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di Carla Sautto Malfatto

L’aveva sempre considerata una cosa normale, e ancora lo credeva. Ma non sapeva che ne avesse il sentore di uno strappo, un cordone ombelicale ancora reciso, e che le mordesse nello stomaco come un vuoto fisico, alimentare. Per questo teneva la porta della stanza chiusa, la tapparella abbassata. Per non vedere l’assenza delle tante cose che prima la riempivano, gli ultimi scatoloni da portare via, il letto perfetto, senza impronte. Per non sentire l’odore neutro dei muri.
E che sarà mai, si ripeteva. Un figlio se ne va, è normale. Fa parte della vita.
Già…
Meglio per lui. Vuol dire che ha trovato la sua strada, la sua compagna.
Speriamo.
Intanto, però, si sentiva un po’ più vecchia. E un po’ più inutile.
Lo sbaglio era stato dedicare tutta la vita alla cura della famiglia – delle persone.
Sindrome del nido vuoto. L’avevano chiamata così, gli esperti, dopo averla studiata.
Beh, lei sarebbe stata un ottimo soggetto da analizzare, perché i sintomi li aveva tutti.
E pensare che ci aveva riso su, quando gliel’avevano detto. – Chi, io? – sbottava convinta, sgranando gli occhi, parlandone con le amiche. – Ma se non vedo l’ora di starmene un po’ tranquilla! Ad una certa età i figli devono andarsene di casa, farsi la loro vita, come abbiamo fatto noi. Sindrome? Assolutamente no. Anzi, così avrò meno impegni e più tempo libero per me.
Più tempo libero… peccato che questo succedesse quando si avevano sessant’anni, e meno forze, e meno idee.
Quando poi se ne fosse andata anche l’altra figlia…
Scese le scale. Quella casa, così grande, e il vuoto che la riempiva.
Aprì la porta della sala. La ragazza era là, intenta a preparare il presepe.
Quando i figli erano piccoli, preparavano il presepe insieme, ma da tempo non ne aveva più voglia. Stanare le scatole ripiene di cianfrusaglie dal sottoscala, la carta da montagna da stropicciare e sagomare su fogli di giornale appallottolati, il muschio da staccare dai muretti e lasciare seccare al sole, eccetera eccetera. E poi la confusione e lo sporco per casa… No, non ne aveva voglia, tempo –lo spirito. Se ne occupava la ragazza.
Si avvicinò. Ogni anno la figlia impostava il presepe diversamente, poi glielo mostrava compiaciuta. Allora lei lanciava un rapido sguardo al manufatto, sperticandosi in esclamazioni forzate, per darle soddisfazione. Ma intanto la sua testa era altrove, distratta da troppi pensieri, da quello che doveva ancora fare, nell’immediato e nel futuro, scalpitando per scappare da lì, la sensazione di un tempo perso, sprecato.
Ma questa volta no.
Si fermò. Seduta sul bracciolo della poltrona, presso il presepe, osservò il labbro di sua figlia che si muoveva morbido enunciando i dettagli e il dito che li indicava, sostando su ognuno, in perlustrazione aerea. Osservò il fuoco finto, le casette di cartone, le trasparenze di certe carte veline, lo stagno, le cascate, il ghiaino bianco a formare sentierini, le statuine di varie grandezze e sproporzionate tra loro, tutte cose semplici, tutte cose note, le solite cose, insomma, ma che le parve di vedere per la prima volta. Osservò le montagne, alcune sbilenche, altre troppo arrotondate per sembrare credibili. Le venne da suggerire qualche cambiamento, ma tacque, serrandosi la lingua in bocca. Osservò sua figlia, gli occhi febbrili di passione creativa, e le parve di vedere anche lei per la prima volta.
Sua figlia. Sempre sotto gli occhi, eppure così diversa. Quando si può dire di conoscere veramente una persona che ti vive accanto? Eppure le aveva dato tutto il suo tempo e tutto il suo amore, comprese le arrabbiature, per farla crescere come Dio comanda. E non poteva dire di averla trascurata, in nessun momento della sua vita, di non averle dato tutto e di più, di non averla ascoltata, osservata, di non essersi persa con lei nei suoi giochi, nelle sue divagazioni. Perché ora le appariva come una rivelazione? Forse perché prima i figli erano due ed ora tutta l’attenzione era incentrata solo su di lei? O piuttosto doveva chiedersi quando la passione, l’entusiasmo si erano trasformati in sterile abitudine, sicurezza della ripetitività, come se le cose non cambiassero mai, come se durassero per sempre – come se poi, al perderle, non ci struggessimo in rimpianti per quello che, a tempo opportuno, non abbiamo fatto?
S’impose di restare ferma e, diversamente da quello che credeva, non le fu di peso. Si pose in ascolto, prendendosi il tempo necessario. Il tempo che necessita, non quello predeterminato a tavolino. Nemmeno le passò per la testa la casa da riassettare, i panni da lavare e da stirare, il pranzo da preparare. E se quei pensieri le passarono per la testa, dovevano aver trovato rapidamente un varco per uscirne, perché non le mossero alcuno scrupolo.
Restò ferma ed ascoltò. E non interruppe sua figlia, come il solito, per accelerare la descrizione, perché avesse presto temine. Attese che la ragazza finisse di esporre il suo resoconto, e poi ritornò a chiedere chiarimenti. E si abbarbicò con l’orecchio alla sua voce, con gli occhi al suo sguardo e alle minuzie indicate, e in ognuna trovò un po’ della sua ragazza – non la perfezione, non quello che voleva vedere. Non più un pensiero diviso tra quello che stava facendo e quello che doveva fare, ma un vuoto in attesa di essere colmato. Una disponibilità. O forse anche solo un’altra occasione. Il tempo delle piccole cose.
Forse questo è invecchiare, pensò. Ma se questa era la vecchiaia, se questa era la molla per il recupero delle sensazioni mai vissute, non le parve così brutta.
Rallentare. Fermarsi per assaporare. Pensò che aveva ancora molte cose da imparare – e che era un peccato morire senza averle viste tutte, come diceva sua suocera.
E sorrise dentro.

Il tempo delle piccole cose è un racconto tratto da ʿFarfalle e Scorpioniʾ, Este Edition, 2015
(Carla Sautto Malfatto – tutti i diritti riservati)

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