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La tariffa puntuale: le realtà di Ro e Formignana

Il grande obiettivo di Clara è fornire un servizio economicamente compatibile, realizzando anche un tariffa personalizzata, che tenga conto del consumo effettivo, sulla base del principio, da tutti citato e da pochi perseguito, del “chi inquina paga”. Per questo dopo aver parlato di tariffa puntuale e dei suoi principi generali, vediamo cosa sta facendo Clara per il sistema tariffario.

Nell’estate del 2015 è partita nei comuni pilota di Formignana e Ro (3.200 utenze in totale) la sperimentazione di un sistema di tariffazione puntuale, durante la quale un lavoro determinante è stato svolto in termini di comunicazione e contatto con i cittadini e con le aziende. La sperimentazione è stata preceduta, infatti, da una serie di incontri pubblici e da visite informative capillari a tutte le utenze, concomitanti alla consegna dei contenitori appositi, dotati di microchip e associati alla specifica utenza.
Scopo della sperimentazione, che è durata un anno e mezzo, è stato quello di valutare in che misura i cittadini usano i servizi offerti, in modo da costruire una tariffa proporzionata al ‘consumo’ di ogni utenza, razionalizzando nel contempo le frequenze di raccolta e i relativi costi. Questa razionalizzazione aveva mostrato i propri effetti già nei Piani Finanziari dei due Comuni, che per il 2017 hanno visto una riduzione dei costi, rispetto al 2013, del 13,11% per Formignana e del 16,16% per Ro.
Alla fine del 2016 l’azienda ha inviato a tutte le utenze coinvolte una prima lettera informativa contenente le novità riguardanti le frequenze di raccolta, l’utilizzo corretto dei contenitori e i costi unitari precisi dei servizi misurati. Dal 1° gennaio 2017 il nuovo sistema, che Clara ha denominato ‘Tariffa su Misura’, è regolarmente applicato: anche questa nuova fase è stata accompagnata da un ciclo di incontri pubblici nei due capoluoghi e nelle frazioni e da un dépliant informativo completo di tutte le tariffe aggiornate spedito all’indirizzo di famiglie e imprese (LEGGI).

La Tariffa su misura di Clara è costituita da una parte fissa e da una parte variabile, quest’ultima calcolata in base alle scelte e ai comportamenti di ogni utenza. La parte variabile si basa in particolare sul volume di rifiuto non riciclabile (misurato in base al numero di svuotamenti del bidone grigio), del rifiuto umido (bidone marrone), sull’eventuale utilizzo del servizio porta a porta per sfalci d’erba e ramaglie (per il quale, se richiesto, si paga un abbonamento annuale), e sull’eventuale utilizzo dei ritiri su chiamata a domicilio.
I dati delle prime due fatturazioni, riferite al ‘consumo’ dei primi due quadrimestri, mostrano dati molto incoraggianti: il 70% circa delle utenze domestiche di Ro e Formignana ha visto una riduzione delle proprie bollette rispetto agli stessi periodi dell’anno precedente. Inoltre, rispetto al 2016 si rileva in questi due Comuni una riduzione tra il 27 e il 28% del rifiuto indifferenziato raccolto, che per il primo semestre di quest’anno si è attestato su una media di circa 60 Kg pro capite: un dato che ha effetti significativi anche in termini di minori costi di smaltimento all’inceneritore.

Dopo Ro e Formignana, per i prossimi anni è programmato il passaggio alla Tariffa su Misura in tutti i Comuni dell’Alto e del Basso Ferrarese per un totale di circa 200.000 abitanti. Il passaggio alla Tariffa su Misura permette di scegliere i servizi che servono davvero, di pagare in base ai servizi effettivamente utilizzati, avere un territorio più pulito e aiutare Clara a diventare più efficiente. Si tratta in definitiva di approfondire la conoscenza per ottenere equità e qualità grazie a una maggiore responsabilità e sostenibilità.

LA MOSTRA
Un secolo di arte a Ferrara nella collezione di Assicoop

Un pezzo di storia dell’arte ferrarese del secolo scorso quella che ha messo insieme Assicoop con la collaborazione di Legacoop Estense in una collezione di oltre una ventina di opere, ora finalmente visibili in una mostra aperta a tutti a Ferrara con ingresso libero nelle sale di Palazzo Muzzarelli Crema.
La rassegna ‘Situazioni d’arte – Artisti ferraresi tra ’800 e ’900’ riesce a dare una sintesi dei tanti elementi che compongono la ricerca di quegli anni tormentati e vorticosi, quando i pittori ferraresi esprimono la loro creatività captando le innovazioni e le tendenze, riprendono e stravolgono i canoni dell’arte traducendoli in uno stile personale, che ciascuno esplora e sviluppa in maniera propria: c’è il verismo di sapore familiare e tradizionale dei ritratti di Alberto Pisa e di Arnaldo Ferraguti e l’inquietudine sensuale tratteggiata da una pennellata divisionista nelle tele di Giovan Battista Crema. Come quella che mette in scena nelle ‘Danzatrici’, spettacolare per i colori e i contrasti di luci e ombre che irrompono nei suoi tre metri di larghezza.

Le opere di Ferraguti e Pisa nellla prima sala della mostra
Il presidente di Legacoop estense Andrea Benini davanti alla tela di Crema
L’autoritratto di Roberto Melli a Palazzo Crema

Oltre alle diversità stilistiche, la mostra mette uno accanto all’altro autori di ideologia e posizioni contrapposte nella società dell’epoca. Ecco allora la compattezza delle figure di sapore classico e imponente di un’artista pienamente integrato all’interno del regime fascista come Achille Funi e la malinconia così moderna e quasi monocroma dell’autoritratto e delle periferie così poco auliche che dipinge Roberto Melli, artista di origine ebraica escluso dalla vita pubblica in seguito alla promulgazione delle leggi razziali.

Ritratto di Achille Funi dell’amico e pittore Mario Tozzi nella locandina di Situazioni d’arte, Ferrara 2017

Dopo i ritratti divisi per autore, che alternano mitologia e realtà quotidiana nelle prime tre sale, la mostra si conclude con una carrellata di paesaggi realizzati da autori diversi. A mostrare la propria visione del mondo si alternano gli acquerelli con scorci cittadini da Grand Tour firmati da Alberto Pisa, che illustra corso Ercole d’Este e piazza Ariostea come cartoline che immortalano un viaggio nella storia del Rinascimento, e i pezzi di periferia anonima che raccontano l’ordinarietà del quotidiano negli oli su tela di Roberto Melli. Una giovanile e poetica ‘Campagna ferrarese’ mostra i primi passi di Filippo De Pisis alle prese con la realtà in una maniera già intimista, ma non corrosa e stenografica, ancora lontana da quel disfacimento che poi caratterizzerà le tele successive, famose per il tratto volutamente approssimativo delle macchie veloci che tratteggiano i soggetti nelle sue opere più note.

La mostra d’arte promossa da Assicoop con Legacoop Estense ha il patrocinio del Comune di Ferrara e si avvale della collaborazione delle Gallerie civiche d’arte moderna e contemporanea: 25 le opere esposte, 14 delle quali vengono dalla collezione Assicoop e 11 dalle Gallerie civiche. Un insieme normalmente poco fruibile – ha spiegato Lorenza Roversi, curatrice della mostra insieme con Luciano Rivi – “perché di collezione privata e perché i quadri di proprietà pubblica da tempo si trovano nei depositi a causa della chiusura di Palazzo Massari”, dove sono in corso i restauri dopo i danni causati dal terremoto. Assicoop ha poi contribuito al recupero conservativo delle tre ‘Danzatrici’ in una collaborazione mirata a far conoscere alla città il patrimonio culturale e artistico locale.

La curatrice Lorenza Roversi a Palazzo Crema, Ferrara, novembre 2017

“Le opere – spiega il presidente di Legacoop Estense Andrea Benini – fanno parte di una collezione di artisti ferraresi che abbiamo iniziato a mettere insieme dal 2012, da quando Legacoop è entrata a far parte di Assicoop Modena&Ferrara UnipolSai Assicurazioni. E questa è la prima volta che una parte della raccolta viene mostrata. Le acquisizioni continuano e la più recente riguarda alcuni disegni di Mentessi. La volontà è quella di esporre le opere facendo una mostra ogni anno da qui al 2019, scegliendo di volta in volta contenitori diversi, in modo da valorizzare anche spazi meno conosciuti ma assolutamente interessanti da vedere, come è appunto Palazzo Crema”.

La curatrice fa poi notare che gli ambienti che ospitano “Situazioni d’arte” sono doppiamente centrati e significativi. “A Palazzo Crema – dice Lorenza Roversi – ha abitato ed è cresciuto uno degli artisti di cui sono esposti i lavori. Giovan Battista Crema era infatti il figlio della famiglia di avvocati proprietaria dell’edificio. Una famiglia appassionata delle arti, tanto che negli anni Venti del Novecento gli stessi spazi dove sono ora in mostra le opere erano sede della Galleria d’arte moderna di Ferrara. Galleria privata, istituita dalla società Benvenuto Tisi, che tra il 1921 e 1924 qui ospita rassegne di alcuni dei pittori ora di nuovo protagonisti del percorso espositivo messo insieme da Assicoop con il contributo delle gallerie comunali”.

“Situazioni d’arte”, presentazione della mostra: Millo Pacchioni, Andrea Benini, Massimo Maisto, Lorenza Roversi, Luciano Rivi

Un ritorno alle origini nel segno dell’amore per l’arte e del mecenatismo che ha sottolineato anche l’assessore comunale alla Cultura e vicesindaco Massimo Maisto lodando “l’apporto concertato di tutti gli attori presenti, perché una città è compiutamente d’arte e di cultura solo se le istituzioni pubbliche e i soggetti privati introiettano convintamente questa vocazione e compartecipano al suo conseguimento”.

Clicca qui per leggere la presentazione della mostra sulla pagina di Legacoop.

‘Situazioni d’arte – Artisti ferraresi tra ’800 e ’900’ è visitabile a Palazzo Muzzarelli Crema, via Cairoli 13, Ferrara. Da sabato 18 novembre al 17 dicembre 2017, aperta dal giovedì alla domenica ore 15-19, sabato e festivi anche ore 10-15. Ingresso libero.

Leggi anche
A Palazzo Muzzarelli Crema le ‘Situazioni d’arte’ di Assicoop e Gallerie d’arte moderna di Ferrara

LA CITTA’ DELLA CONOSCENZA
Il lungo divorzio di scuola e lavoro

Che dire, il rapporto dell’Ocse anche quest’anno è impietoso. I dati ci danno in crescita, ma la palla al piede del Paese è di quelle da cui è assai difficile liberarsi, se non cambia radicalmente il sistema della formazione. Le nostre scuole mancano della cultura del lavoro e le nostre imprese, in generale, scontano un grave ritardo nell’innovazione e nella formazione.
Le imprese a gestione familiare, in Italia, rappresentano più dell’85% del totale, e circa il 70% dell’occupazione del paese, ma i loro manager spesso non hanno le competenze necessarie per adottare e gestire tecnologie nuove e complesse, tanto che il serpente si morde la coda.
Per non parlare del quasi assoluto disinteresse per le competenze da parte del pubblico, denunciato dalla commissione parlamentare per l’innovazione e la digitalizzazione delle pubbliche amministrazioni. Dematerializzazione, efficienza dei processi, industria 4.0, sicurezza, smart city richiedono competenze specifiche e un’altrettanta specifica formazione.
Il World Economic Forum di Davos ha confermato che le cinque competenze più richieste dal mercato del lavoro nel 2020 saranno: problem-solving complesso, pensiero critico, creatività, gestione delle persone e capacità di coordinarsi con altri.

Siamo nel terzo millennio, ma le nostre scuole sono sempre le stesse, quelle dell’istruzione di massa ispirata a un modello di fabbrica del secolo scorso. Al leggere, scrivere e far di conto semmai si è aggiunto qualcosa d’altro, tipo il coding, ma nella sostanza le liturgie sono quelle del passato, qualcuno ne ha il rimpianto perché non funzionano più, soprattutto perché non esistono più i luoghi in cui abbiano una ricaduta, un’utilità, dalla famiglia alla fabbrica, fatta eccezione forse per la scuola stessa.
Mi riferisco al curricolo occulto della scuola pubblica di massa: la formazione alla puntualità, all’obbedienza, alle attività meccaniche ripetitive. Un’istruzione di massa che doveva fornire alla fabbrica, non tanto competenze professionali particolari, ma persone che arrivassero in orario, specialmente gli addetti alle catene di montaggio, che prendessero ordini dal superiore gerarchico senza discutere, pronte a lavorare alle macchine o negli uffici nello svolgimento di operazioni ripetitive.
Il problema è che la scuola di massa è rimasta in mezzo al guado e al vecchio curricolo implicito non ha saputo sostituirne uno nuovo in linea con un mercato del lavoro mutato, di conseguenza nel nostro paese il divorzio tra lavoro e formazione si è consumato da tempo.
Oltre al curricolo occulto, per l’Ocse non funziona più neppure il curricolo palese. Il 38% di adulti italiani ha scarse competenze nel leggere, nello scrivere e in matematica, per i lavoratori la percentuale è di poco inferiore al 34%. Dietro di noi si piazzano solo il Cile e la Turchia. I lavoratori italiani sono penultimi nell’impiego delle competenze contabili e di marketing, così come nelle competenze Stem (scienze-tecnologia-ingegneria e matematica) e nella capacità di auto-organizzarsi, terzultimi nell’utilizzo delle capacità di gestione e comunicazione.
La situazione degli studenti non è migliore: restano sotto la media Ocse nelle competenze scolastiche. Il 36% dei nostri giovani diplomati ha capacità matematiche inferiori al livello due, cioè ai livelli minimi di una scala che va da uno a sei. Siamo un paese in ritardo sull’educazione permanente e la popolazione adulta fa registrare un basso tasso di partecipazione alle attività di formazione.

Ci siamo scordati che la formazione permanente è essenziale per lo sviluppo della cittadinanza, la coesione sociale e l’occupazione, stiamo perdendo terreno rispetto alle nazioni concorrenti, sembra che non sia assolutamente diffusa la consapevolezza della situazione risultante da tutti i dati riportati, inoltre manca una strategia che sarebbe cruciale per il nostro futuro.
Il foro economico mondiale di Davos ha ribadito il ruolo fondamentale e crescente che la formazione sta avendo nella rivoluzione industriale 4.0 e nella situazione specifica di ciascun paese. La formazione è dunque la leva fondamentale per la riqualificazione e lo sviluppo delle competenze strategiche, sono le persone con i loro comportamenti e le loro competenze che possono far vincere o far perdere le sfide decisive. Il capitale umano e il capitale intellettuale sono i nuovi indicatori di prosperità delle nazioni. La fondamentale gara mondiale per l’apprendimento richiede consapevolezza e strategie di lungo periodo.
Dovremmo riflettere seriamente sulle ragioni delle proteste di questi mesi degli studenti contro i progetti di alternanza scuola-lavoro. Non sembrano proteste né contro la scuola né contro il lavoro in quanto tali, ma rispetto a una scuola e a esperienze di lavoro che sono fuori tempo massimo. Da un lato una scuola che non sa fornire ai giovani le competenze che saranno a loro necessarie domani, dall’altro un mondo del lavoro, nella maggioranza dei casi, talmente arretrato che quelle competenze, se anche ci fossero, non saprebbe neppure come utilizzarle.
Investire in politiche formative a sostegno dei processi di apprendimento è l’unica giusta strategia per garantire condizioni favorevoli allo sviluppo economico del paese.

‘Nero Gad’: il nuovo libro condanna di Marcello Pulidori

Sabato pomeriggio alla libreria Feltrinelli di via Garibaldi, Marcello Pulidori ha presentato il suo nuovo libro ‘Nero Gad’. Redattore della Nuova Ferrara, scrittore, giornalista professionista dal 1995, si è occupato soprattutto di inchieste tra le quali il delitto Manservisi e il caso Palaspecchi. Queste informazioni sono scritte nel retro copertina del libro che ho acquistato prontamente per leggerlo.

Presentato dal suo editore, Faust edizioni, ha raccontato per più di un’ora ai molti presenti delle sue investigazioni nella zona “Giardino Arianuova Doro”, quella che oggi è conosciuta più come il luogo del degrado di Ferrara. Quella che un tempo, ha aggiunto Pulidori, “era un’isola felice dove la delinquenza non aveva ancora messo le mani”. Molti gli esempi negativi, dalle “merde sui pianerottoli dei grattacieli” all’aver fatto diventare questo posto la più grande piazza di spaccio a cielo aperto di Ferrara. Le descrizioni sono state dettagliate, sfiorando anche lo splatter quando si è parlato di efferati omicidi compiuti a colpi di macete. La colpa in gran parte è stata attribuita all’enorme flusso migratorio e alle autorità politiche le quali dicono, secondo i relatori intervenuti, che i problemi della zona dei giardini siano causati da una “distorta visione soggettiva della realtà”.

Aggressioni, scippi, rapine, ferimenti, prostituzione” sono state le parole più usate nel corso di tutta la conferenza, causate dagli immigrati presenti in quelle vie e che solo l’intervento dell’esercito e delle forze dell’ordine stanno portando a un ridimensionamento, come anche la vigilanza armata all’interno dei grattacieli. Inutile sarebbe sottolineare quali siano stati gli accorati appelli lanciati dagli oratori. E il pubblico in gran parte ha sempre annuito, confermando le parole dello scrittore. Nessuna autorità politica è intervenuta al dibattito, come nessuno dei rappresentanti delle etnie accusate per gran parte del tempo era presente. Posso anche aggiungere, avendo sfogliato il libro, che di esempi che facciano vedere una possibile luce in quel quartiere ce ne sono davvero pochi.

A questo punto non aggiungerò ulteriori riflessioni, non una parola su quello che ho osservato sabato. Il caso Gad è chiuso, il quartiere condannato. Aspettiamo, dopo l’esercito, i bombardieri, e che si ponga fine a questa inutile sofferenza e si riparta da zero.

Alcuni momenti della presentazione negli scatti di Valerio Pazzi. Clicca sulle immagini per ingrandirle

La scelta
Un racconto di Carla Sautto Malfatto per la “Giornata Mondiale Onu delle Vittime della Strada”

di Carla Sautto Malfatto

La luce schietta di ottobre, fuori dalla finestra chiusa, stampa lunghe strisce abbaglianti sulle tendine. Sono disteso sul letto, a casa, l’arto operato bloccato in un tutore, dolorante.
Quando mi accadde l’incidente, mi sembrò di piombare improvvisamente in un limbo. Ero lucido, riverso sull’asfalto, il ginocchio e la gamba frantumati da un’auto. O meglio, dalla colpevole disattenzione di un conducente d’auto, che parlava al telefonino e guardava dappertutto, tranne davanti a sé. Sulle strisce pedonali, rannicchiato sul fianco, era un osservare da dentro e da fuori il mio corpo. Solo un elastico mi impediva di sgusciare del tutto all’esterno. Intorno, la concitazione degli animi e l’assembramento di civili, automezzi e forze dell’ordine che fanno seguito ad un investimento stradale. Ed io, a sorprendermi a pensare: non sta succedendo a me.
Anche l’attimo prima dell’impatto ebbi una strana sensazione: che il tempo rallentasse. Ricordo gli occhi del guidatore, all’ultimo, allargati a palla. Ricordo i miei, a gridargli, muto: – Frena!
Frenò, in un tempo dilatato, lunghissimo, fotogrammi di una pellicola che a fatica avanzavano, sostando, inceppandosi.
Ecco. Mentre l’auto si avvicinava, avvertii che era un film già girato, prodotto e concluso. Per quell’attimo – una frazione di secondo – mi vidi protagonista delle sequenze, proiettato sullo schermo, assistere alla mia vita, in un tempo fuori dal tempo, senza tempo, che proseguiva – sulle strisce pedonali, oltre il marciapiede, giù per il corso – non ben definita, ma proseguiva. E mi rasserenai, non ebbi paura. Nonostante il muso del veicolo avanzasse inesorabile, millimetro dopo millimetro, e lo osservassi schiantarsi devastante contro di me – e quasi sperai che si affrettasse, perché mettesse presto fine a quell’impasse.
Lo so: non era la mia ora. Facile, dirlo dopo. Ascoltare i soccorritori, la polizia, i parenti, enumerare le più funeste possibilità, per rincuorarmi. Avrei voluto dire loro: non ce n’è bisogno. Ciò che “non poteva” succedere, lo sapevo già. La questione era che “non doveva” succedere. Io, la mia scelta corretta, l’avevo compiuta: prima di attraversare a piedi sulle strisce, mi ero accertato che non sopraggiungesse alcun veicolo. Il problema era chi, con la sua scelta sbagliata, aveva interferito nella mia esistenza – cambiandola, rovinandola. Per questo, quando scorsi l’auto puntarmi come un birillo, nell’attesa dell’impatto, nel momento dello scontro, nella frantumazione delle ossa e dei legamenti, mentre venivo sbalzato a terra e mi racchiudevo in un bozzolo urlando, con il cervello che mi esplodeva nel cranio, non avevo provato alcuna paura. Solo una incommensurabile incazzatura per quell’individuo che non aveva fatto nulla per evitare quell’impatto, cambiare il copione, quella fase del film, quella scena.
Qualcuno – uno dei soliti, dalla parte del responsabile – potrebbe obiettare che anche per lui era una parte scritta, inevitabile.
No, vi dico. Di quella scena – mentre sbucava dalla curva – erano state impresse diverse pellicole. In una, il conducente guidava attento e si fermava per tempo; in un’altra, mi evitava con una manovra spericolata; in un’altra ancora, mi faceva volare sul cofano; in un’altra, mi passava sopra e mi ammazzava… Era lui, la chiave di svolta. Lui, a scegliere, in quel momento cosa fare della “mia” esistenza. Questione di una “sua” scelta.
Se avesse pagato lui, per la sua decisione sbagliata, non avrei avuto nulla da eccepire. Se avesse guidato prudente e fosse successo comunque l’incidente, potrei capirlo. Posso accettare, di malavoglia, gli insulti del tempo sul mio corpo, le malattie, le catastrofi e gli eventi naturali. Ma l’ingerenza negativa, per consapevole superficialità o intenzionalità, di un essere umano nella mia vita, non l’accetto.
E quel giorno – in quella via, io a terra – ebbi la prova di ciò che fino ad allora avevo solo intuito. Su uno sfondo sfumato di vegetazione, edifici e automezzi, vidi persone collegate tra loro da miriadi di lacci, di catene, che si intersecavano, si sovrapponevano e, ad ogni istante, corde che si slegavano e si riannodavano ad altri individui, in un modificarsi repentino di schemi, ricomponendo nuovi intrecci, congiunzioni, combinazioni, possibilità, sempre diversi.
No, nessuna allucinazione. Mai percepito, prima di compiere una scelta, che fosse quella giusta o quella sbagliata? Mai perseverato in una decisione inopportuna, pur sapendo che vi sareste poi pentiti? Mai avuto la previsione di quello che sarebbe accaduto? Mai ritenuto, come casuale, il concatenarsi di eventi che erano invece frutto di precedenti decisioni?
Se solo sapeste dei fili che ci legano, se solo comprendeste quanto siamo responsabili gli uni verso gli altri, se solo capiste quanto il destino, per quel che ci compete, sia materia duttile nelle nostre mani… e che una volta compiuta una scelta, presa una decisione, non si torna più indietro, non è più come prima – nessuno, è più come prima…
Ma perché sto dicendo queste cose? Lo sanno tutti, no?
E allora spiegatemi perché ora sono qui, con la mia vita stravolta da chi queste cose “le sapeva”, con una gamba che non è più la mia, con un dolore di cui nessuno mi risarcirà, con giorni persi che nessuno mi restituirà, e, insieme alla mia, con l’esistenza di chi mi sta accanto e mi accudisce, sconvolta. E dovendo valutare che, sì, “in fondo” mi è andata bene, che poteva andare peggio…
Fatemi un piacere. Se volete giocare con la sorte, “che tanto, per una volta, cosa vuoi che succeda”, assicuratevi di essere i soli a pagare per i vostri sbagli. Ma credetemi: ci sarà comunque qualcuno che piangerà per la vostra idiozia.

(Carla Sautto Malfatto – tutti i diritti riservati)

E’ la stampa bellezza. No è la letteratura

Sogghigni, arroganza, violenza fulminea, un volto gonfio e tumefatto ripreso in primo piano, un manganello impugnato e maneggiato con un’abilità che fa pensare a grande dimestichezza: ecco le immagini dei fatti di Ostia in cui vittima, aggressore e circostanze rappresentano chiaramente le difficoltà del giornalismo nel trovare diritto e libertà di informazione.
Fotogrammi che creano l’ennesimo dibattito dai toni scandalizzati e raccapricciati, sollevano interrogativi e considerazioni nel confronto politico, nei salotti buoni dei talk show, nei commenti al bar sotto casa, tra chi se ne sta in poltrona a guardare la tv. Sembra quasi che ogni episodio dagli effetti analoghi, e gli episodi non sono più sporadici, sia una novità assoluta per il cittadino che assiste esterrefatto, un’amara scoperta che di volta in volta lo fa risvegliare e riflettere per il tempo che trova su questa ondata ormai crescente di bestialità, di autentica barbarie. Non può essere che l’unica risposta a domande, indagini, ricerca di informazione e verità sfoci nel sangue, come se non esistesse il legittimo diritto di replica. Forse dovremmo essere tutti un po’ più consapevoli che mai come ora la libertà di stampa nel mondo è minacciata, spesso brutalmente negata.

Secondo la classifica annuale di Reporters sans Frontières, il World Press Freedom Index, che ordina ed elenca le nazioni in base al grado di libertà d’espressione nell’informazione, nel 2017 il nostro Paese ha guadagnato qualche posto rispetto il 2016, balzando dalla 77esima alla 52esima posizione, esattamente dopo il Botswana, il Tonga, l’Argentina e la Papua Nuova Guinea. Perfino il Burkina Faso può vantare un 42esimo posto di tutto rispetto, e non verrebbe certamente da pensare a questi Stati come un esempio di democrazia e modello di libera comunicazione. Significativo, ma non sorprendente, che nei primi in classifica ci siano proprio i Paesi del Nord Europa: Norvegia, Svezia, Finlandia, Danimarca e Paesi Bassi. Agli ultimi posti la Cina, la Siria, il Turkmenistan, l’Eritrea, la Corea del Nord. Sono 21 i Paesi classificati come “neri”, nei quali la situazione è molto grave: fra questi il Burundi, l’Egitto, il Bahrein, tanto per citare qualche nome. Qualcuno potrà sollevare qualche obiezione e qualche dubbio sui risultati finali, ma i dati di riferimento provengono da questionari tradotti in 20 lingue distribuiti in tutto il mondo, che indagano sui temi importanti come il pluralismo, l’indipendenza dei media, contesto e autocensura, legislatura, trasparenza, infrastrutture e abusivi.

Che ci piaccia o no, l’Italia è al 52esimo scalino, una posizione scomoda che sottende come non ci si sia emancipati da un certo tipo di pressione e coercizione, se non di intimidazione, minaccia e violenza che proviene da molti e diffusi ambienti di sapore malavitoso. Siamo molto lontani dall’immagine leggera, affascinante, guascone e quasi romantica, a volte divertente, altre bohemien del giornalista, che troviamo nella letteratura passata e di tempi più vicini, anche se alcune pagine lasciano capire come esista ancora una forte relazione tra il giornalismo descritto dai romanzieri e l’attualità.

‘Bel Ami’ è il famoso romanzo di Guy de Maupassant (1885) che ci racconta di George Duroy, un giovane ambizioso che da povero militare in congedo inizia la sua inarrestabile ascesa sociale. La bellezza, la capacità seduttiva, il cinismo e la volontà di uscire dalla miseria costituiscono le forti caratteristiche che gli permetteranno di fare molta strada attraverso la manipolazione di numerose persone incontrate sul cammino, soprattutto donne ricche e potenti. Da ex militare e poi impiegato delle Ferrovie Nord, grazie all’incontro con un vecchio commilitone, caporedattore politico presso ‘La Vie Française’, George diventa giornalista, brillante frequentatore di salotti e maschio di successo. Prostitute, donne libere e sposate, modeste e di potere, sono le figure che popolano la sua vita, in una società parigina nella quale il rapporto ‘dietro le quinte’ tra stampa, politica e affari è un legame di interdipendenza evidente. Un romanzo realista di un’attualità spiazzante, dove il sesso è potere e la celebrità un’ossessione.
Lo scrittore britannico Evelyn Waugh ci offre un’altra immagine di giornalismo nel suo romanzo ‘L’inviato speciale’ (1938): John Boot, brillante scrittore, viene scelto da un quotidiano famoso per andare in Africa come inviato speciale e raccontare la crisi politica nel piccolo stato dal nome fantasioso Ismaelia. In seguito a uno strano scambio di persona, al suo posto viene inviato sul luogo William Boot, giornalista di provincia incapace e svogliato. A Ismaelia non accade nulla e così ha inizio tra i molti giornalisti provenienti da tutto il mondo una folle caccia allo scoop, una vera e propria gara a chi le spara più grosse su fatti inesistenti. L’ozioso William rischia il licenziamento proprio perché, nella sua inettitudine, non è in grado di scrivere nulla. Per puro caso egli scopre che realmente è in atto un colpo di Stato nella totale segretezza e improvvisamente diventa eroe involontario e grottesco, finendo in prima pagina.
Nel romanzo autobiografico di Hunter Stockton Thompson, ‘Le cronache del rum’, scritto negli anni Sessanta ma pubblicato solo nel 1998, si racconta del giovane giornalista freelance Paul Kemp, squattrinato, alcolizzato e perennemente alla ricerca di una propria strada. E’ il 1959 e il giovane si trasferisce in Porto Rico, dove inizia a scrivere in un modesto giornale locale, il ‘The San Juan Star’, sempre sull’orlo della chiusura. Travolto da alcol ed eccessi di ogni genere, si innamora di una donna sposata, la bellissima Chenault, che porterà scompiglio ulteriore nella sua vita. Il giovane cronista vuole scrivere un servizio sul degrado e la miseria di San Juan, ma gli è impedito con forza perché risulterebbe dannoso al mercato del turismo. Alcol, droghe allucinogene, curanderos, battaglie di galli, loschi affari e bavaglio alle verità scomode, avventurieri, mafiosi in fuga, giocatori e sgualdrine a caccia di miliardari fanno da sottofondo alla storia di Paul. “Allora non era difficile trovare dei compagni di sbronza. Non duravano molto ma continuavano ad arrivare. Li chiamavo giornalisti randagi perché non esiste termine più appropriato.” Alla fine, il giovane si lascerà tutto alle spalle e tornerà a New York per ricominciare a scrivere liberamente in una stabilità mai conosciuta prima.
‘Igiene dell’assassino’ (1992) è il romanzo di Amélie Nothomb dalla struttura del tutto particolare, fatta di interviste o tentativi di interviste all’autore immaginario Prétextat Tach, Premio Nobel per la Letteratura. Cinque giornalisti tentano di strappargli un’intervista prima che la malattia, un cancro che gli riserva solo un paio di mesi di vita, lo porti via. Tach è un misantropo, capace di mettere in difficoltà chiunque gli si avvicini, un solitario ostinato immerso nella sua cattiveria, di un’intelligenza feroce che mira a umiliare le sue vittime fino all’annichilimento. E’ grasso, si ciba di cibo putrido e la sua trascuratezza è sgradevole. L’intervista riesce solo all’unica giornalista del gruppetto, che compirà l’impossibile arrivando a scavare a fondo nel passato dell’uomo fino a fargliene rivelare l’aspetto torbido che credeva ormai dimenticato da tutti. L’uomo si trasformerà da carnefice in vittima nel momento in cui la giornalista riuscirà a scalfire la sua ferrea logica facendolo vacillare.

Una stampa al servizio del potere, una stampa libera di raccontare ed esprimere, una stampa opportunista e affabulatrice, una stampa coerente e onesta, ecco le immagini che raggiungono il lettore attraverso racconti e romanzi in cui il giornalista è il mezzo attraverso il quale la realtà viene spiegata nella sua verità o stravolta nella manipolazione. Anche se George Orwell, con toni critici ebbe a dire: “Se la libertà di stampa significa qualcosa, significa il diritto di dire alla gente ciò che non vuole sentirsi dire”.

Il Pil cresce… ma non per tutti

Nel terzo trimestre 2017 il Pil cresce dello 0.5 per cento portandosi a 1,8 per cento su base annua (1,5 per cento acquisito). Il Governo esulta e i partiti che lo sostengono, con particolare riferimento al Pd e a Renzi, rivendicano la bontà delle riforme da loro volute che, dicono, stanno sostenendo la crescita della nostra economia.

Robert Kennedy, ex-senatore statunitense ed ex candidato alla presidenza, nonché fratello di John Fitzgerald Kennedy (trentacinquesimo presidente degli Usa), a proposito del Pil disse nel 1968:

Con troppa insistenza e troppo a lungo, sembra che abbiamo rinunciato alla eccellenza personale e ai valori della comunità, in favore del mero accumulo di beni terreni. Il nostro Pil ha superato 800 miliardi di dollari l’anno, ma quel Pil – se giudichiamo gli Usa in base ad esso – comprende anche l’inquinamento dell’aria, la pubblicità per le sigarette e le ambulanze per sgombrare le nostre autostrade dalle carneficine dei fine settimana. Il Pil mette nel conto le serrature speciali per le nostre porte di casa e le prigioni per coloro che cercano di forzarle. Comprende il fucile di Whitman e il coltello di Speck, ed i programmi televisivi che esaltano la violenza al fine di vendere giocattoli ai nostri bambini. Cresce con la produzione di napalm, missili e testate nucleari e non fa che aumentare quando sulle loro ceneri si ricostruiscono i bassifondi popolari. Comprende le auto blindate della polizia per fronteggiare le rivolte urbane. Il Pil non tiene conto della salute delle nostre famiglie, della qualità della loro educazione o della gioia dei loro momenti di svago. Non comprende la bellezza della nostra poesia, la solidità dei valori famigliari o l’intelligenza del nostro dibattere. Il Pil non misura né la nostra arguzia, né il nostro coraggio, né la nostra saggezza, né la nostra conoscenza, né la nostra compassione, né la devozione al nostro Paese. Misura tutto, in poche parole, eccetto ciò che rende la vita veramente degna di essere vissuta. Può dirci tutto sull’America ma non se possiamo essere orgogliosi di essere americani“.

Sicuramente uno dei discorsi politici più belli della storia, al pari, forse, di quello sul debito che verrà pronunciato da Thomas Sankarà qualche anno dopo. Oltre ai bei discorsi, in comune tra i due: la morte violenta e prematura. A dimostrazione, forse, che le parole possono anche essere pericolose se pronunciate da uomini in grado di far seguire i fatti.

Kennedy ricordava che ai suoi tempi il Pil misurava anche la produzione di armi e questo purtroppo non è cambiato, anzi. Nel 2016 abbiamo esportato 14,6 miliardi di euro in armi (raddoppiando quanto fatto l’anno precedente), cioè abbiamo esportato miliardi di probabilità di nuove guerre e distruzioni e, nel caso dei 427,5 milioni di euro in armi vendute all’Arabia Saudita, non più probabilità ma certezza, visto che i sauditi continuano a bombardare indiscriminatamente lo Yemen senza troppe distinzioni tra obiettivi militari e civili.
Non so dire se questo genere di crescita sia giusta, a ognuno le sue considerazioni. Personalmente mi piacerebbe che la crescita tenesse conto delle questioni morali, dei principi etici, del rispetto della natura, dell’ambiente e delle persone. In ogni caso, tralasciando il come una Nazione cresce, e anche per essere più pragmatici, andiamo a capire quando la crescita del Pil dovrebbe interessarci.
Per essere efficace e comprensibile la crescita del Pil dovrebbe trasformarsi in qualcosa di percepibile per tutti, quindi  dovremmo averne più benessere, stare meglio rispetto a quando il Pil cresceva qualche punto percentuale in meno. Le persone, infatti, percepiscono il miglioramento non se cambiano le percentuali in tv ma se aumentano i posti di lavoro, se l’istruzione è alla portata di tutti e diventa, insieme alla buona volontà, la misura dell’ascensore sociale, se la sanità è a misura di malato e le pensioni a misura di decenza.

Cosa succede nel mondo reale dove non arriva la psicologia della crescita del Pil?
Per quanto riguarda il lavoro, ci viene detto che il jobs act ha creato centinaia di migliaia di posti di lavoro (Fassino ha detto un milione). Sembra però evidente che i nuovi posti di lavoro hanno meno tutele, salari più bassi e creati con incentivi a carico della comunità presente e futura e che, inoltre, gli effetti ‘benefici’ stiano calando a seguito del calo degli incentivi. Niente di strutturale, quindi. Soprattutto, la disoccupazione resta stabile sopra l’11 per cento e addirittura nel nuovo Def (Documento di Economia e Finanza) si prevede di avere la disoccupazione ancora al 10,2 per cento nel 2019.
Sempre Fassino, e sempre in merito al lavoro, ha detto: flessibilità ma non precarietà. Una frase che ricorda molto l’austerità espansiva di memoria montiana, insomma un ossimoro alla stregua di ‘ghiaccio bollente’ o anche di ‘lucida follia’.
Per l’istruzione è interessante dare un’occhiata al lavoro di Save the Children (leggi QUI) che dimostra, con un bel po’ di dati, che la disuguaglianza sta aumentando sempre di più. Tra nord e sud, tra ricchi e poveri, tra chi può permettersi di tenere i figli a scuola e chi fa i conti con il nuovo libro di testo da comprare. Addirittura una buona fetta dei nostri giovani ha difficoltà a leggere (non ho sbagliato, a leggere).
Per la sanità cominciano a sentirsi lamentele e si diffondono dati sul costo delle malattie croniche e questo non fa ben sperare per il futuro. Quando si comincia a parlare di costi in determinati settori si spiana la strada per future ‘riforme strutturali’. Intanto le persone che non si curano per motivi economici sono passati dall’8 al 12 per cento, i ticket si pagano così come i “contributi” sui farmaci, le attese per le visite specialistiche sono sempre ben lunghe, segno che i medici sono pochi e i mezzi centellinati. Esiste poi una chiara discrepanza nelle prestazioni disponibili tra nord, centro e sud che confermano oltretutto l’incapacità politica di gestire la cosa pubblica in maniera uguale per tutti i cittadini.
Per le pensioni, la Fornero e le buste arancioni di Boeri parlano da sé. La prima ci ha detto che andremo in pensione molto più tardi (e secondo gli ultimi dati siamo già quelli che a livello europeo ci restano di meno), mentre il secondo ci ha detto che le pensioni future saranno molto più basse di quelle odierne. In realtà il messaggio subliminale di Boeri è prepararci alla privatizzazione dell’Inps, causa teleguidato default, e nel frattempo indirizzarci a qualche assicurazione privata.

È chiaro che privatizzazioni selvagge, mance e bugie elettorali sono state il pane sia di destra sia di sinistra negli ultimi trent’anni. Quello che risulta inaccettabile è che dopo la caduta del muro di Berlino e le inchieste di Mani Pulite la sinistra ha avuto le ‘Mani Libere’ e il potere di cambiare le cose, di fare quello che la gente si aspettava facessero le forze di sinistra: fare in modo che continuassero le vittorie dei sindacati, degli operai e un miglioramento delle condizioni lavorative in generale.
Invece è diventata il campione dei diritti negati, ha promosso le privatizzazioni, il mercato libero, la concorrenza selvaggia, le leggi a favore della precarizzazione e ha contribuito ampiamente a realizzare un’Italia divisa sempre più tra ricchi e poveri e che si avvia a scoprire addirittura una divisione tra chi legge bene e chi a fatica. Un’Italia disuguale tanto quanto il resto del mondo e in particolare quanto gli Usa di cui, dopo Veltroni (o forse prima?), il Pd si sente estensione europea. Non gli Usa del folle Trump certo, ma quelli della democratica Clinton e di quello che rappresenta: deregolamentazione, liberismo applicato anche alla finanza, globalizzazione senza tutele, apertura ai mercati coadiuvati dal mercato più truce, quello della moneta, dei soldi e dei derivati.
La sinistra avrebbe dovuto occuparsi di più dell’assistenza agli anziani, della sanità, delle pensioni dignitose e conseguite in tempo utile perché potessero essere godute e meno di Marchionne, degli utili dell’ex Fiat e dei finanzieri a caccia di interessi sui debiti pubblici. Avrebbe dovuto preoccuparsi del lavoro e della dignità sul lavoro, di dare più diritti e meno di livellare la società al basso insieme ai salari.
Ma per fare tutto questo avrebbe dovuto essere davvero di sinistra. Sinceramente si fa fatica ad immaginarsi questa classe dirigente del Pd e delle forze alleate come ‘gente di sinistra’, capace di comprendere quanto la popolazione faccia fatica a districarsi con la famosa quarta settimana. Il loro interessamento a temi quali lo ius soli rimarca tutta la distanza con le persone che dicono di voler rappresentare, dimostra l’incapacità di capire la differenza tra globalizzazione e difesa dei lavoratori, di essere sano intermediario tra dignità di questi e diritto alla libera circolazione.
Matasse di interessi intricate come l’Ilva dimostrano l’incapacità di comprendere che qualsiasi battaglia va fatta con idee condivise (da governanti e popolo, non da Renzi e Bersani), con i programmi a lunga scadenza, con i piani industriali e il controllo della politica sull’economia.

Bisognerebbe poi archiviare il populismo sull’Europa e andarsi a leggere ciò che viene scritto per esempio nei Def, dove è previsto che solo per il 2017 e per i programmi europei paghiamo 58,2 miliardi di euro (leggi QUI). Poi ci sono almeno altri 13 miliardi per l’Unione Europea e dei quali ne tornerà in progetti solo una parte (leggi QUI) a testimonianza che non esistono i fondi europei, ma solo soldi versati dall’Italia che ritornano per una quota parte.
Non spendiamo per gli italiani, rinunciamo a pensioni e salari decenti, a ricostruire le nostre città dopo i terremoti, o magari prima, a sostenere le famiglie in nome dell’ossimoro ‘austerità espansiva’, ma diamo ad altri soldi che non abbiamo, alimentando povertà, disuguaglianza e contrasto sociale (sfruttando anche il fenomeno migratorio) in nome di un progetto di unione monetaria che non ha mai lasciato spazio ad un’unione dei popoli e dei valori.
Ma se non ci crediamo noi a questa crescita del Pil ci crederà l’Europa, visto che la paghiamo profumatamente? Sembra proprio di no e ce lo dice attraverso il monito del vice presidente della Commissione europea Katainen: “proprio dai numeri si vede che la situazione in Italia non cambia” e aggiunge “l’unica cosa che posso dire a nome mio è che tutti gli italiani dovrebbero sapere qual è la vera situazione economica in Italia”.
Beh, tranquillo Commissario. Forse non lo sappiamo con i numeri come lo sa Lei, ma di sicuro ce ne rendiamo conto.
Quindi la questione è: se il Pil davvero cresce e nessuno se ne accorge, per chi o cosa cresce?

BORDO PAGINA
Andrea Rossi: intervista allo storico ferrarese controculturale doc

Ha appena edito “Dieci anni Cento libri. 2006-2016: un decennio di Orientamenti Storici” per la prestigiosa e specializzata D’Ettoris Editori: un lavoro critico politicamente, storicamente e culturalmente scorretto (e non è certamente il primo): al passo con certa storiografia internazionale ancora indigesta nelle città rosse italiche (ad esempio Ferrara) arroccate nel fu Novecento. Ecco un’intervista di approfondimento allo storico ferrarese Andrea Rossi.

Andrea Rossi, un nuovo testo storico metofologico anche e controculturale, esatto?
“Dieci anni Cento libri” è un libro di uno storico dedicato a tutti quelli che cercano letture fuori dal mainstream accademico. ci sono cento recensioni di ricerche uscite negli ultimi dieci anni, che hanno contribuito a spostare avanti il dibattito storiografico, arenato da decenni su stereotipi marxisti. È un libro per tutti gli appassionati di storia del xx secolo che si vogliono avvicinare senza pregiudizi a temi spesso considerati “tabú”: i fascismi europei, la Repubblica Sociale, le stragi del dopoguerra italiano.

Andrea Rossi, in precedenza “Il Gladio Spezzato”, un retro approfondimento?
Il “Gladio Spezzato”, la storia dell’ultima settimana di guerra dei fascisti senza mussolini, è parte di un lavoro piú ampio che sará probabilmente intitolato “la fine di tutto” dedicato alla fine dei collaborazionismi europei occidentali e orientali nel corso della prima settimana di maggio del 1945. Altra ricerca che porterá alla luce storie sorprendenti.

Andrea Rossi, Ferrara, che succede nella città d’arte e dell’Unesco ma negli ultimi anni in degrado multietnico?
Ferrara è un Giano bifronte, i cui due volti ormai faticano a restare uniti assieme. La cittá del degrado è la cittá della cultura, e viceversa, in una torsione socio politica che ormai rischia di spezzare i legami civili fra i cittadini. La vicenda dei “droidi della spazzatura” rifiutati in massa dai ferraresi, è illuminante in merito.

Andrea Rossi, la cultura a Ferrara, libera o ancora ideologica?
Il minculpop dell’Arci ormai segna il passo, e anche negli assessorati si procede a tentoni. Frutto di mancata programmazione unita al disprezzo ideologico per tutto ciò che non è cresciuto sotto l’ala protettrice delle associazioni dell’ex partitone. Purtroppo per tutti.

Andrea Rossi è nato nel 1967 a Ferrara dove vive. È dottore di ricerca in storia militare e cultore della materia presso l’Università di Ferrara. Ha redatto numerosi saggi sulle forze armate della Rsi e sull’occupazione tedesca in Italia pubblicati su riviste scientifiche e in opere collettanee. Fra i suoi volumi: Fascisti toscani nella Repubblica di Salò (2000) e Le guerre delle camicie nere (2004). Per la D’Ettoris Editori ha pubblicato nel 2015 Il gladio spezzato.

Info
https://www.dettoriseditori.it/bookstore/libri/148/dicei-anni-cento-libri
https://www.youtube.com/watch?v=HXD9z32Pbv0

La tariffa su misura: un grande obiettivo di Clara

A livello nazionale permane un preoccupante ritardo nell’applicazione del passaggio alla tariffa puntuale.
La modernizzazione del settore si ottiene con l’adozione di sistemi economici di gestione integrata, e l’integrazione richiede condivisione, partecipazione e soprattutto determinazione. In questa logica diventa importante la corretta applicazione di equilibrati strumenti tariffari.
L’applicazione della Tariffa porta sicuri miglioramenti: dalla valorizzazione di un corretto sistema economico alla comprensione dettagliata dei costi, al controllo della gestione del settore e soprattutto garantisce una maggiore equità di contribuzione per i cittadini. Il passaggio a tariffa puntuale risponde infatti a tre princìpi di base che si possono riassumere in:

  1. sostenibilità ambientale (perché si auspica la crescita di comportamenti virtuosi),
  2. sostenibilità economica (e dunque l’equilibrio reale tra entrate e costi del servizio),
  3. equità contributiva (pagare per un servizio reale ed effettivamente erogato).

Nell’aprile 2017 è stato pubblicato il Decreto del Ministero dell’Ambiente ‘Criteri per la realizzazione da parte dei comuni di sistemi di misurazione puntuale della quantità di rifiuti conferiti al servizio pubblico o di sistemi di gestione caratterizzati dall’utilizzo di correttivi ai criteri di ripartizione del costo del servizio, finalizzati ad attuare un effettivo modello di tariffa commisurata al servizio reso a copertura integrale dei costi relativi al servizio di gestione dei rifiuti urbani e dei rifiuti assimilati’.
Il principio di riferimento è un sistema di tariffazione puntuale (Payt, pay as you throw) che si basa su due principi guida delle politiche europee:

• chi inquina paga (polluter pay principle, Ppp);
• la responsabilità condivisa (shared responsibility).

La tariffa puntuale infatti garantisce la trasparenza, permette un’equa distribuzione dei costi tra gli utenti, incrementa la separazione dei materiali riciclabili e soprattutto favorisce un comportamento virtuoso. La metodologia tariffaria si articola nelle seguenti fasi fondamentali: individuazione e classificazione dei costi del servizio; suddivisione dei costi tra fissi e variabili; ripartizione dei costi fissi e variabili in quote imputabili alle utenze domestiche e alle utenze non domestiche; calcolo delle voci tariffarie, fisse e variabili, da attribuire alle singole categorie di utenza, in base alle formule e ai coefficienti indicati dal metodo.
Anche per Clara la missione è applicare la tariffa puntuale (o ‘su misura’, definizione coniata proprio dall’azienda) su tutti i Comuni soci. Ora è già operativa a Ro e Formignana, ma il metodo si diffonderà gradualmente su tutto il territorio.
L’obiettivo è creare un sistema economico che abbia una tariffa che per almeno la metà sia composta da costi varabili e dunque direttamente proporzionali al “consumo”, con un obiettivo di medio termine che è quello di ottimizzare i costi e ottenere dei benefici economici per i cittadini.
La struttura operativa del sistema tariffario si basa dunque su tre comparti: una parte fondamentale relativa al costo del servizio (e dunque pagato sulla base del reale utilizzo); una parte di costi aggiuntivi (legata al livello di qualità richiesto da ogni singolo Comune) e una parte di costi impiantistici richiesti dal sistema territoriale (a partire dalla bonifica delle discariche esaurite).
Nel tempo sarà importante aver un confronto analitico di quanto si spendeva e di quanto si spenderà rispetto ai miglioramenti ottenuti e i risparmi economici raggiunti.

Un tema fondamentale sarà quello di trattare le realtà non domestiche (artigianali, commerciali e industriali) come veri clienti a cui sia riconosciuto un corrispettivo competitivo e di qualità superiore.
I principi di applicazione di un metodo tariffario normalizzato si sviluppano sui seguenti punti:

  • recuperare metodologie e analisi oggettive che raggiungano l’obiettivo di un necessario raffronto economico e valutazioni di equità di giudizio tariffario;
  • costi del servizio chiari e correttamente imputati;
  • obblighi di copertura: l’obiettivo è quello della copertura integrale del costo;
  • trasparenza nella ripartizione dei costi ed in particolare delle quote fisse e variabili;
  • chiarezza nella ripartizione dei costi fra le macrocategorie (utenze domestiche e non domestiche) e fra le singole categorie stesse associandola alle produzioni presunte tramite studi di settore specifici; maggiori sistemi di controllo dell’evasione ed elusione;
  • la conoscenza della composizione merceologica dei rifiuti (vedi Ka e Kc) è alla base della valutazione dei sistemi di gestione, così come importante è la quantificazione della produzione e dai relativi indicatori (coefficienti Kb e Kd );
  • necessità di concertazione nella fase di realizzazione dei regolamenti comunali; esigenza di rendere il più possibile omogenei i regolamenti e di concertazione per ricercare soluzioni applicative condivise (analisi delle esclusioni, esenzioni, riduzioni, univoca interpretazione della superficie tassabile;
  • criteri di assimilazione omogenei su tutto il territorio in attesa di normative applicative di riferimento; l’accordo volontario è lo strumento per regolare quanto non in privativa;
  • incentivi: la componente variabile della tariffa dovrebbe già di per sé rappresentare un criterio di incentivazione-impegno alla riduzione della produzione dei rifiuti;
  • esclusioni: connesse alle specifiche politiche sociali adottate dal singolo Comune che nelle sue determinazioni si sostituisce al soggetto nel pagamento della tariffa in modo da non confondere il principio del chi inquina paga con gli opportuni calmieratori sociali.

Saluto di commiato del Prefetto Tortora

Da Prefettura di Ferrara

Come già annunciato, sono stato trasferito a Vercelli e dopo quasi quattro anni di lavoro a Ferrara lunedì prossimo comincerò una nuova avventura nella città piemontese.
Sono stati anni belli e intensi quelli trascorsi a Ferrara. Anni impegnativi, non privi di momenti critici e difficili, eppure anni meravigliosi che mi hanno dato l’opportunità di fare un’esperienza professionale e di vita per molti aspetti unica.
Non sta a me dare giudizi sul mio operato.
Posso solo dire che ce l’ho messa tutta e sono consapevole di aver fatto sempre il mio dovere, anche nelle circostanze più difficili.
La linea che ho seguito è stata sempre quella della condivisione, nella convinzione che i problemi – anche quelli di sicurezza e ordine pubblico – possono trovare soluzione solo attraverso uno sforzo comune, che riguarda le istituzioni nel loro insieme, ma anche i corpi sociali intermedi e anche i singoli cittadini.
Ho sempre operato in questa direzione, con una particolare attenzione al mantenimento della coesione sociale contro ogni spinta disgregatrice, contro quella marea montante caratterizzata da odio e rancore contro tutti e contro tutto.
Devo ringraziare tutti coloro che mi sono stati vicino e mi hanno aiutato in questo percorso, soprattutto i vertice delle Forze dell’ordine, le istituzioni locali, tutto il mio staff ed anche i tanti cittadini che mi hanno sostenuto ed incoraggiato.
Credo che Ferrara abbia tutte le risorse per avere un futuro roseo: nel corso del mio mandato ho conosciuto tante persone – tanti volontari – che, lontano dai riflettori, operano per il bene comune. E’ un vero e proprio esercito, un esercito del bene, che lavora in silenzio rispondendo ai bisogni della comunità. Grazie a queste persone si può confidare nella tenuta del tessuto sociale malgrado le difficoltà quotidiane.
A loro, in particolare, va il mio ringraziamento.
Un caro abbraccio a tutti i ferraresi, con i migliori auguri di buona fortuna

Quelli che… ci rimane sempre il calcio balilla

di Roberta Trucco

“L’idea che i bambini italiani non possano vedere la loro Nazionale è una grande ingiustizia”. Partiamo da qui, da questa frase pronunciata da Gigi Buffon e riportata poi da Walter Veltroni nell’intervista a ‘La stampa’. Il dramma è proprio qui: parlare di ingiustizia quando, invece, può essere tutto tranne che ingiusto. E’ triste, è un peccato, forse: quante emozioni si legano alla visione della propria nazionale che compete nei mondiali! Non è però un’ingiustizia se, come è avvenuto, l’eliminazione dal campionato mondiale è dovuta al fatto di avere perso le eliminatorie. Ecco questo mi colpisce: che uomini maschi intelligenti e preparati usino a sproposito le parole.

Ho amato il calcio quando ero giovane, ricordo bene Tardelli, Rossi, Bettega etc. Ricordo di avere scritto tutte le telecronache del mondiale del 1978 con la mia vecchia macchina da scrivere; mi ero persino messa la sveglia alle due di notte per assistere alla storica partita Italia-Argentina, avevo 12 anni e certo non sapevo allora del terribile clima in cui si svolsero quei mondiali e la tragedia che stava vivendo quel paese. Il calcio maschile mi divertiva e mi esaltava.
Poi però ha iniziato a invadere ogni ambito della vita di tutti i giorni, ha iniziato a occupare intere pagine di giornale, interi palinsesti nella tv, trasmissioni alla radio. Abbiamo iniziato a sentire ogni sorta di ragionamento su una palla, sul fatto che rotola – ma và? – su come la si poteva far rotolare meglio, sugli angoli possibili, sui piedi di uno piuttosto che di un altro. Abbiamo visto gonfiarsi in modo spaventoso gli stipendi e il giro di affari che ruotano intorno a questo sport.
Gli atleti sono diventati eroi, e vada per gli eroi, ma sono diventati super eroi, con tanto di alucce quando compivano qualche exploit ginnico. Abbiamo visto sparire il concetto di squadra, per fare spazio solo ad alcuni nomi che sono diventati molto di più che fuori classe, che ci sono sempre stati, ma sono diventati degli Highlander. Abbiamo visto uomini della politica, imprenditori, uomini di potere acquistare squadre di calcio per assicurarsi un’immagine da grandi strateghi: perché si sa se sai riconoscere e comprare buoni giocatori allora saprai governare ogni cosa nel migliore dei modi!

Il calcio è diventato lo specchio di ciò che accade nel mondo, della terribile e inaccettabile diseguaglianza che regna nella nostra società! È la perfetta metafora di quanto ha dimostrato uno studio della Oxfam: “L’1% della popolazione detiene la ricchezza del 99% della popolazione mondiale”. Ebbene questa forbice nella diseguaglianza non è tollerabile e questo sì che non è giusto! Dunque diciamo ai nostri bambini che hanno diritto a sentirsi un po’ tristi se a questi mondiali non vedranno la loro adorata nazionale, ma non è un dramma né tanto meno un’ingiustizia. Gli highlander non esistono, esistono gli uomini e le donne con i loro successi e i loro fallimenti. Da ogni fallimento si può e si deve ripartire, è un’occasione per ripensarsi e per ripensare questo nostro mondo.
Lo vogliamo migliore e per renderlo migliore se c’è bisogno di stare fermi un giro va benissimo così!

LA CITTA’ DELLA CONOSCENZA
Una città da sfogliare

Ormai leggiamo i libri con accanto il personal computer o lo smartphone per approfondire immediatamente, attraverso la ricerca in rete, riferimenti, richiami e scoprire i luoghi evocati. Sono soprattutto le città con le loro strade teatro di avvenimenti che animano le narrazioni, dal quartiere ebraico di Praga reso famoso da Kafka alla Londra di Dickens avvolta dalla caligine che domina la città. Ma c’è una strada, in particolare, rimasta impressa nell’immaginario della nostra infanzia: la via Pal di Budapest, che non è un’invenzione letteraria di Ferenc Molnár. Esiste veramente, assieme a Via Práter dove si trova la scuola che veniva frequentata dai ragazzi e, ora, cinque di loro stanno lì, sul marciapiede di fronte, immortalati nel bronzo in una scena vivissima di un verismo eccezionale.
L’uso dello spazio come memoria non solo di personaggi e avvenimenti, ma memoria di pagine letterarie, di citazioni. Le nostre città rivivono nei racconti, perché non conservare nel ricordo queste apparizioni, queste comparse, questi sguardi?
È l’idea che suggerisce la mappa delle citazioni, della città narrata nell’altrove letterario, è la ‘Mappa letteraria di Milano‘, progetto interattivo dell’associazione Quarto Paesaggio e sviluppato su uno strumento semplice e noto a tutti come Google Maps, verrà presentata ufficialmente al BookCity, nel capoluogo lombardo, dal 16 al 19 novembre. La mappa ormai vanta 700 citazioni e il coinvolgimento della gente impegnata a segnalare opere e autori, righe estrapolate dalle pagine della letteratura di tutti i tempi.
L’etnologo di Marc Augè lascia il metrò per risalire in superficie, non più la memoria di generali e battaglie affidata alle stazioni sotterranee del metrò parigino, ma la vita di sopra, oltre il mondo ctonio, che si dilata nelle pagine dei libri.
A Milano l’hanno pensata per Google Maps, così però si ha un’app che per ogni via è un archivio di citazioni non molto differente da una mini biblioteca in rete: luoghi e citazioni fuori dal contesto. Un uso erudito, ma poco urbano, potremmo dire.
Meglio sarebbe se l’idea prendesse concretamente corpo nel tessuto urbano della città. Ritrovare quelle citazioni nei luoghi e nelle strade da cui sono nate, restituire ai luoghi lo sguardo dell’immaginario che hanno ispirato, consentire a chi vi passa di rivivere quel sentire letterario, di percepirne nell’ambiente concreto le emozioni, le sensazioni o di inseguirne con la mente i suggerimenti. Aggiungere al panorama della città il panorama inaspettatamente aperto da una citazione. Dovremmo pensare ad un’architettura urbana della citazione, ad un arredo urbano della citazione o a un uso smart della citazione capace di integrarsi nei luoghi e far rivivere le suggestioni dei loro autori.
Sfogliare la città, girarne le pagine come un libro. Le pagine sono le sue vie, le sue strade, le sue piazze, vicoli, luoghi e cantoni. Strade che si prestano a formare le pagine di un parco letterario da sfogliare camminando, assaggi di libri che possono incuriosire, invogliare a recuperare le trame di quelle citazioni, un modo per rendere famigliari le opere e la loro lettura.
L’abitudine a vivere in un contesto di cultura e di conoscenze. Non solo vie intestate alla memoria dei grandi da ricordare e semmai da emulare, ma strade, piazze, luoghi capaci di trasmettere le emozioni che hanno prodotto in altri, capaci di parlare al pensiero, all’immaginazione e non solo alla memoria, non solo al ritenere ma anche all’agire.
Un accorgimento per mettere in moto il sapere, per esporre il nostro patrimonio di cultura e di arte, non solo quello conservato dai musei e dalle biblioteche, ma anche quello che ai musei e alle biblioteche può condurre, può sospingere.
Non solo la letteratura è ricca di citazioni che coinvolgono i luoghi delle nostre città, ma anche il cinema e la pittura. Quante citazioni delle nostre città sono recuperabili nella produzione cinematografica e pittorica. Perché lasciarle alla dimenticanza, all’oblio, perché lasciarle alla nostra coazione a bruciare memorie, immagini e sequenze, a fermare mai l’istantanea.
Cambierebbe il paesaggio urbano se le nostre strade, le nostre vie, le nostre piazze diventassero anche i luoghi dove trovare riproposte le citazioni letterarie, cinematografiche e pittoriche a cui hanno dato luogo, che hanno ispirato. I prodotti della creatività umana ci sarebbero più famigliari, farebbero parte del nostro paesaggio quotidiano, renderebbero meno anonima la nostra esistenza, e ci abituerebbero fin da piccoli, con innegabili vantaggi, ad abitare i prodotti della cultura, della conoscenza, del sapere e della ricerca umana. Ci abituerebbero a vivere l’apprendimento non come un evento ma come una piacevole consuetudine.
Potremmo incominciare anche noi a costruire per la nostra città la mappa delle citazioni, annotandole di volta in volta, si può anche iniziare con Google Maps per non perderne memoria, ma avendo di vista come progetto di mutare il nostro paesaggio urbano dando ad esso un senso che non sia solo della commemorazione sulla targa di una via.
Potrebbe cambiare il nostro modo di abitare in luoghi che nella maggioranza dei casi sono tali solo perché ci si è domiciliati e ci si transita, luoghi spesso senza storia che si sono guadagnati la ribalta della storia nei prodotti artistici di cui è capace l’uomo. Dimensioni che restano sulla carta, nelle parole, nelle sequenze di un film, nel pennello di un pittore, lontane dai luoghi della loro origine dove potrebbero costituire la scenografia capace di dare significato a un modo più umano di stare insieme e di abitare.

in copertina elaborazione grafica di Carlo Tassi

DIARIO IN PUBBLICO
Umani e animali: a voi l’ardua sentenza

Al di là del colpo di testa che il noto signore ha inferto al giornalista Rai, l’attenzione del popolo si sposta al solito su quella che il Sommo Poeta chiama “l’inguinaia”, cioè la zona che “dalla cintola in giù” interessa al popolo (?) italiano. Ormai anche una piccolissima frase di commento non va recepita se non è siglata da c….o oppure dalle sue appendici dette comunemente c….i. I ‘vaffa’ si sprecano e il buco posteriore è oggetto di complicatissimi traffici. Insomma i manganelli metaforici diventano l’arma del comando e non a caso nelle orride foto che documentano il pestaggio ostiense è proprio il manganello l’arma più terribile che insegue, frantuma, colpisce chi ormai ha già il naso rotto.

Ma cominciamo dall’alto. Come è a tutti noto Ferrara vanta una produzione di frutta straordinaria tra cui eccelle la pera. Ecco allora che la frase “At ciocch ‘na pera” non consiste nel gesto gentile di offrire un frutto, ma di mollare un cazzotto o ancor meglio una capocciata. Potenza della lingua che prevede e invera.
Al di là delle metafore e dei paralleli, in questo terribile momento che sta vivendo l’Occidente – ma non solo – il termine violenza si coniuga nelle più diverse accezioni. Si va da quella reale a quella verbale, a cui ci hanno abituato da tempo personaggi noti, politici o no. Le cosiddette ‘risse’ televisive o mediatiche fanno audience e determinano il comportamento sociale e individuale. Così come ormai alzare il dito medio è diventato scambio di saluto (una volta si faceva ‘ciao’ ‘ciao’ con la manina); perfino il gesto dell’ombrello immortalato dal grandissimo Alberto Sordi che lo indirizzava ai lavoratori è rifiutato perfino dai bimbi settenni, che lo trovano poco efficace. Così, nonostante la difficilissima scalata alla parità che le donne conducono ormai da un secolo e nella quale sembra – molto sembra – abbiano l’aiuto dei maschi avveduti e senzienti, il termine di paragone viene esplicitato dal ‘popolo’ come contrasto irrisolto tra pene e vagina. Di fronte agli abusi e ai femminicidi di giovani o non giovani donne sempre più il sussurro si fa grido e si conclude con un soddisfatto: “se l’è voluta”. Così come, assistendo alla trasmissione televisiva di Piazza Pulita, nel ‘dibbattito’ m’impressionavano non tanto le dichiarazioni terrificanti del leader di casa Pound di Ostia sulla vicenda del giornalista picchiato, quanto gli entusiastici battimani del pubblico che sottolineavano le sue più tremende dichiarazioni: veramente “da paura!”

Così ci avviamo alle elezioni nazionali e tra un anno e mezzo anche a quelle comunali. E il coraggio di testimoniare l’appartenenza e la scelta vien sempre meno quando si sente e si vede come crollano miti e persone. Nell’assistere alla puntata di ‘Fratelli di Crozza’ di venerdì 10 ci si rende conto a quale livello si è giunti. Dall’imponente rappresentazione dell’Aida con Radames-Berlu, all’impagabile De Luca, alla new entry Minniti, fino al classico Razzi, la compagine politica si è sciolta sotto i colpi inferti dalla satira come neve al sole. E sempre più ci si domanda: chi votare? Non c’entra nulla la disposizione ereditaria (sono di sinistra e non lo rinnego) ma qual è oggi la sinistra? Si può ancora mettere da parte i fatti e rivolgersi alle idee o in modo misurato anche alle ideologie?
Per fortuna nel panorama politico non tutto è da rifiutare. Penso a una figura come Emma Bonino, al suo radicalismo positivo, al modo e alla dignità con cui ha affrontato il cancro, al suo spendersi per i rifiutati.

E nel mio campo? Tra gli splendidi libri che ci regala la cultura ebraica, con i modesti risultati degli europei, con la mancanza di novità sostanziali di quelli italiani, mi sono imbattuto in un libro corrosivo che ho presentato alla Feltrinelli di Ferrara: ‘Pets. Come gli animali domestici hanno invaso le nostre case e i nostri cuori’, di Guido Guerzoni (Feltrinelli, 2017).
L’autore, come si esplicita nel risvolto di copertina, è un manager culturale che ora dirige il progetto del Museo M9 a Mestre, insegna alla Bocconi e già da tempo lo conoscevo in quanto spesso era di casa all’Istituto di Studi Rinascimentali. Il libro, rigorosissimo, basti vedere l’apparato delle note, vuol dimostrare con ironia e leggerezza la trasformazione del pet da animale di casa ad appendice della nostra vita sostituendo l’infanzia umana con quella animale. La straordinaria invenzione di Guerzoni consiste nel fatto che, mentre gli animali conquistano il loro ruolo umano, quest’ultimo si perde nella virtualità della tecnologia, assumendo il ruolo di avatar di sé stesso. Grandioso. Guerzoni sostiene che tutti gli strepitosi esempi e i racconti sono rigorosamente veri. E questo, come asserisce il cane dell’autore, Pioppo – presente in libreria, un bretone che come sostiene il suo ‘papà’ è un cane di origine ferrarese amatissimo dagli Estensi – produce la progressiva animalizzazione dell’uomo, che a questo punto per forza assumerà gli aspetti primordiali della sua specie (a proposito di capocciate), mentre agli umani pets sarà concesso un comportamento straniante. Si veda l’ultima legge fiorentina che impone agli accompagnatori degli animali di girare con bottiglia d’acqua in modo da poter immediatamente lavare le pipì dei propri ‘bimbi’ per strada. Ma loro come potranno ricambiare? Così: “Non tirare, camminare al fianco, tenere il passo, controllare l’aggressività, non molestare i passanti, non correre in mezzo alla strada inseguendo la palla, non finire sotto le macchine, non fuggire nei centri commerciali, stare buoni in passeggino, non inveire contro gli ospiti, comportarsi urbanamente con i propri simili, stare composti a tavola, non implorare il cibo, non sbavare, non sputare le medicine, non fare i propri bisogni sul pavimento, farsi lavare i denti, sopportare bagni e docce, non vomitare in pulmann, chiedere educatamente di uscire, rimanere soli senza lamentarsi, non mordere a casaccio, non fare i capricci, non essere gelosi, esprimere misuratamente i propri sentimenti, non tirare i fili, non danneggiare poltrone e sofà, non ingoiare solidi pericolosi, non ingerire sostanze tossiche, non lasciare la stanza in disordine, non abbandonare i giocattoli in mezzo al corridoio, non voler dormire a tutti i costi nel lettone con mamma e papà…” (p. 91).

Questo forse gli umani avrebbero voluto dai loro figli e di queste speranze e aspettative caricano i loro pets. Così le ministre debbono far rispettare la legge che impone che fino ai 13/14 anni i figli umani debbono essere accompagnati a scuola e il loro comportamento saggio passerà per forza ai loro fratelli pets.

compensazioni

Rifiuti: prevenire e recuperare è meglio che buttare

La sfida del futuro che si apre sia sul piano economico sia sul piano sociale comporta per le imprese processi globali di innovazione non solo sui nodi strutturali (innovazione tecnologica, assetti societari, trasparenza economica etc.), ma anche sugli aspetti culturali.
La qualità dell’ambiente è un diritto fondamentale dei cittadini e dunque deve crescere la ricerca di miglioramento e gli obiettivi di base a cui tendere:

  • ricerca di efficacia ed efficienza dei servizi (verso la cultura del benessere);
  • sviluppo dell’informazione (rendere partecipi su qualità e sicurezza);
  • ricerca costante di collaborazione dei cittadini (impegno civile);
  • sviluppo di una corretta educazione ambientale (favorire la sostenibilità).

La cultura dei servizi di pubblica utilità, in sinergia fra cultura tecnologica e cultura sociale, gioca un ruolo determinante nel progettare e pianificare il percorso di ‘erogatori responsabili’ impegnati nella gestione ambientale e di impresa.
Bisogna dunque individuare come chiave strategica la prevenzione dei rifiuti anche attraverso la trasformazione degli stessi in risorsa, perché prevenire la loro produzione non è solo un’azione ecologica, ma anche un’azione in grado di far risparmiare danaro e creare posti di lavoro.

Il problema dei rifiuti non è solo globale, è prima di tutto un problema locale; per questo anche Clara si impegna ogni giorno con competenza, efficacia e puntualità per garantire servizi di raccolta funzionali e di alto livello, minimizzando nel contempo l’impatto ambientale dei rifiuti.
Qualche mese fa, in occasione dell’evento costitutivo della nuova società, oltre a illustrare il percorso di fusione e gli obiettivi della nuova società, è stato presentato il ‘Manifesto per la rinascita dei rifiuti’, “un documento che raccoglie i valori e i modelli di Clara condivisi anche da altre aziende che come noi vogliono contribuire a costruire una civiltà in grado di produrre meno rifiuti e trasformare in risorsa quelli che ci sono, attraverso un approccio innovativo alla raccolta differenziata”.
Cinque sono i punti del Manifesto, che ha come sottotitolo “Dal loro recupero nasce la sfida per una società più giusta e un ambiente più pulito”.

  1. Il recupero effettivo deve essere il nuovo obiettivo strategico; la percentuale di recupero è dunque l’indice più affidabile e significativo.
  2. Il metodo di lavoro che garantisce i più elevati livelli di recupero è il porta a porta, che raccogliendo casa per casa ogni genere di rifiuto in maniera differenziata è anche in grado di attivare più efficacemente i principi di responsabilità.
  3. Occorre che i cittadini e aziende che si comportano in modo virtuoso siano premiati con tariffe più basse, pagate in base a quanto effettivamente si getta (principio Pay-As-You-Throw)
  4. Occorre che il modello industriale della società di gestione dei rifiuti sia mirato specificatamente al servizio di raccolta su misura.
  5. L’applicazione di questo modello è rafforzato da un approccio che premi la virtù di interi territori in ambiti di media dimensione integrati e non solo le volontà di singoli Comuni.

Il sistema dei servizi pubblici locali, nonostante sia al centro dell’attenzione da molti anni sia sul piano delle riforme possibili sia sul suo ruolo, evidenzia ancora posizioni contrastanti. Manca una condivisione di politica industriale, di sviluppo sociale ed economico dei territori. Deve crescere la condivisione del servizio pubblico locale in una logica di trasparenza e di sviluppo della qualità.
In alcune regioni, sicuramente in Emilia Romagna, le concentrazioni di imprese, la politica industriale di miglioramento e la crescita dell’imprenditoria pubblica hanno prodotto crescita del valore, economie di scala ed efficienza economica.
Si ritiene debba crescere il confronto sul delicato e prioritario ruolo dell’impresa di servizi pubblici, un’impresa che deve operare economicamente perseguendo fini collettivi e risultati sociali e quindi non è rappresentabile solo dall’efficienza e dal profitto, ma deve essere valutata misurando il contributo che essa apporta al benessere della società.
Clara ritiene che insieme ai cittadini si possa costruire una civiltà al tempo stesso più prospera e più pulita. Che produca meno rifiuti e trasformi in risorsa quelli che ci sono. È il principio dell’economia circolare: ovvero superare il concetto che un prodotto alla fine della propria funzione debba essere gettato o bruciato. Quasi sempre, in realtà, può essere trasformato in qualcos’altro. In un ciclo continuo, senza sprechi. Come avviene in natura. Ogni giorno, con un approccio mirato al recupero dei rifiuti, Clara lavora per fare un salto di qualità verso un’economia del benessere sostenibile, che porti vantaggi all’ambiente e costi più equi per i cittadini.

La comunicazione ai tempi del web: la nuova generazione delle radio

Un mondo giovanile, un visione diversa della comunicazione portata avanti sia grazie alla tecnologia sia a causa delle esigenze legate al volere esprimere un’idea, un pensiero: è questo il mondo delle web radio.
Tutti, nella vita abbiamo avuto a che fare con una trasmissione solo vocale: la ‘vecchia’ radio fm ha accompagnato le attese dal parrucchiere, i viaggi in autostrada, le serate al bar o semplicemente una mattinata a casa. Purtroppo il mondo tra gli 87,5 e i 108 Mhz non solo è saturo, ma obbligherebbe chi vi si volesse avvicinare a un intrigata rete burocratica di licenze e, soprattutto, a dei costi davvero proibitivi. La risposta è proprio quella delle trasmissioni web. La filosofia è semplice: si parte dalle stesse esigenze che hanno fatto nascere le prime stazioni radio libere e cioè la voglia di esprimere, comunicare un contenuto. La scelta è la più variopinta: si va dalla musica ai contenuti più ‘impegnati’.

Un assaggio di questo universo è stato fornito dal Web Radio Festival, manifestazione arrivata al quarto anno e organizzata dal sito Radiospeaker.it. Al primo impatto sembra ci si trovi in una festa per radio fm, ma poi ci si accorge delle differenze: qui si è praticamente svincolati dai limiti della banda, l’universo creato da internet ha generato una miriade di possibilità di comunicare talmente sconfinate che sembra quasi ci sia un bisogno di regolamentazione. L’unico limite sembra essere quello della Siae, ma investigando si scopre anche che molte radio sul web non la pagano. Difficile anche controllare chi siano gli evasori: troppe per poter attuare un controllo capillare e troppi i sotterfugi per poter depistare le eventuali indagini. Quello che risulta chiaro comunque è il grande apporto tecnologico a un settore che fino a qualche anno fa sembrava appannaggio di speaker casalinghi: infatti aziende già affermate e altre nate con questo scopo offrono stazioni di broadcasting, corsi per diventare tecnico e ci sono realtà che formano professionisti sia nella conduzione sia nella gestione.

Anche Ferrara non è immune da questo fenomeno, la nostra città ha da poco visto la nascita della Web Radio Giardino, che trasmette dalla Factory Grisù. Web Radio Giardino è parte integrante di un progetto per la riqualificazione di un quartiere difficile come il Gad e vede al suo interno non solo già un panorama di programmi in espansione, ma anche un eterogenea provenienza geografico-culturale dei partecipanti, su tutti i livelli. E l’eco mediatico non si è fatto aspettare: dal Corriere della sera alla Rai.

Oramai quindi le web radio non sono più un qualcosa di amatoriale anche perché i ‘web ascoltatori’ stanno diventando sempre più esigenti e le capacità che prima si potevano trovare solo sulle radio ufficiali, ora si stanno trasferendo anche in questa sfera della radiofonia. Anche l’approccio dell’ascoltatore è totalmente cambiato: niente più radioline, niente antenne, nulla più a che fare con manopole e ricerche di stazioni. Ora è tutto in rete, online. Segnali puliti governati solo dalla capacità della banda, quasi dappertutto ultraveloce. Niente più orari fissi, ma tutto in poadcast, perché le generazioni odierne sono quelle del ‘quel che voglio, quando voglio’. Insomma il futuro sembra essere questo e anche i social si stanno trasformando e adattando a queste esigenze, basti pensare che in questi giorni Fiorello sta facendo una trasmissione ‘radio’ su facebook. Insomma un mondo, quello della fm, che sembra destinato a scomparire o comunque a non essere più lo stesso, visto che oramai anche tutte le stazioni che trasmettono su queste frequenze si sono dotate di dirette social, siti di streaming e poadcast per riascoltare le dirette. Certo anche qui non mancano i problemi dovuti proprio dall’altissimo numero di trasmissioni e di persone che fanno programmi e che quindi difficilmente riesce a ottenere delle sponsorizzazioni.
Ai nostalgici quindi non resta altro da fare che adattarsi e rinnovare il proprio bagaglio tecnico e la propria visione del mondo della comunicazione solo vocale, oramai anche la radio è web.

Da Ferrara a Roma per inseguire il sogno di diventare attori

Fabio e Pietro al Cpa di Ferrara

Da bambino Fabio voleva fare lo scienziato, il ricercatore oppure il medico, magari “l’inventore rivoluzionario”. Pietro, invece, sognava di diventare paleontologo.
Adesso Pietro Bovi e Fabio Baroni possono liberamente infilarsi nei panni di uno scienziato o di un paleontologo e di uno, nessuno, centomila altri personaggi. Dopo quattro anni di studio al Cpa – Centro preformazione attoriale – di Ferrara, i due giovani ferraresi ora hanno superato il provino alla scuola di recitazione TeatroAzione di Roma.
Pietro e Fabio sono stati scelti per frequentare la scuola privata di recitazione più importante di Roma, dopo il Centro sperimentale di Cinematografia e l’Accademia: aTeatroAzione si sono formati attori italiani come Elio Germano, Nicolas Vaporidis, Carolina Crescentini.
Pietro Bovi ha 19 anni, un diploma al liceo Ariosto e una passione per il montaggio cinematografico, il tennis, la poesia e la letteratura, la storia e la musica. Fabio Baroni ha un anno in più, un diploma al liceo Roiti, ama il calcio, la bicicletta, la musica e la lettura.
Ora vivono a Roma, sono colleghi, ‘compagni di scuola’, ma soprattutto amici per la pelle.
Ve li facciamo conoscere in un’intervista doppia, che racconta due ragazzi sorprendenti per la profondità della motivazione che li spinge, per sensibilità e simpatia. Chi li ha visti sul palcoscenico, poi, non ha potuto non applaudirne il talento.

Fabio Baroni

È Fabio a presentarci Pietro: “un grande amico conosciuto al Cpa e un grande attore da cui posso sempre prendere spunto e con cui riesco a lavorare in modo egregio, grazie alla forte sintonia che si è venuta a creare tra noi nel corso degli anni. Riusciamo a darci energia a vicenda e ci divertiamo molto insieme a scoprire Roma”.
Per Pietro “Fabio è un amico e un collega. Con lui ho condiviso quattro anni della mia formazione, i più importanti, al Cpa. Grazie al lavoro svolto a Ferrara, al legame che si è creato fra noi e alle soddisfazioni ottenute insieme, possiamo dire di essere uno la spalla dell’altro. Ci aiutiamo e collaboriamo in questa nuova avventura intrapresa insieme, proprio perché abbiamo vissuto assieme la nostra crescita come attori e come persone”.
Al Cpa di Ferrara – la scuola fondata dall’attore Stefano Muroni e diretta dal responsabile artistico Massimo Malucelli – Pietro ha incontrato “persone eccezionali, colleghi con cui ho condiviso una vocazione e un percorso indimenticabile; ho avuto l’opportunità di ricevere un’educazione indispensabile da professori preparatissimi, che sono diventati presto mentori e amici. Grazie a questa scuola ho partecipato alla mia prima esperienza lavorativa al Festival dei Quartieri dell’Arte, ho potuto frequentare corsi all’estero e condividere con ragazzi di altre nazionalità la passione che ci lega”. Anche Fabio al Cpa ha trovato “un gruppo fantastico con cui sono stato benissimo: si è venuta a creare un’amicizia forte che sussiste ancora. Ho conosciuto insegnanti bravissimi con i quali si è instaurato un rapporto di fiducia straordinario. E una rete di persone laboriose legate alla scuola che rappresentano per me un modello di impegno”.

Pietro Bovi

Facciamo un passo indietro: Pietro, dunque da piccolo voleva fare il paleontologo…
Quando avevo una mezza dozzina d’anni ricordo che mi piacevano così tanto i dinosauri da voler andare a estrarre i loro fossili dal terreno. Scoprire il mistero e portarlo alla luce. A 10 anni ho subìto la ‘folgorazione’ del palcoscenico. Ma fare l’attore è un po’ come fare il paleontologo…

Fabio e Pietro, quando avete scoperto la vostra passione per la recitazione?
Pietro: Nell’inverno del 2008, per il centenario della scuola materna di Porotto, fu organizzato uno spettacolo commemorativo al Giuseppe Verdi, il teatro del paese. Mi ritrovai sul palco, per una buona mezzora, a recitare la parte di Pinocchio. Mio zio interpretava Geppetto ed era in scena con me. Ricordo la sensazione che provai a stare sotto le luci, davanti alla platea; quella sensazione non mi ha più abbandonato. Lo stesso anno mi iscrissi ai corsi del Cicimbù, al Teatro Comunale.
Fabio: Ho scoperto di voler far l’attore cinque anni fa, in un momento della vita in cui ero insoddisfatto e non avevo idee chiare sul futuro. Seguì un periodo in cui guardavo continuamente film: immaginai di avere sempre una telecamera che mi seguisse per la casa e di essere parte di un set. La mia vita da quel momento cambiò e scoprii cosa avrei voluto fare negli anni a venire.

Che cosa significa essere ‘attore’?
Pietro: L’attore non è un mestiere per tutti, ma il divertimento è la sua cifra fondamentale. Recitare è innanzitutto un gioco, attraverso cui si crea un’occasione taumaturgica per stabilire un contatto con chi ascolta la storia che racconti. Accogliendo ciò che ogni nuovo personaggio ti dona, puoi accedere alla comprensione dell’altro; e al contempo ti avvicini ancor di più alla conoscenza di te stesso. Questo è sia il motivo per cui la gente va a teatro, e per il quale la professione dell’attore sopravvive in questa società dove si tende alla divisione, all’isolamento.
Fabio: Essere attore per me significa la possibilità di essere chiunque in qualsiasi istante ed in qualsiasi luogo; vuol dire avere la possibilità di raccontare cosa provo e comunicare le emozioni che porto dentro di me in diversi modi. Per me è una necessità.

Che cosa è più affascinante in questa professione? Che cosa è più difficile?
Pietro: La possibilità di scoprire, solo grazie all’esperienza e all’uso che fai di te stesso, la verità. Quella che accomuna tutti: la verità delle emozioni, del cuore.
Una simile fortuna è anche una difficile missione, poiché richiede il completo affidamento alla tua ‘incoscienza’, l’abbandono alla consapevolezza che si può diventare qualsiasi cosa, essere qualunque persona, senza dover pensare di avere una propria identità individuale.
Fabio: La libertà di potersi esprimere e dare i propri tagli personali a personaggi immortali come i protagonisti delle grandi opere teatrali e creare una connessione con loro. La cosa più difficile, che è al tempo stesso l’obiettivo, è trasmettere interamente al pubblico ciò che si prova sul palcoscenico.

Quali sono i vostri attori e film preferiti?
Pietro: Marcello Mastroianni è il mio modello storico. Tra i contemporanei, ammiro Ralph Fiennes, Matthew McCounaghey, Ian McKellen. Tra i miei film preferiti del secolo scorso metterei ‘La strada’, ‘8 e mezzo’ di Fellini, ‘Sciuscià’ di De Sica, ‘I mostri’ di Risi. Tra quelli di oggi, invece, ‘Il ritorno del re’ di Jackson, ‘Interstellar’ di Nolan e ‘Youth’ di Sorrentino.
Fabio: Tra i grandi attori del passato darei un posto d’onore a Gian Maria Volontè e Marcello Mastroianni, tra le attrici a Anna Magnani. Tra i contemporanei preferisco Leonardo DiCaprio e Meril Streep. I miei film preferiti del passato sono ‘Faccia a Faccia’ di Sollima, e ‘8 e mezzo’ di Fellini, mentre tra i più recenti scelgo ‘Shutter Island’ di Scorsese.

Con chi vi piacerebbe recitare?
Fabio: Prima di tutto con Leonardo DiCaprio e Pierfrancesco Favino. Ma ovviamente la lista sarebbe molto più lunga.
Pietro: Non ho mai pensato a un attore professionista in particolare, ma senz’altro mi piacerebbe lavorare con un regista del cinema d’autore come Sorrentino.

Raccontateci qualcosa della vostra ‘avventura’ a Roma…
Pietro: Da due mesi siamo nella capitale e non c’è mai stata una battuta d’arresto. Abbiamo passato due settimane a Vitorchiano, in provincia di Viterbo, per andare in scena all’interno del Festival dei Quartieri dell’Arte, diretto da Gian Maria Cervo. Una volta tornati a Roma ci siamo gettati a capofitto nel corso professionale di TeatroAzione; la preparazione prosegue con entusiasmo.
Fabio: Siamo arrivati pieni di energie e non si sono per nulla esaurite, anzi, siamo sempre più carichi. L’impatto con una grande città non è stato così drastico come immaginavamo, nonostante vi sia una differenza immane rispetto allo stile di vita a cui eravamo abituati. Abbiamo avuto due mesi pieni di sfide e stimolanti e procediamo sempre a testa alta.

E ora, quali sono i vostri sogni?
Pietro: Il mio sogno è continuare a seguire questa strada, ovunque essa mi porti. Fare l’attore mi ha portato ad essere ciò che sono, poiché da quando ho memoria è una volontà che porto dentro di me, qualcosa che mi renderà sempre felice.
Fabio: Avere l’umiltà e l’energia necessaria a migliorarsi, per capire che dagli altri c’è sempre da prendere spunto; mi piacerebbe essere fonte di ispirazione anche solo per una singola persona. E ovviamente affermarmi nel mondo dello spettacolo.

Qual è la ‘cosa’ più bella che avete trovato recitando?
Fabio: Le persone, dai colleghi agli insegnanti, dai giornalisti ai professori: molti di loro sono ora amici fedelissimi con cui amo trascorrere il mio tempo. È stato importante inoltre scoprire quello che ero in grado di sentire, di fare, e trovare il coraggio di mettere in pratica tutto, di perseguire ciò che amo fare.
Pietro: Me stesso. Ho trovato sempre più me stesso, giorno dopo giorno, copione dopo copione, prova dopo prova. Ma per farlo ho avuto bisogno di altri attori accanto a me, di condividere questa magica emozione con qualcun altro. Fra attori s’instaura una magica e profonda fratellanza, ed è il regalo più bello che ho ricevuto da questo mondo.

I DIALOGHI DELLA VAGINA
Qualcosa di ex…

Vi propongo un gioco. Pensate a un/una ex, ma proprio ex, di quelli che non fanno più male, rimangono là senza innescare mareggiate impreviste, non sentite più pur avendo il numero, occupano il loro spazio tra le emozioni vissute e voi avete smesso di concedere loro prepotenza, quelli che, insomma, non bussano più e finalmente potete trattenere il meglio senza rivestirlo del peggio che è stato.
Se avete un/una ex così, raccontateci i ‘doni’ che conserverete per sempre, immagini, attimi, conoscenze, cambiamenti che magari l’altro non sa nemmeno di avervi donato.
Vi racconto i miei:
mezzo chilo di gelato a letto alle tre di notte;
Cyrano di Guccini, ma anche Farewell e Vorrei;
un viaggio in furgone, e in giornata, a Grosseto a dicembre;
una scogliera di Sirmione col tacco 12;
non dirsi niente;
le tennis nuove fuse sulla marmitta della moto;
guardare le persone in piazza di Spagna e indovinare a che partito appartenessero dalla faccia;
un’alba di primavera sul Po;
le lucciole per caso una notte di giugno.

Potete mandare le vostre lettere a parliamone.rddv@gmail.com

LA FOTONOTIZIA
Ferraraitalia a Lucca: per cinque giorni capitale del fumetto

Chiamateli come volete: graphic novels, fumetti, comics, manga, anime. Fatto sta che appassionano non solo i bambini, ma anzi moltissimi adulti.
Si è da poco chiusa la 51esima edizione del Lucca Comics and Games, il festival punto di riferimento per i comics addicted in Italia e non solo se da tempo il festival è secondo per affluenza solo a quello di Tokyo e il più importante d’Europa. L’edizione 2017, tra il 1 e il 5 novembre, ha contato oltre 200.000 presenze. Sulla pagina ufficiale fb di Lucca Comics & Games ci sono stati in media 800.000 contatti giornalieri, con un picco di oltre 2 milioni di contatti nella giornata del 3 novembre, mentre i live condivisi hanno ottenuto oltre 265.000 visualizzazioni.
In questi sei giorni se ne sono viste davvero delle belle: i personaggi delle strisce disegnate sono usciti dalle pagine per prendere vita e invadere le strade della cittadina toscana, da Batman agli Avengers fino ai manga giapponesi e ai personaggi del geniale Miyazaki, senza dimenticare la fantascienza, con l’eterna rivalità fra seguaci di ‘Guerre Stellari’ e i fan di ‘Star Treck’.

Un cosplay davvero particolare è stato l’astronauta Paolo Nespoli, che direttamente dalla stazione orbitale internazionale sulla quale sta svolgendo la propria missione ha partecipato alla presentazione della graphic novel ‘C’é spazio per tutti’ realizzata dal disegnatore Leo Ortolani. Poi, complice l’assenza di gravità, ha svolazzato in giro, attaccandosi a testa in giù al soffitto come Spiderman.

Lo avete riconosciuto? Fra i tantissimi che hanno invaso Lucca durante la sei giorni del Festival, c’era anche un noto ferrarese, che forse vorrebbe essere un personaggio dei fumetti, il nome c’è già: è Andrea SaxMachine Poltronieri.
E poi sette allestimenti monografici ospitati a Palazzo Ducale su sette autori che rappresentano il meglio del fumetto e dell’illustrazione nel panorama internazionale che resteranno aperti fino al prossimo 5 dicembre.

Foto reportage a cura di Valerio Pazzi. Clicca sulle immagini per ingrandirle. Buona visione!

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BORDO PAGINA
Debord e il cibermondo, intervista a Raimondo Galante

Recentemente il filosofo ferrarese Raimondo Galante (originario di Venezia) ha edito in eBook “Debord 2.0 e la Internet Society”, Asino Rosso edizioni, Ferrara. Una rilettura del celebre guru intellettuale fondatore del Situazionismo nel secondo novecento. Ecco un’intervista di approfondimento all’autore.

Raimondo, il tuo Debord aggiornato all’era informatica e del web, esatto?
Assolutamente, è così… E’ il web in sé con la sua vocazione a trasformare tutto in immagini che si intrecciano e si mescolano in un fantastico carosello caleidoiscopico e che potrebbero essere montate e trasformate in molteplici film potenzialmente infiniti la cui pellicola non è altro che la grande rete telematica globale (World Wide Web), ovvero la dimensione cyberspaziale e iperterstuale della “Noosfera Internet”, è appunto molto debordiano.

Raimondo, nel saggio originario, ora anche in estratti mirati, scritto nel 2000 circa, grande attenzione all’influenza delle avanguardie storiche sull’inventore della psicogeografia: oggi le avanguardie sembrano silenti o comunque laterali, perchè?
Molto semplice le Avanguardie storiche novecentesche, in primis il Futurismo, hanno anticipato tutto ciò che a livello artistico, tecnologico, socioeconomico e politico stiamo vivendo ora. Pertanto, soprattutto con l’avvento dell’universo virtuale del Web la dimensione intera della cultura è l’Avanguardia e tutto ciò di avanzato, innovativo e ipertecnologico che si trova in Internet è pura e semplice avanguardia… Ergo le Avanguardie come fenomeno storico artistico e serie di eventi episodici e isolati tra di loro hanno esaurito la loro funzione storica lasciando e cedendo il passo all’avanguardia algoritmica totale che ingloba in sé come un gigantesco buco nero, interamente fagocitandole e assimilandole tutte le forme artistiche e culturali che vengono trasportate in una dimensione totalmente nuova ed orizzontale dove i limiti ed i concetti di tempo e spazio come li intendiamo noi in maniera tradizionale sembrano veramente aver perso di significato e non avere più senso.

Raimondo, nella tua ultima revisione, sembri proporre un Debord meno politicizzato e persino più umanistico, o meglio postumano?
Assolutamente sì per me Debord assolutamente non solo precursore del Web ma anche del Transumanesimo, inteso nella forma più ampia possibile come superamento dei limiti e dei confini umani fisici, metafisici e culturali immersi nell’universo liquido della comunicazione spettacolare assoluta, che per me va ben oltre il concetto pur avanzato di “Spettacolare Integrato”, inteso come la più antica e arcaica ma anche più avanzata e moderna oserei dire ipermoderna specializzazione del potere, ma si estende in una dimensione virtuale olografica onnicompresiva, pervasiva e totalizzante magistralmente descritta nella splendida e fortunata saga cinematografica ideata e realizzata dai Fratelli Wachoswki, ovvero Matrix.

Raimondo, la Politica ha fatto male a Debord?
Sì assolutamente a distanza di tanti anni ormai quasi un ventennio che lo studio e non avendo più paura di trasgredire le regole della cultura politicamente corretta del pensiero unico dominante che ancor oggi governa e fa da padrone nel mondo delle cattedre universitarie che assomiglia sempre di più a una serie di muraglie cinesi, che a mio avviso, Debord assolutamente in primis geniale artista e regista e soprattutto Arrabbiato (nel sessantotto è stato uno dei massimi leader di uno dei movimenti politici studenteschi più radicali, indipendenti ed anarchici, appunto “gli Arrabbiati”, in aperto conflitto polemico e talvolta violento con il Pcf, il Partito Comunista Francese), avrebbe voluto volentieri abbattere dimostrandosi vero demone distruttore iconoclasta, sicuramente inizialmente spinto da un autentico furore marxista (ma stiamo parlando di un marxismo violento, radicale estremista ed artistico che potenzialmente è assolutamente distruttivo e non fa prigionieri) , ma ben diverso e altro dalla falsa ed artificiosa immagine del melenso e buonista santo laico, che certa stampa di regime e certi commentatori ben introdotti nelle testate giornalistiche italiane ed europee vorrebbero proporre ed imporre quando ci si riferisce alla sua persona ed alla sua opera.

Raimondo, Debord contro la strumentalizzazione veteromarxista, concordi?
Assolutamente sì… Anzi credo che questo sia stato e sia tutt’ora il contributo più importante che ho dato perchè ho privilegiato la originale geniale elaborazione artistica debordiana e situazionista, portandola in certi casi anche alle estreme conseguenze e ho proposto con forza e determinazione un marxismo debordiano originale, radicale, violento e distruttivo impregnato dello spirito appunto innovatore, iconoclasta e destrutturante e disgregante come una cannone antimateria o ancor più come il leggendario potentissimo “raggio della morte ” concepito e progettato (non si sa ancora se mai realizzato) da Nikola Tesla.

Raimondo, in generale, il situazionismo, attualmente anche elettronico, resta una critica oggi del turbocapitalismo e magari dell’Ombra di Internet stessa?
Sì assolutamente e desidero qui ricordare che proprio per questo aspetto il sottoscritto è stato ricordato all’interno del saggio di Carlo Mazzuchelli “80 Identikit digitali”, edito da Google Books (http://delos.digital/9788867756414/80-identikit-digitali); e qui è stato definito come uno dei più importanti, ed influenti tecnosituazionisti insieme a nomi importanti e prestigiosi come quello dell’ex direttore di Rai Due Carlo Freccero.

Raimondo, il fu Gianroberto Casaleggio, situazionista elettronico?
Assolutamente sì come compare nel mio nuovo saggio, la summa della mia opera filosofica omnia su Debord.

Info eBook
https://www.amazon.it/Debord-2-0-Internet-Society-libri-ebook/dp/B0757ZGDWH
Info Raimondo Galante
http://www.nonquotidiano.it/author/raimondo-galante/

Nominato il nuovo Consiglio di Amministrazione di CLARA

Da CLARA

L’Assemblea dei soci di CLARA spa si è riunita stamattina, nella Sala dell’Arengo del Palazzo Municipale di Ferrara, per il rinnovo dell’organo amministrativo.
Il nuovo Consiglio di Amministrazione, nominato all’unanimità dai 20 (su 21) soci presenti, composto sempre da tre membri, sarà presieduto da Annibale Cavallari, coadiuvato dalle consigliere Alida Padovani e Maria Luppino.
Cavallari, classe 1962, vive a Jolanda di Savoia. Laureato in Economia e Commercio con un Master in Miglioramento delle performances degli Enti Territoriali e delle Pubbliche Amministrazioni, è dirigente amministrativo di CADF Spa dal 1995.
Padovani, classe 1983, vive a Comacchio. Laureata in Scienze Ambientali, è stata componente del CdA di CLARA spa (prima Area) anche sotto la presidenza Barbieri, da maggio 2016.
Luppino, classe 1968, vive a Cento. Giornalista ed esperta di questioni ambientali, è stata candidata a Sindaco di Cento nel 2011.
L’assemblea ha deliberato sempre nella seduta di stamattina i compensi del CdA, che ammonteranno complessivamente a 54.198 euro lordi annui così ripartiti: 19.967 per il presidente e circa 17.116 per ciascuna delle due consigliere.
La durata del mandato per questo CdA sarà di tre esercizi: scadrà in concomitanza con l’approvazione del bilancio consuntivo 2019, dunque prevedibilmente nella primavera del 2020.
Il Presidente uscente, Gian Paolo Barbieri, ha letto ai soci una lettera di saluto augurando buon lavoro al nuovo Consiglio di Amministrazione, ricordando anche che «è già stato impostato un Piano Industriale molto dettagliato in base al quale da settimane si è avviata una prima fase di negoziazione tecnica con ATERSIR per velocizzare il processo verso l’affidamento del servizio per altri 15-20 anni» e invitando il nuovo CdA a «mettere mano al più presto a questo impegno, che ha un impatto su milioni di euro di investimenti programmati e su un’organizzazione con più di 400 collaboratori».

Copparo, 7 novembre 2017

Territorio, innovazione, specializzazione: il percorso di Clara

Per parlarne, dobbiamo presentare il percorso di evoluzione dei servizi pubblici ambientali ricordando innanzitutto che per i settori acqua e rifiuti – servizi ‘a rilevanza economica’ – le modalità di affidamento (erogazione del servizio e gestione impianti) possono avvenire con queste possibilità:

  • Azienda ‘nel mercato’ con logica d’impresa, con criteri di competizione e logiche di espansione e criteri di alleanza (anche tramite società miste e partnership)
  • Aziende ‘in house’ in cui l’obiettivo di fondo è integrare il territorio e l’erogazione dei servizi nei Comuni soci

Il tutto orientato verso un forte processo di trasformazione tale da favorire la realizzazione di sistemi integrati, seguendo i principi della prossimità, dell’autosufficienza e della responsabilità condivisa, in ambiti territoriali omogenei.

In questo contesto nasce Clara, la nuova azienda frutto del processo di fusione tra Area Spa e Cmv Raccolta, che gestisce la raccolta dei rifiuti in 21 dei 23 Comuni della provincia di Ferrara. Il suo bacino d’utenza conta 120.000 clienti domestici e 13.500 non domestici, su un territorio di quasi 2.000 chilometri quadrati. Impiega oltre 400 dipendenti, con un fatturato previsto di circa 45 milioni di euro nel 2017.
Clara è operativa dal 1 giugno 2017 e già ha dimostrato di voler dare fede al nome che porta, chiara e trasparente, perché nell’ottica dei princìpi dell’economia circolare, per Clara è fondamentale coinvolgere attivamente cittadini, istituzioni, soci e dipendenti nella creazione di un modello di sviluppo sostenibile, favorendo e promuovendo la partecipazione collettiva verso un interesse comune e premiando i comportamenti virtuosi.
Il piano industriale è in corso di approvazione e il nuovo CdA in fase di nomina. Con il prossimo anno si attende l’affidamento pluriennale del servizio da parte di Atersir per sviluppare concretamente l’obiettivo di un’impresa ambientale efficiente in un territorio di area vasta con un sistema omogeneo.
Questo percorso viene condiviso con molte altre aziende sul territorio nazionale che hanno in comune con Clara le stesse impostazioni di crescita e sviluppo. Tra queste la nuova nata Alea Ambiente di Forlì, la veneta Contarina, il Consorzio dei Comuni dei Navigli, l’Associazione Payt Italia e altre.

Il sistema evolve verso una struttura di sistema integrato, di fasi e di specializzazioni entro specifici ambiti territoriali di riferimento. In questi ambiti e nel rapporto tra essi si accentuerà la specializzazione delle attività, l’innovazione tecnologica e la qualificazione organizzativa. In particolare partendo dal principio normativo della responsabilità condivisa, della prevenzione, della raccolta, del recupero, dello sbocco finale dei materiali raccolti e trattati, diventa importante stabilire e coordinare i ruoli dei soggetti pubblici e privati che operano nelle diverse fasi di gestione del sistema rifiuti. In particolare si ritiene importante rafforzare le funzioni di regolazione di sistema, di programmazione dei servizi e di pianificazione degli investimenti, di omogeneizzazione dei criteri di qualità e di tariffazione, di controllo, di favorire un processo di aggregazione e razionalizzazione.
Questa scelta pone l’esigenza di costruire un rinnovato sistema di regole, di controlli e di meccanismi di trasparenza che ripropongano un ruolo di regolazione istituzionale che verifichi le compatibilità ambientali, territoriali, sociali ed industriali nel pieno rispetto della normativa regionale, nazionale ed europea. Su questo si impegnerà anche Clara nei prossimi anni.

La vescica Italia si è sgonfiata

Quando ci si avvicinava al Natale, fuori dai negozi dei salumieri e dei macellai, appese a uno spago e legate di fianco all’ingresso della bottega, le vesciche di maiale, gonfiate, sballonzolavano al vento, servivano ad attirare i clienti, palloncini tondi o bislunghi. Soltanto più tardi, quando seppi che cos’erano e che erano state fino a quel momento nella pancia grassa della povera bestia, cominciai ad averne non proprio schifo ma qualcosa di simile.

La democrazia italiana è una vescica sgonfia, non ballonzola con la prima aria che tira e la gente non vuole più saperne di essere presa in giro dai grossi ventri che circolano nei due rami del Parlamento. Circolano e parlano senza nemmeno sapere la nostra – e purtroppo la loro – lingua: non tutti per carità, ma sono tanti i signori che abbiamo mandato a Roma i quali proprio non conoscono l’italiano, le doppie nella loro bocca prendono strane strade ed escono come va-va.

Le amministrative in Sicilia dovevano essere la prova generale delle elezioni politiche. Ebbene abbiamo avuto una risposta precisa, secca, inequivocabile: nemmeno il 50% degli elettori si è recato alle urne e in una democrazia matura e intelligente un simile risultato non sarebbe preso in considerazione. In effetti le elezioni siciliane non ci sono state, scusate il disturbo, torniamo più avanti. Il candidato, chiunque egli sia, è stato convinto che i vecchi abusati ideali non esistono più, sono ormai dimenticati, non sono nemmeno il fiato che un tempo gonfiava le vesciche di maiale. Questa convinzione, non so se abbiamo capito, è l’unica, vera ideologia politica italiana: la filosofia del disastro. Ci siamo finalmente arrivati. Al disastro, dico, con buona pace dei ducetti che dirigono la nostra vita, i quali non sono nemmeno più buoni da essere appesi davanti alle vetrine delle norcinerie. Vesciche vuote, come quelle che Astolfo vede sulla Luna.

Kevin Spacey e la morte del pubblico

di Lorenzo Bissi

Sono profondamente amareggiato per ciò che in questi ultimi giorni sta accadendo a Kevin Spacey. Non riporterò qui tutti i fatti e le dinamiche di come lo scandalo delle molestie sessuali nei confronti di giovani ragazzi da parte sua sia venuto fuori, ma mi limiterò a parlare e a fare una riflessione più generale. Non è questione di essere a favore o contro Kevin Spacey, qui è in discussione il valore dell’Arte stessa.
L’attore Anthony Rapp, oggi 46enne, pochi giorni fa ha dichiarato al giornale americano ‘Buzzfeed News’ di essere stato molestato sessualmente da Kevin Spacey all’età di 14 anni. Ha detto di aver trovato la forza di parlare dopo la pubblicazione delle accuse, anche in questo caso di molestie sessuali, contro Harvey Weinstein. E la caccia alle streghe si è aperta.
La conseguenza è stata che Netflix ha interrotto la serie ‘House of Cards’, in cui Spacey aveva il ruolo principale, e la International Academy of Television Arts and Sciences ha revocato l’Emmy Award che Spacey avrebbe dovuto ricevere in dicembre a New York.
Le confessioni hanno dato avvio a un processo mediatico che, per definizione, non tiene conto degli elementi del processo vero e proprio (che non mi risulta sia ancora stato avviato, semmai dovesse esserlo), ma vede l’opinione pubblica come giuria e condanna l’imputato sulla base di simpatie o antipatie. Eppure è la Dichiarazione Universale dei Diritti dell’uomo, nell’articolo 11, ad affermare che “ogni individuo accusato di un reato è presunto innocente sino a che la sua colpevolezza non sia stata provata legalmente in un pubblico processo”.
Senza contare che è inutile e ipocrita revocare un premio che riguarda i risultati creativi di un attore, giudicando la sua condotta di vita e non esclusivamente le sue performance: ciò di certo non cancella il passato, né, a mio parere, manda un messaggio positivo sulla concezione di Arte. Infatti, questa scelta sembra stabilire dei criteri di giudizio nell’assegnazione del premio in cui si legano inscindibilmente ala vita di un’artista alle sue performance. Una mossa, quella della International Academy, frutto di una aderenza cieca alla imperante morale contemporanea del ‘politicamente corretto’.

Ora veniamo a ciò che più mi interessa, il concetto di Arte; per definirlo partirò da lontano.
Gli Antichi Greci, nella loro falsa democrazia, nel loro imperante maschilismo, nella loro apertamente violenta società, non si sono lasciati sfuggire una cosa: la componente di superiorità che l’Arte porta con se nelle sue manifestazioni.
Platone nel ‘Fedro’ parla di quattro divine manie: profetica, mitica, artistica ed erotica. Mi soffermerò su quella artistica. Durante questo processo, l’artista, che è un essere umano, è visto come un vaso (da cui la parola ‘invasamento’) che passivamente riceve l’ispirazione dalle Muse. Queste, spiritualmente, entrano nell’essere umano e lo utilizzano come semplice mezzo attraverso cui produrre un’opera. Il risultato è un’opera a sé stante, di natura divina, e completamente scissa dalla volontà dell’artista, figurarsi poi dalla sua vita.
L’uomo che svolge la funzione di artista è un mero strumento nelle mani della divinità e quando si approccia la sua opera, ci si mette in contatto con la divinità senza alcuna considerazione per l’autore.
Se ciò non è abbastanza convincente, o troppo ‘mitico’ e surreale, ecco un altro esempio. Come facevano in antichità a interpretare ruoli femminili nelle recitazioni teatrali, se le donne non potevano recitare? Indossavano una maschera, che in latino era detta ‘persona’.
Nel momento in cui l’attore saliva sul palcoscenico, con la maschera sul volto, era richiesta la complicità del pubblico, lo sforzo di immaginare il personaggio stesso davanti a se, e non l’attore mascherato. Mediante questo, l’attore non era più il signor Tizio Caio, ma un’altra ‘persona’, per esempio Medea, Edipo, Oreste o chiunque altro.
Dicendo ciò non voglio paragonare gli attori Greci con quelli contemporanei. Voglio sottolineare che i Greci avevano capito che la maschera, intesa come ‘persona’, aveva la funzione di legittimare chiunque si sentisse in grado di svolgere il ruolo d’attore a fare.
Questo perché anticamente l’Arte richiedeva, anche da parte del pubblico, uno sforzo immaginativo, che evidentemente al giorno d’oggi non siamo più disposti a fare. La conseguenza è la perdita dell’essenza superiore dell’Arte. E pensare che Oscar Wilde ha dato la sua vita per insegnarci che l’arte non è morale né immorale, ma va al di là del Bene e del Male, e per questo non deve essere giudicata secondo criteri etici.
Non posso fare a meno di arrabbiarmi quando sento persone che liquidano Pasolini chiamandolo “sporco pederasta”, Woody Allen “pervertito”, Lewis Carrol “pedofilo fissato con la sua piccola Alice”, o Pirandello “leccapiedi fascista”. Con questa logica Caravaggio era un assassino e Socrate probabilmente un marito violento. Ciò non toglie che le loro opere vadano al di là della loro vita, e come tali debbano essere apprezzate nella loro indipendenza. Oggi per molti non è più così, perché non si è più capaci di estrapolare l’opera dal contesto.
Qui non è questione di Kevin Spacey colpevole o innocente. Se il pubblico non è più disposto a svolgere attivamente la parte dello spettatore, viene meno tutta l’impalcatura su cui si regge la sottile esistenza dell’Arte, il piccolo segreto che l’arte è tutta finzione, capace di mettere in contatto l’artista e il suo pubblico. Da quello che si vede, ahimè, questa illusione è già stata abbandonata da tempo, e non sembra ci siano le condizioni per praticare un’Arte vera, un’Arte autentica.

DIARIO IN PUBBLICO
Le parole, la scrittura, i fatti

Attendevo nell’ambulatorio del medico il mio turno. Entra una signora accompagnata dalla figlia e sento una conversazione in dialetto che mi riporta al tempo dell’infanzia: “Dutor, a iera andada a far i fatt e a i’ ho santì un dulor, ma un dulor a la schina ca son rimasta sanza fià”. Questa era la frase, che riporto nella mia improbabilissima trascrizione. Fare i fatti, ossia sbrigare le faccende. Ma un interrogativo complesso mi assale: cosa sono le faccende? Cose da farsi, quelle che in casa vanno sbrigate? E da lì una serie inquietante di derivazioni: ‘faccendiere’ dall’ormai consueto significato socio-politico, o il suo contrario ‘sfaccendato’. Sicuramente uno dei verbi principali della nostra lingua, ‘fare’, che si coniuga in una infinità di derivazioni lessicali e sintattiche, ma che nell’ormai antico ‘fare i fatti’ dimostra quanto siano mutati la società e i suoi bisogni. Ormai i fatti, quelli di casa, non li svolge quasi più nessuno sostituiti come sono dalle macchine, dalle badanti, dalle ‘donne di servizio’ che s’adeguano malvolentieri – e giustamente – a ‘fare i fatti’. Certamente, la nipote che accompagnava l’anziana (senti chi parla!) signora non si sarebbe espressa così. Fare i fatti rimane dunque un segno del passato.

Ma se dovessimo analizzare i fatti altrui quante belle novità ci attendono. Il duello tra i giganti (!) della politica – Di Maio contro Renzi – i commenti del governatore De Luca, non quello vero che, come sanno tutti, è quello che siede nel salotto di ‘Fratelli di Crozza’, ma quello finto che risiede in Campania. L’attività dei giudici che debbono vagliare la posizione di Berlusconi, o le reazioni del maschio Salvini che sbarca al Sud, decidendo con lo sguardo umido di rimpianto di eradicare dalla Lega la parola Nord. Tutto un rincorrersi di cene, cenette, pranzetti, mentre l’avvertito Matteo da Rignano sbarca in Usa a incontrare il suo amico Barack. Che fatti!!
Frattanto nello studio della soave Gruber, sempre attenta al look, si alternano come nell’episodio di ‘Alice nel paese delle meraviglie’ i sorrisi dello Stregatto che fioriscono e lentamente si dissolvono con impressionante lentezza sui volti di Vittorio Feltri, che tuttavia riserva una inquietante somiglianza con Za la Mort, e su quello incommensurabilmente ironico di Marco Travaglio, che sembra ammonirci che solo lui è e sarà sempre detentore delle verità nascoste.

Fatti dunque non parole come ci avvertiva la politica fino a ieri, per cui rivedere oggi ‘Palombella rossa’ di Nanni Moretti, che urla senza essere ascoltato che il rispetto delle parole significa un’altra vita, ci conferma che a forza di pensare ai fatti e di fare i fatti si perde il senso e l’uso della parola soprattutto quella scritta.
Ben lo sa un grande scrittore e critico, Hans Tuzzi, che si firma anche Adriano Bon che nella presentazione dei suoi due ultimi romanzi gialli pone questo interrogativo fondamentale: che differenza c’è tra la definizione di un colore/ tema con il senso e la consapevolezza del romanzo che è altro dalla Vita eppure che dalla vita trova la necessità di esistere come Arte? Tuzzi sostiene che il dire in forma di romanzo deriva dalla sacralità delle parole legate alla rivelazione degli dèi e che già in Omero tutto è stato detto. E per prima cosa spiega cos’è una ‘coincidenza’. Scrive e afferma: “E’ difficile trasporre nel romanzo il romanzesco della realtà senza ricorrere alla formula del romanzo-verità. Paradossalmente l’Arte non consente le comode coincidenze della Vita: queste non possono essere usate nel ‘verosimile’ letterario se non si vuole essere accusati di soluzioni ‘facili’” (Hans Tuzzi, ‘Come scrivere un romanzo giallo o di altro colore’, Bollati Boringhieri, 2017, p.31).
La Vita dunque propone soluzioni o coincidenze che l’Arte non può accettare salvo per farle diventare a sua volta struttura del romanzo. Nel suo bellissimo ‘Al vento dell’Oceano’ (Bollati Boringhieri , 2017) un apolide montenegrino, l’investigatore Neron Vurkcic, indaga su un triplice omicidio avvenuto su un grande transatlantico nel 1926 e per illustrare come la Vita possa diventare struttura di Romanzo, propone in una coincidenza ferrarese due esempi. Nella cassaforte del primo assassinato sono custoditi una favolosa collana di perle nere e due importanti volumi antichi. Non dimentichiamo che Tuzzi/ Bon è uno dei più importanti studiosi di bibliofilia nel mondo e che ha collaborato, chiamato da Umberto Eco a Bologna, a insegnare quella materia. Questa coincidenza tra verità del libro e indizio dell’assassinio si punta su un volume ‘realmente’ esistito: “Questo vale ancor meno”, spiegò Alice, “però ha l’impresa di Renata d’Angiò, figlia di re Luigi XII di Francia e duchessa di Ferrara: Di real sangue nata. In Christo sol Renata” (p.108).
La Vita al servizio dell’Arte.
O ancor più raffinata la citazione del pane di Ferrara per cui la nostra città tuttora va famosa. I satrapi della prima classe amano molto mangiare e la cucina del transatlantico è favolosamente fornita: “I camerieri entrarono spingendo pesanti carrelli sontuosi di formaggi e carni. Servirono pane di ogni forma e tipo, pane in cassetta, baguettes francesi e pane integrale tedesco, pane bianco londinese e bretzel, pane arabo e friabili giochi rococò che risultarono essere pane ferrarese” (p.131).
Le parole della Vita dunque possono e debbono essere usate per l’Arte cambiandone tuttavia senso e destino. Così il tempo e le ore trovano un finale straordinario che definitivamente trasportano tempo e situazioni dalla realtà esistenziale a quella divina da cui per Tuzzi e non solo per lui la parola deriva dagli dèi:
“E alto sopra le nuvole, altro vento doveva passare, il vento cui nulla appartiene e che non appartiene a nessuno, mentre per lui, gravida di promesse, un’alba nuova sorgeva, segreta e strana, a Occidente” (p.160).

In ‘La belva nel labirinto’ (Bollati Boringhieri, 2017) le indagini dell’ispettore Melis, che ha dato fama ai gialli di Hans Tuzzi, portano a mettere in luce quanto sia sempre presente il problema del male che l’uomo fa all’uomo. Un tema fondamentale nella narrativa di Tuzzi, ma ancor più presente si rileva l’elemento politico. In tal modo, la vita prestando coincidenze permette di ‘narrare’ i delitti seriali più famosi d’Italia e al di là di trame nere e servizi deviati, vengono a galla distorte connivenze morali che fanno del nostro il Paese che è.
Perciò può concludere lo scrittore: “insomma, un giallo sì, ma anche e forse ancor più un romanzo che nel libro di teoria sembra parlare più di lettura”.
In fondo come leggere per poi scrivere. Il destino del romanzo: usare i fatti per trasformarli in parole. Un libro che è romanzo quando, come spiega l’autore, non si vogliano scrivere ‘libroidi’ in cui i fatti rimangono tali, ma libri.

I fiori di adesso

di Carla Sautto Malfatto

Sono sempre con me, i miei morti, più vivi che mai. Un esercito che mi protegge, mi sostiene. Con alcuni, i più vicini, parlo. Loro rispondono nella mia testa. Qualche volta mi bacchettano. Di solito, mi fanno compagnia. Li immagino nella loro veste umana migliore. Li sogno, ancora più belli. Non li tocco più, ma loro hanno grandi mani e ali per muovere l’asta della sorte a mio favore. Anche quando cado in disgrazia, so che potrebbe andare peggio. Quando tocco il fondo, loro mi assicurano che riuscirò ad alzarmi. Spero siano con me – conto almeno su tre o quattro – quando dovrò varcare quella porta, che tanto mi spaura. Mi spaura tanto – anche se loro sorridono. Loro sorridono sempre, e mi fa ben pensare.

I fiori di adesso

Mi hanno detto che dovrò morire,
prima o poi, e non sono contenta.
Ogni tanto, un dolore
una discrepanza
uno strappo
a sentinella
a monito
del meno tempo rimasto.
Prendo il foglio e detto le ultime volontà:
non mi interessa, giuro, non mi interessa
come spartirete le mie sostanze
e, credo, neppure i malumori
per quel chilo in più
assegnato a qualcun altro,
di cui si approprierà,
che cederete.
Vi chiedo la cortesia, intanto che sono,
di agire come agireste poi
quando il rimpianto del non compiuto
sarà prepotente.
Non mi serve a niente
se mi sarà decretato, dopo,
il bacio, la carezza, l’affetto,
lo stupore davanti al mio creato.
Parlatemi, come parlereste al mio ricordo,
fatemi, come fareste nel rimorso,
oppure depennatevi da soli
se nel pensiero non avrò lasciato nulla
o mi avrete già saccheggiato:
siete nulla anche per me,
non illudete il mio ultimo passo.
E i fiori, portatemeli adesso.

(Carla Sautto Malfatto – tutti i diritti riservati)

Forme umane, animate e animali: la stagione teatrale di Ferrara Off

Da Organizzatori

Teatro, danza, cinema, arte e spettacoli per bambini: queste le proposte di Ferrara Off per l’autunno 2017. Venti appuntamenti, nell’arco di un mese e mezzo, riuniti in tre rassegne: “Forme umane” stagione per adulti, “Forme animate e animali” teatro per bambini, “Domeniche d’autunno”, appuntamenti dedicati al cinema e all’arte.
Tutti gli spettacoli, le letture, gli incontri avranno come filo conduttore il concetto di “forma”, declinato in domande esistenziali – chi sono? -, legate a un contesto sociale – che posto occupo nel mondo? -, incentrate su una ricerca stilistica – che fisionomia devo assumere?
A far emergere gli interrogativi saranno linguaggi differenti – parole, immagini, melodie, coreografie, burattini, pittura – il più delle volte permeati di ironia e comicità.

“Forme umane”, la sezione dedicata agli adulti, prevede otto spettacoli e si apre il 4 novembre alle 21 con un divertente testo di Alan Bennett, “La sua grande occasione”: sul palcoscenico, Diana Höbel interpreta il personaggio di Leslie, un’ambiziosa e ingenua attrice catapultata nello spietato mondo dello spettacolo.
Sabato 11 novembre alle 21 ci sarà un altro monologo comico, “Sogliole a piacere”, scritto e interpretato da Gloria Giacopini: un autoironico romanzo di formazione dove l’autobiografia dell’autrice si specchia nell’evoluzione delle sogliole. Il lavoro di Gloria Giacopini è stato molto apprezzato dalla giuria di BONSAI, distinguendosi fra le centoventi proposte pervenute.
Sabato 18 novembre alle 21, grazie alla collaborazione con il Teatro Comunale di Occhiobello, che permette di intercettare artisti di grande professionalità e richiamo, il brillante attore comico Ugo Dighero porterà a Ferrara Off “Mistero Buffet” di Marco Melloni: un divertente atto unico che, attraverso la metafora dell’uomo predatore davanti a un buffet, indaga la crisi economica e soprattutto morale degli italiani.
Il 25 novembre alle ore 21 (con replica alle 16 per i bambini) torna a Ferrara Off Gigio Brunello con il suo nuovo spettacolo “La grande guerra del sipario”: un atto unico dentro la ‘baracca’, dove i burattini si trovano a combattere contro dei peluche. Uno spettacolo originale e visionario che dimostra come il teatro di figura possa essere un’arte capace di parlare a tutti in modo profondo.
Sabato 2 dicembre alle 21, si passa dal comico a toni più riflessivi con “Clausura”, da La religieuse di Denis Diderot: ispirato a una storia vera (ripresa poi anche da Manzoni), è il racconto di una giovane monaca che tenta di sciogliere i voti pronunciati non volontariamente. Un potente monologo – diretto da Giulio Costa, interpretato con grande intelligenza e sensibilità da Elsa Bossi – che parla di reclusione e confini, per fare un’apologia della libertà e una critica alle imposizioni della società.
Sabato 9 dicembre alle 21 ci sarà un altro romanzo di formazione, un inno alla libertà e all’indipendenza: “Lunghe Notti” di e con Valerio Peroni e Alice Occhiali, racconta la vita di Chris McCandless, reso celebre dal film “Into the wild” di Sean Penn: lo spettacolo si ispira alla biografia scritta da Jon Krakauer e alle memorie della sorella, unico riferimento familiare del protagonista. Lo spettacolo è realizzato nell’ambito del progetto Residenze artistiche, in collaborazione con Teatro Nucleo.
Sabato 16 dicembre alle 21 ci sarà un altro spettacolo che si è distinto tra le proposte di Bonsai. “Kokoro” è un suggestivo spettacolo di danza, nel quale la coreografa e danzatrice Luna Cenere si interroga sui temi dell’essere e della percezione della realtà: un lavoro fisico di grande impatto visivo in cui il corpo, esposto nella sua nudità, si trasfigura e diviene veicolo poetico di immagini.
La programmazione dedicata agli adulti si chiude domenica 17 dicembre alle 21 con
“Marx a Soho”, scritto da Howard Zinn, interpretato da Marco Sgarbi: la surreale vicenda
di un redivivo Marx desideroso di riproporre le proprie idee è la perfetta conclusione di
un ciclo di spettacoli incentrati sul rapporto tra individuo e società.
L’ingresso agli spettacoli di “Forme umane” è di € 10 per i soci Ferrara Off, € 8 per i soci under30, € 5 per i soci under18, € 12 per i non soci (inclusa tessera associativa).

“Forme animate e animali”, la rassegna dedicata ai bambini, è composta da cinque titoli e si
apre il 5 novembre alle ore 11 con il “Flauto Magico” raccontato da Diana Höbel e con
l’accompagnamento musicale dal vivo di Claudio Rastelli: un’occasione per scoprire le
magnifiche melodie di Mozart, tramite le parole di una fiaba avventurosa, romantica e
comica.
Sabato 11 novembre alle 16, arriva in teatro “Ma cosa mi balena in mente”, scritto da Margherita Mauro e interpretato da tre giovani attori di Ferrara Off, Matilde Buzzoni, Giacomo Vaccari e Penelope Volina: un gioco serio con cui i ragazzi confrontano la propria crescita con l’evoluzione dei cetacei.
Sabato 18 novembre alle 16 torna “3 regine, 2 re, 1 trono”, produzione Ferrara Off che vede in scena cinque ragazzi nei panni di adulti ambiziosi di potere: la freschezza interpretativa e l’allegria dei giovanissimi attori – Matilde Buzzoni, Sofia Chioatto, Michele Graldi, Giacomo Vaccari e Penelope Volinia – risulta contagiosa e avvicina i più piccoli alla rappresentazione ironica del mondo ‘dei grandi’.
Sabato 25 novembre alle 16, il burattinario Gigio Brunello propone anche ai bambini lo spettacolo per baracca e burattini “La grande guerrra del sipario”: un gioco visionario e una profonda riflessione sul tema della guerra, nonché l’opportunità di scoprire il suggestivo linguaggio del teatro di figura.
La rassegna per bambini si chiude domenica 3 dicembre alle ore 11 con “Storie proprio così” di Rudyard Kipling, interpretate da Elsa Bossi: i bambini scopriranno perché il cammello ha la gobba, l’elefante la proboscide, l’armadillo la corazza, attraverso fantasiosi racconti sull’evoluzione degli animali e immagini pittoriche realizzate dal vivo dall’artista Giacomo Cossio.
L’ingresso agli spettacoli di “Forme animate e animali” è di € 8 per i soci Ferrara Off, € 5 per i soci under30, € 10 per i non soci (inclusa tessera associativa).

Accanto alla programmazione teatrale, Ferrara Off propone le “Domeniche d’autunno”, dedicate in questa stagione al cinema e all’arte: quattro film nell’ambito del progetto “Focus Africa o delle identità negate”, a cura del Teatro Comunale Abbado di Ferrara, e tre incontri dedicati al ‘600 e alla pittura di Carlo Bononi.
Il primo titolo di Appuntamenti al cinema, previsto per domenica 29 ottobre alle 18, è “Il colore della libertà” di Bille August; il secondo, domenica 12 novembre alle 18, è “Catch a Fire” di Philip Noyce; domenica 19 novembre alle 18 ci sarà “Le rencontre” di Seydou Boro, un documentario sull’incontro fra coreografi di culture diverse; l’ultimo film sarà “Samba Traoré” di Idrissa Quédraogo, domenica 26 novembre alle 18.
Per quel che riguarda l’arte, torna a Ferrara Off il pittore Giacomo Cossio per approfondire il percorso Verso il Seicento avviato con Monumenti Aperti. Domenica 5 novembre alle 18 farà una lezione dal titolo “È barocco o rococò? Barocco, sicuramente barocco!”, un viaggio alla scoperta del barocco nel senso più vasto, applicato alla letteratura, al teatro, alla pittura, alla scultura, all’architettura; domenica 3 dicembre alle 18 l’incontro verterà sul “Barocco da esportazione: il barocco emiliano”.
L’ultima domenica d’autunno si terrà fuori sede, domenica 10 dicembre alle 17, presso la Pinacoteca Nazionale, dove avverrà una performance intitolata “Un viaggio con Orfeo”: un percorso artistico multisciplinare, in concomitanza con l’esposizione del quadro “Goretto Goretti in veste di Orfeo” di Carlo Bononi, in occasione della mostra a lui dedicata presso Palazzo dei Diamanti.
Tutte le Domeniche d’autunno sono a ingresso libero. L’accesso alla Pinacoteca Nazionale prevede un biglietto intero di € 6, ridotto € 3, che permette la visita al museo.

Corruzione: prevenire è meglio che curare

“Oggi in Italia si parla molto di corruzione, per forza di cose”, ha affermato il giudice Gioacchino Polimeni, direttore di Unicri (Istituto internazionale delle Nazioni Unite per la ricerca sul crimine e la giustizia), aprendo lunedì mattina nella sala Consiliare del dipartimento di Giurisprudenza di Unife, l’incontro di ‘La Convenzione delle Nazioni Unite contro la corruzione’, parte del programma della Festa della Legalità e della Responsabilità 2017.
La corruzione è ormai un tema fortemente presente, quasi martellante – purtroppo – nella cronaca quotidiana italiana: da gennaio a ottobre 2017 sono più di 560 i casi di corruzione riportati dai media. Inoltre l’Indice di percezione della Corruzione (Cpi) dell’associazione internazionale Transparency International, che misura la corruzione nel settore pubblico e politico di 176 paesi nel mondo, vede l’Italia al 60° posto nella classifica globale.
Tuttavia, a parere del magistrato, “è un momento importante per la lotta alla corruzione in Italia”, per “la sentenza sul caso di Mafia Capitale” che, pur non avendo riconosciuto la fattispecie di associazione mafiosa per l’organizzazione di Carminati, getta importanti elementi “a livello di intrecci fra reati di mafia e reati di corruzione” e soprattutto per le modifiche appena apportate al Codice Antimafia.
Polimeni si è detto, infatti, “colpito dell’apertura verso la corruzione del nuovo Codice Antimafia”, che ha definito – in senso positivo – “un’avventura” del legislatore italiano.
Oltre a nuove norme volte a riorganizzare e potenziare l’Agenzia nazionale per i beni confiscati e a forme di sostegno per consentire la ripresa e la continuità produttiva delle aziende sequestrate e misure a tutela dei lavoratori, con il nuovo Codice approvato in via definitiva a fine settembre 2017, si allarga il perimetro dei possibili destinatari cui possono essere applicate le misure di prevenzione personali e di natura patrimoniale: chi è indiziato di terrorismo o di assistenza agli associati a delinquere, ma anche chi è indiziato di associazione a delinquere finalizzata ad alcuni gravi delitti contro la pubblica amministrazione, tra cui peculato, corruzione propria e impropria, corruzione in atti giudiziari, concussione e induzione indebita a dare o promettere utilità.
Quindi, c’è una doppia estensione: “l’applicazione delle misure di prevenzione del sequestro e della confisca, oggi applicate agli indiziati di appartenenza alla mafia, non solo al condannato, ma anche all’indiziato di corruzione”.

La Convenzione delle Nazioni Unite contro la corruzione, adottata dall’Assemblea generale il 31 ottobre 2003 ed entrata in vigore a livello internazionale il 14 dicembre 2005, è la prosecuzione di un processo di costruzione di strumenti giuridici comuni per contrastare i crimini a livello internazionale iniziato con la Convenzione di Palermo sul crimine organizzato transnazionale del 2000. L’Italia “l’ha ratificata nel 2009” e attualmente è stata sottoscritta e adottata “da 183 paesi, quindi è uno strumento che possiamo definire mondiale”. Uno dei principali elementi distintivi, a parere del giudice Polimeni, è l’attenzione alla prevenzione: “le delegazioni che hanno lavorato alla sua redazione” erano cioè convinte che in materia di corruzione “la prevenzione conta altrettanto se non di più, rispetto alla previsione e alla repressione dei reati”. Una prevenzione, ha specificato il magistrato, concepita come controllo ed educazione nello stesso tempo. Da qui “l’obbligo di costruzione di una politica e di strategie olistiche di lotta alla corruzione, in altre parole i governi devono pensare a cosa vogliono fare per il contrasto alla corruzione” e come farlo; “l’obbligo di costituire codici di condotta e particolari metodi di selezione per i funzionari pubblici” e inoltre “particolari procedimenti per gli appalti pubblici”.