una menzione speciale ai Nastri d’Argento ed è stato ammesso ai David di Donatello 2018. Inoltre è stato acquistato da Sky Cinema, ed è uscito un libro in edizione limitata con le foto scattate sul set.
‘La notte non fa più paura’ rappresenta un punto di arrivo incredibile per un ‘piccolissimo-grandissimo’ film indipendente, girato in dieci giorni e con pochi soldi. Arrivare a questi risultati era impensabile, anche per me che l’ho finanziato per la maggior parte. Situazione quasi unica nel panorama del cinema raggiungere questi risultati con un’insegnante di un liceo di provincia come ‘produttrice-mecenate’!

Da destra- Maria Rita Storti, Walter Cordopatri, Giorgio Colangeli

Perché ha deciso di finanziare il film?
La storia è nota a tanti. Dopo il terremoto del 2012, Walter Cordopatri, Samuele Govoni e Stefano Muroni scrivono il soggetto di una storia ambientata ai tempi della crisi economica, a cui si aggiunge il terremoto che ne amplifica, in maniera tragica, le difficoltà. I ragazzi contattano un giovane regista di Teramo, Marco Cassini, che da abruzzese aveva vissuto il terremoto del 2009 a L’Aquila, e una produttrice esecutiva ferrarese, Ilaria Battistella.
Trovare i soldi per girare il film non era facile: dopo 47 ‘NO’ raccolti nel giro di un anno mezzo, alla fine io decido di versare parte dei risparmi personali (ventimila euro) perché questo film venga girato. Lo ritenevo, infatti, un film necessario per lasciare testimonianza di quel periodo, per onorare la memoria di chi è morto sotto i capannoni, per contribuire – attraverso una narrazione – alla rielaborazione delle ferite dell’anima in chi è rimasto. A questi miei soldi, poi se ne sono aggiunti altri sotto forma di piccoli finanziamenti provenienti da vari soggetti. Nel settembre 2014 il film è stato girato a Mirabello.

C’è un momento, tra i tanti vissuti in questi tre anni, che per lei resta indimenticabile?
Beh, è stato impagabile vedere il sorriso e il guizzo di commozione negli occhi blu di Marco Cassini mentre mi diceva ‘Grazie!’ il giorno in cui l’ho conosciuto.

Ma questo ormai fa già parte del passato…
Adesso che sono stati raggiunti traguardi importanti, sono in molti a complimentarsi, e questo mi fa piacere, ma io penso già alla nuova avventura della ‘Porta sul buio’. Con l’entusiasmo alle stelle.

Un fantasma sociale di nome ‘casalinga’

E’ da tempo che penso di scrivere nuovamente qualcosa sul lavoro casalingo delle donne. E’ un il mio pallino, da quando ho perso il lavoro e sono andata ad ingrassare le fila degli ‘angeli del focolare’. Cercavo un appiglio, uno spunto, una moderna chiave di lettura ad un fenomeno, quello della donna che lavora a casa, che sembrava quasi un retaggio del passato, o di certe condizioni socio economiche ancora arretrate nel nostro Paese, ma che è andato invece crescendo negli ultimi tempi. Donne giovani messe a casa per la crisi economica o per la nascita di un figlio. Donne istruite, donne abituate a pensare a sè come ad un essere indipendente, donne illuse che il lavoro debba far parte della realtà quotidiana di ognuna ed invece si trovano calate, come in un fantastico viaggio nel passato, nei panni delle loro madri o nonne. Poi, come spesso accade, la chiave per interpretare la realtà presente è arrivata dal passato: da un documentario di TV7 del 1971 intitolato appunto ‘L’angelo del focolare’. “Ogni lavoro può diventare disumanizzante- recita la voce composta ed impostata del giornalista- la ripetitività, l’isolamento, la difficoltà di rapporto con gli altri, il dover essere sempre a disposizione per i bisogni degli altri, rendono stressante l’attività della casalinga. Il suo scontento è aggravato dal non riuscire a trovare, nel corso della giornata, uno spazio personale, una occasione di recupero”. Ed infatti una signora intervistata all’uscita dalla parrucchiera confessa timida “Mi sembra di rubare il tempo e portarlo via. Non ho tempo di curarmi ma so che lo dovrei fare” Perchè?”, chiede il giornalista “Perchè i mariti vogliono che le loro mogli siano delle bravi casalinghe ma devono essere anche sempre in ordine, non si debbono trascurare, devono essere piacevoli e sorridenti. Non c’è rivista femminile che non lo dice. Eppure io la mattina quando apro gli occhi e comincio a pensare a tutte le cose che vengono avanti nel corso della giornata, desidererei fosse già sera per tornare a dormire. Questa è una cosa avvilente per una donna: possibile che non ci sia niente altro che dormire?

“La monotonia la opprime- incalza il cronista- e allora anche l’amore per i figli diventa un compito gravoso che l’amore non riesce del tutto a ripagare”. Una mamma con una bambina al parco si confessa davanti al microfono “Sono una mamma, cosa devo fare? Si sono voluti i figli e bisogna tenerseli e dare tutto il possibile”. La voce narrante comme nta che persino i rapporti con i figli possono perdere di autenticità e di valore quando sono vissuti come un dovere alla cui ripetitività non ci si può sottrarre. “E ‘ un incubo per una madre- dice la donna mentre gioca con la sua bambina- sempre le stesse cose, le stesse chiacchiere, le stesse cose: figlioli, figlioli, figlioli. Non c’è che figlioli. Ma io sono una mamma e lo devo fare”. Intorno ad una tavola si consuma il quieto pasto di una tipica famigliola medio borghese: il padre, in maniche di camicia sorbisce la minestra prima di tornare al suo lavoro, probabilmente di impiegato. Il bambino è composto e mangia compito, la madre afferma “ Non credo che il ruolo di casalinga sia un ruolo realmente scelto dalla donna italiana. Anzi questo credo sia un discorso di comodo che viene fatto da chi vuole che la donna rimanga in casa e non entri con tutto il suo peso nella società. Le donne stanno in casa non hanno altre possibilità: anche quando trovi un asilo o una scuola che possono ospitare il bambino per certe ore della giornata spesso lo fa in maniera non soddisfacente”.

Interpellato sul fenomeno delle donne che non lavorano un medico parla di ‘nevrosi della casalinga, come di un fenomeno comune per l’epoca “Sboccia molto frequentemente ora perchè la donna che si trova a casa sempre di più, rispetto alle esigenze delle mamme e delle nonne di prima, a tante e molteplici esigenze e sollecitazioni che vengono da ‘fuori’ e non si sente più soddisfatta di chiudere i suoi interessi intorno alla vita della sua casa.Cerca nel sogno quello che manca nella sua vita. Si butta nel cibo o l’acquisto e il possesso di cose inutili. Quando gli affetti che la circondano non la ripagano della routine quotidiana l’ansia può divenire intollerabile”.
Questo spaccato di vita risale a 36 anni e fa e mi chiedo cosa sia cambiato. Niente, mi sento di rispondere. Al contrario, la situazione è peggiorata. Se in passato la condizione servile della donna era data per scontata, e solo con il ‘68 sono iniziate a vacillare le basi fondanti della società che voleva l’uomo capofamiglia e la donna asservita a marito e figli, ora, almeno formalmente, è diffusa l’idea di una parità tra i sessi che vuole la donna concorrere con l’uomo per la conquista di un proprio ‘posto al sole’. Eppure a fronte di una società che pone la tutela del bambino e della bambina quale obiettivo primario, una società che si interroga sulla discriminazione di genere fin dalla sua più tenera età, che riscrive le favole classiche perchè le bambine crescano autonome e non sognino più il principe azzurro, che modifica la pubblicità perchè non esistano più giochi da maschio o da femmina ma tutti possano, giustamente, esprimersi nel gioco senza barriere sessuali, in questa società che continua a ripetere alle bambine di poter fare ciò che sognano, ebbene è proprio questa società che condanna le madri di queste bambine ad una vita di non lavoro. E se nel 1971 si inizia a sentire forte da parte della donna il richiamo ad un ‘mondo esterno’ che le chiedeva di rompere le mura domestiche e far parte della società, quanto è più vera e terribile oggi la discrasia tra ciò che, con gli attuali mezzi di comunicazione, ci si illude sia a portata di mano e una vita da casalinga che in poco è cambiata da quella del passato?

La donna, come un mostro a più teste, deve ricoprire tutti i ruoli che le vengono richiesti: lavoratrice, madre, moglie. E deve farli al meglio visto che le riviste femminili dagli anni ’70 in poi sono ben poco cambiate e propongono sempre un modello di donna factotum vincente e bellissima. Se poi al ruolo di casalinga si somma quello di madre il peso è doppio. Un peso inflitto, come un invisibile burqua, da una società benpensante in cui la dea-madre è un essere mitizzato a tal punto da non prestare ascolto alle esigenze più che terrene di donne in difficoltà: il licenziamento che pende come una spada di Damocle sulla testa delle donne in età fertile, gli asili scarsi e carissimi, una diffusa solitudine dovuta al disgregamento del nucleo famigliare originale che, sempre più, negli anni, vede i membri di una stessa famiglia disseminati in posti spesso lontanissimi. Aspetti di modernizzazione della nostra società convivono, drammaticamente, con refusi del passato in una snervante altalena in cui alla donna viene detto “potresti ma non puoi”. Non rimane che augurarsi che le nuove generazioni, vedendo un documentario sugli ‘angeli del focolare’ del 2017, non pensino anche loro “nulla è cambiato”.

Scontro Movimento 5S e Comune sulla refezione scolastica: “Comportamento follemente incoerente che danneggia i cittadini”.

Incontro il consigliere comunale del Movimento 5S Sergio Simeone nel suo ufficio e subito la discussione si fa accesa.
Che gli stanno molto a cuore i temi oggetto dell’intervista si vede dall’accuratezza con cui snocciola dati e spulcia i numerosi documenti che si è portato dietro.
Doveva essere una intervista canonica ma, alla fine, è stata una chiacchierata di oltre un’ora.
“Sono tre i fronti che stiamo tentando di affrontare -mi spiega- e riguardano la mozione per consentire ai genitori di fornire i propri figli di un pasto casalingo a scuola, l’interrogazione sul menù vegetariano-vegano per le famiglie che lo richiedono alla scuola e l’esposto all’Anac sull’ infinito appalto comunale delle mense scolastiche alla Cir”.

Con riguardo al primo punto, il 27 giugno 2016 il gruppo consiliare dei 5S ha presentato al presidente del consiglio comunale una mozione con la quale si chiedeva all’Amministrazione di ‘preparare le scuole ad adottare, sin dal prossimo anno 2016-2017, idonee misure organizzative (…) per consentire l’esercizio del diritto di ogni genitore di scegliere per i propri figli tra refezione scolastica e il pasto domestico’.
“Ci siamo fatti portavoce -dice Simeone- del malcontento di molti genitori che lamentano il fatto che il cibo della mensa scolastica sia di cattiva qualità, venga servito freddo e senza che si sia fatta chiarezza sull’utilizzo delle materie prime usate per la sua preparazione. Ci sono genitori che vogliono dotare i propri figli di un pasto preparato a casa, sia per motivi religiosi, etici o economici, ed una amministrazione che funziona ha il dovere di prendersi a cuore il benessere del cittadino”.
A tal fine si è costituito anche il comitato ‘Mens Sana’, formato da circa un centinaio di genitori, di cui una ventina attivi, interessati a combattere il monopolio della refezione scolastica.
“Dopo 8 mesi dalla presentazione della mozione -dice Simeone- l’Istituzione scuola ci ha risposto dicendo che servono ‘tempi tecnici’ per esaminare la questione. Non si dice un ‘no’ deciso e si preferisce adottare una strategia della dilazione per evitare delle azioni legali che i genitori vincerebbero di sicuro”.

L’interrogazione sull’introduzione del menù vegetariano-vegano a scuola è stata presentata nel marzo 2017 e in essa si dava conto che ‘alcuni genitori di bambini frequentanti asilo nido, scuola materna, scuola primaria di Ferrara riportano di avere avuto notizia di una sperimentazione in corso, in qualche istituto della città, che prevederebbe la somministrazione ad alcuni bambini di menù cosiddetti sperimentali vegani e vegetariani’.
“La notizia dell’introduzione di tale menù si era diffuso come un passaparola tra i genitori, senza che ci fosse stata alcuna comunicazione ufficiale da parte dell’Amministrazione – dichiara Simeone- noi siamo intervenuti e posso affermare che l’essersi mossi, a livello di comitato e movimento, ha permesso il risolversi di una situazione cristallizzata ormai da anni”.
Il 13 giugno, infatti, l’Istituzione scuola ha risposto che ‘nel periodo settembre 2016-gennaio 2017 è stata data risposta positiva a quei genitori che hanno richiesto dieta vegetariana-vegana all’avvio dell’anno scolastico 2016-2017’. E che le Commissioni mensa erano state avvertire dell’avvio di tali menù.
Il consigliere però non è del tutto soddisfatto “tale processo non è stato ben condotto e ci sono alcune palesi stranezze. L’opzione del menù vegetariano-vegano è uscito il giorno dopo della risposta. Inoltre, cosa ancora più eclatante, il menù è stato predisposto dal nutrizionista della Cir e non da quello del Comune. Trattasi di un comportamento follemente incoerente e che denota un disprezzo per le esigenze manifestate dai genitori. Sono 20 anni che si chiedeva l’introduzione di questo tipo di menù, eppure in Commissione non se ne è parlato. Non è stato affrontato come un processo di crescita ma una elargizione dovuta alla bontà dell’amministrazione comunale”.
Si arriva poi a parlare dello spinoso tema dell’esposto presentato all’Anac per far luce su quello che viene definito dal movimento ‘l’ appalto senza fine’ della Cir Food per il servizio refezione scolastica cittadina.
“Il susseguirsi degli appalti della Cir è anomalo- afferma Simeone- e va avanti da prima degli anni 2000. C’è stata una breve interruzione di 3 anni e poi, dal 2003, è iniziato ufficialmente con dei bandi di gara della durata di 3 anni in 3 anni”.
Nell’agosto del 2015 la ditta Cir ha presentato all’Amministrazione di Ferrara, una proposta di un ‘project financing’ per l’allestimento di un centro pasti, e gestione del servizio di refezione scolastica cittadina presso l’ex Macello.
“Nel 2015, casualmente in concomitanza con la presentazione di questo ‘project financing’, l’appalto della Cir è divenuto annuale, e da allora è stato prorogato per ben 4 volte senza che sia uscito alcun nuovo bando. Appare evidente che il tutto è fatto per favorire il progetto della Cir e da parte nostra non può che esserci una condanna netta e definitiva di questo fatto”.
Nell’esposto, presentato il 16 maggio 2017, dal consigliere comunale Simeone, si legge inoltre che ‘si segnala che le persone che determinano contenuti degli appalti e andamento del servizio sono le stesse oramai da molti anni. In specifico, il dottor Mauro Vecchi, direttore dell’Istituzione dei Servizi Educativi Scolastici e per le Famiglie, responsabile dei procedimenti di gara e unico soggetto che può applicare penali in caso di inadempienze, ricopre l’incarico dal 31/10/2010; la dottoressa Mara Bignardi, consulente esterna per il controllo qualità (e dunque personale tecnico che può rilevare eventuali inadempienze), ricopre l’incarico dal 2005; il professor Canducci, docente dell’università di Ferrara e consulente esterno per la redazione dei menù, determina indirettamente qualità e quantità delle derrate influendo sul costo dell’appalto, ha ricoperto l’incarico dagli anni 90 al 2016 (ad oggi l’incarico risulta essere vacante)’.
Chiedo al consigliere quali siano, per il futuro, gli obiettivi del movimento 5S “abbiamo intenzione di chiedere dei chiarimenti sulla refezione scolastica ed analizzare gli split di spesa” risponde Simeone.
“Ci piacerebbe che l’Amministrazione prestasse maggiore attenzione alle necessità dei propri cittadini. con il comitato ‘Mens Sana’ abbiamo organizzato una serie di incontri, che il Comune ha deciso di non patrocinare, ai quali hanno partecipato il prof. Canducci, nutrizionista del Comune, e il dott. Berveglieri. Si è trattato di uno scambio interessante ed entrambi i medici, pur artendo da posizioni diverse, hanno concordato nel dire che i menù proposti nelle mense scolastiche sono vetusti e andrebbero rivisti. Di sicuro i genitori più soddisfatti sono quelli che mandano i figli in una scuola dotata di mensa interna. Ma ormai sono una rarità”.

Clara Festival, la prima finalista è la giovanissima Giulia Disarò

Da Clara

Dodici anni, ferrarese, una vocalità da fare invidia a cantanti professionisti e una presenza scenica elegante ma spontanea: è Giulia Disarò la giovane vincitrice della prima serata del Clara Festival, l’iniziativa a tappe promossa da CLARA spa e organizzata da MadeEventi con la direzione artistica di Rossano Scanavini, mirata a valorizzare i talenti del territorio e partita ieri sera da Bondeno, nell’ambito del LocalFest.
I riflettori sulla piazzetta Andrea Costa si sono accesi alle 21.45 circa, con la conduzione di Paola Sangermano, speaker di Radio Bruno, accompagnata sul palco da Roberto Ferrari, illusionista e ventriloquo, che con un sorprendente gioco di prestigio ha introdotto da subito il tema che insieme alla musica accompagnerà tutto il festival, cioè l’ambiente e il valore dei rifiuti come risorse.
Poi la competizione è iniziata: si sono avvicendati sul palco ben quattordici concorrenti, di età variabile tra gli 11 e i 60 anni, che hanno proposto cover o brani inediti dei generi più disparati, dalla lirica (col Nessun Dorma intrepretato da Mauro Balsamini) al rap di Riccardo Valeriani, passando dalla musica leggera e dal pop, italiano e internazionale. Un’offerta musicale variegata insomma, che ha fatto divertire un pubblico di tutte le età.
La giuria ha scelto come prima classificata l’interpretazione della talentuosissima Giulia, che si è esibita nel pezzo “My immortal” degli Evanescence e che si aggiudica di diritto un posto nella finalissima, prevista per sabato 23 settembre a Copparo. Altri due concorrenti saranno inoltre ripescati dalla giuria per tornare ad esibirsi in una delle prossime tappe, e avere così una seconda occasione.
Lo spettacolo è proseguito fino alle 11.30, con i concorrenti in gara intervallati da ospiti di fama anche sovralocale, come Roberto Rimondi, interprete di alcune cover di Gianni Morandi – al quale assomiglia fisicamente e nelle movenze, oltre che nella voce e nello stile canoro – e della giovane promessa di Dogato Chiara Sandrini, premiata nel 2016 come miglior esordiente al Sanremo Music Awards. Roberto Ferrari ha intrattenuto la platea più volte nel corso della serata con simpatici sketch che hanno coinvolto anche il pubblico.
La prossima tappa sarà quella di Comacchio, sabato 12 agosto. C’è dunque ancora tempo per i gruppi e per i singoli cantanti che desiderano partecipare. La scheda di iscrizione e il regolamento si trovano sulla pagina Facebook @Clarafestival e sul sito di CLARA spa www.clarambiente.it
Info anche attraverso gli indirizzi email clarafestival@clarambiente.it, clarafestival@libero.it e al numero 393.1181586.

I disastri ambientali e la piaga del negazionismo

di Chiara Balestra

Mi trovo spesso a pensare al comportamento errato dell’uomo, a come non porti rispetto alla propria terra di origine. Ogni giorno vedo i miei coetanei buttare i rifiuti per terra, che si tratti di mozziconi di sigaretta, pacchetti di plastica o bicchieri di plastica, come se per loro fosse una cosa da niente. Non ci riflettono, come quando un minuscolo moscerino gli gira intorno: lo uccidono, non lo soffiano via o lo osservano, gli tolgono la vita, lo eliminano. D’altra parte come si può portare rispetto delle cose altrui se prima non lo si ha per sé stessi?

Sono rimasta colpita da un  film-documentario che si intitola ‘Before the flood’, che in italiano significa ‘punto di non ritorno’, condotto dall’ambasciatore di pace degli Usa Leonardo Di Caprio, contro i cambiamenti climatici. Di Caprio si batte per dimostrare a tutti una verità scomoda: il cambiamento climatico legato ai combustibili fossili prodotti dall’uomo per le sue attività industriali, anche se c’è ancora chi nega l’evidenza delle catastrofi che compiono davanti ai nostri occhi, come innondazioni, uragani, scioglimento dei ghiacciai. La cosa più grave di questo comportamento è la consapevolezza.

La consapevolezza delle nostre azioni, di come stiamo distruggendo il nostro pianeta: dovremmo essere guidati da un governo che si occupa della salute e della salvaguardia dell’uomo e dell’ecosistema, ma ancor più tristemente sono proprio i politici che confondono l’opinione pubblica per i propri vili interessi.
Come ben sappiamo la combustione di carbone e petrolio rilascia nell’aria monossido di carbonio, che è la principale causa del cambiamento climatico.
Gran parte della nostra economia si basa sui combustibili fossili: carbone, petrolio e gas naturale. Il petrolio è soprattutto destinato al settore dei trasporti mentre il carbone e il gas naturale vengono ripiegati per l’elettricità, non esiste un carburante fossile pulito. La prima ripresa del film viene girata nella punta settentrionale di Buffin Hailand, una delle principali isole che compongono l’arcipelago artico canadese. Qui è stato riscontrato, da studiosi e persone del posto che, mentre in passato il ghiaccio era solido e blu, ora gli si attribuisce la forma di un gelato dal colore celeste. Il ghiaccio c’è ancora ma si scioglie molto più velocemente. Gli stessi studiosi hanno stimato che nel 2040 sarà possibile la navigazione del Polo Nord, visto che l’impiego eccessivo di combustibili fossili provoca lo scioglimento dei ghiacci. L’Artico esercita la funzione di condizionatore d’aria per l’emisfero settentrionale e la sua scomparsa determinerebbe il cambiamento delle correnti e dei cicli climatici, con conseguenti inondazioni, siccità e sviluppi catastrofici. Sarà la trasformazione ambientale più drammatica mai avvenuta nella storia.

Poi il conduttore si reca in Florida, negli Stati Uniti d’America, dove incontra il presidente Obama che gli spiega che è costretto a intervenire per le inondazioni di cui è vittima lo Stato: improvvisamente il livello del mare si innalza salendo dai tombini e allagando le città. Gli interventi sono l’innalzamento delle strade e pompe elettriche – pagate dai cittadini – che garantiscono un rimedio per tale fenomeno soltanto per 40-50 anni massimo.

Ricordiamo che il 97% dei climatologi considera la  teoria del riscaldamento globale una verità scientifica esattamente come la teoria della forza di gravità. Di Caprio intervista il noto scienziato Michael E. Mann, autore insieme ad altri scienziati del grafico definito ‘bastone da hockey’ perché indica un raffreddamento a lungo a termine e poi un’improvviso riscaldamento molto veloce e senza precedenti. In seguito alla diffusione di questo grafico Mann, come lui stesso racconta nel film, è stato diffamato sulle pagine del ‘Wall street journal’ e su ‘Fox news’, definito un ‘ciarlatano’ e attaccato dai membri del Congresso e perfino minacciato di morte. Ci sono personaggi, spiega Mann, che confondono l’opinione pubblica su questa tematica e lui fece appunto dei nomi, riferendosi ai fratelli Cook – una specie di macchina propogandistica per il negazionismo dei cambiamenti climatici – e ai gruppi come ‘American for prosperity’ che fa capo direttamente ai fratelli Cook.
Lo stesso Mann denuncia il fatto che il Presidente della commissione ambientale del Senato e i membri delle Camere sono supportati finanziariamente anche dai produttori del settore petrolifero. Ecco il motivo per cui non si riesce a far passare un progetto a tutela dell’ambiente al Senato: perché le lobby foraggiano i negozionisti che bloccano qualsiasi proposta ambientale. Successivamente Di Caprio si sposta in Cina, dove solo nell’area intorno a Pechino e nell’isola di Shangon il consumo complessivo di carburante è pari a tutti gli Stati Uniti e il livello di tossicità arriva alle stelle. Ma una cosa buona c’è: è l’invenzione di un’applicazione fatta dal presidente cinese grazie alla quale i dati delle industrie non a norma dal punto di vista della sostenibilità ambientale vengono resi trasparenti a tutti gli abitanti. La Cina sta investendo notevoli risorse in energie rinnovabili, eoliche o solari, per esempio i pannelli ricoprono anche le industrie, edifici.

Il documentario mostra che in India solo una piccola parte della popolazione ha diritto all’elettricità. Nei villaggi rurali le persone utilizzano il letame delle mucche per ricavare le cosiddette torte di sterco che, una volta bruciate, costituiscono l’unica fonte di energia.
In Indonesia l’80% delle foreste è stato distrutto, attraverso incendi dolosi, per l’insediamento di palme da olio per produrre l’olio di palma da commercializzare a basso costo per la produzione dei cosmetici e la cucina più industrializzata. Le aziende ottengono, attraverso modi illeciti, autorizzazioni per bruciare intere piantagioni mettendo a repentaglio la vita dell’intera popolazione, anche preziose specie di animali saranno destinate a scomparire.

La soluzione a questi problemi c’è, per esempio la Carbontax, una tassa sul carbonio: si tassano tutte quelle attività nocive che hanno ripercussioni sulla società e, di conseguenza, aumentando i costi si disincentiva la popolazione ad acquistare i prodotti incriminati. Bisognerebbe puntare maggiormente sulle energie rinnovabili, fotovoltaico, eolico e idroelettrico, che non emettono sostanze nocive e tossiche per l’atmosfera. L’obiettivo dell’accordo della conferenza di Parigi stipulato nel 2015 è di tenere il riscaldamento globale inferiore ai 2 gradi centigradi; 195 paesi del mondo si sono impegnati per portare a termine questo obbiettivo, ogni cinque anni tutti i paesi decidono se restare dentro questo accordo: proprio quest’anno il neo presidente degli Stati Uniti Donald Trump ha annunciato la volontà di uscire dall’accordo definendo il global warming “Una truffa”.

Il pericolo è che si arrivi ad un punto di non ritorno e il benessere del nostro pianeta si definitivamente compromesso

I giochi della finanza e i rischi per l’economia reale

Le borse funzionano facendo affidamento sulla leva continua, cioè sull’idea che il valore dei titoli alla fine cresca sempre, e questo nonostante gli insegnamenti della storia, crolli del 1929 e del 2007 compresi.
L’oramai mito secondo cui le aziende si quotano in borsa per racimolare fondi al fine di aumentare la loro liquidità da utilizzare in investimenti è ampiamente smentito dai fatti. Nei fatti sono invece le borse che racimolano soldi dalle aziende, togliendoli a investimenti in economia reale, frenando la ripresa e alimentando le bolle.
Dal 2007 al 2015, per nove anni, le imprese quotate a Milano hanno infatti raccolto a Piazza Affari meno di 80 miliardi di euro mediante aumenti di capitale e Ipo, ma hanno restituito circa 190 miliardi attraverso dividendi, buyback e Opa (fonte: Il sole24ore).
In pratica significa che molti soldi, la differenza, sono finiti dalle aziende ai mercati finanziari italiani e ovviamente stranieri in quanto a Piazza Affari gli investitori sono internazionali. Quindi, in un periodo di vacche magre in termini di moneta circolante, altre risorse spostate dall’economia reale ai giochi della finanza, che purtroppo giochi innocenti non sono.

Negli Stati Uniti il fenomeno è ovviamente amplificato, in particolare in tema di buy back, infatti secondo le stime di William Lazonick della Harvard Business Review, le aziende quotate a Wall Street tra il 2003 e il 2012 hanno usato il 54% degli utili per ricomprare le proprie azioni in Borsa e il 37% per pagare dividendi (fonte: Ilsole24ore).
Ma perché è così importante in questo contesto il tema del buy back? Che tradotto vuol dire che le aziende ricomprano i loro titoli sul mercato? Perché ricorda molto quanto successo nel 1929, quando la corsa al rialzo dei titoli portò al disastro che conosciamo. A quel tempo, infatti, si usciva dal fenomeno delle lottizzazioni della Florida che aveva visto speculatori di ogni sorta comprare per anni terreni mai neppure visti in cartolina soltanto per poterli rivendere a prezzo maggiorato.
Anche questo giochino durò fino a quando la logica si stufò e il crollo nelle quotazioni riportò alla realtà dei terreni acquitrinosi e ai quattro soldi del valore iniziale. Poi ci fu il crollo di Wall Street e del sogno per cui un titolo poteva solo aumentare di valore. Ci si risvegliò anche lì all’improvviso per imprecisate motivazioni e con conseguente Grande Depressione che, del resto, poco aveva a che fare con quel crollo.
Lasciando da parte la storia, che come dicono quelli seri “insegna ma non ha scolari”, l’agonia fu portata avanti proprio con il trucchetto del ricomprarsi le proprie azioni per tenere alto il loro valore. In borsa vale la fiducia nella crescita ed evitare dubbi generati da un crollo delle vendite è uno dei motivi che può far crollare il sistema. Il buy back è uno dei metodi per non farlo accadere, o meglio per ritardarlo. E’ anche sintomo però che qualcosa comincia ad incepparsi, almeno nel mondo della finanza.
Nel nostro, dovrebbe essere invece l’esempio delle assurdità sulle quali si fonda la nostra idea di economia. Un’azienda non va in borsa per cercare capitali per le sue attività reali, ma per speculare sui suoi stessi titoli e far arrivare maggior dividendi agli azionisti e guadagni agli amministratori.
Il punto è che non siamo tutti azionisti né tantomeno amministratori e magari vorremmo vivere di economia reale (pomodori), invece ci tocca non solo assistere inermi ma poi, quando il gioco finisce, ci tocca anche rimettere insieme i cocci. Pure nel 1929 non erano tutti azionisti, anzi. Si calcolavano all’incirca 600.000 possessori di azioni e molti, ma molti di meno, erano puri speculatori, eppure tutti si dovettero sobbarcare, in un modo o nell’altro, le conseguenze delle azioni di quei pochi.
Tutto uguale oggi. Chi gioca guadagna in tempi di boom e festeggia le sue vincite, quando poi c’è la crisi la maggioranza deve accettare le politiche di austerità che portano altri guadagni sempre agli stessi giocatori determinando conseguenze tipo che 85 persone nel mondo hanno quanto 3,5 miliardi di persone, oppure che una decina di multinazionali fanno il pil di 180 nazioni.

Dalla mitologia greca ai giorni nostri le donne nella morsa dello stalking

Stalking, una parola che stride, mette disagio per il suono secco con cui viene formulata. Se si pensa poi che l’etimologia di stalking, nel mondo della caccia, significa ‘camminare con circospezione, tendere un agguato, spiare, controllare e seguire la preda‘, allora il disagio diventa tensione, ansia, paura in un crescendo inarrestabile. Se, ancora, si trasferisce questo vocabolo al genere umano e lo stalking diventa pura applicazione delle regole venatorie agli individui con cui conviviamo, allora si può comprendere appieno quelle situazioni di cui è piena la cronaca, più frequenti di quello che si possa immaginare.

Lo stalker raffigura il predatore che insegue la sua preda individuata e si serve di mille strategie per arrivare allo scopo finale, facilmente immaginabile, terribilmente riscontrabile nelle pagine della cronaca nera così frequente, così ricorrente da non stupire più così tanto l’opinione pubblica, vittima di un’abitudinarietà che di umano ha ormai poco. Se si rivolge un rapido sguardo al passato, ci si può rendere conto come non sia cambiato niente: le pagine della storia e non solo riportano tristi episodi di donne perseguitate da mariti, fidanzati, amanti delusi o lasciati, conoscenti o perfino estranei fino all’estremo atto dell’uccisione.
Nell’antica Roma, Nerone si rende responsabile della morte di sua madre Agrippina, della prima moglie Ottavia e dell’amante Poppea, che aspettava un figlio, dopo averle sottoposte ad angherie e ritorsioni. Nella mitologia, il primo caso di stalking, diremmo oggi, appartiene al dio Apollo che inseguì fino alla disperazione la ninfa Dafne e obbligò la madre Gea a trasformarla in pianta d’alloro. E ancora, il dio Zeus assumeva le più svariate sembianze per concupire le vittime e ottenerne il consenso. La mitologia è piena di esempi sul tema e non risparmia divinità e comuni mortali. In letteratura, la figura di don Rodrigo nei Promessi Sposi ci fornisce un esempio emblematico di persecuzione, perpetrata nei confronti di Lucia, che aggredisce con “chiacchiere volgari”, come lei riferisce, e ne ordina l’inseguimento e rapimento. La motivazione futile che determina questi fatti è doppiamente deprecabile, infatti, egli decide di sedurre Lucia per scommessa col cugino Attilio e si intestardisce nel proposito per non sfigurare davanti agli amici nobili. Don Rodrigo morirà di peste in un lazzaretto di Milano, senza lasciar comprendere al lettore del romanzo manzoniano se si è ravveduto e pentito del male commesso. Nel racconto ‘La lupa’ di Giovanni Verga, è la donna che assume il ruolo di stalker e lo incarna con estrema abilità e subdola capacità di circuire. La vittima è il genero Nanni che tenta invano di sfuggire ai raggiri della donna e alla sua presenza insistente nella sua vita: “ ‘Per carità, lasciatemi in pace!’ ed avrebbe voluto strapparsi gli occhi per non vedere quelli della Lupa. Non sapeva più che fare per svincolarsi dall’incantesimo. Pagò delle messe alle anime del Purgatorio e andò a chiedere aiuto al parroco e al brigadiere”.
Una persecuzione grave e pesante fino alla conclusione del racconto. In ‘Lettera al mio giudice’ di George Simenon, scritto nel 1946, leggiamo una lunga e dettagliata confessione di un omicida che diventa prima stalker della propria amata, privandola di tutto, decidendo per lei della sua vita fino alla fine. Il medico di campagna Charles Alavoine, sposato infelicemente e rimasto vedovo, si innamora perdutamente di Martine, una ragazza dal passato torbido. Inizia fin da subito un rapporto ossessivo, fatto di gelosia e possessività che dà origine a maltrattamenti fisici frequenti fino a sfociare nell’omicidio. Il giudice Ernest Coméliau sarà il depositario delle memorie di Alavoine, che morirà in cella.

Molte storie che iniziano con relazioni idilliache, si trasformano tristemente in rapporti malati tra vittima e persecutore. Secondo le ultime rilevazioni dell’Istat, in Italia 6 milioni 788mila donne hanno subito qualche forma di violenza fisica nel corso della loro vita, soprattutto alla fine di una relazione. Nel 68% dei casi l’aguzzino è l’ex partner. La forma persecutoria più diffusa (68,5%) è la richiesta di avere insistentemente, a tutti i costi, un colloquio. Seguono le attese fuori casa, davanti alla scuola o al posto di lavoro, l’invio di messaggi pressanti, telefonate, mail, lettere o regali indesiderati, inseguimenti o spionaggio. Il 55% dei casi di violenza persecutoria si verifica nella relazione di coppia; il 25% nell’ambito del vicinato e ambiente di vita; il 5% in famiglia; il 15% sul posto di lavoro/scuola. Sta aumentando il fenomeno del cyberstalking, lo stalking sul web e sui social networks, terreno fertile per ogni tipo di atteggiamento persecutorio: dalle pressioni al furto di identità o l’abuso dei profili per scopi illegali. I social media, che dovrebbero avere una funzione amica nella nostra quotidianità, diventano così elemento discusso di disturbo se non pericolosità. La denuncia alle autorità competenti diventa azione necessaria e prioritaria per l’autotutela che viene affidata alle forze dell’ordine che dispongono dei mezzi e delle competenze per indagare e garantire il cittadino.

Il 23 febbraio scorso la legge italiana sullo stalking ha compiuto otto anni. La legge è stata accolta positivamente quando è stata introdotta e anche a distanza di anni se ne parla bene. Lo stalking risulta uno dei reati con i tempi di indagine più brevi e la pena di reclusione prevede dai 6 mesi ai 4 anni. Da recenti studi emergono segnali importanti di miglioramento della situazione generale rispetto al passato, per una maggiore capacità delle donne di uscire dalle relazioni violente, dalle molestie di ogni genere e dagli abusi, denunciando e prevenendo. Una consapevolezza nuova che permette la libertà individuale sacrosanta e una vita dignitosa.

La giacchetta del monsignore

Godendosi la Spal i meritati ozi, ci basterà buttare un occhio al calciomercato e l’ altro ai lavori per il potenziamento dello stadio? Assolutamente no: per attraversare questa torrida estate serve un sport cittadino di riserva. E forse qualcuno l’ha già trovato; ecco un nuovo esercizio cui appassionarsi: il tiro della giacchetta del monsignore. Sto parlando ovviamente del novello arcivescovo di Ferrara Giancarlo Perego.

Il primo calcio – o era solo uno scappellotto? – l’ha assestato Cristiano Bendin, suo il commento in prima pagina del Carlino di Ferrara di domenica 19 giugno. Già il titolo, ossequioso ma imperativo, indica subito la direzione che la giacchetta di Perego dovrebbe prendere: ‘Eccellenza vada in Gad’.
Bendin ricorda le primissime uscite del vescovo: la visita ai carcerati di Arginone, agli ammalati di Cona e agli ospiti del centro Caritas di via Brasavola. Il nostro columnist riconosce il “bel gesto”, ma non ne pare entusiasta. E’ però disposto a giustificare l’avventatezza e l’inesperienza di Perego. E’ appena arrivato, non conosce Ferrara e in fondo, scrive Bendin, la sua prima mossa “è coerente con la sua sensibilità e la sua storia personale l’apprezzamento dell’arcivescovo per il disegno di legge sullo Ius soli”. Monsignor Perego – che è anche direttore di Migrantes, diretta emanazione della Cei – proprio due giorni prima era infatti su tutta la stampa nazionale con una dichiarazione tutt’altro che diplomatica: “La legge va approvata, è una battaglia di civiltà”.
Si sa, Cristiano Bendin – e tutto il suo giornale – sulla ius soli la pensano all’inverso. Ma meglio evitare lo scontro diretto, quello che si può fare è tirare la giacchetta al monsignore. Che deve fare il nuovo vescovo per farsi perdonare le mosse avventate della prima ora, per rimettere in equilibrio (politico) i due pesi della bilancia? Ecco qua: “Se potessimo suggerire a Perego un’ulteriore tappa, gli consiglieremmo un giretto in Gad, l’ex quartiere Giardino oggi funestato da frequenti episodi di microcriminalità, oltraggio al decoro e scarso rispetto per le regole della civile convivenza”. E chi deve visitare questa volta il vescovo? “Eccellenza – prosegue Bendin – in questo quartiere abitano persone che sperimentano sulla propria pelle le difficoltà di una convivenza con una parte degli stranieri (non tutti) [grazie della concessione], alcuni di questi ferraresi – esasperati, umiliati e stanchi – vengono etichettati come razzisti e xenofobi con spavalda faciloneria… Sarebbe bello che lei potesse trascorrere qualche ora con loro, ascoltando le loro storie, le loro paure, senza pregiudizi politici”.

Sono sicuro che l’arcivescovo si recherà una e più volte in Gad. Sua sponte, senza bisogno del consiglio e del pregiudizio politico del paladino dei più arrabbiati. Credo che visiterà gli abitanti di questo “buco nero” di Ferrara e della sua Amministrazione (e questa volta Bendin ha ragione a chiamarlo così), ma visiterà tutti i residenti, cittadini italiani e stranieri, quelli che a Ferrara sono nati e i nuovi arrivati, scampando guerre e fame.
Il nodo Gad va finalmente affrontato, non attraverso polizia o vigilantes, ma con un piano di grande respiro (economico e sociale), che chiami i residenti (tutti) a essere protagonisti di un nuovo modo di abitare.
Per favore, non tirate la giacchetta a Monsignor Perego, ha già qualcuno ‘più in Alto’ a cui rispondere. Sa bene chi sono i primi da incontrare e da soccorrere: gli ultimi, i poveri, i carcerati, gli ammalati, gli stranieri (Matteo 25). Molti di questi ultimi (italiani e stranieri) abitano in un quartiere abbandonato a sè stesso come il Gad. Non credo che il vescovo si limiterà a “farci un giretto”, tantomeno (è quello che spero) si curerà di stare in equilibrio tra le parti nel rovente dibattito politico che sta incendiando Ferrara. Seguirà il Vangelo, non Il Resto del Carlino.

La difesa del verde pubblico nella terra di San Francesco

Un albero per qualcuno è solo un albero, ma ad Amsterdam si trova uno degli ippocastani più famosi del mondo.
Si tratta dell’albero che Anna Frank guardava dalla sua finestra di prigionia, unico contatto visivo con il mondo esterno occupato dai nazisti. “Il nostro ippocastano quest’anno è coperto di foglie”, scriveva nel maggio 1944 in quello che forse è divenuto il diario più celebre del mondo. Proprio quest’albero è stato recentemente al centro di una battaglia per la sua preservazione in un ambiente urbano come appunto la capitale dell’Olanda.
Perché per qualcuno un albero non è solo un albero. E’ un simbolo, una protezione, un tassello di memoria che entra a far parte della vita. Quella quotidiana, fatta di pomeriggi assolati trascorsi in piazza a chiacchierare con gli amici sotto fronde silenziose, che nel cuore degli esseri umani diventano Storia.

Così, seguendo la mappa immaginaria degli alberi, da Amsterdam voliamo in Umbria, a Spello (Perugia), dove giorni fa l’amministrazione comunale ha abbattuto gli undici ippocastani ‘storici’ di Piazza della Repubblica.
Per far spazio a un nuovo progetto di risistemazione sul quale più volte alcuni cittadini, che a Spello hanno piantato radici più resistenti di quelle degli alberi, hanno chiesto un confronto, un incontro, nel nome della democrazia partecipativa, di cui tanto si parla a livello di governance in Italia e in Europa.
Richiesta a cui il sindaco, Moreno Landrini, non ha mai dato cenno di risposta, perché undici alberi per qualcuno sono solo undici alberi, anche nella terra di San Francesco patrono dell’ecologia.
Per qualcuno ma non per tutti: al silenzio della politica il Comitato civico Centro storico Spello (composto da Lucia De Rubertis, Angelo Mazzoli, Rinaldo Morosi, Nathalie Pezzei, Umberto Piasentin, Simonetta Spitella, Sergio Stecchini, Anna Torti, Luigina Verri, Federico Villamena) ha risposto prontamente con una lettera inviata, oltre che allo stesso sindaco, alla soprintendente Marica Mercalli, a Gabriella Sabatini dei Beni Culturali, a Legambiente e Italia Nostra.

prima
dopo
prima
dopo

Nel documento, i sottoscrittori argomentano la loro posizione punto per punto, in particolare:

  • denunciano il taglio immotivato degli undici ippocastani che fornivano ombra e rappresentavano un patrimonio culturale e ambientale per la città;
  • suggeriscono che al loro posto vengano impiantati dei tigli e non i sette ulivi del piano comunale;
  • chiedono di non spostare la fontana metallica del 1903 perché lo spostamento potrebbe arrecare “danni”;
  • chiedono maggiori dettagli sulla futura viabilità e utilizzo dell’area come parcheggio;
  • denunciano la fumosità della ‘Relazione generale’ che potrebbe aprire a “soluzioni improvvisate in sede di cantiere” e non accenna in modo preciso al trattamento riservato a eventuali emergenze archeologiche.

E in conclusione scrivono:
“Consapevoli dell’importanza di mantenere per noi e per le future generazioni una piazza che sia il più possibile fruibile per le persone e non solo per le auto, chiediamo attenta vigilanza sul progetto e sulla conduzione dei lavori, volendo anche noi cittadini essere parte fondamentale di tale processo”.

La lettera è stata inviata e vola sulle ali del coraggio e della civiltà.
Speriamo che chi la leggerà abbia un albero sotto la finestra del proprio ufficio.

LA CITTA’ DELLA CONOSCENZA
Il vuoto celebrativo di don Milani e dell’educazione come pratica di libertà

E dunque anche Lorenzo Milani da Barbiana è stato sdoganato. Non più responsabile in primis di una scuola permissiva che produce solo ignoranza, ma alfiere della scuola “aperta e inclusiva”, proprio di quell’eccellenza che l’Ocse ci ha riconosciuto.
Così il 5 giugno scorso don Lorenzo Milani è assurto ufficialmente nel Pantheon pedagogico della scuola italiana con la giornata di studi che il Miur, per la prima volta in cinquant’anni dalla sua scomparsa, gli ha dedicato. Il titolo: ‘Insegnare a tutti’.

A orecchio un Comenio dimezzato, quello che diceva non solo “Insegnare a tutti”, ma “Insegnare tutto a tutti”. Perché forse insegnare a tutti dovrebbe essere pressoché scontato e non avrebbe neppure bisogno di essere ricordato, altro e molto più difficile è insegnare “tutto” a “tutti”.
Una scuola “aperta e inclusiva” non è quella dove si insegna a tutti, un insegnamento non si nega a nessuno, ma quella dove “tutti apprendono”, i Gianni come i Pierino per intenderci.
È quella dove il diritto allo studio si traduce in successo formativo, non, beninteso, come chiave della promozione scolastica, ma come individuale capitalizzazione vera di cultura e di saperi, di autonomia e invenzione, di creatività e indagine. Potremmo dire il risultato di quel “metodo milaniano”, come coniato dalla ministra Fedeli, che a suo giudizio è però “canone irripetibile”.
E allora, se è “canone irripetibile”, perché farci un convegno? Ecco di colpo svelato il vuoto celebrativo della giornata dedicata al priore di Barbiana.
D’altra parte come fa ‘la scuola’ a celebrare una ‘non scuola’, la negazione di sé stessa. Capirete che è un bel disagio sostenere “quel siamo, ma non siamo”!

Sì, perché se vogliamo uscire dal bagaglio delle banalità, quella di don Milani non è una palestra di scuola, ma una palestra di studio, dove ci si aiuta reciprocamente nella fatica dello studiare, non a riuscire a scuola che è un’altra cosa. Una destrutturazione della scuola, una descolarizzazione per strutturare lo studio, quello vero, non quello formale, artefatto, che si fa nelle aule.
Scuola e studiare ci dice l’esperienza di Barbiana sono due cose diverse, l’una addirittura opposta all’altra. Non si studia, sostengono i ragazzi della ‘Lettera ad una Professoressa’, con le cattedre, con i banchi, i voti e i registri. Si fa scuola, la scuola che salva la forma, la scuola ministeriale, la scuola dei programmi e delle circolari, ma non si studia, lo studio è tutta un’altra cosa, lo studio è la vita, quella vera. A scuola si impara quello che si è richiesti di imparare, quelli che ci riescono, ovviamente, ma non si studia, né come studiare né quello che si dovrebbe studiare.
È questo il messaggio di don Milani e dei suoi ragazzi, ancora a cinquant’anni di distanza dalla scomparsa del priore e dall’apparire di un libro che avrebbe segnato per sempre la riflessione pedagogica successiva.
Un messaggio che, al di là della buona volontà della ministra e del Miur, e del fatto che quest’anno a ricordare don Milani ci si è messo pure il papa, con il banale, scontato e populistico “Insegnare a tutti” c’entra ben poco, è uno schizzo d’acqua a fronte della profondità del mare.

Di Lorenzo Milani, uomo, prete, maestro a noi interessa il progetto educativo, un progetto educativo che ha la forza delle grandi invenzioni pedagogiche da Decroly, alla Montessori. Prima di tutto la negazione della scuola come è nella sua organizzazione e nelle sue liturgie, per esaltare la superiorità dello studio. Il percorso e la fatica che ognuno deve compiere per conquistare a sé stesso il sapere, tutti i saperi. Il problema del percorso pone la questione dei terreni da calpestare, quali ambienti attraversare, con quali compagni di viaggio per aiutarsi a vicenda, chi sono le persone sagge da consultare, che ci possono dare una mano, guidare, tenere la regia dei nostri apprendimenti.
Un altro Dna, altro dal Dna della scuola che conosciamo, costituito di classi e di aule. Il Dna è nella stanza di Barbiana, nei locali di quella canonica. Lo stesso che costituiva i geni della rivoluzione che circa quarant’anni prima aveva compiuto a Bar sur Loup il maestro Célestin Freinet con la “nascita di una pedagogia popolare”, via la predella, via la cattedra, la lavagna e i banchi, per lasciare spazio ai tavoli a cui lavorare insieme, alla tipografia, ai laboratori, alla biblioteca di lavoro. Riscoperta della centralità della parola, della lingua come forza emancipatrice dei diseredati, dei figli dei contadini, degli operai, centralità del testo libero, del libro della vita, tanti libri, nessun libro di testo dai saperi preconfezionati.

Milani è il Freinet di Barbiana, come Mario Lodi lo è stato per Vho di Piadena e Bruno Ciari a Certaldo. È la pedagogia degli oppressi, l’educazione come pratica di libertà, vissuta e scritta tra i poveri e gli analfabeti da Paulo Freire. Si tratta di sensibilità che hanno plasmato figure di educatori, di maestri che costituiscono un riferimento, che ci aiutano a riflettere ogni giorno cosa non è la nostra scuola, quanto ancora sia distante per sensibilità e cultura dalla lezione che loro ci hanno lasciato.
Anziché celebrare dovremmo ragionare di come aggiornare quei modelli educativi, quegli ambienti di apprendimento, di cui nella didattica di ogni giorno nelle nostre scuole ancora di classi e di aule, di registri, interrogazioni e voti non si scorgono che rare tracce, ed è veramente farisaico appendere il santino di don Milani dietro “l’insegnare a tutti”, quando la nostra scuola è la scuola dell’ossimoro che insieme al primato dell’inclusione vanta il primato della dispersione.
La scuola, dunque, rimane il problema anziché la soluzione.
Celebrare don Milani è porre al centro lo studio, il problema dello studio come diritto, così come si ha diritto a respirare e a vivere. Questa scuola è ancora, se lo è mai stato, il mezzo per servire la centralità che lo studio ha per l’intera vita di ogni individuo, dalla nascita alla morte?
Come si impara, come si apprende, come si studia? Non a scuola, ma nella vita. È quello che si sono chiesti don Milani e i suoi ragazzi di Barbiana. E la risposta è l’esperienza di Barbiana dove non si apprende per materie, ma per idee, per curiosità, argomenti e narrazioni, un esempio di come controllare i propri percorsi di apprendimento, contenuti, ritmi e condizioni, come decondizionarsi dall’essere ricettacoli passivi dell’istruzione. Sostanzialmente di come guarire dal mal di scuola.
Questa è la “comunità educativa” alla base di Barbiana, forse alla base della scuola moderna, come ha detto il Presidente della Repubblica, ma non certo alla base della nostra scuola, perché dovrebbe negare la scuola stessa così com’è, così come la conosciamo.
Ma questo non significa negare la centralità dello studio, semmai la pretesa di voler esautorare ogni forma di studio che non sia la scuola. Una battaglia che con l’avvento di internet la scuola e le accademie hanno perso, perché il sapere è fuggito dalle loro gabbie, dai loro labirinti, così come il sapere dei ragazzi di Barbiana è fuggito dalle aule e dalle classi della professoressa a cui decidono di scrivere.
Il messaggio ancora attuale che viene da don Milani e dai suoi ragazzi è che la scuola ha bisogno di Barbiana, ha bisogno dell’altro, ha bisogno di territorio e del territorio, ha bisogno di farsi rete con le persone e con le vite delle persone, con i luoghi, con le risorse, ha bisogno di schiudere le classi e le aule e di aprire spazi di apprendimento dinamici, di coniugare internet e Barbiana, di insegnanti registi e non attori, di insegnanti comprimari, di insegnanti preparatissimi, capaci di mettersi non in cattedra ma a disposizione, capaci di sensibilità e del dono gratuito dell’insegnamento.

Quelli che… ma chi glielo fa fare di alzarsi alle 5.30 per correre? La Run530 a Ferrara

Quando un’amica, circa un mese fa, ci ha domandato “Perché quest’anno non partecipiamo alla run530?” ci siamo tutti guardati in faccia, con il dubbio che ci stesse solo prendendo in giro. Nessuno di noi è uno sportivo o tantomeno mattiniero. Io, per esempio, non sapevo neppure di cosa stesse parlando.
Ho scoperto quel giorno dell’evento Run530, organizzato in varie città italiane, in cui ci si riunisce tutti – fino a 3000 partecipanti – alle cinque del mattino per una corsa non competitiva attraverso un percorso di 5 chilometri e 300 metri. A Ferrara l’appuntamento è stato il 16 giugno.

Presi dall’entusiasmo, abbiamo comprato il biglietto e abbiamo organizzato tutto: dove incontrarci, la colazione che avrebbe seguito l’evento e dove cambiarci per poi andare a lavoro.
Ma con il passare dei giorni l’entusiasmo è andato a scemare e la pigrizia ha iniziato a prendere il sopravvento. Svegliarsi alle 4:30 di venerdì per partecipare a una corsa e poi andare in ufficio non sembrava più una buona idea. L’evento era ormai alle porte, avevamo ritirato le magliette rosse e puntato le sveglie: ormai non potevamo tirarci indietro.
Come noi, tantissimi cittadini avevano deciso di partecipare e alle 5:20 piazza Savonarola era affollata di magliette rosse, un vociare allegro e un’energia che non ci aspettavamo.
Al suono del “via” siamo partiti, c’è chi ha corso e chi ha passeggiato, chi ha scattato molte foto e chi ha chiacchierato portando con sé passeggini e bambini ancora in fasce.

A un evento del genere ci si aspetta di incontrare solo amanti dello sport, allenati e abituati ad alzarsi con il sole, invece dietro la linea di partenza, sorridenti e divertiti, c’erano ragazzi dai volti assonnati, uomini e donne di tutte le età, allenati o meno, neogenitori con passeggini, cani con i loro padroni e tanti curiosi.
La quarta edizione della Run530 nella città estense ha attraversato Corso della Giovecca, ha superato la Prospettiva per immergersi nel verde del Sottomura e riemergere in via Quartieri superando Porta San Pietro, per tornare al punto di partenza attraverso il centro cittadino, attraversando via Saraceno e via Mazzini.

Il risultato? Un’esperienza divertente e unica, che ha regalato ai partecipanti scorci della città avvolti dalla tipica luce dell’alba, appena velata da una lieve foschia. Un fiume di color rosso vivo ha tinto le strade desolate, riempiendo di vita e di energia alcuni dei luoghi simbolo della città. Al termine del percorso l’essersi svegliati presto non era più considerato una scocciatura, ma una vittoria, l’aver sconfitto la pigrizia aveva permesso a tutti di vivere un momento diverso, un’esperienza nuova e positiva.
Ciliegie e bevande attendevano i partecipanti all’ombra del Castello Estense, per rigenerarsi e godere di un momento di calma alle 7 del mattino, prima di salutarsi e rivestire gli abiti di un abituale venerdì mattina mentre il resto della città si sta appena svegliando.

Foto di Chiara Ricchiuti. Clicca sulle immagini per ingrandirle.

Il sogno del sindaco Tagliani fra epica cavalleresca e poco epiche cronache

di Tiziano Tagliani*

Ho fatto un sogno: Ferrara trovava un nuovo aedo: una città che fino a ieri di Bassani aveva il solo ricordo oggi può raccontarne il mondo, grazie alla generosità di Portia e di Ferigo e di qualcuno che, dopo decenni, si è reso pronto, ha dato opportunità a questo racconto “Fuori le mura”: un futuro con il “giardino” che vola a Gerusalemme ambasciatore di quel capolavoro di città che è la nostra, con gli “occhiali d’oro” che tornano in città a vedere nebbie ormai scomparse.
Un narratore ci serve, ha ragione Macke!
Che racconti: come in pochi mesi Boldini volasse a Pechino e all’Hermitage, Antonioni a Parigi, Amsterdam e Bruxelles, Il poema di Ariosto fluisse negli occhi di 30.000 studenti ed altri 120 mila curiosi a bocca aperta e De Chirico metafisico tornasse con i capolavori dipinti a Ferrara per la prima volta ad incantare tanti.
Un narratore che spieghi con passione, come, con la visione di ciò che Ariosto che “vedeva ad occhi chiusi” siano atterrati in città anche il Baccanale degli Andri del Tiziano, poeta di una corte perduta ed un Mantegna pagato dagli Este e non dai Gonzaga! E ben ricordo quanti, oggi ricreduti, su quella sfida non avrebbero investito un fiorino!
Poi il risveglio. Qui si disputa a giorni alterni di spore idrofile e sulla incompetenza di chi ha operato miracoli che altrove, in città di maggior rango e dotate di munifiche fondazioni, meriterebbero ben altro rispetto. Dall’alto si disputa, di pulpiti che a turno l’un l’altro si edifica l’intellighenzia nostra almeno fino al prossimo cruento certame sulla presidenza o sul convegno.
Ah casta di aedi! Narratela questa nostra città voi che la parola governate con padronanza (voluto rafforzamento semantico)!
Non però quella che contrappone, quotidie, nelle associazioni il presidente di ieri a quello di oggi, quella che vuole il Meis nel parco Urbano o al Verdi ma non dove si fa , quella che da mesi attende da una Soprintendenza (mai lettera maiuscola fu più necessaria) di sapere il futuro di una civica idea, criticabile ed infatti criticata fin che si vuole, ma Santo Cielo una idea che merita risposta e magari non sul giornale!, Soprintendenza in vero sopraffatta dal lavoro e dagli arretrati, ma che trova il tempo di insegnare al sindaco (volutamente minuscolo siccome privo di visione onirica) come si compone la giunta.
Narrate or dunque questa città, voi che dalla storia traete l’humus che a noi, schiera dannata di mercenari dell’amministrare cornuti e fors’anche becchi, non sarà mai dato, narrate d’una città che compie miracoli coi fichi secchi!
Città che, meschina, non rinnova il Direttore delle biblioteche perché la legge a chi ha lavorato tanto (e bene aggiungo, io sì, vergin di servio encomio e di codardo oltraggio) lo impedisce, ma non per questo lascerà sguarnita la trincea (come dissi alla Presidente amica della Ariostea) mi si consenta sul punto però l’indeterminatezza che è dovuta per rispetto di chi in biblioteca ci lavora, là dove il prestito, come suggerisce l’ottimo Monini, oggi non è il solo metro, così come il consumo del gessetto non lo è del lavoro del maestro.
E se per lasciare memoria di questi nostri anni sarà d’uso, come è, calcar la mano su chi scrive, non abbiate timore alcuno picchiate duro, perché con l’irriverenza della classe da cui provengo, quella di Cesira la bugadara , la arzdora che i panni la lavava in tal canal, nell’attesa dell’inclita opera vostra, non tacerò, ma convinto lancerò un grido: INTANT VIVA LA SPAL

*Sindaco di Ferrara

Leggi la replica di Gianni Venturi “i prosaici oltraggi degli ingrati”

Tariffa su misura, incontri pubblici a Formignana e Ro per la nuova fattura

da Clara

Nei giorni scorsi è arrivata al domicilio delle circa 3.000 utenze di Ro e Formignana la prima fattura per il servizio rifiuti calcolata con il nuovo sistema denominato ‘Tariffa su Misura’. Per illustrare le modalità di lettura e comprensione della nuova fattura e chiarire gli eventuali dubbi anche sul servizio, CLARA organizza, in collaborazione con le due amministrazioni comunali, alcuni incontri pubblici serali.

Ecco le date degli incontri finora programmati:
– Lunedì 19 giugno, ore 21, Teatro Comunale di Formignana
– Giovedì 22 giugno, ore 21, Saletta civica accanto alla Chiesa di Brazzolo
– Mercoledì 28 giugno, ore 21, Circolo ARCI ‘Il Mulino’ di Ro.

Dopo quasi diciotto mesi di sperimentazione, il 2017 è infatti l’anno di applicazione effettiva della nuova Tariffa, più innovativa e più equa della Tari tradizionale tuttora vigente negli altri comuni serviti da CLARA, perché consente di calcolare la parte variabile tenendo conto di alcuni elementi strettamente legati alle scelte e ai comportamenti di ogni utenza nella gestione dei propri rifiuti.
La nuova Tariffa su Misura prevede l’utilizzo, da parte di famiglie e aziende, di contenitori rigidi per l’indifferenziato, per l’umido e per il verde dotati di microchip. Per l’umido e l’indifferenziato l’operatore rileva attraverso un apposito lettore ogni svuotamento, che viene così associato alla rispettiva utenza e alla fine del quadrimestre viene conteggiato in fattura in base a un costo €/litro predeterminato. Per il verde e le ramaglie quest’anno il servizio è invece fruibile su abbonamento. Ai fini del calcolo della parte variabile vengono inoltre considerate le eventuali richieste di ritiri a domicilio che superano la soglia di gratuità (ad esempio per gli ingombranti due ritiri all’anno).
Con questa nuova modalità, confrontando i dati delle utenze attive sia nel 2016 sia nel 2017 (2.877 utenze totali) emerge che nel primo quadrimestre oltre il 72% delle utenze ha risparmiato rispetto allo stesso periodo dello scorso anno. Il 7% circa ha visto un aumento minimo (inferiore al 5%), mentre il 21% circa ha avuto un aumento più significativo.

Per tutte le informazioni sulla nuova fattura è come sempre attivo lo sportello telefonico CLARA (800 881133 per chiamate da rete fissa, 199 127722 per chiamate da cellulare).
Per le prossime settimane è stata inoltre intensificata la frequenza di apertura degli sportelli clienti CLARA presso i due municipi.
Di seguito nel dettaglio le date di apertura:
Formignana: 16, 20 e 26 giugno, 3 e 14 luglio.
Ro: 22 e 29 giugno, 6 e 13 luglio.
Gli sportelli sono aperti dalle 9 alle 12.

BORDO PAGINA
Le Stampanti 3d nel futuro… Che sia la fine del capitalismo?

Qualche tempo fa è uscito un libro anticipatore sulle cosiddette stampanti 3d dal titolo a dir poco ammaliante, ‘La Macchina di Santa Claus’, di Elisabetta Bonafede. Ebbene, nonostante puntualmente i media segnalino piccole grandi meraviglie potenziali o già concrete e possibili, persino per la medicina (organi “ricreati” da questa macchine nascenti formidabili), oppure spesso dimostrazioni in mostre scientifiche letteralmente catturino l’entusiasmo dei bambini con giocattoli creati in tempo reale, certamente sfuggono ancora gli orizzonti più clamorosi e rivoluzionari della nuova tecnologia.
Sembra fantascienza, ma portate all’estremo, le stampanti 3d sono forse destinate e senza colpo o spread ferire a terminare il capitalismo tout court e la ormai secolare dipendenza degli umani dalla produzione economica storica. O meglio, almeno a risolvere una volta per tutte, con effetti collaterali ovviamente dirompenti, quel che pur decenni di grande progresso scientifico sembra tutt’oggi incapace di realizzare su scala planetaria (anche paradossalmente e per cause esclusivamente politiche o di follia sociale condivisa).

Certe ricette di Green economy molto discutibili proprio grazie alle stampanti 3d più evolute, ovviamente in senso bios o biopolitico intelligente e democratico, potranno realizzare l’obiettivo minimale, ma decente, di sopravvivenza per poveri nel mondo occidentale e figurarsi per il terzo o quarto mondo.
Come già spesso sottolineato da diversi futurologi, certe macchine g-astronomiche presenti nelle astronavi fantascientifiche (anche l’Enterprise di Star Trek) del futuro, robot o computer chef e istantanei produttori del menu desiderato o almeno preprogrammato in vasta ampiezza di menu, dal caffè al tacchino del 4 luglio americano alla Coca Cola di Marte, anticipano le future Chef stampanti 3d.
A costi letteralmente irrisori in futuro sarà probabilmente possibile in ogni casa una Stampante 3d Chef pronta a cucinare all’istante per le nostre necessità quotidiane di sopravvivenza biologica!
Stampanti 3d g-astronomiche che al massimo costeranno come uno smartphone minimo ma perfettamente funzionale per obiettivi decorosi minimi. E siccome non si parla di navigare più veloce in 10g o fibre ottiche o di computer quantici o grafene, ma di assicurare cibo in tale caso letteralmente cibornetico a tutti quanti in linea di principio, ecco semplicemente come cominciare a concretizzare la contemporanea ultima utopia minimale del reddito minimo garantito o di esistenza, il bioreddito come si dovrebbe più civilmente chiamare.

Dalle stampanti 3d il bioreddito. Un bioreddito che già innesterà memi virus. Chi non avrà ambizioni da vip o di lusso di fatto rifletterà con tali biostampanti 3d, le Cybors, la fine dal capitalismo produttivo, in quanto le Cybors permetterano di superare ogni fase del meccanismo produttivo. Ognuno diventerà microproduttore economico per stesso, microcapitalista di sé stesso, tenuto conto che naturalmente se ci saranno Cybors figurarsi se non sarà possibile autogenerare (e meccanismo certamente piu semplice) oggetti inanimati (e già le stampanti 3d attuali lo fanno) abiti e persino casette magari antisismiche, insomma tutto il minimale o minimum per sopravvivere biologicamente.
Naturalmente allo stato attuale anche avveniristico e semifantascientifico, tutto il discorso regge come strategia di sopravivenza per i soggetti meno abbienti minoranze nel mondo occidentale evoluto e come strategia di pronto soccorso non banale e anzi ecorivoluzionaria per le aree del pianeta dove gli esseri umani e anche bambini muoiono ancora come nel medioevo o epoche precivili del passato remoto.
S’immagini però la stampante 3d come un semplice prototipo storico contemporaneo destinato a evoluzioni soprendenti in termini di complessità e potenzialità: non soltanto come immaginiamo e come potenziamento diciamo dell’intestino fondamentale, umano in senso già transumanista ecc al livello in questione. Ma stampanti 3d in grado di produrre anche energia artificiale, personal sun-energia solare o altro ad personam?
Un tempo esistevano calcolatori grandi come palazzi? Oggi stanno virtualmente nel braccio al posto dell’orologio (anche se i computer da polso non sono mai decollati ma li hanno fatti equivalenti da mano). Immaginate la nostra Mega Macchina economica compressa in certo senso ad personam, una sorta di incredibile decentramento e miniaturizzazione algoritimica in certo senso dove però il terminale: non sarà solo una AI direttamente ma una Rete con l’unità umana a base carbonio come interfaccia fondamentale. Un poco come già attualmente con il Web ogni persona è virtualmente tutto il mondo, interconnessa con tutto il pianeta vivente.
Sarebbe la fine del Capitalismo e anche del Capitale se si vuole di fallimentare utopia socialista!
Ma sarebbe il trionfo della democrazia ad persona, dell’individuo, autodiretto perlomeno al livello minimum esistenziale e socio-biologico.

Dopo, in un Mondo Nuovo del genere, ovviamente, siccome le grandi scoperte e conquiste ovviamente presuppongono, in scenari complessi, equipe e team di ipercomplessa conoscenza ecc., resterebbe eccome la fu lotta in certo senso ‘naturale’ e ‘darwiniana’ che premierebbe meritocraticamente ad personam le persone più creative o di talento o geniali: parliamo di sopra-vivere, però, non della sopravvivenza storica, obbligatoria come bisogno, soprattutto come ricatto esistenziale. Verso l’Homo Dreamens? Essenza in fondo dell’evoluzione umana, dell’animale uomo che sogna e desidera e fa con le macchine e la Tecnologia?

Info:
https://it.wikipedia.org/wiki/Replicatore_(Star_Trek)
https://www.bookrepublic.it/book/9788898001415-la-macchina-di-santa-claus/

L’appello di Veronesi per ‘Giovinezza, giovinezza’.
Arci rilancia: “C’è qualche sponsor che si offre come mecenate?”

“L’idea è bella, sul versante della fattibilità è piuttosto complicata”: “il problema principale è che queste operazioni hanno costi elevatissimi”.
Così Paolo Marcolini, presidente di Arci Ferrara, risponde all’appello lanciato pochi giorni fa, proprio dalla pagine di Ferraraitalia, dal professor Paolo Veronesi di Unife per salvare la pellicola ‘Giovinezza giovinezza’ (Titanus, 1969) e con lei un fotogramma di memoria di una Ferrara che non c’è più. [leggi qui].

Paolo Marcolini, presidente Arci Ferrara

L’Arci non è certo una neofita della gestione di sale cinematografiche e della valorizzazione del cinema d’autore in città, proprio per questo Veronesi l’ha interpellata chiedendo se volesse avere un ruolo di primo piano in una campagna di raccolta fondi per restaurare, alla soglia dei suoi cinquant’anni, il film di Franco Rossi tratto dal volume del ferrarese Luigi Preti. “Da più di trent’anni gestiamo l’unica sala d’essai, pluripremiata anche a livello nazionale, e abbiamo fatto rassegne con film restaurati”, inoltre “non siamo nuovi a iniziative di recupero di pellicole”, conferma Marcolini: nel 1998 Arci ha infatti partecipato al recupero di alcune pellicole ferraresi di inizio secolo.
L’associazione è dunque senz’altro sensibile alla proposta del professore di Unife, ma non nasconde che l’operazione è piuttosto complessa e onerosa. Prima di tutto però bisogna vedere se davvero si riesce a “trovare la copia originale” e capire “in che condizioni è la pellicola”. Ammesso tutto ciò, “il recupero dei fotogrammi ha costi decisamente elevati” che, secondo Marcolini, è difficile coprire solo con un crowdfunding: “quando abbiamo restaurato quelle pellicole di inizio secolo e le abbiamo riversate su vhs, abbiamo speso più o meno 30-40 milioni di vecchie lire, per circa 45 min di girato”. E, chiediamo, per un restauro e una digitalizzazione di ‘Giovinezza giovinezza’ di che genere di cifra stiamo parlando? “Non sono un tecnico e ripeto che bisogna valutare le condizioni della pellicola, ma secondo me si arriverebbe certamente a decine di migliaia di euro”. Per questo il presidente dell’Arci cittadina rilancia l’appello per coinvolgere una squadra più ampia, che oltre all’associazione coinvolga “le istituzioni”, “la Cineteca di Bologna” e, perché no, “un mecenate o una fondazione privati che per amore di questa pellicola e del cinema più in generale e anche della città si rendesse disponibile a coprire parte dei costi”. Anzi l’ideale, a parere di Marcolini, sarebbe che privati e sponsor coprissero una parte maggioritaria delle spese, lasciando alla campagna di crowdfunding “la parte minoritaria”. “È un’operazione che non può essere gestita solo da un’associazione culturale come la nostra, serve un finanziatore, serve il coinvolgimento di un’istituzione pubblica, che può essere il Comune, la Provincia o la Regione, per non parlare delle competenze tecniche per capire se la pizza è recuperabile”. Se dal dibattito pubblico dovesse emergere l’interesse di questi soggetti, “noi siamo pronti a metterci al servizio dell’operazione culturale”, afferma Marcolini.
Ora la palla passa dunque alle istituzioni e ai mecenati cinefili.

E per il cinema ferrarese di ieri, ma anche di oggi? “Le proposte culturali si differenziano più nella programmazione settimanale, nella quale facciamo diverse rassegne”, ci risponde Alice Bolognesiresponsabile delle attività culturali di Arci Ferrara – “inoltre lavoriamo molto in collaborazione con le associazioni sul territorio e cerchiamo di partecipare ai festival e alle attività culturali in città con una proposta cinematografica in linea con ciò che viene realizzato”.
Dal 17 giugno inizierà la programmazione estiva al Parco Pareschi, “con diverse novità rispetto agli anni scorsi”, ci dice Alice, e alcune riconferme, come la collaborazione con la Cooperativa sociale Il Germoglio: 381 Storie da Gustare con ‘Ceniamo al cinema?’ realizzerà alcune cene in tema con le pellicole proiettate, inoltre anche quest’anno ci sarà in palio una delle ri-ciclette realizzate nel laboratorio di viale Darsena con il concorso ‘In prima fila con Ri-cicletta’.

Leggi anche:
L’appello di Paolo Veronesi su Ferraraitalia: Salviamo dall’oblio ‘Giovinezza, giovinezza’ e la Ferrara di quegli anni
La programmazione cinematografica estiva di Parco Pareschi

Dal 23 giugno arriva Clarafestival: la festa che unisce musica e ambiente

Sei tappe in tre mesi nei Comuni del ferrarese serviti da Clara, la nuova società per la gestione e la raccolta dei rifiuti frutto della fusione tra Area e Cmv raccolta: è il ‘ClaraFestival’, presentato venerdì nella residenza comunale di Copparo. Alla conferenza stampa hanno preso parte Alida Padovani, consigliera di amministrazione di Clara spa, Mirna Schincaglia, responsabile delle relazioni esterne dell’azienda, inoltre Rossano Scanavini, direttore organizzativo ClaraFestival per Made Eventi, e alcuni amministratori dei Comuni che ospiteranno le tappe della manifestazione delegati dell’azienda sia i componenti dell’organizzazione artistica dell’evento, che si propone di essere un’iniziativa culturale che coinvolga anche i territori.

Mirna Schincaglia ha spiegato che ClaraFestival “si propone di essere una nuova festa, che coinvolga tutti ma soprattutto i giovani, una vera e propria valorizzazione dei territori”. Una competizione musicale attraverso una serie di concerti volti a unificare, tramite il forte linguaggio della musica, varie generazioni e magari scovare anche qualche talento, come si augura Alida Padovani, consigliere di Clara: Clarafestival si rivolge ai ragazzi appassionati di musica e di canto che potranno partecipare come singoli o in gruppo. Il premio finale consisterà nella registrazione e produzione di un inedito con videoclip.
Naturalmente non mancheranno le occasioni per parlare di ambiente, gestione dei rifiuti, di cosa Clara fa e di cosa vorrebbe fare in futuro.
Anche Rossano Scanavini di Made Eventi, direttore artistico di ClaraFestival, è certo della riuscita, e sottolinea come “molta importanza sarà riservata alla scoperta di nuovi talenti”, che verranno anche sponsorizzati e rilanciati attraverso i social network.
Un festival quindi dalle mille sfaccettature, ma che al centro pone la riscoperta dei territori e la loro tutela, proprio mediante la conoscenza dell’azione di Clara.

Il concorso e i concerti partiranno il 23 giugno a Bondeno, per concludersi con la finale di Copparo il 23 settembre.
All’interno ci saranno anche momenti di magia, affidati al mago Roberto Ferrari, che promette di fare “sensibilizzazione sulla raccolta differenziata attraverso la magia, per far emozionare e dare un messaggio su questo tema”.
Le iscrizioni si sono aperte proprio venerdì 9 giugno e prevederanno una preselezione se il numero degli iscritti dovesse essere molto alto. E’ possibile scaricare il modulo dalla pagina facebook ‘Clara Festival’ e sul sito www.clarambiente.it.

Il dettaglio delle tappe di Clarafestival:

1° tappa: Bondeno, LocalFest, venerdì 23 giugno
2° tappa: Comacchio, Fiera di san Cassiano, sabato 12 agosto
3° tappa: Codigoro, Fiera di santa Croce, venerdì 8 settembre
4° tappa: Cento, Fiera campionaria, domenica 10 settembre
5° tappa: Portomaggiore, Antica Fiera, domenica 17 settembre
Finale: Copparo, Settembre copparese, sabato 23 settembre

Per maggiori informazioni sul regolamento e per scaricare il modulo di iscrizione [clicca qui]
Pagina fb Clara
pagina fb ‘Clara Festival’

Con Stefano Benni Palazzo San Crispino diventa il Bar Sport: si parla della Spal, di letteratura e del suo probabile ultimo romanzo


Tra gli applausi del folto pubblico riunito al terzo piano della libreria Ibs+Libraccio sabato pomeriggio Stefano Benni ha presentato il suo ultimo romanzo ‘Prendiluna’ (Feltrinelli).
Iniziato ben cinque anni fa e poi interrotto per colpa di un blocco che non riusciva a sbrogliare, i personaggi dell’ultimo lavoro dello scrittore bolognese sono rimasti addormentati in un cassetto per tre anni, per poi riemergere tra le pagine che ora sfogliamo curiosi.
Prendiluna è la protagonista della serata: una professoressa in pensione circondata da dieci mici, un po’ demoni e un po’ angeli. Sarà proprio dopo l’apparizione del gatto fantasma Ariel che la sua vita cambierà: avrà otto giorni per concludere una missione di estrema importanza, pena la distruzione dell’umanità.
Non sappiamo molto di lei e non sappiamo nulla dei numerosi personaggi, veri o immaginati, che incontrerà nel suo viaggio, perché nessuno in sala aveva già letto il libro, se non due ragazze che, alla domanda dell’autore, hanno alzato timidamente la mano.
“Meglio così”, ha dichiarato Stefano Benni, perché la qualità di un libro non si valuta da quanti lettori ha fatto appena pubblicato, quando è di moda e sulla bocca di tutti. Se resta nel tempo, se continua a suscitare interesse e curiosità dopo anni, allora sì, quel libro ha significato qualcosa.

Ma se non si può parlare della storia, di cosa si parla durante la presentazione di un libro?
“Della Spal, che è in serie A ed è un’ottima squadra, a differenza del Bologna che non ci ha convinto troppo. Della velocità con cui i libri evaporano nel tempo, colpa della fretta con cui gli editori pubblicano e della facilità con cui chiunque scriva, non solo chi ha qualcosa da raccontare e i modi per farlo”.
Si parla dei lettori, “grazie ai quali le storie continuano ad essere ideate, scritte, cancellate e riscritte”. Stefano Benni definisce il suo pubblico di lettori come “avventurosi”, poiché i suoi libri non sono mai comici o tragici, ma sempre un mix di tonalità: la comicità e la tragicità in letteratura a suo parere non si contrappongono, ma sono facce di una stessa medaglia. ‘Prendiluna’, di cui Benni parla come probabile ultimo romanzo, è un testo che lascerà scaturire due tipi di emozioni opposte: alcuni lettori lo troveranno estremamente comico, altri drammatico. Perché Prendiluna è stata un’insegnante capace di lasciare qualcosa ai suoi studenti, che dopo anni decidono di ritrovarsi per affrontare insieme il compito affidato alla loro professoressa. È una docente di cui ci si ricorda anche dopo anni, perché è stata in grado di donare qualcosa di prezioso e insostituibile.
Il personaggio del professore in pensione ritorna, come fa notare un lettore tra gli ascoltatori, affezionato a Lucio Lucertola, protagonista insieme a Lupetto di ‘Comici spaventati guerrieri’, con una dolcezza, una forza e una rabbia diversa.

Prima di concludere, non possono mancare un commento amaro sulla versione cinematografica di ‘Bar Sport’, definita da Benni “un’occasione sprecata”, un’anticipazione su ‘Teatro Tre’ (in uscita), terzo volume di testi scritti per le compagnie teatrali, e una domanda che ronza nella testa di tanti: “Perché Prendiluna ha dieci gatti?” “All’inizio della storia – racconta Benni – deve infilare i dieci mici nella valigia e affrontare un viaggio. Il peso di quel bagaglio così pieno è di circa 35 kili. Prendiluna è una donna robusta, ma come avrebbe fatto a trasportare una valigia piena di dieci cani?”.

Sul presente e il futuro delle biblioteche a Ferrara

da Francesco Monini

Ho letto sulla stampa locale l’intervento critico e ben documentato di Corrado Oddi sullo stato delle biblioteche cittadine. E ho letto la risposta un po’ stizzita del Vicesindaco e Assessore alla Cultura Massimo Maisto e del Sindaco Tiziano Tagliani. Nonostante i toni, a me pare possa venirne comunque un bene a patto che questa polemica possa lasciare spazio a un dibattito franco ed aperto sulla missione e sul futuro delle biblioteche a Ferrara.
Non sono “l’ultimo arrivato” (mi ha stupito che con queste parole poco eleganti Tagliani abbia “richiamato al suo ruolo di dipendente comunale” Oddi, il quale Oddi rimane un libero cittadino), ho infatti lavorato per più di vent’anni come Assistente di Biblioteca, a Ferrara e in provincia, compresa la Biblioteca Bassani di Barco allora da poco inaugurata. Ma non credo si tratti di esibire curriculum o competenze specifiche, basta e avanza la qualifica di cittadino, essendo le biblioteche non solo un servizio pubblico (uno dei pochi gratuiti rimasti sulla faccia dell’Italia contemporanea) ma una preziosa e insostituibile risorsa per la cittadinanza.
Intervengo quindi non per prendere l’una o l’altra parte, ma per tentare di inserire qualche elemento di riflessione e di proposta per il futuro.
I dati bibliotecari degli ultimi anni (citati da Oddi e non confutati da Sindaco e Vicesindaco) segnalano quello che è sotto gli occhi di tutti. Se però il 2016 ci consegna numeri allarmanti (un calo record dei prestiti, uno stanziamento di meno 50,000 Euro per gli acquisti, l’incertezza sulla tenuta della pianta organica) per risalire la china credo sia necessario adottare uno sguardo più ampio. Dopo una stagione che ha visto Ferrara (Comune e Provincia) fortemente impegnata sul terreno del rilancio e dello sviluppo del sistema bibliotecario partecipato (parlo all’incirca del ventennio dalla metà degli Anni Ottanta ai primi anni 2000), tale spinta propulsiva si è andata via via affievolendo. Voglio ricordare i due eventi più significativi, entrambi guidati con passione e competenza dalla direttrice di allora Alessandra Chiappini: Il complicato, faticoso restauro di Palazzo Paradiso e l’apertura della Nuova Ariostea, non più solo Biblioteca di Conservazione ma grande polo culturale e moderna biblioteca pubblica cittadina. Quindi l’apertura della Biblioteca Bassani di Barco, un “polo periferico” che ha dimostrato – pubblico e numeri alla mano – di poter diventare un grande centro culturale al servizio della città.
Nel 1988 mi sono diplomato Assistente di Biblioteca dopo un corso provinciale di 800 ore. Da allora, nonostante i vecchi bibliotecari andassero via via in pensione, nessun altro corso per bibliotecari e documentalisti è stato programmato a Ferrara. Da almeno vent’anni (molto prima dei sempre più cogenti limiti nazionali) non è più stato indetto un concorso pubblico per addetti alle biblioteche adeguatamente formati. I “buchi” sono stati coperti dalla mobilità interna, e senza un cospicuo programma di riqualificazione ed aggiornamento professionale (e questo non suoni come una critica agli attuali dipendenti comunali assegnati alle biblioteche che stanno facendo del loro meglio).
Non fermiamoci quindi a “fare le pulci” all’ultimo governo cittadino. Il declino dell’impegno pubblico verso la qualificazione e lo sviluppo delle biblioteche (tra l’altro Ferrara è in buona compagnia con altre realtà municipali). Questo declino, questa perdita di interesse, questo declassamento delle biblioteche a favore del “ciclo aureo”: mostre – musei -eventi – turismo, si fonda, io credo, su un limite di fondo nella visione della politica culturale.
Le biblioteche – anche a Ferrara, non solo a Ferrara – rischiano cioè di essere viste unicamente come “servizio di pubblica lettura”. quel luogo dove il cittadino-utente va a chiedere a prestito un libro o un video e se lo porta a casa. Per questo (soprattutto per chi preconizza la morte prossima ventura della lettura) rappresenterebbe un servizio di retroguardia, una realtà dove è inutile investire: nessuno sviluppo, al massimo sopravvivenza.
Questo modo di guardare alla biblioteca (una istituzione con più di 3.000 anni di storia e che si è saputa mille volte rifondare e reinventare) non coglie (lo coglie invece la sterminata letteratura a livello mondiale sull’argomento, basterebbe dargli una scorsa) la realtà di oggi, non assume la grande funzione sociale delle biblioteche, non individua le potenzialità di questi strumenti di servizio, di incontro, di partecipazione. In una società dell’informazione (un valore centrale e sempre più conteso e discusso) le biblioteche (chiamiamole pure mediateche) possono e devono diventare “agenzie della democrazia informativa”. Una agorà, una piazza aperta dove il cittadino trova risposta e orientamento al suoi bisogni informativi. Trova libri, giornali, video, informazioni di pubblica utilità, accessi a internet… e trova personale adeguatamente formato che lo assiste nella ricerca. Un spazio inoltre dove è possibile proporre e fare cultura, a partire dalle tante soggettività.
Quindi a Ferrara non serve solo recuperare alcuni anni di magra. Certo, anche questo. Sarebbe giusto stanziare, cioè spendere 1 euro per abitante per l’acquisto di patrimonio documentario (140.000 euro), e sarebbe perciò realistico raggiungere circa 170.000 prestiti annui (poco più di 1,2 prestiti per abitante, contro i 2 prestiti di altre città e regioni italiane o i 4 prestiti dell’Austria). Ma occorre soprattutto pensare un programma per la valorizzazione e lo sviluppo del servizio delle biblioteche pubbliche cittadine.
Occorre moltiplicare i rapporti tra biblioteche, scuole e musei cittadini (era questo in fondo il circolo virtuoso alla base del Gymnasium di Platone).
E occorre fondare nuove biblioteche (quei “granai pubblici” di cui parla l’imperatore Adriano di Marguerite Yourcenar), nuovi centri pulsanti di cultura e democrazia informativa, laddove non ci sono o sono insufficienti. Bene quindi la /nnn nnuova Biblioteca Ragazzi, ma ampliamo anche la Biblioteca Rodari (nel nuovo complesso edilizio previsto al posto del palazzo degli specchi? Sarebbe una buona idea), dotando la Zona Sud di un grande spazio polivalente. E pensiamo a fondare una biblioteca multiculturale e interetnica per le 80 etnie presenti a Ferrara, come stimolo fattivo a una politica del dialogo tra le diverse culture. Da questo punto di vista il contenitore ideale sarebbe già pronto: la grande sala al piano terra del grattacielo. Oggi è un luogo disadorno, degradato e isolato come tutta la Gad. Un centro culturale polivalente, con il coinvolgimento attivo delle varie comunità straniere sarebbe finalmente un modo per “riempire” un vuoto lasciato al degrado, alla illegalità e alla repressione.

Allarme del garante della privacy: il Grande Fratello 2.0 esiste

A quanto pare non avevo tutti i torti a sollevare con ‘L’abito digitale del neocapitalismo’ del 29 aprile scorso [leggi qui] il problema di quanto siamo spiati sul web. Il Garante della privacy Antonello Soro non ha usato mezzi termini nel presentare la relazione annuale per il 2016 dell’Authority: “Un numero esiguo di aziende, i monopolisti del web, possiede un patrimonio di conoscenza gigantesco – ha sottolineato – e dispone di tutti i mezzi per indirizzare la propria influenza verso ciascuno di noi, con la conseguenza che un numero sempre più grande di persone potrà subire condizionamenti decisivi”.
Beh, dunque i Grandi Fratelli ci sono, eccome, e non è sufficiente che ciascuno di noi stia più attento quando usa il pc. Ci vuol altro.

L’Autorità garante ha obbligato Google a rendere conforme il trattamento dei dati degli utenti alla normativa italiana, impegno rispettato nel 2016. A Facebook, il Garante ha imposto di bloccare i falsi profili e di assicurare maggiore trasparenza e più controllo agli utenti. Sono alcuni passi nella giusta direzione, ma ne servono molti altri. Abbiamo a che fare con chi sa benissimo che, spiandoci, può più facilmente condizionarci. L’uso distorto del web sta diventando molto pericoloso: pensiamo all’esplosione delle fake news.
La strategia da adottare contro questi fenomeni è, come si diceva tempo addietro con il gergo politichese, ‘complessa e articolata’, ma non per questo dev’essere poco energica e scarsamente incisiva. Al rispetto della democrazia e della dignità di ognuno va associata una normazione civile e penale, nazionale e comunitaria, adeguata a impedire abusi; ma prima ancora occorre una gigantesca opera di educazione civica nella società digitale, partendo dalla scuola. Oltre, ovviamente, a una ben maggiore responsabilità di chi veicola nella Rete notizie e informazioni.

Soro ha parlato poi di preoccupante aumento della pedopornografia rispetto al 2015: due milioni le immagini censite l’anno scorso, il doppio nei confronti dell’anno precedente in particolare nel ‘dark web’, lo spazio oscuro in cui per esempio si vendono armi come noccioline. Ha messo così in luce un tristissimo fenomeno in gran parte causato, affermano recenti ricerche, dall’utilizzo dei social networks da parte di genitori incolpevoli, ma incauti, che postano a mani basse immagini dei loro figli. Uno stato di cose che ancor più evidenzia il nostro analfabetismo digitale, oltre che la nostra grande vulnerabilità.

LA SEGNALAZIONE
Professione reporter

Da Organizzatori

Loro sono i fotoreporter “storici”, i professionisti ferraresi che hanno aderito al progetto della mostra curata dal Circolo della Stampa di Ferrara con il patrocinio di Airf (l’Associazione italiana reporter fotografi). La mostra si terrà in città il prossimo autunno e sarà la prima in assoluto a portare in vetrina le immagini più belle e significative del loro repertorio.
Ogni fotografo contribuirà a creare questo suggestivo ed inedito mosaico collettivo, offrendo almeno cinque immagini di grande formato, che documenteranno il suo percorso professionale ed il suo personale punto di vista sugli avvenimenti e i personaggi che hanno caratterizzato questi ultimi cinquant’anni.
Hanno già raccolto l’invito del Circolo della Stampa i fotoreporter Luca Gavagna, Andrea Rossetti, Sergio Pesci, Dario Berveglieri, Ippolita Franciosi, Gino Perin, Marco Caselli Nirmal, Andrea Samaritani, Mattia Borghi, Luca Pasqualini, Michelangelo Giuliani. Altre adesioni sono in arrivo.
Il Comitato organizzatore è¨ formato da Simonetta Savino, Ippolita Franciosi e Gino Perin. L’architetto Vittorio Anselmi curerà , a titolo amichevole, il progetto di allestimento.
Ogni autore dovrà far pervenire al Comitato organizzatore il materiale richiesto entro domenica 6 agosto.

Pianeta Clara, grande festa di fine anno per le scuole

Da Organizzatori

A Ostellato oggi quasi 400 ragazzi dal territorio servito dalla nuova società

Si è conclusa con una festa gioiosa nella verdissima cornice delle Vallette di Ostellato, la prima edizione di ‘Pianeta Clara’, il progetto scuola promosso dalla nuova società frutto della fusione tra Area e Cmv Raccolta, operativa dal 1° giugno.
All’evento di oggi hanno partecipato 350 bambini di 16 classi, principalmente della scuola primaria, provenienti da diversi comuni del territorio servito dall’azienda. Si tratta di una piccola parte delle oltre 200 classi che hanno aderito, per l’anno scolastico 2016-17, al progetto voluto da Clara: quasi 4mila bambine e bambini che anche grazie a Pianeta Clara, aggiungeranno un tassello di cultura ambientale al loro percorso educativo e – questo è l’obiettivo e l’auspicio del progetto – diventeranno giovani adulti con una coscienza ecologica più solida rispetto a quella di molti adulti di oggi.
In occasione della festa sono state premiate anche le classi vincitrici del concorso “Chi è Clara?”: si tratta della 1^ e 1^ B di Comacchio e della scuola d’infanzia di Masi Torello, che hanno rappresentato attraverso l’uso di materiali riciclati o riutilizzati la loro idea di mascotte di Clara. Le tre classi hanno portato a casa materiali didattici e di cancelleria utili per le attività scolastiche.
Il programma di questa prima edizione di Pianeta Clara (che raccoglie l’eredità di ben tredici edizioni di ‘Progetto Quadrifoglio’) è stato particolarmente ricco e diversificato. Per la scuola d’infanzia, oltre al collaudato spettacolo teatrale “Io l’ambiente e tu” – una fiaba ecologica dove tutto, dai costumi agli oggetti di scena, è costituito da materiali riutilizzati o riciclati -, per la prima volta è stato realizzato un laboratorio didattico-scientifico anche per i più piccoli delle scuole dell’infanzia, “Magicabula”, che ha visto l’intervento in aula di uno scienziato a compiere delle vere e proprie magie con gli oggetti di scarto quotidiano, con l’intento di aiutare i bambini a riconoscere i materiali.
Per le primarie e le secondarie di I grado le proposte sono state numerosissime. Oltre alla riconferma dei percorsi interdisciplinari sui materiali (“Materiali secondo natura”), per conoscere sotto varie angolazioni carta, plastica, vetro, metalli e RAEE, sia con le elementari che con le medie si è indagato il rapporto tra ambiente e rifiuti, l’importanza di preservare la natura e l’impatto che l’abbandono dei rifiuti può avere sulla biodiversità. Questo tema è stato declinato nei due percorsi “Rifiuti che storia!” e “Stop and go” – caratterizzati da una innovativa metodologia di lavoro, che ha coinvolto i ragazzi nella realizzazione di un corto con la tecnica dello stop-motion. Un secondo tema è stato quello dei rifiuti organici, proposto alle classi tramite i laboratori “Un fantastico destino” e “Scarto matto” – per pensare ad utilizzi alternativi degli scarti alimentari prima di destinarli alla raccolta differenziata o per analizzare altre opportunità di trasformazione oltre al compostaggio. Per i territori che hanno recentemente nuovi modelli di raccolta, “Gira la ruota”, un incontro dedicato alla riflessione sul rapporto tra abitudini dell’uomo e territorio.
Alla premiazione erano presenti il Presidente di CLARA, Gian Paolo Barbieri, il Sindaco di Ostellato, Andrea Marchi, e il Presidente della Cooperativa Atlantide, Andrea Quadrifoglio.

Con Il Germoglio in piazzetta Corelli buon cibo e 381 storie da gustare

Un itinerario attraverso la città per diffondere un’idea di turismo eco ed etico sostenibile: non turisti mordi e fuggi che galoppano dietro una guida e fagocitano tutto attraverso l’obiettivo di macchine fotografiche e smartphone, ma viaggiatori curiosi delle realtà e degli angoli meno conosciuti, consapevoli del proprio impatto sul territorio che visitano.
Un progetto per limitare lo spreco alimentare e la produzione di rifiuti, promuovendo la buona prassi di portare a casa senza imbarazzo eventuali avanzi dei pasti non consumati al ristorante.
Un laboratorio di pasta fresca con una sfoglina per studenti Erasmus.
Un’esposizione fotografica che racconta in bianco e nero il territorio del Delta, tra cielo, acqua e lembi di terra, uccelli in volo, reti e pali, barche e fari, onde e riflessi, mani come rami, conchiglie e meraviglie.
Cosa hanno in comune? Il Ristorante 381 Storie da gustare di piazzetta Corelli gestito dalla Cooperativa Il germoglio Onlus. Non solo un bar-ristorante dove gustare buon cibo, ma un luogo dove si incontrano e si incrociano diverse esperienze, tutte accomunate dalle parole d’ordine: territorio, inclusione sociale, sostenibilità, eticità.

Chiara Nardone e Gaia Aragrande sono due dottorande del Dit, il dipartimento di interpretazione e traduzione del campus di Forlì dell’Alma Mater Studiorum di Bologna: “Quello che ci è piaciuto di 381 Storie da gustare, il motivo per cui lo abbiamo scelto è la capacità di coniugare sostenibilità etica, ambientale e sociale”. Ecco perché il ristorante di piazzetta Corelli è stata la tappa conclusiva del tour eco ed etico-sostenibile che Chiara e Gaia hanno organizzato lo scorso lunedì sera nell’ambito di It.a.cà. migranti e viaggiatori – Festival del Turismo Responsabile. “It.a.cà. (sei a casa? In dialetto bolognese, ndr) è un festival itinerante, la cui tappa più importante è Bologna, dove è nato, ma che nel tempo ha allargato la propria rete a Ferrara, Padova, Trento e altre ancora”, mi spiega Chiara. It.a.cà. mira a far considerare il viaggio non più solo vacanza e svago, ma un’esperienza capace di esaudire il desiderio di conoscenza e scoperta del mondo. E allo stesso tempo, a sensibilizzare i viaggiatori sull’impatto dell’industria turistica all’interno degli ecosistemi, naturali e cittadini. Così è nato il tour sostenibile di Chiara e Gaia, che ha portato i partecipanti nella Ferrara ebraica e nel Castrum e che si è concluso al 381 Storie da gustare, “per far conoscere una realtà che ha un impatto a livello sociale nella città”. “Abbiamo trovato un terreno comune nella costruzione di una maggiore consapevolezza”, aggiunge Carla Berti de Il Germoglio: “far riflettere le persone su come le loro scelte come turisti, ma in fondo anche come cittadini, influiscano sulla realtà e sul territorio a breve e a lungo termine”.

Un momento dell’apericena

L’apericena di lunedì sera è stata anche un’occasione per Il Germoglio per far conoscere il valore aggiunto del cibo che si può gustare nel locale: il servizio di ristorazione viene gestito attraverso progetti di inserimento lavorativo di persone svantaggiate, nel senso più ampio del termine. Da qui il nome del ristorante, che fa sì che ormai a Ferrara in molti li chiamino “quelli dei numeri”. La 381 è la legge che nel 1991 ha creato, e da allora regolamenta, le cooperative sociali: lo scopo è “perseguire l’interesse generale della comunità alla promozione umana e all’integrazione sociale dei cittadini attraverso la gestione dei servizi socio-sanitari ed educativi, lo svolgimento di attività diverse – agricole, industriali, commerciali o di servizi – finalizzate all’inserimento lavorativo di persone svantaggiate.
Al 381 Storie da gustare lavorano dieci persone, alle quali bisogna aggiungere le sei del 381 bar ristoro, in via Azzo Novello vicino alle mura cittadine e quelle dietro al bancone del bar dell’Ospedale del Delta a Lagosanto.
Cristina, che lavora come operatrice con Il Germoglio da dieci anni, mi spiega che a suo avviso “il ristorante è il luogo ideale per coniugare attività imprenditoriale e inserimento lavorativo, ma forse per quanto mi riguarda è anche una questione affettiva: è il primo luogo dove abbiamo fatto inserimento”. “Il mio compito – continua Cristina – è trasmettere a chi sta con noi abilità e competenze nell’ambito lavorativo, ma in realtà diventano compagni di viaggio perché cerco sempre di mantenere un rapporto paritario, non replicare i rapporti asimmetrici che possono vivere fuori: se in cucina o al bar c’è da fare qualcosa, va fatta e basta, io li accompagno in un percorso che li renda autonomi nel farla. È un po’ quella che Amartya Sen chiama ‘capacità di vita’. Non è facile, anzi è talmente difficile che per chi lavora qui come dipendente o fa tirocinio qui diventa particolarmente bello e stimolante.” Me lo conferma Susy, l’aiuto cuoca: “Mi trovo bene con Cristina e tutti gli altri, anche i ragazzi che partecipano ai laboratori e che hanno fatto le cose che vedi qui. Prima lavoravo in profumeria, ma qui mi è scattato qualcosa dentro e ora non tornerei in negozio”. “Quello che mi piace del lavorare in una cooperativa come questa – mi dice Cristina – è che tentiamo di ridurre le disuguaglianze, spesso nate dai casi della vita: poteva capitare a me di nascere non normodotata o di vivere esperienze che mi rendessero particolarmente fragile, invece è capitato a qualcun altro. La cooperativa è uno strumento per fare qualcosa in prima persona per cambiare almeno un po’ quello che non mi piace in questo mondo. Se lavorassi in un’azienda che dà in beneficenza parte dei profitti non sarebbe la stessa cosa, qui la sostenibilità etica e l’inclusione sociale sono l’obiettivo primario, non una componente accessoria”.

Carla aggiunge: “il servizio di ristorazione si integra con la filosofia in senso ampio della cooperativa”, non solo per l’inserimento lavorativo, ma anche per quanto riguarda la sostenibilità ambientale: molti degli arredi del 381 sono frutto del riuso oppure sono prodotti con materiali di scarto durante laboratori per persone svantaggiate. Da qui anche l’adesione a RistoriAmo dell’associazione Officina dinamica: l’iniziativa mira a ridurre lo spreco alimentare e la produzione di rifiuti grazie al coinvolgimento di una rete di ristoranti virtuosi che danno la possibilità di portarsi a casa in modo sicuro e igienico ciò che si è ordinato ma non consumato. Il Germoglio è fra i primi aderenti. “Abbiamo conosciuto la cooperativa in occasione di AvanziAmo”, spiega Roberta Lazzarini, vicepresidente di Officina dinamica, “perciò abbiamo voluto coinvolgerla anche in RistoriAmo, perché la sua filosofia riflette i valori della nostra associazione”. “A ogni ristorante aderente a RistoriAmo vengono consegnate un certo numero di vaschette anti spreco, riportanti le corrette modalità di utilizzo di quanto asportato, secondo indicazioni fornite dall’Ausl, che patrocina il progetto insieme al Comune, il materiale promozionale da esporre nel locale e ognuno viene coinvolto in una sorta di co-redazione diffusa che poi pubblica notizie ed eventi sulla pagina fb del progetto”.

A tavola si mangia, si dialoga, si raccontano e si mettono insieme esperienze e differenze. Ogni atto legato al cibo, anche il più semplice e quotidiano, esprime una cultura. Dentro al cibo passano gusti e sapori, ma anche storie, saperi e valori. Sulle tavole di 381 Storie da gustare alla convivialità si accompagnano il desiderio di giustizia e inclusione sociale e l’attenzione per l’ambiente, il territorio e soprattutto le persone. “Cerchiamo di adattarci alle esigenze di chi usufruisce del nostro servizio e quindi le nostre diverse proposte nascono spesso come risposta alle necessità di chi si accosta a noi”, sottolinea Carla.
I prossimi appuntamenti sono l’8 e il 9 giugno. Giovedì 8 dalle 17.30 con il pastaLab per studenti Erasmus che si vogliono mettere alla prova con la ‘sfoglia’ e l’aperitivo ‘Learn, socialize and drink! Impara, socializza e brinda!’, organizzati da Elena Colombo e Mirco Pagliarani, laureandi della facoltà di architettura di Unife che hanno collaborato con Il Germoglio per la propria tesi. Venerdì 9 dalle ore 19, invece, con una nuova mostra del Fotoclub di Ferrara, da sempre un prezioso partner per il 381: l’esposizione si intitola ‘Quasi Mare d’aMare. La Sacca di Goro vista dalle Socie del FotoClub Ferrara: trittici di fotografie in bianco e nero’ e sarà visibile fino al 2 luglio.
In più, per tutto il mese di giugno si susseguiranno le cene speciali di ‘Una cena per raccontare un’emozione’, per conoscere e far conoscere tutti quelli che hanno collaborato quest’anno con il ristorante 381 Storie da gustare, dove le ricette sono soprattutto incontri.

Per maggiori info sugli eventi
320 2512214
0532 1866272
381@ilgermoglio.fe.it

www.381storiedagustare.it
Pagina fb

LA CITTA’ DELLA CONOSCENZA
Dalla smart city alla comunità intelligente

La compagnia di taxi più grande del mondo, Uber, non possiede veicoli. La società di media più popolare del mondo, Facebook, non crea contenuti. Il più grande fornitore mondiale di alloggi, Airbnb, non possiede immobili. Il rivenditore più quotato al mondo, Alibaba, non ha inventario.
È l’economia della banda larga. Se le infrastrutture da sempre sono il fondamento della competitività economica, la banda larga è oggi l’infrastruttura regina dell’economia, e certamente la tecnologia che è cresciuta più rapidamente.
La banda larga permette città intelligenti: le smart city. Le tecnologie informatiche applicate alle nostre città le rendono migliori, consentono di gestire e monitorare accuratamente i processi urbani con risparmio di denaro, maggiore efficienza, offrendo un servizio migliore ai contribuenti.
Ma è proprio la diffusione della banda larga che ha alzato il livello della sfida, facendo della città intelligente una frontiera non più sufficiente. Non basta essere una smart city è necessario creare città migliori e per fare questo occorre divenire anche “comunità intelligenti”.
Peter Drucker, economista, padre della scienza del management, nel 1973 aveva previsto che nel giro di due decenni sarebbe stato impossibile per la classe media mantenere il proprio stile di vita con il lavoro delle proprie mani. Già allora Drucker previde che il mondo che conoscevamo stava cambiando. Egli chiamò il nuovo lavoro che sarebbe stato richiesto alla classe media “lavoro di conoscenza” e le persone che l’avrebbero svolto “lavoratori della conoscenza”.
Nell’ultimo decennio del XX secolo e nel primo decennio del XXI la profezia di Drucker si è avverata. Oggi, tutti i posti di lavoro desiderabili nelle economie industrializzate, e anche in quelle in via di sviluppo, richiedono componenti sempre più elevate di conoscenza rispetto al passato.
Le comunità intelligenti hanno come obiettivo quello di sviluppare una forza lavoro qualificata nel campo delle conoscenze, dalla fabbrica al laboratorio, dall’edilizia al call center o all’impresa.
L’opportunità di creare cittadini colti e competenti parte dall’infanzia e continua per tutta la vita, va dai programmi prescolastici alla scuola secondaria, dall’ istruzione tecnica superiore alle università.
È compito dei governi delle comunità intelligenti coltivare e nutrire le risorse della conoscenza. Accrescere l’offerta di conoscenza sul proprio territorio, aprire campus dei saperi, promuovere programmi di arricchimento nel campo della scienza e della ricerca, portare risorse educative e investimenti culturali nella comunità. Cambia pure l’ottica del rapporto tra scuola e lavoro, perché il lavoro che è richiesto non è più la mano d’opera del passato ma il lavoro di conoscenza, per questo nelle comunità intelligenti il governo locale opera a stretto contatto con le scuole e con le imprese per offrire agli studenti esperienze di prima mano, corsi di specializzazione in grado di prepararli alle carriere nelle industrie leader ed emergenti della comunità. Crescere i propri lavoratori della conoscenza è una parte del compito, come mantenerli e attirarne di più è un altro. Le comunità intelligenti investono in risorse fisiche e digitali, ma l’investimento prioritario è sempre più quello nelle risorse umane, nel capitale umano come condizione per migliorare la qualità della loro vita.
L’economia a banda larga è un’economia basata sull’innovazione. Il primo requisito per l’innovazione è la conoscenza. La banda larga è diventata il grande oleodotto dove passa il patrimonio di conoscenze del pianeta, rendendo possibile agli innovatori di imparare più velocemente che mai. Un altro requisito critico per l’innovazione è l’accesso al talento. La banda larga ha consentito alle multinazionali e alle piccole imprese di accedere efficientemente ai migliori talenti del mondo.
L’innovazione è essenziale per l’economia interconnessa del XXI secolo. Le comunità intelligenti perseguono l’innovazione attraverso un rapporto tra impresa, governo e università. È il triangolo dell’innovazione o la “triplice elica” che aiuta a mantenere i vantaggi economici dell’innovazione a livello locale, creando un ecosistema di innovazione che impegna l’intera comunità in un cambiamento positivo.
Creare, attrarre e mantenere i lavoratori della conoscenza sono i passi più importanti che una comunità può intraprendere per aumentare il tasso di innovazione. A differenza delle attività tradizionali come la maggior parte di noi le concepisce, un’impresa innovativa è tutta di persone e costruita sulla forza lavoro della conoscenza. Sono le “gazzelle”, come le ha definite l’economista statunitense David Birch, piccole, agili e aggressive start-up con grandi ambizioni, affamate delle risorse necessarie per raggiungerle. Oggi le “gazzelle” di successo, questi hub della conoscenza, secondo l’Ocse, creano in tutte le nazioni industrializzate la crescita del reddito sul quale si alimenta il resto delle economie locali.
Le comunità intelligenti sono, dunque, diverse, le comunità intelligenti adottano la tecnologia ma non la producono. Al contrario trovano usi intelligenti delle tecnologie sulla base della loro visione e delle soluzioni da dare ai loro problemi più urgenti. Si assicurano di avere la banda larga e le infrastrutture informatiche necessarie per essere competitive, sapendo che si tratta solo di mezzi per raggiungere i propri fini. La maggior parte delle loro risorse ed energie è volta a produrre conoscenza, a sviluppare una forza lavoro della conoscenza.
Più sforzo entra nell’elaborazione di un ecosistema di conoscenza e di innovazione che coinvolge governi nazionali e locali, imprese e istituzioni, più si creano posti di lavoro di alta qualità e si soddisfano esigenze sociali.
Molte smart city si limitano all’efficienza immediata, ai vantaggi delle nuove tecnologie, ma devono ancora intraprendere i primi passi verso la creazione di comunità intelligenti.

LO SPETTACOLO
Al Totem Festival Amleto e le altre anime

“Nevica in Danimarca e questi attori, i personaggi, attendono che il loro destino si compia”.
Quando poi della morte rimane solo il silenzio e l’odore, quando i personaggi hanno compiuto il loro tragico destino, quando il pubblico ha consumato il suo pasto e sazio dell’eroe ha lasciato il teatro per rientrare nella sua quotidianità, chi si occupa di seppellire i sogni perché il giorno dopo rifioriscano? E’ in questo interstizio fra l’attesa del proprio destino e il dopo il suo compimento che ha preso forma ‘Archivio delle anime. Amleto’, la riscrittura della tragedia shakespeariana andata in scena sabato sera al Teatro Cortazar nell’ambito del Totem Arti Festival.

La creazione di Naira Gonzalez e Massimiliano Donato, nella doppia veste di ideatore e unico interprete in scena, immagina un becchino, un po’ spettrale un po’ grottesco, che a tratti ricorda l’(A)Igor di Frankenstein Junior, che riallestisce per il pubblico che – suo malgrado – si trova di fronte l’Amleto di Shakespeare con l’aiuto delle ossa amorevolmente raccolte negli anni. Si fa – di nuovo suo malgrado – dinoccolato capocomico di marionette/attori/personaggi, mentre in realtà non è altro che in attesa, anch’egli, del protagonista: quell’Amleto condannato a rivivere per sempre la propria parte, il proprio tragico destino.
La piéce è un’Amleto stravolto, eppure riconoscibilissimo, e ri-creato nei dettagli che rendono la tragedia immortale: un continuo gioco meta teatrale, un linguaggio semplice e struggente, un ritmo forsennato, con Donato che non concede tregua a sè stesso e al pubblico, una maestria e una pazienza da artigiani nel lavorare su ogni particolare, sono gli ingredienti che rendono ‘Archivio delle anime’ poetico, popolare ed epico allo stesso tempo. Impossibile riportare tutte le originali e complesse scelte drammaturgiche, registiche e attoriali che fanno dello spettacolo una celebrazione, una esperienza di Amleto: come tale va esperita, punto.
C’è la tragedia dell’amore che non basta a salvare l’amore, c’è il cinismo che svela l’ipocrisia e l’imperfezione dell’uomo, c’è la poesia di chi non giudica tale imperfezione e c’è la denuncia che scopre il marcio degli uomini scoprendo così il tranello del mondo e di chi lo creò. Come i personaggi sono marionette manovrate in scena dal becchino capocomico, gli uomini sono marionette spinti da Dio sul palco della vita. E, infatti, Amleto entra come fosse spinto, senza essere spinto da nessuno, e duella con Laerte come fosse un pupo siciliano.

E alla fine di questa tragedia del disincanto, per placare il sangue, l’ira, la vergogna, l’amore, scende la neve a far calare il silenzio prima del sipario, a cancellare i segni del passare dei personaggi, perché la sera dopo li lascino come se non avessero mai percorso quella strada.

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Chi da piccolo non ha giocato al gioco del “Facciamo che io ero”? Un astronauta, un medico, un insegnante, l’eroe o l’eroina preferiti: quando si diventa grandi si dice di ‘far finta’, ma da bambini per quel lasso di tempo lo si diventa davvero. Agli attori – ci avete mai pensato? – è permesso continuare a fare questo gioco anche da adulti. E i giovani componenti del collettivo bolognese Respirale teatro hanno deciso di sfruttare questa possibilità per costruire un gioco di riflessi sui Millennials, fra rappresentazione e autorappresentazione.

Sabato sera al Totem Arti Festival di Pontelagoscuro – organizzato da Teatro Nucleo con la direzione artistica di Natasha Czertok – è andato in scena il primo studio di questo esperimento intitolato ‘IOhERO’, dopo una residenza che ha visto gli attori Debora Binci, Michele Pagliai, Emanuele Tumolo e la regista Veronica Capozzoli ospiti delle sale del Teatro Cortazar nell’ultimo mese.
Alla ricerca di un’epica contemporanea, chiedendosi se in questo nuovo millennio esiste un nuovo Omero, individuale o collettivo che sia, i giovani componenti di Respirale sono arrivati a una narrazione, una rappresentazione che è in realtà una confessione della propria fragilità e delle proprie ansie di Millennials, i nati nel ventennio che va dal 1980 alla fine degli anni Novanta, che hanno attraversato il cambio di millennio convinti di esserne i nuovi eroi, pensando che ogni cosa fosse alla loro portata.
Ecco allora che l’Iliade, già di per sé ‘social’ come ogni mito e ogni narrazione orale trasmessi di generazione in generazione, diventa una battaglia navale 2.0, un gioco di ruolo on-line dove Achille e Paride sono i due profili scelti dai giocatori, con tanto di nickname e dichiarazione di social status. Gli eserciti schierati, pronti a confrontarsi presso le mura di Ilio sono “una generazione di fenomeni mobile (da leggersi all’inglese, naturalmente)”, tutti in scintillanti “armature recensite su Amazon”. A godersi “i duelli in streaming”, a guidare il gioco, allo stesso tempo algida dominatrice e fragile vittima, una Elena dai vertiginosi tacchi a spillo.
Poi cambio di scena, tre individui si muovono incerti come pedine su una scacchiera, affollando le orecchie del pubblico con i propri “io”, inconsapevoli l’uno dell’altro, per mancanza di capacità o volontà di conoscere e riconoscere le ragioni, i desideri, i sogni dell’altro: “sono qui”, “non ti vedo”.
Il mare della battaglia navale è diventato l’oceano di possibili scelte a disposizione dei Millenials nel quale è facile affogare se non si hanno gli strumenti adatti per la navigazione: esiste un’unica rotta da seguire, oppure ognuno deve tracciarsi la propria? In queste acque fanno capolino gli scogli di un’eterna formazione e di un lavoro che non è più strumento di emancipazione e le sirene che fanno impazzire “uomini e donne, laureati, formati, specializzati” nell’attesa di quella fama che non si raggiunge più – per fortuna – sui campi di battaglia a colpi di spada, ma dallo schermo a colpi di pixel e likes. Infine due minotauri contemporanei usano il filo di Arianna non per liberare, ma per ghermire e omologare: superata la soglia dell’homo videns, a che punto siamo ora?

Indovinato l’uso delle citazioni, in un intelligente mix di epica, pop e sottile provocazione. Ingegnoso uso delle luci e degli effetti sonori che tra teatro delle ombre e lampi pulsanti materializzano le inquietudini dei protagonisti e (forse) anche del pubblico.

VIDEOCONFERENZA
Biancoazzurro è il colore che amo: la Spal ieri, oggi e domani

“Biancoazzurro è il colore che amo: la Spal ieri, oggi e domani”: Mauro Malaguti del Resto del Carlino, Andrea Tebaldi della Nuova Ferrara, Alessandro Sovrani di Telestense e Costantino Felisatti dello Spallino, introdotti e interpellati da Sergio Gessi, direttore di Ferraraitalia, hanno riferito ricordi e pareri nel corso dell’ultima conferenza stagionale del ciclo “Chiavi di lettura, opinioni a confronto sull’attualità” organizzato da Ferraraitalia. Protagoniste nella sala Agnelli della biblioteca Ariostea, attraverso le voci dei cronisti sportivi e del pubblico, sono state le emozioni legate alle imprese della compagine biancoazzurra che, a compimento di due campionati entusiasmanti, ha ritrovato la serie A dopo 49 anni di attesa.

Qui il video integrale della conferenza

L’ultima nota, lutto per l’improvvisa scomparsa di Willliam Molducci critico musicale e cinematografico

La scorsa settimana aveva scritto, come d’uso, un suo articolo per il settimanale di Ferraraitalia. L’intervista a una giovane cantante, Amelie. Nessuno poteva immaginare che quello sarebbe stato il suo ultimo scritto. William Molducci, giornalista, ci ha lasciati la notte scorsa mentre era in vacanza in Croazia, a seguito di un fatale malore. Musica e cinema erano le sue due grandi passioni, come cineasta ha ricevuto anche alcuni prestigiosi premi. La terribile notizia ci ha raggiunto questa mattina. Tutta la redazione di Ferraraitalia, sconvolta, partecipa al dolore dei familiari e rivolge al carissimo William un pensiero carico di affetto e di rimpianto.

Lo ricordiamo ai lettori con la rassegna dei suoi 120 articoli pubblicati sul nostro giornale [clic qua per leggere]