Non ci sono ricordi di una carriera musicale, concerti, canzoni o spettatori. Ma momenti di vita, semplici, puri bellissimi, quelli di un cantautore che è stato ed è felice, che ama la vita e le sue mille sfaccettature, che cura i sentimenti con parole e pensieri. Nel suo ultimo libro ‘La vita che si ama. Storie di felicità’, Roberto Vecchioni incanta il lettore, veleggiando fra poesie e ritratti, versi, citazioni classiche e richiami lirici che fanno emergere l’amore immenso per la moglie e i quattro figli e la fiducia nella vita. C’è anche Saffo, tra tutti.
Il tempo passa, la felicità va catturata, imbrigliata, Vecchioni suggerisce come farlo. Essa non scompare, al contrario, resta in eterno, va solo capita e (ri)vissuta ogni giorno, facendo tesoro dei momenti felici, piccole cose e momenti che vivono con noi e attraverso di noi. Il testo è diviso in 13 lettere immaginarie dedicate ai figli, missive da inviare loro per trasmettere la gioia e la bellezza di piccoli attimi di vita quotidiana del cantautore-professore che orientano e riorientano ogni giorno la sua esistenza. Vicende che rappresentano attimi immensi di felicità, momenti da condividere e ricordare, da portare con sé. In ogni racconto compare un personaggio chiave, dallo studente brillante che rischia di essere bocciato all’esame di maturità a cause delle sue pene d’amore, fino al padre giocatore e alla madre affettuosa, a un improbabile Chomsky, sfidato a scacchi, o allo stesso Vecchioni che, ogni anno, imperterrito, sistema le luci di Natale nella casa vicino al lago, oasi di serenità.
A chiudere le lettere, bellissimi testi di canzoni dedicate ai figli. La preferita di Vecchioni è ‘Quest’uomo’, in cui il cantante grida l’incapacità di stare lontano dagli amati Edoardo, Arrigo, Carolina e Francesca, per cui ringrazia la sempre presente Daria, moglie e artefice di queste meraviglie. Felicità, forza della parola, bellezza e, allo stesso tempo, difficoltà di essere padre sono i filoni di queste avvolgenti e incantevoli pagine. Contro l’“educazione alla performance” a tutti i costi che domina le nostre vite e, nei momenti più difficili e di sofferenza, difendendosi con la cultura. Ricordando Dostoevskij.
Roberto Vecchioni La vita che si ama. Storie di felicità, Einaudi, 2016, 160 p.
Tutto pronto per l’inaugurazione. Attentamente controllate le mail con i ‘consigli’ scrupolosamente inviatici per accedere al Meis, estratto dall’armadio il cappotto blu di cachemire triplo, di solito indossato per qualche prima alla Scala, esumato il Borsalino (quello piccolo, più serio di quello a larghe tese), cravatta Hermès d’antan, giacchetta blu ovviamente quella di cachemire e il fazzoletto di seta grigia, che ha ormai due secoli e ho indossato sempre in occasioni speciali, quali quelle di testimone ai matrimoni dei nipoti.
Il taxi l’avevo prenotato il giorno prima, ma una telefonatina di conferma scatta lo stesso. Passo a prendere la mia collega, la professoressa Portia Prebys, curatrice del Centro studi bassaniani, da lei donato alla città di Ferrara. Eroicamente, dopo aver assunto le medicine che le permettono di fare qualche passo senza soffrire troppo, sbarchiamo davanti alle ex-carceri, ora sede del Museo nazionale dell’ebraismo italiano e della Shoah e ci mettiamo in fila, mentre ragazzine saputelle, ma consce del loro compito, scrupolosamente controllano una serie di nomi che sembra non finiscano più. Ma non ci era stato detto che saremmo stati un centinaio al massimo? Al controllo, dopo aver depositato tutto il metallo che possedevamo siamo scrupolosamente palpati. Sto per passare quando fulmineamente mi ricordo d’aver le bretelle con i ganci in ferro. Lancio un urletto e avverto il palpatore. Mi guarda come fossi uno scemo, dice che quelle non contano, mentre febbrilmente penso alle solite truffe dei cinesi che ti vendono ganci di ferro mentre si tratta (forse) di pane masticato e tinto color acciaio.
Nella fila parallela s’accende una diatriba imponente. La voce la conosco: per forza è uno delle archistar fiorentine, che tra l’altro svolge anche il ruolo di rabbino e mio caro amico. Sta sgridando un pezzo grosso dell’organizzazione che non vuol far passare la figlia di Bassani. Alla fine entriamo e siamo di nuovo affidati alle cure di una gentil giovanetta, che indaffaratissima a passo svelto ci fa traversare il giardino. In una specie di recinto riconosco gli amici giornalisti e i fotografi in preda a orgasmo da scatto. Miro e siam mirati mentre la giovane affretta il passo. Afferro la pochette di Portia, le do il braccio e ansimanti arriviamo a una scala. Un secco invito: “terzo piano, salite le scale”. Imploro un ascensore mi si risponde falsamente che non c’è; e infine approdiamo sudaticci e doloranti al loco del desire. Sono le ex celle maschili dove s’aggirano animule vagule e per nulla blandule, sorvegliate dagli occhi di ghiaccio di immusoniti camerieri che servono frittelle fredde – mi pare – e spumantino nelle classiche flûtes di plastica. Uno schermo televisivo sovrasta il tutto.
Portia sfinita s’appoggia al muro; chiedo una seggiola, mi si risponde quasi in un sibilo che non ce ne sono. Domando che la vadano a prendere. Mi guardano con disprezzo. Afferriamo al volo la solita giovanetta chiedendole di portarci di sotto e controllare se, forse, per caso, accidentalmente, non si fossero sbagliati nell’assegnarci la postazione. In fondo la professoressa Prebys è sicuramente una grande benefattrice della cultura ferrarese ed ebraica. Discendiamo le scale che tanto fiduciosamente avevamo salite poi la donzelletta sparisce e ci appare una dama sontuosamente pittata che ha una grossa cartella di fogli misteriosi. Consulto febbrile, conferma che il nostro posto era la piccionaia. Saluta frettolosamente con un ancor più frettoloso ‘scusatemi’ e se ne va. Vediamo allora una importante rappresentante della cultura ferrarese che rivela l’inganno. Non solo gli ascensori ci sono, ma lei stessa l’aveva preso il mattino per la conferenza stampa e non si dà pace della bugia. Ma è ragione di sicurezza!! Sì, penso, va bene però in qualsiasi luogo pubblico, anche d’interesse minore, si debbono predisporre soccorsi per i non abilissimi a sopportare tre ore in piedi, non a dispetto ma proprio in favore della sicurezza. E se qualcuno si fosse sentito male?
Mestamente ripercorriamo il giardino per uscire inseguiti dai flash dei fotografi che ci chiedono ragione della ritirata. Proseguiamo incuranti dei richiami, mentre la fila dei perdenti che s’ingrossa sempre più come a Waterloo s’avvia all’uscita. Incrocio il Sindaco in compagnia del vescovo, che mi guarda con occhio interrogativo. Gli sussurro “lo saprai”. All’uscita l’archistar s’avvia a prendere il treno per Firenze, le signore sconfitte salgono su grandi macchine e noi siamo soccorsi da un autista che ben conosciamo, che affettuosamente ci riaccompagna a casa. Sono le 17.14.
Il presidente Mattarella sta per arrivare: silenziosamente.
La sera si scatena l’inferno. Mi chiamano i giornali cittadini chiedendo conto della ritirata, insinuando motivi volgarotti e banali. Se la prendono con i dirigenti del Meis, che ovviamente non hanno colpa se le direttive – come è assodato – provengono dall’ufficio di sicurezza del Quirinale. Devo promettere smentite feroci per le illazioni. Prebys e io collaboreremo sempre con il Meis, non ce l’abbiamo con loro anzi! Se perfino il rav di Ferrara non può sedere tra gli immortali 70!
Per fortuna la sera rivedo un film di Woody Allen, ‘Tutti dicono i love you’, con le riprese dei miei luoghi dell’anima: Venezia e Parigi. E ancora una volta mi domando: “Ma che ci faccio a ‘Ferara’?” Poi penso: “Va beh! È sempre la mia città”. Soffocando dentro il commento finale che detto in francese suona più fico: “Helas! (Ahimè!)”.
Il giorno dopo ci aspetta una importantissima cerimonia. Per non essere sconfitti ancora e almeno assicurarci una seggiola, un panchetto, un gradino, arriviamo quasi un’ora prima. Tutto è impeccabile. I nostri nomi a lettere di fuoco son stampati sui seggi che ci appartengono e rilassato posso alfine dedicarmi ai cari amici Foscari che avevo incontrato la sera prima anche loro diretti in piccionaia.
Il premio ‘Città di Ferrara’ viene assegnato quest’anno a Ferigo Foscari E’ simboleggiato da un ippogrifo che non sale in cielo, ma è destinato a coloro che si sono particolarmente distinti e che hanno contribuito a valorizzare il prestigio della nostra città. La motivazione dell’assegnazione a Ferigo Foscari Widmann Rezzonico è per aver donato alla città il manoscritto de ‘Il Giardino dei Finzi Contini’ di Giorgio Bassani, attualmente custodito alla biblioteca Ariostea. Alla cerimonia erano presenti il consigliere di Stato, in rappresentanza del Ministero dei beni e delle attività culturali e del turismo, Daniele Ravenna, il presidente della Fondazione Meis, Dario Disegni, il sindaco del Comune di Ferrara, Tiziano Tagliani, il vicesindaco Massimo Maisto e il direttore della Biblioteca Ariostea di Ferrara, Enrico Spinelli, che svolgeva il ruolo di padrone di casa. Alla fine della cerimonia gli invitati, rappresentanti della politica, della cultura e dell’associazionismo ferrarese e nazionale, si sono trasferiti nel giardino della Biblioteca, antico orto botanico di Palazzo Paradiso, un tempo sede dell’Università della città, dove è stata scoperta una lapide in memoria di Teresa Foscolo Foscari, nonna del donatore e musa ispiratrice del romanzo più conosciuto del grande scrittore, che ha ravvisato nella nobildonna veneta la figura di Micol e a cui il manoscritto del romanzo era stato affidato e donato.
La raffinata introduzione di Enrico Spinelli ha messo in luce l’aspetto più propriamente scientifico del manoscritto, la sua straordinaria importanza per chi si voglia dedicare alla ricostruzione delle fasi che portano poi al momento della costruzione di un romanzo, o di una poesia. La filologia al servizio della storia. Ferigo Foscari ha tratteggiato il ritratto della nonna: una donna imperiosa, ma straordinariamente capace di riservare il meglio di sé alla difesa dell’ambiente e del paesaggio, non a caso il rapporto con Bassani è rafforzato dal comune impegno in Italia Nostra. Lo svelamento della lapide a lei dedicata posta in una parte del giardino di Palazzo Paradiso a cui s’accede per raggiungere l’ala dedicata alla biblioteca d’imminente apertura dedicata ai bambini e ai ragazzi è stato un momento di delicata poesia quando Ferigo nello svelare la lapide ha detto che la nonna ora sta in Paradiso pensando al nome del palazzo mentre suo padre Tonci Foscari raccoglie una foglia dal tappeto giallo che la centenaria Ginkgo Biloba ha sparso per terra a rendere omaggio a una donna straordinaria e alla generosità di suo nipote.
“Il primo lotto che inauguriamo è costituito dall’ex-carcere di Ferrara ristrutturato in modo impeccabile per essere adibito a una nuova destinazione d’uso: in una sorta di contrappasso da luogo di segregazione ed esclusione quale è stato per tutta la durata del Novecento si appresta ad assumere il ruolo quanto mai significativo di centro di cultura, di ricerca, di didattica di confronto e dialogo e quindi in una parola di inclusione”. Con queste parole il Presidente della Fondazione Meis Dario Disegni ha aperto mercoledì mattina, 13 dicembre, la conferenza stampa di presentazione della prima grande mostra del Museo Nazionale dell’Ebraismo Italiano e della Shoah, ‘Ebrei, una storia italiana. I primi mille anni’, in quello che una volta è stato il corpo principale delle carceri cittadine.
All’incontro con la stampa, oltra a Disegni, hanno partecipato il ministro dei beni e delle attività culturali e del turismo Dario Franceschini, il sindaco di Ferrara Tiziano Tagliani, il responsabile delle attività culturali di Intesa Sanpaolo Michele Coppola e Daniele Jalla, curatore della mostra insieme ad Anna Foa e Giovanni Lacerenza.
“L’apertura del primo grande edificio del Museo Nazionale dell’Ebraismo Italiano e della Shoah con questa mostra che abbiamo chiamato ‘Ebrei una storia italiana. I primi mille anni’ – ha continuato Disegni – rappresenta una tappa di grandissima rilevanza della realizzazione del museo istituito dal Parlamento della Repubblica. Il MEIS verrà poi completato entro la fine del 2020 con la costruzione di cinque edifici moderni connotati da volumi che richiamano i cinque libri della Torà”, dando così vita ad un grande complesso museale e culturale. “Decisivo per il raggiungimento di questo grande obiettivo il supporto del ministero dei Beni e delle Attività Culturali del Turismo che ha garantito l’intera copertura economica del cantiere grazie al forte sostegno del Ministro Franceschini”, ha concluso il Presidente della Fondazione Meis.
Un momento della conferenza stampa al Meis
Lo stesso Franceschini ha sottolineato la propria emozione: “E’ una giornata personalmente emozionate perché arriva a compimento di un percorso che è iniziato molti anni fa, è un segnale di grande attenzione da parte di tutto lo Stato con la presenza del Presidente della Repubblica questo pomeriggio”. E, da ferrarese, il titolare del Mibact non ha rinunciato a evidenziare ancora una volta il doppio filo che lega Ferrara con la Ferrara ebraica: “Molti mi hanno chiesto perché Ferrara: perchè Ferrara nei secoli di difficoltà ha accolto con solidarietà la comunità ebraica, perché Ferrara è conosciuta nel mondo per Bassani, ‘Il Giardino dei Finzi Contini’, un luogo che esiste, se non concretamente nella città, certo nei nostri cuori ma che non esiste . L’ebraismo a Ferrara è dentro le pietre, dentro le persone. A Ferrara c’era la Nuta, con il suo negozietto in via Mazzini, dove ho potuto conoscere cose meravigliose: la cucina dello storione e del caviale secondo le ricette ebraiche tramandate di generazione in generazione. La cultura ebraica si è incrociata con la vita di tutte le persone”. Tornando al progetto del museo nazionale dell’ebraismo e della Shoah, Franceschini ha affermato: “E’ un impegno che si è concretizzato prima con la legge poi con i finanziamenti, che consentono di completare questo progetto nella parte che vediamo oggi e nella parte che di architettura contemporanea”, che sarà costruita da qui al 2020. “Penso che ci sia un grande futuro a livello internazionale per questo museo, siamo stati insieme al Presidente Disegni e Simonetta Della Seta a presentare il Meis a Gerusalemme e New York e abbiamo trovato una grandissima attenzione perché la storia degli ebrei italiani è conosciuta in tutto il mondo forse più che in Italia. Portare qua i giovani significa investire in conoscenza, investire in conoscenza significa offrire l’antidoto più forte a tutti i rischi e le paure di questo tempo”, ha concluso il Ministro.
La parola è poi passata al sindaco di Ferrara, Tiziano Tagliani: “Io, Renzo Gattegna e Carla Di Francesco abbiamo avviato questo percorso nel periodo tra le due disposizioni normative che regolano l’esistenza del Meis tra il 2003 e il 2006, un ruolo il nostro diverso, ma con una decisione e una caparbietà seconda solo al Ministro nel portare a compimento un’opera significativa per il nostro paese. Non dobbiamo dimenticare il ghetto, i secoli successivi, il contributo che gli ebrei hanno dato alla Prima guerra mondiale. Non dimentichiamo quella classe borghese ricordata nella video rappresentazione di Carrada che ci richiama alla presenza del podestà ebreo di Ferrara, che ha vissuto il passaggio dal governo della città alle leggi razziali e alle persecuzioni. Voglio ringraziare tutti coloro che hanno partecipato a questa storia, credo ci sia stata una collaborazione importante tra la città e il Meis”.
Nel corso della mattinata, infatti, è stata inaugurata anche l’installazione multimediale ‘Con gli occhi degli ebrei italiani’, a cura di Giovanni Carrada – autore di ‘Superquark’ – e di Simonetta Della Seta, direttore del Meis, con la ricerca iconografica di Manuela Fugenzi, la regia di Raffaella Ottaviani e la colonna sonora di Paolo Modugno. Ai visitatori, stretti fra due grandissimi schermi, l’installazione immersiva offre la possibilità di fare un viaggio nel tempo con l’intento di coinvolgere fin dall’inizio il pubblico nei temi che il percorso espositivo del Meis esplorerà.
Una sorta di introduzione a una vicenda che pochi conoscono davvero: la storia degli ebrei e dell’ebraismo in questo paese, perché la loro è una storia che a scuola non si insegna, se non per parlare della Shoah. Una storia che il Meis, una volta completato, narrerà per intero. La mostra inaugurata mercoledì pomeriggio dal Presidente della Repubblica Sergio Mattarella, che non a caso si intitola ‘Ebrei, una storia italiana. I primi mille anni’, narra l’inizio di una vicenda che, fra alti e bassi, dura da 22 secoli, e che ha caratteri del tutto peculiari rispetto alle altre vicende della Diaspora: I-Tal-Ya in ebraico significa “l’isola della rugiada divina”. Lo fa in uno spazio di più di mille metri quadrati e oltre duecento oggetti preziosi, manoscritti, epigrafi di età romana e medievale, e centoventuno tra anelli, sigilli, monete, lucerne e amuleti, poco noti o mai esposti prima, provenienti dai musei di tutto il mondo: dalla Genizah del Cairo al Museo Archeologico Nazionale di Napoli, dai Musei Vaticani alla Bodleian Library di Oxford, dal Jewish Theological Seminary di New York alla Cambridge University Library.
L’obiettivo dei curatori e del Meis è suscitare riflessioni, attraverso la scoperta e la conoscenza di una parte della nostra storia poco nota: un indiretto invito a porsi domande e a ricercare le risposte, che oggi, a differenza del passato, non possono prescindere dai valori del riconoscimento e del rispetto dell’altro e del diverso.
‘Ebrei, una storia italiana. I primi mille anni’ e ‘Con gli occhi degli ebrei italiani’ saranno aperti fino a domenica 16 settembre 2018. Sono visibili dal martedì al mercoledì e dal venerdì alla domenica dalle 10.00 alle 18.00, e il giovedì dalle 10.00 alle 23.00. Giorni di chiusura: tutti i lunedì, 31 marzo (primo giorno di Pesach), 10 settembre (primo giorno di Rosh Hashanà) e 19 settembre (Kippur). Maggiori info su www.meisweb.it
È raddoppiata in dieci anni la raccolta differenziata in Italia; lo dice il Rapporto Ispra uscito pochi giorni fa: dal 25,8% del 2006 si è passati al 52,5% nel 2016 (+5% rispetto al 2015), anche se il Paese rimane in ritardo rispetto all’obiettivo fissato per il 2012 (65%). In Provincia di Ferrara va meglio: il confronto tra alcuni dati sulla produzione di rifiuti e sulla raccolta differenziata nel territorio dei comuni ex Area mostra che in sei anni si è passati da una produzione di rifiuti complessiva di 634 kg/ab a 490 kg/ab e la raccolta differenziata è passata dai 273 Kg/ab ai 365 Kg/ab. Un bel segnale di miglioramento. Il confronto è tra il 2010, quando tutto il territorio era servito con sistema a cassonetti, e il 2016, primo anno di porta a porta a regime in tutti i Comuni soci. Nel primo semestre del 2017 sono stati raccolti 13.230.077 Kg e si è superata ampiamente la percentuale del 70% di raccolta differenziata: un grande risultato che ha permesso anche quest’anno di annoverare diversi Comuni soci di Clara tra gli esempi di buona gestione nella rassegna annuale di Legambiente Emilia Romagna sui Comuni Ricicloni (premiati a Carpi proprio lo scorso 27 novembre).
La credibilità del sistema di raccolta differenziata e delle aziende operanti nel settore è fondamentalmente basata sulla necessità di offrire garanzie circa il rispetto degli obiettivi non solo in termini di percentuali di rifiuti raccolti in modo differenziato, ma anche in termini di qualità del differenziato stesso. Confondere ancora tra raccolto e riciclato non conviene a nessuno, né utilizzare differenti criteri per definire le percentuali dei quantitativi raccolti.
Per coniugare questi vari fattori è necessaria l’adozione di strumenti collaudati e credibili, finalizzati ad aiutare le aziende ad organizzare le attività, razionalizzando i processi e riducendo le diseconomie ma, che al tempo stesso, offrano gli opportuni canali per valorizzare gli sforzi profusi e i traguardi raggiunti. Maggiore trasparenza deve essere posta ad esempio sui criteri con cui raggiungere dette percentuali, smascherando in alcuni casi risultati apparentemente positivi, ma ambientalmente discutibili. Clara infatti per l’organico, la carta e il vetro effettua delle periodiche gare per ottenere il miglior beneficio economico (che in una valutazione di mercato in crescita tende ad essere molo variabile). Questa analisi economica del valore del materiale serve anche per sfatare la leggenda metropolitana che il valore del materiale fa arricchire chi lo raccoglie (e dunque l’impresa).
È inoltre complesso stabilire quale sia la soglia oltre la quale i benefici del recupero di materia sia vantaggiosa rispetto ai costi da sostenere e dunque cercare di far emergere la convenienza delle forme di recupero; ciò dipende anche in buona misura dall’effettiva risposta dei cittadini alle raccolte differenziate, dalla praticabilità di soluzioni come la raccolta porta a porta o il compostaggio domestico, ma anche da altre circostanze. Rimane allora da valutare quali sia la migliore soluzione possibile e per fare questo serve una analisi di dettaglio sia del materiale immesso sia della capacità di raccolta differenziate e della possibilità di reale riciclo. A questo proposito vale la pena ricordare che per “raccolta differenziata” si intende quanto separato alla raccolta in base al tipo e alla natura dei rifiuti (anche alla fine di facilitarne il trattamento), mentre per “recupero” si intende ogni operazione utile all’utilizzo di materiale in sostituzione di altri.
Lo spirito guida della programmazione deve tendere alla ricerca del massimo riciclo (non della massima raccolta differenziata), indipendentemente o comunque senza limitarlo dal raggiungimento di uno specifico obiettivo generale che potrebbe essere non il massimo raggiungibile. E’ importante allineare tutti gli ambiti su livelli omogenei di raccolta differenziate, sempre però senza limitare le iniziative laddove tale obiettivo è stato raggiunto ed in cui è possibile ottenere risultati ancora migliori. Opportuno dunque definire con criteri innovativi le raccolte differenziate (possibilmente con obiettivi di riciclo per materiale, calcolato sulla base dell’immesso in sintonia con le direttive europee).
La composizione merceologica dei rifiuti urbani (in peso e in volume) sta cambiando negli ultimi anni con la crescita delle frazioni secche (carta, plastica, vetro, metalli) rispetto alla frazione organica. Da un confronto di diverse analisi sulla composizione in peso dei rifiuti, l’organico costituisce circa il 30% dei rifiuti urbani, la plastica e gomma circa il 13-15%, la carta e il cartone il 25-27%, il vetro il 5-7% , i metalli il 3-5%.
L’analisi della destinazione dei materiali derivanti dalle operazioni di raccolta differenziata è diventato un elemento fondamentale per la trasparenza del servizio prestato e per la garanzia di rispettarne le regole. I cittadini talvolta infatti sono scarsamente motivati alla collaborazione perché temono che poi il risultato finale non corrisponda a quello dichiarato; in troppi permane infatti ancora il dubbio che “tutto poi finisca in discarica”. Abbiamo dunque il dovere di certificare l’avvenuto riciclaggio con procedure e regole chiare, meglio se controllate e appunto certificate da terzi autorizzati per tale attività (vedi tracciabilità). Anche la qualità del materiale raccolto legato ai concetti di impurità e scarto è un tema che richiederebbe maggiore attenzione. Deve crescere la consapevolezza che il materiale pulito da impurità (altri materiali) ha una migliore possibilità di riciclo e dunque un valore maggiore. Argomento conseguente e di grande importanza è la realizzazione di concrete forme di incentivazione o di premio ai cittadini particolarmente virtuosi e dunque solo chi supera con il proprio contributo la media ottenuta sul territorio.
Mi guardavo attorno, dalla nebbia bagnata sbucavano, sferragliando e cigolando sulle rotaie, i tranvai: significava che la vita era ripresa nella mia città d’adozione, così diversa da quella lenta dov’ero nato, qui ognuno aveva una meta da raggiungere il più in fretta possibile. Il ragazzo con il cabaret delle brioches, o meglio, delle ‘ofelle’, sgambettava veloce per raggiungere il bar dove, ogni mattina, il vecchio che leggeva il giornale seduto a un tavolino, lo guardava e immancabilmente dava voce alla sua corsa: “ti, pirlèta, porta una pasta, ma senza crema, che la fa mal, t’è capì? ufelè fa el to mestè.”
Insomma, mi guardai attorno e mi dissi: “siamo a Milano”. Avevo appuntamento quella mattina con un signore che conoscevo di fama, un personaggio che mi intimidiva e, insieme, m’incuriosiva: Simon Wiesenthal. Due anni prima aveva individuato e fatto arrestare in Argentina il famigerato Eichmann, l’uomo che aveva inventato e gestito, con l’ordine di un buon imprenditore, i campi di sterminio, tra le sue mani insanguinate erano passati milioni di ebrei e di antifascisti. Quasi tutti morti, ma sempre con il proprio numero tatuato sul braccio.
Simon Wiesenthal era venuto a Milano per presentare quello che sarebbe diventato un grande best- seller, ‘Gli assassini sono tra noi’. Raggiunsi il luogo dell’appuntamento, una camera di uno squallido appartamento nell’ex ghetto milanese, una scrivania e un armadio pieno di scartoffie. Era stimolante il vecchio Wiesenthal, anche se non parlava molto, pensai che mi sarei dovuto inventare una parte dell’intervista. Mi disse della sua prigionia nel campo di Mauthausen, delle sofferenze, della morte di tante persone, che venivano prelevate e non tornavano più. Io sentivo il groppo in gola ingrossarsi e non riuscivo a inghiottirlo, fu in quei momenti che ricordai un documentario visto al cinema-teatro Ristori subito dopo la guerra. Quando la mamma disse “bambini andiamo al cinema” fu una festa: dopo tre anni si tornava alla vita, allo spettacolo, al divertimento. Ci sedemmo nelle poltrone di prima galleria e aspettammo con ansia l’inizio, ma prima c’era un documentario sulle truppe alleate che aprivano le porte del campo di sterminio di Mauthausen: centinaia, migliaia, di cadaveri nudi, sembravano stracci, erano stati donne e uomini, avevano amato, sperato, sofferto. Morti ammazzati, torturati, gasati. Fuggimmo, per la prima volta comprendemmo che cosa era stata la guerra. Non dormii per diverse notti e ora, pensavo, avevo davanti a me uno di quegli esseri che soltanto il caso aveva preservato.
Wiesenthal mise le mani tra i pacchi di libri sulla sua scrivania, ne trasse uno e me lo porse, era ‘Gli assassini sono tra noi’. Poi spiegò che era a Milano soprattutto per rintracciare uno dei più stretti collaboratori del dottor Mengele, il famigerato medico vicinissimo a Hitler, quello che faceva esperimenti obbrobriosi sui bambini dei lager. Il suo obiettivo si chiamava Rajakovitz e a Milano aveva fondato una società di import-export, la Raja in viale Maino, la circonvallazione interna che di notte si riempiva di puttane e di magnaccia. Quando però giungemmo negli uffici della Raja, qualcuno ci aveva preceduto e gli armadi erano stati ripuliti. Non soltanto gli assassini sono tra noi, anche le spie. Di Rajakovitz non si è mai più avuta notizia. Sparito, assorbito da questa società complice.
A metà dicembre a Ferrara, dopo alcuni anni di assenza, si ricostituisce l’associazione Radicali Ferrara, in sintonia con l’ultimo Congresso di Radicali Italiani e per sostenere la lista +Europa di Emma Bonino. Proprio mentre crescono pericolosamente i populismi e le nuove destre, ammiccanti a segnali fascisti e ai naziskin, come babbi natale tutti i principali attori della politica annunciano insostenibili doni elettorali: chi una flat tax al 15 per cento che aprirebbe un pauroso buco di bilancio, chi i tagli delle tasse in deficit, anziché riducendo la
spesa pubblica e, infine, chi propone un reddito di cittadinanza che costerebbe 17 miliardi anziché tagliare la spesa e gli sprechi; il tutto avviene lasciando intatti i principali problemi da cui dipende il futuro del Paese.
La propaganda su bonus e tasse, senza riforme strutturali, è fallimentare in un paese che spende 70 miliardi l’anno in interessi sul debito. Con questi babbi natale non c’è futuro. Per non parlare, un esempio fra i tanti, della volontà di introdurre il vincolo di mandato, aspetto che accomuna Berlusconi al M5S, contro la saggezza dei
costituenti, contro un principio liberale che sta alla base della democrazia rappresentativa. Invece noi crediamo che per affrontare le grandi questioni del nostro tempo occorrano risposte più ampie e responsabili e che queste le possano dare solo un’Italia più europea in un’Europa unita e democratica. Per avere – anche in Italia – più crescita, più diritti, più democrazia, più libertà, più opportunità, più sicurezza, più responsabilità, più rispetto dell’ambiente, serve più Europa. Servono idee e politica, non babbi natale elettorali.
Provate ad immaginare di vivere in un appartamento in affitto il cui contratto di locazione sta per scadere dopo pochi mesi. La casa ha bisogno di una costosa ristrutturazione. Pensate che il proprietario dell’immobile vi dica di provvedere voi a sistemare tutto, a vostre spese ma, ci tiene a sottolineare, non è certo che alla scadenza del contratto ne sarete voi il beneficiario. Potrebbe essere un’altra persona e tutto quello che voi avete speso andrebbe perso. Voi accettereste?
Questo è solo un esempio, per indicare l’attuale situazione esistente tra Hera S.p.A. e il Comune di Ferrara. Hera ha investito milioni di euro nel cambiare un sistema di raccolta rifiuti, le famigerate Calotte, quando mancavano pochi mesi alla scadenza del bando che in teoria dovrebbe essere rinnovato a fine dicembre 2017. E’ scontato che vi sarà una proroga, altra usanza abbastanza conosciuta da Hera che già opera in prorogatio in altri capoluoghi di regione.
Hera in risposta a dei quesiti formulati da un altro comitato ha dichiarato che l’introduzione del nuovo sistema a calotte “è stata una scelta del comune di Ferrara che ha preferito anticipare il conseguimento dell’obiettivo del 70% di differenziata entro il 2020, evitando il rischio di una penalizzazione in caso di mancato rispetto dell’obiettivo per ritardi nell’assegnazione della gara”. E’ questo un improvviso sforzo di etica da parte di una società per azioni quotata in Borsa? Uno slancio umanitario, rivolto esclusivamente al bene della collettività?
Qualcosa non ancora quadra o per lo meno non convince.
Per ritornare al nostro esempio iniziale, nessuno di noi accetterebbe di ristrutturare un appartamento dove ne godrà i benefici un’altra persona, a meno che il proprietario ci garantisca che tutto quello che abbiamo speso ci venga restituito se e quando dovremo lasciare casa o se lo stesso ci assicuri che, quando arriveremo a scadenza contratto, il rinnovo sarà a nostro favore. Nessuna persona assennata butterebbe un sacco di denaro in un contesto di totale incertezza e senza poterne beneficiare dei risultati.
Ecco perché ad oggi le domande rimangono forti nella testa. Cambiare tutto, darsi da fare e sobbarcarsi tutti gli oneri, non solo economici, di una intera manovra come quella di rivoluzionare la mente dei cittadini in un processo di raccolta rifiuti, per puro spirito di servizio all’ente comunale?
Inoltre, nell’affermazione succitata, è la stessa Hera a fornirci altre incertezze: il comune richiede di anticipare di due anni una procedura di raccolta per non incorrere in una penalizzazione in caso di ritardi nell’assegnazione della gara. Ci domandiamo, perché agire in regime di necessità ed urgenza, quando la situazione avrebbe potuto essere affrontata nel 2018, ponendo al vaglio anche proposte di altri gestori, se non per giustificare la prorogatio?
Una recente sentenza ANAC ha ribadito le sue forti perplessità in merito all’applicazione della proroga, che ritiene essere una metodologia poco funzionale alle esigenze del pubblico interesse. Continuiamo a rimanere perplessi, attendiamo ora che le domande poste a Hera abbiano una risposta dalla giunta comunale, quale detentrice dell’interesse pubblico e, purtroppo anche privato, in qualità di socio Hera.
E’ stato approvato da poche settimane un disegno di legge per far in modo che la cannabis terapeutica sia regolamentata a livello nazionale. Una legge che rivoluzionerebbe la vita di migliaia di persone che si affidano a questo tipo di cura, soprattutto per il dolore cronico. Elisabetta è una di loro: una donna che da anni combatte con una serie di patologie e, grazie alla cannabis, aveva ritrovato una serenità nella sua vita. Serenità che, però, le sta venendo meno. Ecco il perché.
“Sono affetta da varie patologie neurologiche che mi hanno portato negli anni a soffrire di dolore cronico. Sono stata curata con antidepressivi e flebol, farmaci dati per la cura del dolore cronico. E poi ancora oppiacei, morfina, ma sono diventata farmaco-resistente. Aggiungiamo anche varie allergie che mi hanno portato questi trattamenti, uniti a blocchi intestinali. In sintesi non posso più usare questa tipologia di farmaci. A questo punto, fortunatamente, non mi sono scoraggiata e ho iniziato a cercare delle soluzioni su Google, fino ad arrivare alla cannabis terapeutica. Ma qui c’è un primo ostacolo: dove andare? I malati non sanno a chi rivolgersi. Io poi ho iniziato il trattamento due anni fa e la situazione era anche peggiore rispetto a oggi. Il primo input è stato quello di andare all’ospedale di Pisa, visto che la Toscana all’epoca era all’avanguardia. Una volta lì, esaminata la mia documentazione medica che attestava la farmaco-resistenza, mi hanno inserita subito nel protocollo di cura“.
“Secondo problema: dove reperire il farmaco – continua Elisabetta – Sempre internet mi è stato utile e ho trovato una farmacia nel ferrarese. Terzo problema: aspetto economico. Quando ho iniziato la cannabis costava 30 euro al grammo. Adesso siamo scesi sui 9 euro (esclusi, naturalmente, i costi vivi della farmacia)”.
E anche dopo aver iniziato la cura, prosegue Elisabetta, i problemi non sono finiti: “non c’è nessuno che ti dica quali siano gli effetti, non c’è un bugiardino, e non sapevo a chi chiedere. Da qui è nata l’idea del gruppo facebook ‘dolore e cannabis terapeutica‘ come luogo di confronto tra persone. Su questo servirebbe una migliore triangolazione tra paziente, farmacista e medico. Il fattore ansia va tolto”.
Passando ora ai lati positivi: “Dopo due sere di decotto, comunque, ho notato una cosa: sono riuscita a dormire, dopo anni nei quali non avevo più dormito un’intera notte. Un po’ di più ho dovuto aspettare per l’abbassamento della sensazione di dolore. Da lì, sempre attraverso le mie ricerche, ho trovato un medico privato, esperto in cannabinoidi, il quale mi ha fatto un piano terapeutico ‘su misura‘. Da questo momento c’è stata la svolta: dal decotto sono passata a oli e vaporizzatori e dolore, tremore e i sintomi che non mi permettevano di parlare o mangiare bene, erano sotto controllo. Una vera e propria rincorsa al benessere oltre che alla salute. Un aumento della qualità della vita e della dignità del dolore”.
Qui, però, la storia di questa coraggiosa donna prende una strana piega. “Adesso sta succedendo una cosa che fa rabbia a me e a tutti i malati soggetti a questa terapia: non abbiamo più la continuità terapeutica. E questo si traduce nel riacutizzarsi dei sintomi e in un calo della qualità della vita. Ho due possibilità di cura: bedrocan e bedica. Il primo è ancora presente in qualche farmacia, ma non si sa per quanto. Il secondo, invece, è terminato e fino alla fine di gennaio non ci sarà possibilità di importazione. Il bedica, per far capire la mia preoccupazione, è il farmaco che mi permette di dormire, di mangiare: in pratica, nel mio piano terapeutico, è fondamentale. Il bedrolite, invece, molto usato dai bambini e da chi soffre di epilessia, non si trova addirittura da maggio. Si va verso una fine anno drammatica: io stessa rischio di tornare in ospedale. Vorrei sottolineare che la paura di tornare al dolore, espone i malati a qualsiasi rischio, anche quello di rivolgersi a degli spacciatori, per disperazione”.
Di fronte a Elisabetta, nella sede comunale del Gruppo Consiliare Sinistra Italiana, c’è Leonardo Fiorentini, da sempre impegnato sul fronte della legislazione sulla cannabis terapeutica, che aggiunge ironicamente: “rischia anche meno che coltivarsela in casa”. Prosegue poi Elisabetta: “in Canada si coltiva per i malati in centri appositi. Qui ci stanno completamente ignorando. Abbiamo fatto una diffida mandata all’Aifa, al Ministero della Salute e alla Procura della Repubblica di Roma a inizio ottobre e non ci hanno ancora risposto, nonostante siano legalmente passibili di querela perché hanno sei settimane per rispondere. Siamo abbandonati a noi stessi.” E Fiorentini aggiunge: “Molti i malati che si curano con la cannabis, sono visti come drogati, se riuscissimo ad approvare la legge sulla cannabis terapeutica almeno affermeremo il diritto alla cura. Sempre tramite questa legge ci saranno fondi per l’aumento della produzione dell’Istituto farmaceutico militare di Firenze, che al momento produce solo un tipo di cannabis, ne dovrebbe produrre anche un altro. Questa proposta normativa però autorizza l’Istituto a rivolgersi a coltivatori terzi, soprattutto i colossi canadesi, statunitensi e israeliani, che possono fornire la sostanza. E’ una legge ‘innocua’ che dovrebbe passare in Senato, soprattutto perché non c’è nulla sull’uso ricreativo e, purtroppo, è stata tolta anche la possibilità di coltivazione da parte di chi è malato”. Già perché chi è malato, se coltiva per uso terapeutico, incorre nell’arresto anche se dimostra di farlo per terapia.
Sul finire di questa intervista Elisabetta aggiunge che “l’importante per noi malati è aumentare l’importazione e gli importatori. Tutti gli Stati hanno almeno quattro produttori, noi ne abbiamo solo uno. Questo aumenterebbe anche la possibilità di avere prodotti diversi e quindi fare terapie mirate per ogni soggetto. Ogni fisico reagisce in maniera personale alla cannabis e quindi la terapia va ‘cucita’ addosso al paziente. Assicuro che quando si trova il giusto dosaggio con il giusto tipo di cannabinoide, si sta bene. Faccio un esempio: quest’estate sono riuscita a fare trekking alle Cinque Terre, adesso sono qui messa così, sulla sedia a rotelle. Per tornare al lato economico, aggiungo che qui e in poche altre regioni la cannabis è rientrata tra i medicinali a carico del sistema sanitario, in altre no, il che crea gravissimi problemi perché ci sono delle resine, usate soprattutto in campo oncologico, che costano migliaia di euro al mese.”
Elisabetta conclude con questo accorato appello: “Spero tanto che lo Stato si muova e faccia qualcosa perché le persone stanno male, e non è giusto che stiano così.”
Ferraraincomune è una nuova associazione politico-culturale, costituita da un gruppo di cittadine e cittadini che intendono impegnarsi per elaborare e attuare proposte per la città di Ferrara.
L’azione di ferraraincomune vuole opporsi e lavorare per costruire un’alternativa al pensiero e alle scelte che, in questi anni, hanno messo al centro il mercato e le sue priorità, quel neoliberismo che ha acuito le disuguaglianze economiche e compresso verso il basso le condizioni di vita, i diritti del lavoro e di cittadinanza, ridimensionato le tutele sociali e l’intervento pubblico, considerati l’ambiente e i Beni Comuni come semplici merci da sfruttare, ridotto il ruolo e la pratica della democrazia, esaltato lo spirito individualistico.
La nostra città, vista la sua economia debole e le scelte dei governi locali centrate sulla riduzione del debito, ha subito più di altre i colpi della crisi più lunga del dopoguerra e presenta oggi una società impoverita, interi quartieri con segni di degrado urbano e fenomeni di disagio sociale. Le cifre della disoccupazione, specie giovanile e femminile, l’allargarsi del lavoro precario e sottopagato, l’aumento delle famiglie che vivono sotto la soglia di povertà, fotografano in modo drammatico i problemi di fondo che Ferrara, i suoi cittadini, il suo governo devono affrontare per risalire la china e porre le basi per un futuro migliore.
Ferraraincomune ritiene che la strada da imboccare debba essere prima di tutto quella del rilancio della democrazia e della partecipazione. Nella nostra città assistiamo, infatti, ad un progressivo inaridirsi dei luoghi dove i cittadini singoli e organizzati sono chiamati a discutere, controllare e giudicare le scelte operate dalla amministrazione pubblica come dalle aziende municipalizzate o dalle multiutility concessionarie di servizi pubblici. I problemi della Ferrara presente, come i progetti per la Ferrara futura, non devono rimanere confinati nell’aula del Consiglio Comunale e nelle polemiche tra i partiti, ma occorre sperimentare nuove sedi e nuove forme di rappresentanza e di cittadinanza attiva.
Non partiamo però da zero. Ferrara esprime anche una grande ricchezza sociale e culturale: sono moltissimi i soggetti, i gruppi, le associazioni culturali e di volontariato sociale che lavorano attivamente in campi e su problemi specifici. Manca però una realtà che interconnetta nel loro complesso le grandi questioni che stanno alla base del vivere urbano, e proprio qui starebbe l’ambizioso progetto di ferraraincomune.
L’associazione politico-culturale ferraraincomune, collaborando con tutte le associazioni cittadine interessate, ritiene quindi urgente intervenire su alcuni temi cruciali (anche se altri potranno aggiungersi) e su cui costruire proposte coraggiose e innovative per la nostra città:
• la sperimentazione di nuove forme decisionali e di controllo ispirate alla democrazia partecipativa;
• il rilancio e la qualificazione di politiche più efficaci rivolte all’accoglienza e all’integrazione, a partire dai migranti;
• l’adozione di misure rivolte alla promozione del lavoro dignitoso e di qualità;
• l’elaborazione di nuove linee nel campo della cultura e dell’istruzione, con particolare attenzione alla dimensione di base e delle periferie;
• la valorizzazione dell’ambiente naturale e urbano;
• l’affermazione dei Beni Comuni, promuovendone la gestione pubblica e partecipata.
Chiunque sia interessato a partecipare o a maggiori informazioni su ferraraincomune può scrivere a ferraraincomune@gmail.com.
Secondo i dati Istat (aggiornati al 31 dicembre 2016) la popolazione residente in Italia è di 60.589.445 persone, di cui 5.026.153 di cittadinanza straniera, pari all’8,3% del totale. Tra questi, i cittadini non comunitari regolarmente presenti in Italia sono 3.931.133, il 78% del totale di stranieri censiti. Mediamente pertanto, 1 cittadino su 12 è straniero, un rapporto però che è estremamente variabile in funzione dei territori che si prendono in considerazione: notoriamente la popolazione straniera si concentra nel Centro-Nord, che ospita quasi l’84% del totale, mentre il Sud ospita un assai modesto 11% e le Isole circa il 5%.
A Milano, Brescia e Prato per esempio, la percentuale sfiora il 19% mentre a Palermo è inferiore al 4%; quote appena superiori si riscontrano a Bari, Catania e Foggia (4%); a Trento la percentuale è dell’11%, mentre a Ferrara si assesta intorno al 10%; a Monfalcone arriva quasi al 21% (dati Istat 2017).
Il tasso di crescita del numero di stranieri residenti in Italia appare in tutta evidenza se si confrontano i dati dei censimenti a partire dal 1961, anno in cui ne furono registrati 62.780; nel censimento del 1971 erano 121.116 e nel 1981 ammontavano a 210.937. Nel censimento del 2001 si registravano già 1.334.889 presenze straniere mentre, nell’ultimo censimento del 2011, il numero era salito a 4.027627 (Fonte: Italia in cifre 2016, Istat). In sintesi il numero di stranieri nel nostro Paese risulta quintuplicato in meno di 20 anni: si tratta della crescita relativa più marcata registrata tra i paesi europei per i quali sono disponibili i dati.
Dal lato degli ingressi, ad alimentare il numero degli stranieri in Italia concorrono non solo le migrazioni dall’estero (il saldo migratorio annuale è positivo con oltre 200 mila stranieri), ma anche i tanti nati nel nostro Paese da genitori entrambi stranieri, le cosiddette seconde generazioni. Dal 2008 le nascite da coppie non italiane sono più di 70 mila all’anno, nonostante una lieve diminuzione tra il 2013 e il 2014. Dal lato delle uscite, oltre alla mortalità e alla cancellazione per l’estero o per altre cause, si registra un numero crescente di persone che ogni anno da straniere diventano italiane (178 mila nel 2015, più di 200.000 nel 2016 per un totale di oltre 1.150.000 persone che hanno ottenuto cittadinanza italiana).
E’ noto che la popolazione straniera residente in Italia presenta una struttura demografica molto diversa dalla popolazione di cittadinanza italiana: per quest’ultima l’indice di vecchiaia (ossia il rapporto tra popolazione ultra sessantacinquenne e popolazione con meno di 15 anni) è il più alto d’Europa con 176 anziani ogni 100 ragazzi, mentre per la popolazione straniera è di 15 anziani ogni 100 ragazzi, il valore più basso dell’Unione. La popolazione straniera è molto giovane (età media sotto i 34 anni), anche se con notevoli differenze tra i diversi gruppi. In generale, la quota di ragazzi (0-14 anni) fra gli stranieri è superiore di 5 punti percentuali a quella che si riscontra fra gli italiani nella stessa fascia d’età. La classe di età tra 15 e 39 anni pesa per il 45% sul totale della popolazione straniera, mentre in quella italiana pesa per poco più del 26%. Al contrario le persone con 65 anni e più fra gli stranieri hanno un’incidenza di poco superiore al 3%, mentre nella popolazione italiana si avvicinano al 24%.
La composizione per genere della popolazione straniera in Italia è mediamente equilibrata (51,4% femmine). Secondo il rapporto Istat sui cittadini non comunitari questo equilibrio nasconde però situazioni molto differenti fra le diverse origini: alcune nazionalità, come quella ucraina, sono sbilanciate al femminile, mentre fra gli originari del Bangladesh, per esempio, si registra una prevalenza maschile. Per diversi gruppi l’equilibrio tra i sessi è stata una condizione raggiunta nel tempo, come nel caso dei marocchini per i quali si registrava in passato un più netto squilibrio a favore dei maschi.
Tutti, italiani e stranieri regolarmente residenti, vivono in un bellissimo paese, caratterizzato però da una disoccupazione media superiore all’11%, da una disoccupazione giovanile che viaggia da tempo tra il 35 e il 40%, dal drammatico ridimensionamento dello Stato sociale, da una corruzione diffusa e dalla forte presenza di organizzazioni di stampo mafioso fortemente radicate e inserite nei circuiti istituzionali. L’Italia, inoltre, è caratterizzata da una pressione fiscale esagerata sulle imprese (68% dei profitti secondo i dati Cgia Mestre), con oltre 9 milioni di italiani a rischio povertà che non ce la fanno più (fonte: AdnKronos); un paese dal quale emigrano (fuggono) italiani con un’incidenza che, secondo l’Ocse porta l’Italia all’ottavo posto mondiale nei paesi di provenienza delle nuove migrazioni (subito dopo il Messico e davanti a Vietnam e Afghanistan) con cifre che vengono stimate mediamente superiori ai 200.000 casi (fonte: Il Sole24ore, 6 luglio 2017). Un paese dal quale moltissimi giovani spesso preparati e formati emigrano in nazioni che consentano loro di mettere a frutto i propri talenti (Regno Unito e Germania in primis) e, infine, un posto nel quale sembra non si riesca a incidere su privilegi scandalosi: pensioni d’oro, baby pensioni, buonuscite faraoniche, falsi invalidi e falsi ammalati.
E’ all’interno di questo quadro generale estremamente complesso che va collocato il flusso migratorio della rotta mediterranea: quello dei barconi e delle ong, quello più drammatico e assai verosimilmente quello più fuori controllo; quello più attenzionato dai media che qui trovano una miniera dalla quale estrarre di volta in volta notizie strappalacrime di bimbi spiaggiati o violenze perpetrate sulle donne, prevaricazioni sui migranti o violenze gratuite sui residenti italiani, torbide storie di sesso e corruzione, equamente distribuite tra stampa di destra e sinistra, ma comunque ottime per attrarre l’attenzione, aizzare gli animi, commuovere o indignare e, naturalmente, vendere. Quel flusso che è ormai diventato per molti cittadini sinonimo di ogni tipo di migrazione, che è invece cosa molto più vasta e complessa e che alimenta il gigantesco business dell’accoglienza.
Il sito Unhcr (Agenzia Onu per i rifugiati) segnala che gli arrivi via mare regolarmente registrati in Italia sono stati nel corso del 2017 (al 31 novembre) oltre 121.000, che si aggiungono ai 181.486 del 2016, ai 154.000 del 2015 e ai 170.000 dei 2014 e ai 40.000 del 2013, per un totale di oltre 650.000 persone arrivate sulle coste italiane negli ultimi cinque anni. Il dato ovviamente non tiene conto nè dei flussi che arrivano via mare senza essere intercettati (di cui nulla si può sapere) nè dei flussi che passano per altre possibili rotte indirette (di cui poco si dice e si parla). La medesima fonte, liberamente consultabile e costantemente aggiornata, mostra che i paesi di origine sono soprattutto quelli dell’Africa nera subsahariana, zona dalla quale proviene oltre il 75% degli sbarchi dell’ultimo anno. Il medesimo sito offre anche una rappresentazione sintetica per genere (novembre 2017): da qui si apprende che tra gli arrivati via mare in Italia il 74,5% sono maschi mentre solamente 11% sono femmine, essendo il rimanente 14,5% rappresentato da minori. Questi ultimi sono spesso di età compresa tra i 14 e i 18 anni e in grandissima maggioranza maschi, seppure con forti variazioni relative agli stati di provenienza. In tale situazione è ragionevole pensare che una quota almeno pari ad 85% degli sbarchi totali registrati sia rappresentata da maschi giovani e giovanissimi di età compresa tra i 14 e 30 anni.
A sostegno di tale stima nel rapporto Istat già menzionato, pubblicato il 17 ottobre di quest’anno, s legge: “la composizione di genere dei richiedenti asilo è particolarmente squilibrata, nell’88,4% dei casi si tratta di uomini. La quota di donne più elevata, poco meno del 24%, si registra per la Nigeria, scende al 12% per la costa d’Avorio e si colloca sotto il 3% per tutte le principali collettività arrivate in Italia in cerca di protezione. I minori rappresentano il 3,2% dei flussi in ingresso per queste motivazioni”.
Questa composizione di genere fortemente polarizzata è decisamente allarmante per un paese caratterizzato da una forte carenza di posti di lavoro. Ed è inquietante per una certa cultura che negli ultimi decenni ha fatto della parità di genere una bandiera, costretta oggi a confrontarsi con realtà culturali assolutamente diverse, spesso caratterizzate da un rapporto maschile-femminile assai lontano dallo stereotipo (apparentemente) dominante in occidente.
Tenuto poi conto che, secondo i dati del Ministero dell’Interno, i dinieghi alla richiesta di asilo sono stati il 58% nel 2015 e il 60% nel 2016 e che la proporzione di rifugiati riconosciuti come tali è molto bassa (mediamente 5% ai quali vanno aggiunte le richieste sussidiarie ed umanitarie accettate) ci si devono porre molte domande sul senso e la qualità di quella che viene definita ‘accoglienza’; nonché sulle motivazioni, sulle risorse, sulle aspettative che spingono e sulle modalità che muovono così tanti giovani ad assumersi il rischio e il costo (dai 1.000 ai 3.000 euro secondo alcune stime) di un viaggio così lungo e pericoloso; un viaggio semplicemente impensabile senza la presenza di informazioni, persone, organizzazioni, reti di collusione e di corruzione, capaci di costruire una solida domanda e quindi un florido mercato.
Di cosa dovrebbero dunque vivere e cosa dovrebbero fare mezzo milione di giovani maschi approdati sulle coste italiane senza compagne, senza famiglia, senza competenze e con poche risorse relazionali in loco che ne facilitino l’inserimento? In che modo dovrebbero regolare la naturale esuberanza giovanile? Che vita dovrebbero condurre una volta usciti dal circuito della prima accoglienza? In che modo dovrebbero guadagnarsi da vivere senza scivolare loro malgrado nella delinquenza o dipendere dai sussidi pubblici o dalla possibile carità dei privati?
Più in generale che l’intero sistema dell’integrazione non funzioni così bene come alcuni professano, trapela dalla composizione della popolazione carceraria: piaccia o meno, i dati mostrano che la percentuale di detenuti stranieri nelle carceri italiane è del 27% (ed è quasi esclusivamente composta da maschi) vale a dire 3,5 volte maggiore di quanto ci si aspetterebbe se i crimini che causano la detenzione fossero equamente distribuiti tra popolazione residente italiana e straniera. Inoltre, piaccia o meno, i dati confermano che le piazze dello spaccio e della prostituzione in molte città italiane sono ormai in mano a specifiche etnie arrivate negli ultimi anni e (purtroppo) non di rado attraverso i percorsi della cosiddetta ‘accoglienza’. Accoglienza che, lo dice il nome stesso, non può essere imposta con la forza senza che si trasformi in qualcos’altro.
Poiché tuttavia, grande è il timore di superare i limiti violentemente imposti dal pensiero unico politicamente corretto ed è oggettivamente molto difficile cercare di comprendere il fenomeno migratorio affrontandolo francamente e da diverse prospettive, resta più che mai vivo il pregiudizio rancoroso su cui si reggono le argomentazioni delle opposte fazioni dei contrari e dei sostenitori dell’accoglienza obbligatoria, e più in generale, dei tanti che non vogliono neppure tentare di capire la realtà. Una situazione che rende più difficile ogni tentativo di trovare (doverose) soluzioni innovative (che pure esistono) e di intervenire con successo in un sistema globale che produce sempre più emarginati (di tutte le razze e nazioni) e li mette in competizione tra di loro. Una situazione non propriamente ottimale anche in vista della campagna per le prossime elezioni dove il tema migrazione, c’è da scommetterci, sarà usato da destra e da sinistra come una clava per conquistare consensi.
In Italia il sistema di raccolta tradizionalmente più diffuso è ancora quello che utilizza i contenitori stradali, in grado di intercettare mediamente il 34% della raccolta differenziata; si sta però progressivamente diffondendo in molte zone, tra cui i territori in cui opera Clara, il porta a porta.
Sul porta a porta da tempo si è sviluppato un interessante dibattito che vale la pena riprendere. L’applicazione di questa forma gestionale, infatti, sta diventando uno dei temi principali di confronto sia economico che gestionale. Ecco alcune considerazioni di merito con qualche valutazione:
Questa soluzione gestionale in determinati contesti permette risultati significativi nel raggiungimento degli obiettivi e dovrebbe avere maggiore spazio; in alcune realtà potrebbe tuttavia comportare maggiori costi per il gestore.
Ogni territorio, avendo la sua specificità, raggiunge obiettivi di raccolta differenziata diversi rispetto a zone con caratteristiche differenti; il porta a porta ottiene le performance più elevate nei comuni fino ad 80.000 abitanti circa.
È fondamentale il coinvolgimento di quella larga fascia d’utenza non domestica che rappresenta una grossa quota quali-quantitativa nelle raccolte differenziate; produttori di oltre il 50% dei rifiuti con qualità del loro rifiuto selezionato. Bisogna spingere in particolare bar, ristoranti, fruttivendoli, uffici, negozi, etc. con specifici servizi dedicati e sistemi di raccolta porta a porta adattati ai loro bisogni.
L’attivazione di circuiti di raccolta domiciliari per la frazione organica (con una elevata e capillare frequenza), consente la riduzione della frazione putrescibile nel residuo.
Il porta a porta aumenta il coinvolgimento dei cittadini e consente un rapporto (controllo) più diretto. La raccolta puntale permette frequenti, metodiche e costanti informazioni sui livelli raggiunti, sul grado di impegno e sui risultati ottenuti per aree.
Il Porta a porta migliora la qualità del materiale raccolto riducendo impurità e scarto.
Aiuta a valorizzare la definizione nell’applicazione della Tariffa. Il sistema puntuale di raccolta favorisce una migliore conoscenza economica da parte degli utenti coinvolti.
Un tema importante e spesso difficilmente affrontabile (purtroppo) è la valutazione economica ed il confronto di convenienza per un presunto costo elevato legato al basso livello di industrializzazione del servizio; vede dunque sfavoriti le grandi città e le zone ad alta densità urbanistica.
Clara ha dato una crescente attenzione al porta a porta, con importanti risultati sia in termini di qualità del servizio sia in termini recupero di materia. Oggi tutti i Comuni del medio e basso ferrarese (ex Area) e quattro dei cinque comuni dell’alto ferrarese (tutti a eccezione di Vigarano Mainarda e la località Sant’Agostino di Terre del Reno) vengono gestiti con sistema porta a porta. L’avvio del sistema domiciliare in ogni comune, avvenuto gradualmente a partire dal 2010, è stato preceduto da campagne capillari di comunicazione, con visite a domicilio, incontri pubblici e dettagliati materiali informativi. È chiaro, infatti, che senza l’adesione e la comprensione da parte dei cittadini, un metodo simile – che richiede indubbiamente uno sforzo partecipativo maggiore da parte dei singoli individui – non potrebbe funzionare.
Ogni anno, per ciascun Comune servito, vengono predisposti uno o più calendari (in base alle zone in cui è suddiviso organizzativamente il territorio comunale). Per agevolare il compito dei cittadini i calendari stampati vengono consegnati insieme al Kit annuale di sacchi oppure distribuiti tramite posta o tramite agenzie di recapito. È inoltre sempre possibile consultarli e scaricarli dal sito istituzionale dell’azienda (www.clarambiente.it), selezionando il proprio Comune e la zona di riferimento.
Clara ha evidenziato la sua convinzione sull’efficacia del porta a porta anche nel ‘Manifesto per la rinascita dei rifiuti’, il documento presentato in occasione dell’assemblea costitutiva della nuova società, che raccoglie i valori e i modelli della nuova società. Nel Manifesto si afferma che per raggiungere elevati livelli di recupero di materia c’è solo un metodo di lavoro: il porta a porta. Raccogliendo casa per casa ogni genere di rifiuto in maniera differenziata, ma soprattutto attivando un principio di responsabilità nei confronti di ciascun cittadino, che a fronte di un maggiore impegno richiesto, garantisce risultati qualitativi e quantitativi molto più elevati. I risultati sono facilmente misurabili: nei Comuni Clara serviti con sistema porta a porta l’indifferenziato avviato a smaltimento è passato dai 361 Kg pro capite del 2010 (quando tutti i comuni erano ancora serviti con cassonetti stradali) ai 125 kg medi pro capite del 2016. Ed è aumentata proporzionalmente la raccolta differenziata: la media territoriale è salita dal 43,39% del 2010 al 74,43% del 2016.
Importante, nel Manifesto, anche un principio che spesso viene utilizzato in modo critico da chi non è convinto sul porta a porta, giudicato dispendioso: “Tutto questo porta anche a un significativo aumento dell’occupazione, a parità di costi per la collettività. Infatti, invece di spendere denaro per conferire i rifiuti indifferenziati in impianti/discariche o inceneritori/termovalorizzatori, le risorse vengono investite nel maggiore personale necessario sul territorio per la gestione del servizio porta a porta. Con un beneficio per le comunità locali”.
Il ciclo dei rifiuti urbani e la gestione degli stessi (raccolta e smaltimento) hanno un profondo impatto sull’ecosistema, sull’economia dei servizi pubblici, ma anche sulla salute e sulla politica industriale di un territorio. La conoscenza di questi impatti è un elemento fondamentale per la qualità del processo e deve essere messa a disposizione di tutti gli interlocutori del sistema per perseguire un’attenta politica ambientale orientata alla sostenibilità utilizzando importanti strumenti di rating.
È importante poter dialogare informando, facendo conoscere i pro e i contro di ogni soluzione tecnica e gestionale, coinvolgendo sugli obiettivi e sui principi, ricercando la collaborazione dei cittadini affinché i servizi possano essere utilizzati nel modo migliore e le modalità di informazione siano percepite trasparenti, diffuse e condivise.
‘Musicanti! Le bande marciano in Archivio’. Ed è quello che hanno fatto veramente i musicisti della Banda di Cona, salendo gli scaloni di palazzo Paradiso per andare a suonare nella sala dove si trova la tomba di Ludovico Ariosto in Biblioteca Ariostea a Ferrara in occasione dell’evento organizzato alla biblioteca stessa per celebrare l’acquisizione da parte dell’Archivio Storico Comunale di un consistente nucleo di spartiti e documenti musicali storici. L’Associazione MusiJam (emanazione della disciolta Banda cittadina Francesco Musi) e la Filarmonica Giuseppe Verdi di Cona hanno infatti trasferito all’Archivio comunale la parte più antica dei rispettivi archivi musicali. Circa 40 metri lineari di antichi faldoni sono così approdati nell’Archivio in via Giuoco del pallone 8 a Ferrara, per costituirvi uno speciale Fondo dedicato alla Musica di Ferrara tra Otto e Novecento.
Banda Giuseppe Verdi in Ariostea (foto Valerio Pazzi)
Tutte le età all’opera (foto Valerio Pazzi)
Esecuzione per “Musicanti!” (foto Valerio Pazzi)
Presentazione (foto Valerio Pazzi)
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I faldoni contengono gli spartiti musicali scritti per i complessi bandistici cittadini che, nell’arco di due secoli, hanno divulgato in città il grande repertorio artistico italiano ed europeo. Gli autori, infatti, presenti in archivio, sono quelli dei grandi operisti italiani (Verdi, Rossini, Bellini, Donizetti, Puccini, Mascagni), di musicisti francesi (Bizet, Gounod, Massenet) e austro-tedeschi (Mozart, Beethoven, Strauss, Meyerbeer, Wagner), proposti nelle trascrizioni dei direttori che, di tempo in tempo, guidarono le Bande cittadine:
Banda Giuseppe Verdi in Biblioteca Ariostea – Ferrara novembre 2017 – foto Valerio Pazzi
Benone, Finotti, Giori, Mariani, Vaccari, ma anche Pellegrino Neri e di Francesco Musi. La documentazione è alla base di un progetto di conservazione e di valorizzazione delle fonti musicali antiche di Ferrara che trova dunque nell’Archivio storico comunale un importante punto di riferimento dedicato alla Musica dell’Otto-Novecento.
‘Trombe, Tromboni e Grancassa – Le bande musicali, civili e militari, nella documentazione dell’Archivio storico comunale di Ferrara’ è la mostra sul tema, visitabile in Archivio storico comunale, via Giuoco del Pallone 8, Ferrara, tel. 0532 418243. Aperta gratuitamente fino a venerdì 1 dicembre 2017, orari 9-14 e giovedì anche 15-18
Musica in Biblioteca Ariostea (foto Valerio Pazzi)
La Giuseppe Verdi in Ariostea (foto Valerio Pazzi)
La Banda, 25 novembre 2017 (foto Valerio Pazzi)
Evento per le bande (foto Valerio Pazzi)
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Per saperne di più sul Fondo musicale dell’Archivio storico comunale di Ferrara vedi articolo su CronacaComune del 3 novembre 2017 www.cronacacomune.it/notizie
Mancano ormai ‘solo’ 23 giorni e da sabato pomeriggio a Ferrara è ufficialmente arrivata l’atmosfera natalizia.
Pochi minuti prima delle 18 infatti si sono accese dell’albero di Natale cittadino tra la facciata impacchettata del Duomo e il Volto del Cavallo. Tanti i ferraresi che hanno osservato con il naso all’insù illuminarsi il loro albero, sì perché quest’anno sono stati proprio loro a scegliere come decorarlo attraverso l’APP Capodanno a Ferrara: tra l’oro, l’argento e il rosso è stato proprio quest’ultimo a vincere.
Dopo un lungo viaggio dal comune di Lizzano, che lo ha donato in quanto destinato all’abbattimento, l’abete di oltre 12 metri di altezza è arrivato a Ferrara qualche giorno fa per essere addobbato ramo per ramo con luci intermittenti con continui cambi colore, con 30 grandi stelle luminose e 70 grandi stelle colorate.
Foto reportage a cura di Valerio Pazzi. Clicca sulle immagini per ingrandirle. Buona visione!
Martedì 5 dicembre alle ore 21,00 al Cinema Boldini di Ferrara, proiezione del film ”Inseguendo il cinema che spacca i cuori” in omaggio al regista e fondatore della Ffc Vitaliano Teti, scomparso a maggio di quest’anno.
Intervista ad Alberto Squarcia, Presidente Ferrara Film Commission, curatore dell’evento.
Alberto, il 5 dicembre il primo ricordo ufficiale in memoria di Vitaliano Teti, un approfondimento della serata?
Vitaliano Teti è stato al mio fianco non solo per la più recente Ferrara Film Commission, ma negli anni della gestione della Porta degli Angeli. Eravamo 6 associazioni riuniti in una Rta (Rete Temporanea di Associazioni). Sono stati anni belli e intensi nei quali abbiamo presentato complessivamente 58 mostre d’arte con performance, danza, video arte, musica e teatro.
Una bella esperienza che si è interrotta quando i rapporti con alcune associazioni della Rta si sono logorati e quando, finito il mandato, la Porta degli Angeli è passata dalla Circoscrizione al Comune.
Dopo un periodo di “meditazione” ho pensato che a Ferrara mancava una associazione libera e indipendente che si occupasse di cinema e dato che il vero amore di Vitaliano era l’arte del cinema, il cinema d’autore e la video arte, ha subito aderito al mio progetto. Vitaliano Teti insegnava infatti video arte e tecniche di comunicazione all’Università di Ferrara e presiedeva un’ associazione che si chiama “Ferrara Video & Arte”.
Abbiamo fondato quindi tre anni fa insieme ad altri soci fondatori la Ferrara Film Commission.
Vitaliano ha combattuto a lungo contro la grave malattia che lo aveva colpito; nel frattempo non ha mai smesso di creare, pensare e realizzare cinema e il suo ultimo prodotto insieme al fraterno amico Alessandro Raimondi è stato proprio il docu-film che andremo a presentare il 5 dicembre al cinema Boldini: Inseguendo il cinema che spacca i cuori.
Un film che nasce da una intervista a Gabriele Caveduri che ha percorso in prima persona tutte le vicende del cinema e delle sue sale a Ferrara. Racconta la propria vita di cinefilo iniziata negli anni ’70 alla Sala Estense con l’Arci, fino alla gestione del mitico cinema Manzoni in via Mortara. Una vita per il cinema indipendente intercalata con viaggi anche curiosi e divertenti ai grandi festival come Cannes e Venezia; conoscenze di grandi star del cinema e rassegne importanti a Ferrara che hanno segnato la fantasia e la cultura di chi era giovane in quegli anni, si intercalano nel film, che merita essere visto perché racconta la nostra città, il cinema e il declino delle piccole sale…..un’alchimia che è adattabile a qualsiasi città della provincia italiana.
Massimo Maisto, vice Sindaco e assessore alla Cultura di Ferrara con Paolo Micalizzi, noto critico cinematografico e Presidente onorario della Ffc, Anna Teti, sorella di Vitaliano, Alessandro Raimondi co-regista e per ultimo Gabriele Caveduri, ci introdurranno al film e a come è stato realizzato. Il ricordo di Vitaliano, che ci ha lasciato a maggio, si farà più intenso con la proiezione extra di un breve corto in cui lo si può ammirare nei suoi momenti migliori e felici.
Il grande progetto di Vitaliano Teti fu un festival di Video Arte “The Scientist”, arrivato alla sua VIII edizione dal 2007 al 2015).
La Ferrara Film Commission sarà lieta di collaborare con le persone che hanno realizzato con Vitaliano il festival “The Scientist”. Pensiamo che il festival di video arte ideato da Vitaliano debba continuare, o con noi o senza di noi ….Vitaliano lo voleva e la Video Arte che lui amava, praticava e insegnava ha visto in lui, come pochi altri in città, un sostenitore e un divulgatore.
Abbiamo saputo durante la conferenza stampa che si è tenuta in Comune, che l’Università di Ferrara dedicherà a Vitaliano Teti la bellissima aula piena di computer e di tecnologia dove lui insegnava ai giovani e futuri registi e tecnici della comunicazione come realizzare corti, documentari e film e dove trasmetteva con passione e amore la sua conoscenza.
In un momento di follia avevo pensato che Berlusconi fosse finito. D’accordo non si erano svolti i funerali (per un personaggio così ci vuole un traino di otto cavalli bianchi), ma, insomma, la speranza è l’ultima a morire.
Invece il Cavaliere ha fatto mettere nella stalla i suoi focosi destrieri, ha chiamato a raccolta i suoi accoliti più fedeli e ha annunciato al mondo intero che tornava. Le disavventure giudiziarie, le condanne, la moglie incazzata? “Io torno!”, ha detto, “e continuo a fare il leader del partito che ho fondato, che ho diretto e che ha governato per quattro lustri”.
Ma non ha fatto in tempo a finire il suo sorprendente discorso agli aficionados (bellissime ragazze comprese), che… zac! i suoi nemici (i giudici) gli hanno aperto un altro procedimento: sempre affare di soldi. Fin qui le notizie.
Dal canto nostro non possiamo che confermare il nostro (il mio) giudizio. Speravamo di mettere in archivio il Cavaliere, al quale inviamo il nostro a più fervido augurio… di essere nuovamente condannato. Gli prepareremo un Parlamento dove possono entrare soltanto condannati, da un lato malversatori e ladri di galline, dall’altro truffatori e disonesti amministratori pubblici, sarà un po’ affollato, ma che ci vuoi fare cavalie’: anche noi siamo condannati a subirti. Sui muri è già comparsa la scritta “Silvio è vivo e lotta insieme a noi”.
‘L’Ambiente e le persone al centro’. Questo è il titolo della brochure di Clara che rappresenta l’impegno per i prossimi anni. Si tratta di uno dei valori principali da raggiungere: offrire un sistema imprenditoriale e territoriale che rispetti le regole e che soprattutto sia misurabile in un sistema gestionale trasparente. Interessante a questo proposito l’aver creato sul sito aziendale uno specifico spazio Clarainforma e una sezione sulla trasparenza.
Bisogna mantenere alta la sensibilità e la domanda di sostenibilità e qualità sui servizi pubblici ambientali e più in generale di ambiente; e la crescita di una qualità ambientale è un bisogno di tutti. Il bisogno di fiducia e partecipazione deve sostituire il crescente disagio e diffidenza dei cittadini. La qualità della vita, la sicurezza, il rispetto ambientale, la coscienza civica devono contrastare la mancanza di dialogo, la scarsa informazione, le scarse competenze e l’iniqua distribuzione.
Il bisogno di qualità sta diventando un importante elemento di riferimento anche nella politica economico-industriale dei servizi pubblici; vi è uno stretto legame tra sistema di gestione e livello di qualità ed efficienza economica e i sistemi di regolazione devono fronteggiare il tipico dilemma fra incentivare l’efficienza produttiva e trasferire quote della rendita.
La qualità è destinata ad assumere un ruolo fondamentale nella logica di apertura regolamentata dei mercati e dunque come fattore di competizione per la scelta concorrenziale del gestore. Si arriva così alla centralità dell’accountability, come insieme di momenti atti a “Rendere conto in modo responsabile per tenere fede agli impegni presi”. L’accountability è dunque un insieme di modalità attraverso cui rapportarsi con i vari portatori di interesse per ottenere consensi. Questo ci porta a un tema fondamentale: il capitale sociale. Quest’ultimo, come fondamentale valore da difendere è, infatti, quella risorsa che permette di valorizzare il capitale culturale, il capitale simbolico e il capitale economico a disposizione dei singoli individui.
Va rilevato come in particolare si stia passando da una fase di partecipazione e coinvolgimento a una di distacco, di cinismo e dunque di sfiducia. E’ difficile distinguere quanto sia causa di un malessere generale; certo è che questa sfiducia indebolisce il capitale sociale come elemento di successo e di distinzione. Il capitale sociale è un importante valore di sviluppo e deve essere monitorato e analizzato in continuo per meglio comprendere il gradimento dei cittadini e più in generale il loro livello di qualità della vita.
Gli individui interagiscono quando si riconoscono reciprocamente come fini e non come mezzi. Si sente il bisogno di trasparenza e di fiducia; spesso invece si avverte una pregiudiziale diffidenza. Conoscere come le persone sperano e chiedono di star bene sarà lo scopo basilare di ogni politica futura. Indagare sulle dimensioni di fiducia diffusa e di fiducia condizionata nelle relazioni fra erogatori di servizi idrici e di igiene urbana e utenti è un impegno che bisogna ci si assuma collettivamente.
In questa logica diventa molto importante fare delle indagini di soddisfazione dei cittadini-clienti.
Già alcuni mesi fa Clara ha effettuato un’importante rilevazione (dal 2 al 12 maggio 2017) effettuando un’indagine quantitativa campionaria con telefono fisso (CATI), coinvolgendo sia 908 utenze domestiche, quindi famiglie, sia 155 utenze non domestiche, quindi imprese/attività con sede nei Comuni serviti da Clara spa. Le interviste sono state distribuite in modo non proporzionale, in modo da rappresentare anche i Comuni più piccoli
I risultati sono stati positivi, rilevando una quota di insoddisfatti del 22% tra le imprese e del 19% tra le famiglie.
I risultati analitici verranno presentati in specifici incontri. Interessante sarà capire nel tempo e con ripetuti sondaggi come Clara riuscirà a recepire le osservazioni e ridurre le critiche.
È evidente come la partecipazione, la disponibilità e il consenso siano elementi (fattori di positività) strettamente legati all’analisi di queste criticità. L’orientamento al cliente deve infatti partire dal monitoraggio della mappa delle insoddisfazioni salienti, individuando soluzioni di miglioramento. L’obiettivo principale e il risultato atteso è di rilevare direttamente la qualità percepita (bisogni espliciti e bisogni impliciti). In particolare è richiesta la verifica della situazione in relazione a soddisfazione globale (servizi, zone), fattori della qualità (valutazioni), aree d’intervento (proposte, consigli), informazioni utenza (ricordo spontaneo, giudizio) e altro.
Su questo Clara ha promesso di impegnarsi anche nel medio-lungo termine.
Martedì 5 dicembre 2017 alle ore 15,30 presso l’Aula A1 di Palazzo Turchi di Bagno (Cs.
Ercole I d’Este, 32 – Ferrara) si terrà una tavola rotonda dal titolo L’arte e la critica.
Esperienze, linguaggi, pratiche. Dentro e fuori Ferrara.
Intervengono Maurizio Camerani, Enrico Crispolti, Manuela Gandini, Marco Maria
Gazzano, Massimo Marchetti, Gilberto Pellizzola; coordina Ada Patrizia Fiorillo.
Organizzata dalla Cattedra di Storia dell’Arte Contemporanea, a conclusione delle lezioni di
Fenomenologia dell’arte contemporanea, l’incontro si propone quale momento di riflessione
e di dibattito su aspetti riguardanti il complesso sistema dell’arte contemporanea, le pratiche
e i linguaggi attuali, affrontati da angolazioni che tengono conto, in primo luogo, delle
esperienze delle figure in esso coinvolte.
È un’occasione che prende anche spunto dalla recente uscita del volume collettaneo curato
dalla stessa Fiorillo, Arte contemporanea a Ferrara. Dalle neoavanguardie agli esiti del
postmoderno pubblicato per i tipi della Mimesis, nel quale con uno sguardo lungo e sotto più
angolazioni, sono affrontati trent’anni di vicende storico-artistiche prodottesi nella città di
Ferrara. Vicende legate ad una stagione, in particolare quella relativa ai decenni Settanta e
Ottanta, ricca e propulsiva di eventi e di esperienze che vede l’affermazione di molti artisti
ferraresi nel panorama nazionale e oltre.
L’idea è quella di sollecitare un dialogo che, superando particolarismi, si distribuisca lungo
più spunti di interesse, dalle relazioni dell’arte e della critica al problema dei luoghi
espositivi, dal valore del video e delle arti elettroniche nell’ industria culturale e creativa
odierna, alla figura dell’artista e al ruolo dell’arte oggi. Utopia o pratica sociale? È un
momento di analisi portato sul campo, nel vivo delle questioni attuali, che apre l’opportunità,
foriera di futuri sviluppi, di stimoli indirizzati in particolare agli studenti e ai dottorandi delle
discipline artistiche e della comunicazione.
Per il taglio che lo connota, il tavolo di lavoro è aperto ad un pubblico ampio.
Al termine dell’incontro, alle ore 18,00, presso l’attiguo Salone delle Mostre Temporanee,
sarà inaugurata la II Biennale Nazionale d’Arte “don Franco Patruno”.
Interventi di:
Maurizio Camerani (artista)
Enrico Crispolti (storio e critico d’arte, professore emerito Università di Siena)
Manuela Gandini (giornalista, La Stampa e Alfabeta 2)
Marco Maria Gazzano (storico di cinema, arti elettroniche e intermediali; Università di Roma)
Massimo Marchetti (critico d’arte)
Gilberto Pellizzola (critico d’arte, Accademia delle Belle Arti di Carrara)
Per info: Dipartimento di Studi Umanistici – tel.0532-455107
Sono passati un po’ di giorni dalla conferenza ‘Ius soli e ius culturae una questione di civiltà‘. Giorni nei quali ho avuto il tempo di guardarmi in giro, chiedere, domandare, cercare di capire. All’evento organizzato nella Sala dell’Arengo del Comune di Ferrara hanno partecipato Miriam Cariani, che ha focalizzato il proprio intervento soprattutto sulla forte discriminazione che la legge attuale sulla cittadinanza crea, anche nel mondo del lavoro. C’è stato poi chi, come Andrea Ronchi, ha affermato più volte che Ius soli e immigrazione non sono argomenti da mettere allo stesso piano, mentre il vicesindaco Massimo Maisto ha lamentato addirittura che in Consiglio Comunale “non giudicano, con tutto il rispetto, parlare della Siae una perdita di tempo, e parlare dello Ius soli si”. Ha anche aggiunto che, secondo lui, la legge che si sta proponendo è troppo “moderata” per la sua visione. In sostanza una conferenza con tanti proclami e belle parole, argomentazioni inattaccabili e proposte positive. Purtroppo, però, io odio le conferenze. Ed è per questo che, visto l’ormai diffuso clamore mediatico che questa proposta di legge ha scaturito, uscito dalla sala comunale, ho cercato di intercettare chi, in una maniera o nell’altra, si è trovato a battagliare con le leggi sulla cittadinanza e ho provato a ricavare qualche dato dal web. Tra tutte le testimonianze raccolte, ne racconterò tre, esplicative della situazione degli italiani all’estero e di chi è straniero in Italia.
La proposta di legge.
Non possiamo partire senza chiarire quale sia la legge attuale e quale la modifica che si vorrebbe apportare. La legge 91 del 1992 prescrive che per diventare cittadini bisogna essere figli di almeno un cittadino italiano, perciò è detta ‘Ius sanguinis‘. Un bambino che nascesse sul territorio italiano da genitori stranieri può chiederla dopo aver compiuto 18 anni solo se ha risieduto fino a quel momento qui legalmente e initerrottamente. Il punto focale è proprio questo: escludendo migliaia di bambini nati, cresciuti in Italia, molti la giudicano carente in materia. Teniamo anche conto che, confrontandosi a livello europeo, la nostra legge sulla cittadinanza è tra le più dure del continente. Quelli che si vorrebbe introdurre sono lo ‘Ius soli temperato‘ e lo ‘Ius culturae‘. Il primo prevede che un bambino nato in Italia diventi automaticamente italiano se almeno uno dei due genitori risiede in Italia legalmente da almeno 5 anni. Se il genitore possessore del permesso di soggiorno proviene da un Paese extraeuropeo, deve soddisfare altri tre criteri:
1. avere un reddito non al di sotto dell’importo annuo dell’assegno sociale
2. avere un alloggio che risponda ai requisiti di idoneità previsti dalla Legge
3. superare un test sul livello della conoscenza della lingua italiana
Insieme a questa possibilità, ci sarebbe anche quella dello Ius culturae come detto. Questo prevederebbe che i minori nati o arrivati in italia prima dei 12 anni possano chiedere la cittadinanza dopo aver frequentato 5 anni di scuola e aver concluso o le medie o le elementari. I minori, invece, che hanno più di 12 anni al momento dell’arrivo sulla nostra penisola, potranno chiedere la cittadinanza dopo sei anni e la conclusione di un ciclo scolastico.
Consultando il sito dell’Istat, si possono apprendere un po’ di cifre riguardanti queste persone.
Partiamo da un riassunto sui cittadini non comunitari con i nuovi dati forniti dall’istituto di statistica.
Il primo grafico sottostante rappresenta la popolazione straniera regolarmente residente in Italia dal 2002 al 2012. Si può notare come questa sia cresciuta negli anni. Non solo per i flussi migratori, ma anche perché i nuovi nati sono considerati stranieri (cifre in milioni). Il secondo invece rappresenta, in migliaia, il numero di acquisizioni di cittadinanza.
residenti stranieri. Fonte: Istat
acquisizione cittadinanza. Fonte: Istat
Anche gli alunni iscritti a scuola sono aumentati: si è passati dai 5.600 del 1994 agli 89.000 del 2013. Il numero sarebbe destinato a diminuire se entrasse in vigore lo Ius culturae (cifre in migliaia). L’ultimo grafico rappresenta infine i nati da entrambi i genitori stranieri sul suolo italiano. Anche questi numeri, entrasse in vigore lo Ius soli temperato, sarebbero ridimensionati (cifre in migliaia).
Fatta questa necessaria premessa, per addentrarsi sulla questione e le varie visioni della cittadinanza, ho chiesto ad alcuni miei amici di parlarmi dei loro casi.
Il primo, qualcuno se lo ricorderà, è Stefano, 28 anni, mente brillante dell’informatica, trasferitosi da qualche tempo in Giappone. Gli ho chiesto due cose:
Com’è l’accoglienza oltreoceano per gli stranieri?
Gli stranieri vengono gestiti nell’adempimento completo e infallibile delle leggi. Io da immigrato non noto alcuna differenza con i cittadini giapponesi. A livello di tasse e burocrazia, non c’è differenza alcuna. Se sgarro ho un po’ di tempo per rimediare, sennò mi mandano a casa.
Se nascesse un figlio in Giappone da genitori stranieri, che cittadinanza avrebbe?
Il figlio sarebbe giapponese.
Questa la situazione nello Paese del Sol Levante.
Nella cara vecchia Europa ho preso un esempio da una nazione molto discussa ultimamente: l’Inghilterra.
Lì si è trasferita Maria Michela, ingegnere, laureata in Italia, vive lì dove ha partorito la piccola Asia.
Com’è la situazione degli italiani dopo la Brexit? Episodi di discriminazione?
Io ho avuto due episodi di discriminazione mentre cercavo lavoro come ingegnere. Arrivata al colloquio la prima domanda che mi hanno posto è stata: da dove vieni? Bah. “Eppure siamo a Londra”… pensavo.
Dopo quanto tempo potrete richiedere la cittadinanza?
Dovrebbe essere dopo 5 anni.
Tua figlia è nata a Londra, ha la cittadinanza inglese oppure no?
Asia è nata qui ma ha il passaporto italiano perché ho fatto tutto tramite Aire. In seguito farò domanda per quello inglese che suppongo sia veloce come tutto il sistema qui. Per ora non ne ho necessità in quanto Asia essendo nata qui, ha tutti i diritti.
Quindi lei non avrebbe problemi anche in futuro?
Il futuro è incerto. A questo non so rispondere perché non possiamo prevedere se cambierà la situazione. Quando ci sarà l’esigenza lo farò.
Queste piccole storie di italiani all’estero fanno capire come sia certe volte difficile, altre meno, essere lo ‘straniero’ di turno.
Ma una storia, tra quelle che ho sentito, mi ha colpito e ho deciso di raccontarla tutta. E’ la storia di Shahzeb, pakistano. In Italia perché il padre, fuggito dal paese di origine, ha chiesto e ottenuto lo status di rifugiato e poi la cittadinanza italiana. Ma farò parlare lui perché il suo è un racconto davvero particolare.
Partiamo da una premessa: Shahzeb, se entrasse in vigore la nuova legge, diventerebbe cittadino italiano perché suo padre ha la cittadinanza e lui ha compiuto un ciclo di studi diplomandosi qui. E il bello è che lui è stato italiano anche per la legge attuale, ma solo per qualche mese. Ecco il perché.
“Il 14 gennaio 2016 mio padre ha fatto il giuramento. Erano le 10 del mattino più o meno. Io anche sono nato il 14 gennaio, alle 22 secondo il mio certificato di nascita. In pratica, nel momento in cui mio padre ha pronunciato il giuramento, io ero ancora minorenne. Quindi, secondo la legge attuale, ho acquisito la cittadinanza italiana. Il Comune di Ferrara, vista questa differenza di orari, ha reputato idoneo il mio caso per assegnarmi la cittadinanza, con passaporto e carta d’identità. Dopo 10 mesi sono stato contattato dal Comune, tramite il nostro avvocato, e mi è stato comunicato che si erano sbagliati e che quindi mi toglievano seduta stante la cittadinanza italiana. Avevo persino votato già a due referendum!! Anche dopo il ricorso che abbiamo fatto, mi è stato negato quello che pensavo essere un diritto. La motivazione del giudice è stata che al momento del giuramento ero sì minorenne, ma lo stesso entra in vigore dopo 24 ore e quindi avevo già compiuto la maggiore età. Farei notare però che il giuramento è stato ritardato perché chi doveva eseguirlo era stato in ferie un mese.
Ora abbiamo una famiglia divisa: da una parte mio padre con mia sorella e mio fratello cittadini italiani, dall’altra io e mia madre pakistani. Io e lei abbiamo il permesso di soggiorno di tipo ‘familiare’. Ora dovrò aspettare, se non cambierà la legge, di avere un reddito per cinque anni, rifare la domanda e aspettare altri due anni per avere la cittadinanza. Tenendo conto che vado all’università, complessivamente dal mio arrivo in Italia alla cittadinanza passeranno 17 anni!!
Faccio un esempio banale per far capire come ci si sente: all’aeroporto mio padre e i miei fratelli fanno la fila con gli italiani, io e mia madre facciamo la fila con gli stranieri. Ma c’è di più. Appena mi tolsero la cittadinanza diventai praticamente apolide. Anzi. Tolta cittadinanza, permesso di soggiorno e passaporto, ero un vero e proprio clandestino!! Lo sono stato per circa 6 mesi, con tutti i rischi che questa situazione comportava. In pratica se mi avesse fermato la polizia, avrei incorso nel reato di clandestinità e sarei potuto essere espulso in Pakistan. Dopo questo tempo mi hanno dato un permesso di soggiorno provvisorio. In pratica 10 mesi cittadino italiano, poi, per un ‘errore’ del Comune, mi sono ritrovato clandestino. E non è stato fatto nulla per rimediare in fretta. Infine, questo nuovo permesso che mi fu dato dopo 6 mesi, un cedolino, mi permetteva di stare in Italia, o di rimpatriare in Pakistan, null’altro. In pratica non potevo uscire dall’Italia. Infatti, quest’estate, i miei familiari sono andati a Londra, dove nel frattempo mio padre si è spostato per lavoro, ma io non ho potuto seguirli. Dopo due mesi passati con questo permesso di soggiorno provvisorio, mi hanno dato, a fine settembre, il visto per i familiari. Ma non posso ancora recarmi in Inghilterra perché serve un altro tipo di visto, essendo io cittadino extraeuropeo. Sottolineo che con il visto provvisorio non si può lavorare”.
Cronostoria riassuntiva del caso di Shahzeb
Ma l’odissea burocratica (ed esistenziale) di Shazeb e della sua famiglia non è finita a qui. “A mio zio è nata una figlia qui e persino lei, che ora ha un anno, non ha documenti perché per richiedere il visto serve il passaporto ma non glielo danno perché non ha la cittadinanza, è cittadina del mondo in pratica”. “Ricordo anche che il permesso di soggiorno costa sui 300 euro, quindi sono costi su costi, che condannano molti alla clandestinità”, denuncia il ragazzo. “Le persone nelle strutture di accoglienza lo potrebbero trovare un lavoro ma in nero o non retribuito, perché non hanno il permesso di soggiorno. Nemmeno i progetti culturali, come ‘Scambio Linguistico’, visto che sono sovvenzionati dalla Comunità Europea, possono veder partecipare queste persone, ma mi chiedo: quale più di un progetto di lingua per favorire l’integrazione? Il cedolino per la residenza serve solo a non farsi arrestare, ma non consente nulla, nemmeno l’avere un codice fiscale per poter, appunto, lavorare in regola. Ci sono tante persone che hanno vissuto o stanno vivendo quello che ho passato io, e spero tanto che si trovi una giusta soluzione”.
Non sono state modificate le caratteristiche del bando iniziale. E’ ancora una Biennale riservata ai giovani artisti. Restano invariati i premi-acquisto e la mostra personale del vincitore. Questa seconda edizione della Biennale d’arte Don Franco Patruno si apre però con un respiro più ampio. E’ cambiata la geografia di riferimento, dilatata ora a tutto il territorio nazionale.
La Biennale d’arte Don Franco Patruno è una riflessione sulla contemporaneità, sulle risposte e sulle sollecitazioni con le quali l’esperienza artistica si inserisce nella realtà dei nostri giorni.
Nel decennale della scomparsa è giusto ricordare la figura per la quale è nata questa Biennale. Don Franco Patruno è stato un punto di riferimento religioso, intellettuale, artistico per generazioni di giovani, artisti e non solo. I molti legami con il nostro territorio e la sua azione infaticabile dedicata alla scrittura, alla pittura, alla promozione viva della cultura, sono nella memoria di quanti lo hanno conosciuto. In questo decennio per ricordare don Franco si sono svolte molte iniziative – dalla pubblicazione di parte dei suoi scritti all’esposizione di sue opere grafico-pittoriche, e poi convegni e conferenze. Questa biennale diventa l’occasione per dare continuità alle sue idee, allo spirito con il quale amava vivere tra i giovani per ascoltare le emozioni che l’arte sa trasmettere attraverso le sue variate forme di espressione.
G.C.
Don Franco Patruno
Dieci anni sono un intervallo di tempo sufficiente per cogliere l’entità di un lascito culturale e umano e ragionare su quello che è stato don Franco Patruno, scomparso appunto un decennio fa, significa inevitabilmente riflettere anche sulla misura della sua assenza. L’impronta delle idee e degli stimoli che don Franco ha elargito nel corso della sua vita si riconosce nitidamente nelle personalità di molti di coloro che, in un modo o nell’altro, hanno avuto la possibilità di entrare in contatto con lui. Quanto abbia quindi inciso la figura di don Patruno nel nostro territorio è presto detto: moltissimo. Basta scorrere negli archivi la mole di attività organizzate e curate, soprattutto nel ventennio in cui è stato direttore dell’Istituto di cultura Casa Cini: centinaia di mostre di arte contemporanea e altrettanti convegni, incontri e dibattiti con le personalità più rilevanti della scena intellettuale italiana.
Ma più facilmente l’importanza di questa presenza – e quindi, oggi, di questa assenza – si può misurare dal numero di occasioni in cui il suo nome viene ancora fatto, non solo per rievocare un’epoca brillante della città in termini di elaborazione di idee e progetti, ma per citare un modello imprescindibile di vigore intellettuale, purtroppo non ben conosciuto da chi era troppo giovane in quegli anni o addirittura doveva ancora nascere.
Uno dei ‘segreti’, se così si può dire, del carisma della sua personalità consisteva nel suo modo di affrontare ogni questione con uno spirito lontano da ogni paternalismo, moralismo o pregiudizio. Se a ciò si aggiunge la sua attività di artista si può intuire quanto lontano dagli stereotipi legati al suo ruolo sacerdotale sia il ricordo che ha lasciato. Con delicatezza e intelligenza ha saputo creare uno spazio comune di confronto con chiunque, e soprattutto con chi si faceva portatore di idee lontane dalle sue scelte, offrendo una dimensione di piena libertà di ragionamento e di espressione. Ciò che per lui, in ultima analisi, contava davvero era la possibilità di rintracciare nel confronto degli strumenti che permettessero di avvicinarsi insieme al senso profondo dell’esistenza. Ѐ una delle sue tante lezioni, questa, che non sembra affatto essere diventata obsoleta.
Massimo Marchetti
Biennale d’arte Don Franco Patruno 2017, 5-18 Dicembre 2017, Palazzo Turchi di Bagno, Ferrara
Se masticate un po’ di inglese vi invito a visitare il portale della città di Dublino. Il Citizens Online si presenta con quattro parole chiave che sono la sintesi della vita in una città: vivere, lavorare, apprendere, eventi.
Colpisce “learning”, apprendere, che nei portali dei nostri Comuni non ha cittadinanza, quel “learning” che si accompagna inscindibilmente al “living” e al “working”: vivere, lavorare, imparare, il telaio delle nostre esistenze, le opportunità che ci attendiamo dalle nostre città.
Il “living” di Dublino propone le cose da fare in città, le informazioni essenziali per i turisti, come raggiungere e visitarne i luoghi, l’orgoglio del rapporto del suo popolo con la cultura.
C’è scritto che Dublino offre il palcoscenico di una città costruita in centinaia di anni di storia, dove le persone sono il vero cuore della città che la rendono uno dei posti migliori in cui vivere. Questo orgoglio per la propria storia e la propria cultura dovremmo apprenderlo anche noi, come vorremmo anche noi vivere in città in cui sentire l’orgoglio delle pubbliche amministrazioni per la qualità dei propri cittadini. Da questo punto di vista nelle nostre città, in generale, si respira ancora un’aria assai viziata. Viviamo tutti, ormai, in città globali, al cui interno risiedono molte culture; come a Dublino anche per le nostre strade risuonano le voci di lingue diverse. A noi la cosa sembra mettere paura, inquieta, ci fa sentire esautorati di chissà quali sicurezze e tradizioni. Siamo sospettosi, anziché vantare con orgoglio la vita in una città a cultura poliedrica, cosmopolita e vibrante, orgogliosa del suo ricco passato che continua a guardare al futuro.
Il portale presenta Dublino come la città in cui il mondo crea, lavora, apprende, si diverte e cresce, un po’ di megalomania che non guasterebbe neppure alle nostre città.
Il fatto è che Dublino negli ultimi decenni è diventata un centro di servizi mondiali, ospitando una cultura aziendale diversificata: servizi finanziari, Ict, scienze della vita, industrie creative, biotecnologie, tecnologie mediche e farmaceutiche.
Se pensiamo alle nostre città ci rendiamo conto dei nostri ritardi, dell’impreparazione di tanti amministratori, della cultura che ci manca e delle nostre gestioni da strapaese.
La storia di Dublino risale alla fine del 1980 quando era una città industriale in declino con un alto tasso di disoccupazione e un basso livello di istruzione. La sfida, allora, fu quella di cambiare questa situazione facendo di Dublino una città della conoscenza. Una scommessa prodigiosa in cui combinare investimenti tradizionali con nuove modalità di capitalizzazione.
La città è riuscita in questo passaggio attraverso l’organizzazione delle forze di cambiamento attorno all’agenzia per sviluppo locale e all’ufficio del sindaco, con il sostegno del governo irlandese. Sono state seguite due strategie convergenti: attrarre le compagnie multinazionali dell’high-tech e investimenti, offerte di lavoro poco costose, lavoratori preparati e incentivi fiscali.
Dublino ha sfruttato in modo intelligente il vantaggio di appartenenza dell’Irlanda all’Unione Europea, acquisendo l’accesso ad una considerevole quantità di fondi per finanziare la propria strategia. L’adesione all’UE si è rivelata un vantaggio per l’Irlanda che ha reso il paese uno dei luoghi preferiti per gli affari delle aziende multinazionali.
Il Governo Irlandese ha giocato un ruolo equilibrato per il miglioramento strutturale di Dublino. Ha emesso potenti linee guida per sostenere le trasformazioni in atto, in particolare incitando altre città irlandesi a seguire l’esempio di Dublino e promuovendo la creazione di agenzie per lo sviluppo locale. Inoltre, è stata vitale e trainante per il successo la partnership tra il settore pubblico e quello privato. Nonostante Dublino sia riuscita a superare una serie di problemi e si sia sviluppata come una città della conoscenza di successo, continua i suoi sforzi per rafforzare la sua posizione come una delle città più importanti della conoscenza a livello mondiale. L’Irlanda vanta una delle forze lavoro più giovani e più istruite in Europa, con oltre la metà dei giovani tra i 30 e i 34 anni che ha completato l’istruzione terziaria, persone altamente qualificate ed entusiaste che fanno progredire le attività d’impresa, la forza lavoro di Dublino è composta da alcuni dei migliori talenti nazionali e internazionali.
Con il 57% di studenti provenienti da tutto il mondo Dublino è diventata un punto di riferimento internazionale per quanti intendono proseguire negli studi, per la sua ricchezza di opportunità di conoscenza, una lunga tradizione di centri di apprendimento, educativi e di comunità, e una vasta gamma di istituzioni di terzo livello tra cui scegliere.
Questo, in primo luogo, è il risultato di Dublino città della conoscenza. Ecco perché nel suo portale appare la parola chiave “learning”, apprendimento, inseparabile dalla vita e dal lavoro delle persone.
Il tema dei rifiuti è tanto articolato e complesso da non potere essere certo definito in poche parole. Per superare definitivamente l’emergenza rifiuti, la più naturale e immediata azione da sviluppare non è solo fermare la crescita dei quantitativi dei rifiuti stessi e quindi produrne meno, ma anche modificare radicalmente il sistema di gestione complessiva dei rifiuti.
Lo scorso anno la quantità media di rifiuti urbani pro-capite nell’Unione Europea è stata pari a 477 kg, in calo del 9% rispetto al picco del quinquennio precedente. L’Italia supera di poco la media europea con una produzione pari a 486 kg per abitante all’anno.
Anche Clara, in una logica di economia circolare, ha tra i suoi obiettivi la riduzione spinta dei rifiuti.
Un primo importante successo è già dato dai Comuni di Formignana e di Ro, che in un confronto dei rifiuti pro capite indifferenziati sono passati rispettivamente dai 39,81 e 44,83 kg/ab del primo semestre 2016 ai 29,13 e 32,13 nello stesso periodo del 2017. Già partivano da livelli di eccellenza, ma sono riusciti a raggiungere una riduzione di quasi un terzo in un solo anno.
Il futuro sarà impegnativo, ma bisogna assolutamente ridurre la quantità dei rifiuti attraverso una attenta politica di prevenzione.
Il rapporto sullo stato della gestione dei rifiuti a livello mondiale, ‘Global Waste Management Outlook’ (Gwmo) redatto nell’ambito dell’Unep-United Nations Environment Programme, dice che:
La gestione corretta dei rifiuti solidi è un servizio essenziale per assicurare condizioni igienico-sanitarie corrette negli ambiti urbanizzati, ma anche per la salute e l’equilibrio dell’ambiente stesso;
Individua come chiave strategica la prevenzione dei rifiuti anche attraverso la trasformazione dei rifiuti in risorsa;
Prevenire i rifiuti non è solo un’azione ecologica ma anche un’azione in grado di far risparmiare denaro e creare posti di lavoro;
Il problema dei rifiuti non è solo locale, ma anche un problema globale;
Evidenzia come affrontare in modo prioritario la gestione dei rifiuti sia fondamentale, per fare ciò propone una roadmap di obiettivi da raggiungere entro il 2020 e il 2030.
Per questo i principali impegni europei dei prossimi anni come direttive e orientamenti sono:
Obiettivo di riciclo rifiuti urbani: 70% al 2030 65% al 2025
Obiettivo di riciclo imballaggi: 80% al 2030 75% al 2025
Obiettivo indicativo di riduzione spreco di cibo: 30% in meno di cibo finito in spazzatura nel 2025
Obiettivi sulle discariche: al massimo il 5% dei rifiuti non pericolosi di origine domestica potranno andare in discarica al 2030 (indicativo); mai discarica per quelli riciclabili o compostabili; fino al 10% dei rifiuti domestici potranno finire in discarica nel 2030 compresi rifiuti riciclabili o compostabili (obbligo vincolante)
Raccolta separata della frazione organica (umido) obbligatoria ovunque entro il 2025 laddove si dimostri tecnicamente, economicamente e ambientalmente possibile.
Per poter migliorare il sistema integrato di gestione dei rifiuti urbani servono scelte radicali e non solo aggiustamenti di indirizzo. E’ dunque richiesto di valutare e rivedere in termini economici e ambientali le scelte che si andranno a operare nell’intero ciclo dei rifiuti, in tutte le sue fasi principali: dalla raccolta differenziata al trattamento, allo smaltimento finale. Diventa pertanto importante costruire un modello integrato dell’intero ciclo di gestione che analizzi i flussi di materia. La conoscenza dei possibili flussi e risultati di gestione delle materie, collegata alla conoscenza dei cicli di vita prevedibili nei prodotti, permette infatti di valutare l’efficacia delle scelte che si andranno a prendere e quindi di valutare gli effetti delle politiche che verranno decise. A monte però rimane un problema di fondo: la crescita della produzione dei rifiuti. Per superare definitivamente l’emergenza rifiuti bisogna fermare la crescita dei quantitativi dei rifiuti. E’ evidente che ciò comporta un cambiamento radicale non solo dell’attuale modello di produzione e di consumo, ipotesi per molti aspetti di non facile e immediata attuazione, ma anche convinti orientamenti culturali i cui obiettivi strategici fondamentali si possono riassumere in azioni di prevenzione (diminuzione della quantità e della pericolosità), di valorizzazione (recupero di energia e risorse dai rifiuti) e di corretto smaltimento (tecnologie compatibili). La trasformazione in atto del sistema di gestione dei rifiuti deve pertanto confrontarsi con una nuova politica industriale nel settore che, insieme alla necessaria definizione del sistema di gestione e alle scelte territoriali, tenga conto delle possibili modificazioni del mercato.
In particolare, partendo dal principio normativo della responsabilità condivisa, della prevenzione, della raccolta, del recupero, dello sbocco finale dei materiali raccolti e trattati, diventa importante stabilire e coordinare i ruoli dei diversi soggetti pubblici e privati che operano nelle diverse fasi di gestione del sistema rifiuti. In sintesi è urgente la definizione di una nuova politica industriale nel settore dei rifiuti, in particolare:
la modifica delle produzioni nel senso della diminuzione dei rifiuti e della riciclabilità dei prodotti (in accordo con principi europei di “responsabilità allargata”);
le attività di ricerca tecnologica, sia nel settore industria che nell’agricoltura, in grado di produrre innovazioni positive, a favore della chiusura dei cicli;
la creazione di interventi diversificati ai vari livelli della distribuzione, dal produttore, al grossista, al negoziante, al singolo consumatore, in modo tale che siano possibili interventi efficaci a livello di città e di bacino provinciale.
l’informazione e il coinvolgimento dei consumatori per adeguarne il comportamento e gli atteggiamenti alle esigenze di prevenzione della produzione di rifiuti da imballaggio e partecipazione alle iniziative di recupero e riciclaggio.
Stefano Rodotà e Giancarlo Perego attuale arcivescovo di Ferrara e Comacchio
Il 23 giugno moriva Stefano Rodotà, esimio giurista, professore universitario, più volte eletto in parlamento, ma prima di tutto un uomo libero, il ‘politico non di professione’, impegnato a sinistra ma senza tessere di partito, l’uomo che ha dedicato la sua vita a studiare, difendere e promuovere i diritti dell’uomo e del cittadino. Quei diritti sanciti dalla nostra Carta Costituzionale – e che aveva lui stesso contribuito a scrivere nella Costituzione Europea – che però sono ancora largamente incompiuti e messi ai margini dai programmi di governo. Senza la sua passione, la sua libertà di pensiero, la sua intransigenza e la sua mitezza: senza Stefano Rodotà siamo tutti un po’ più poveri e indifesi. Ci rimangono le sue tante opere, la sua lezione morale e politica, che nel suo caso coincidevano in modo raro. Uno degli ultimi suoi libri – ‘Solidarietà. Un’utopia necessaria’, Bari, Laterza – è dedicato a una parola antica, ma che rappresenta oggi la sfida decisiva per la nostra civiltà e per ognuno di noi per disegnare il nostro presente e un futuro più giusto.
Stefano Rodotà è conosciuto anche come il teorico dei Beni Comuni. Uno studioso che però, ancora una volta, si impegnò in modo diretto, diventò un insostituibile compagno di strada di quel grande movimento per l’acqua pubblica che ha promosso il referendum del 2011, ottenendo una grande vittoria. Un pronunciamento vergognosamente disatteso dal governo e dalla nostra classe politica.
A pochi mesi dalla sua scomparsa, oggi lunedì 27 novembre, a partire dalle 16,30, la Camera dei Deputati gli dedica un significativo omaggio. Non sarà un momento formale, ma una specie di piccolo convegno dal titolo ‘La vita prima delle regole: idee ed esperienze di Stefano Rodotà’. Lo ricorderanno una decina di interventi di amici e compagni di strada, tra cui Aldo Tortorella, Gustavo Zagrebelsky, Maurizio Landini, Fabrizio Gifuni e Massimo Giannini. Tra loro, il ferrarese Corrado Oddi, esponente di primo piano del Movimento per L’Acqua Pubblica, interverrà sul rapporto fecondo e affettuoso tra il grande giurista e i movimenti sociali per i Beni Comuni.
Sembra inutile o quasi blasfemo commentare esperienze felici nel momento in cui il mondo impazzito sembra regredire alle crudeltà più mostruose, come insegna l’orribile vicenda del Sinai. Ma proprio perché la bellezza, la cultura, l’idea, riescono a trasformare la vita in arte o in qualcosa di simile all’iperuranio, allora forse non sarà inutile ricordare momenti memorabili della propria esperienza della bellezza.
Come Marco Polo di fronte a Kublai Kan nelle ‘Città invisibili’ di Italo Calvino descrive all’imperatore 55 città del suo impero che il sovrano non ha mai visto, ma che tutte riconducono a un’unica città, Venezia, così anch’io ho sperimentato nell’unicità di quel luogo ciò che maggiormente lo collega al mondo, alla natura all’idea. Un luogo – il luogo – emblema della bellezza/bontà; ciò che l’abitante del mondo può desiderare o concepire.
L’occasione mi è stata data dal simposio su Leopoldo Cicognara che l’Accademia di Venezia ha voluto dedicare al suo primo presidente nel duecentocinquantesimo anniversario della sua nascita. A questa occasione s’accoppia l’altra, straordinaria, della bellissima mostra alle Gallerie dell’Accademia veneziana che illustra le opere di Canova, di Hayez e del mentore canoviano, il conte ferrarese Leopoldo Cicognara. La qualità delle due iniziative appassionatamente condotte a vertici straordinari, tra gli altri, da carissimi amici come Alessandro Di Chiara, Paola Marini, Fernando Mazzocca, si è svolta in queste giornate alla presenza degli allievi dell’Accademia, che hanno potuto partecipare a questi incontri e ai quali sono stato orgoglioso di illustrare il trattato ‘Del Bello’ scritto dall’intellettuale ferrarese per i giovani frequentanti l’Accademia veneziana da lui presieduta e che tre giorni prima avevo presentato nella mia edizione novecentesca nella mostra-convegno dedicati a Cicognara e svoltasi alla Biblioteca Ariostea di Ferrara.
Descrivere cosa è Venezia in questi giorni supera ogni fantasia. Alloggiato accanto all’Accademia, luogo mitico per gli intellettuali otto-novecenteschi che la frequentarono e la frequentano, mi sembrava di essere Henry James all’inizio del secolo. La dominante coloristica era il grigio perla, che per un attimo s’illuminava della gloria del sole. I ragazzi che studiano all’Accademia vengono da tutte le parti del mondo e nell’ex ospedale degli Incurabili, sua sede storica, li vedi intenti ai lavori: scultura, pittura, arti decorative o immersi nella lettura. Hanno mises incredibili e una voglia straordinaria di apprendere. La dolce calata veneziana si scontra con i linguaggi di tutto il mondo. E che serietà nel seguire il difficile percorso del trattato ‘Del Bello’ del conte ferrarese. Poi un seminario tenuto alle Gallerie dell’Accademia, in quegli spazi incredibili a confrontarci tutti con Hayez, l’allievo più dotato del momento storico della pittura neoclassica, del quale campeggia lo splendido ritratto della famiglia Cicognara, suo protettore, accanto alla incomparabile statua del divino Canova che troneggia tra gli oggetti, quadri, tavoli, statue, marmi, che artisti e artigiani veneti crearono per l’omaggio delle province venete presentato per le nozze dell’imperatore e che sono tutte opere straordinarie e coerenti proprio con quel concetto di bellezza che il trattato del Cicognara proponeva per l’educazione teorica degli allievi dell’Accademia.
Questo è studiare, questo è vivere dall’interno il senso di una cultura per poterla contestualizzare. Il cuore mi si è aperto e ho parlato non ai colleghi, ma a questi buffi giovani che ti piantavano gli occhi seri in faccia per dirti “non ingannarmi!” Che gioia lavorare così!
Ritorna in questa occasione celebrativa la necessità di capire la storia, di vederla nel suo percorso e individuare le ragioni per cui proprio nel momento di massima presenza e di totale predominio di un Napoleone conquistatore e tiranno, che non si perita di svuotare i luoghi sacri della cultura europea dei loro massimi capolavori per radunarli al Louvre, l’orgoglioso museo ove tutta l’arte si concentra, l’espressione di quel mondo fu una nuova forma di classicità: gareggiare con l’antico, emularlo, forse superarlo, perché quei tempi vedono il nuovo Fidia, il divino Canova, che aggiunge alla esemplificazione della bellezza condotta sull’antico la necessità di trasformarla, come dirà davanti ai marmi del Partenone che Lord Elgin asporta da Atene e che vennero comprati dal British Museum, in “carne, vera carne”.
La grande cultura di Leopoldo Cicognara che non cessa di ampliarla, tenendosi al corrente delle maggiori opere filosofiche, di estetica e di letteratura europee, tanto da raccoglierle poi in una biblioteca di più di cinquemila volumi quasi tutti attentamente postillati e poi venduta alla Biblioteca Vaticana, venne riversata nella sua opera maggiore, una storia della scultura in Italia che ebbe due edizioni, la seconda delle quali consisteva in ben sette volumi, forse l’opera di quella che oggi noi chiamiamo storia dell’arte più importante del diciannovesimo secolo e non solo.
Si amplia così la conoscenza e l’importanza che Ferrara non solo estense ebbe nei secoli dopo la Devoluzione. Una storia non solo legata all’età delle Legazioni, ma anche oltre fino a concludersi in quel secondo Rinascimento che si sviluppò con la Metafisica nel primo ventennio del Novecento.
E nonostante segni minacciosi inducano a non considerare la storia come possibilità prima di conoscenza e di umanesimo cerchiamo di non lasciarsi travolgere dalla sua negazione come i fatti atroci degli ultimi anni purtroppo ci stanno abituando.
No, avete passato ogni limite. Non siete d’accordo sulle decisioni di Hera? Agìte democraticamente. Un cassonetto dell’immondizia non si brucia, punto. I sacchetti dell’indifferenziata non si lasciano per strada, punto. La differenziata, se la fate, dovete farla bene, punto. Mi sembra estremamente logico che una bottiglia di vetro non vada in “sfalci e ramaglie”, o sbaglio? Con le nuove misure della tanto temuta Hera, chi prima differenziava a piacere ora ci pensa su due volte. Ma opinioni a parte, la bella vista di venerdì mattina in via Lucrezia Borgia è specchio di ignorante inciviltà. Pagate i danni, perché “una giusta punizione salda ogni debito”.
C’è un’insana pulsione che induce molta gente a ‘spiare’ la vita degli altri, come se da questa deprecabile azione dipendesse la propria stessa vita. Un’odiosa propensione che alimenta se stessa, fino a diventare quasi una dipendenza con una forte necessità di continuità. I social sono diventati vie preferenziali per accedere alla sfera privata di ciascuno e subdolo territorio che permette, favorisce e incrementa l’invasione della privacy altrui, con una naturalezza e una leggerezza preoccupanti. Se poi consideriamo anche la tv, allora il fenomeno acquista un’eco enorme, diventiamo tutti insaziabili guardoni, pronti a negare pubblicamente il nostro morboso interesse per l’intimità degli altri.
Sono mediamente 12 milioni i nostri connazionali che hanno seguito e seguono ‘Il Grande Fratello’: non si può ignorare questo dato che, se da un lato ha reso trionfante la produzione del programma, dall’altro fa riflettere seriamente dal punto di vista antropologico e sociale. Stiamo davanti allo schermo fino alle ore piccole, con lo sguardo incollato ai protagonisti della scena tutti più o meno vip che, convinti di offrire grandi lezioni di vita, invidiabili modelli comportamentali e immagini di alta cultura, bellezza e divertimento si muovono h24 sotto telecamere e riflettori per essere ammirati come pesci esotici in un prestigioso acquario, se non idolatrati da una massa che interagisce attraverso i social, proclama consensi o dinieghi, trae conclusioni e spara sentenze. E siccome, in fondo in fondo – ma neanche tanto in fondo – rimaniamo un popolo di moralisti, non ci pare vero poter dichiarare guerra al fedifrago di turno, l’omofobo, l’omosessuale, il bestemmiatore, l’asociale, il fanfarone, il furbastro, lo straniero in suolo italiano, l’italiano con simpatie esterofile, il finto acculturato, il vanesio millantatore, e molte altre categorie su cui sbizzarrirsi ed appiccicare etichette, trasformando il tutto in un grande tiro al bersaglio nel nome di un’etica di cui ciascuno si ritiene sano detentore. Ci identifichiamo o ci dissociamo davanti a questi personaggi, ci infervoriamo, partecipiamo emotivamente a ciò che accade con esultanza o rabbia, spendiamo il nostro tempo a guardare, scrivere i commenti su facebook o twitter, parlarne nella nostra quotidianità come se coloro aldilà dello schermo fossero realmente compagni di vita, guru, persone carismatiche ed esempi da imitare o rifiutare, premiare o condannare attraverso una selezione al televoto.
Cambiano i tempi e a ogni epoca il proprio spettacolo.
Nell’antica Roma lo spettacolo in cui la sovranità del pubblico decretava il diritto di vita o di morte aveva luogo nelle arene e negli anfiteatri. Protagonisti osannati o destinati a morire erano i gladiatori, solitamente prigionieri di guerra, schiavi o condannati a morte, talvolta uomini liberi oberati dai debiti o attratti dalla ricompensa e dalla gloria. Da testimonianze pervenuteci (decreto Tabula Larinas), esistevano anche donne combattenti, le amazzoni, ammesse alla sfida con l’unico vincolo del superamento dei 20 anni di età, ma erano rare. Tutti i gladiatori pronunciavano un solenne e terribile giuramento prima di combattere tra loro o contro tigri, leoni, orsi e perfino coccodrilli e rinoceronti: “Sopporterò di essere bruciato, di essere legato, di essere morso, di essere ucciso per questo giuramento”. Paradossale che attraverso questa promessa il gladiatore potesse trasformare in volontario quello che in origine era un atto coercitivo, imposto, diventando per un attimo un uomo che combatteva per propria volontà. Resta il fatto che chiunque scegliesse di diventare gladiatore veniva automaticamente considerato ‘infamis’ per la legge, perché associato al mondo dei bassifondi e reietti, con la possibilità di diventare però un eroe, lautamente ricompensato, in caso di successo nei combattimenti.
L’esaltazione della massa durante la Rivoluzione Francese raggiunge l’apice dell’intensità durante le esecuzioni di piazza: la morbosa curiosità, l’eccitazione dell’attesa, il brivido del momento in cui cade la testa del condannato rendono animalesche le reazioni, proprio come una belva alla vista del sangue. Una folla urlante in preda al delirio che si accalcava attorno al patibolo accompagnava il macabro spettacolo nel periodo in cui a Parigi si respirava aria di spaventosi massacri. Una scena diventata quotidiana, talmente calata in una costruita normalità che le donne sferruzzavano e cucivano in attesa del momento con una familiarità a-normale. Lo spettacolo pubblico delle ‘messe rosse’ era celebrato su quello che veniva definito l’’altare della patria’ sotto gli occhi avidi di tutti, e non venivano risparmiati neanche i più piccoli. La ghigliottina cessò la sua funzione in Francia solo il 10 settembre 1977 a Marsiglia con l’ultima esecuzione, quella del tunisino Hamida Djanboubi, reo di aver ucciso la sua compagna.
“Che fine ha fatto la semplicità? Sembriamo tutti messi su un palcoscenico e ci sentiamo tutti in dovere di dare spettacolo”, si interrogava Charles Bukowski e, detto da uno scrittore dissacrante, disincantato e implacabile come lo è stato, rappresentante di quello che in letteratura viene definito ‘realismo sporco’, contiene una tensione inequivocabile. Torniamo alle nostre poltrone da cui continuare a seguire gli ‘eroi’ di cartapesta del momento, perché tra luci, riflettori, telecamere, microspie, rilevatori e microfoni “the show must go on…”
Il giornalismo esiste ancora. Non è morto, sopravvive coraggioso al dilagante piattume disinformativo dei media tradizionali, monco di appoggi e visibilità, ma forte di un’etica comunicativa che non può essere tradita. I suoi luoghi non sono le televisioni o i grandi megastore. Sono piuttosto il web e le piccole librerie, dove non si è sopita l’abitudine di fare pensiero: divergente, se necessario.
Un momento dell’incontro
E’ accaduto così che martedì pomeriggio mi sono trovato, presso la libreria Sognalibro di Ferrara, a partecipare a un dialogo pubblico tra due grandi giornalisti emiliani, Gian Pietro Testa e Gianni Flamini, autore di inchieste sul terrorismo e la politica: ultima in ordine di tempo ‘Maschere e tresche. Il terrorismo da Obama a Trump. Strutture, dinamiche e retroscena globali’ edito da Castelvecchi quest’anno.
Due gentiluomini d’altri tempi, leggende viventi del giornalismo italiano, che nonostante il trascorrere del tempo continuano imperterriti a svolgere il proprio lavoro: informare.
E’ molto chiaro Flamini: “tutti i nostri media sono controllati, per sapere cosa succede nel mondo bisogna guardare altrove”. Quell’‘altrove’ è oggi internet, l’unico mezzo ancora impossibile da manipolare. Ci provano, attraverso il controllo delle cosiddette ‘fake news’, ma senza successo. “Grazie alla rete – continua Flamini – è possibile infatti consultare ogni giorno le agenzie di tutto il mondo”, mettendo insieme i dati e verificando quali sono più o meno attendibili, e soprattutto “evitando di rimanere vittime della grande narrazione occidentalista imperante”. La Storia, si sa, la scrivono i vincitori e la Storia ufficiale degli ultimi cento anni non è ancora stata cambiata. Peggio ancora, l’esistenza di dibattiti storici è persino sottaciuta o risibilmente derisa. “La Storia del passato”, ammonisce Gian Pietro Testa, “è in realtà la Storia del futuro”. Facile dimostrarlo: basta guardare la situazione internazionale di oggi: “Siamo in guerra permanente ormai da decine e decine di anni, con l’Italia sempre in prima fila”, a causa della sua – la nostra! – appartenza alla Nato. “E’ almeno da Pearl Harbour che gli Stati Uniti si impegnano a provocare tensioni, focolai e vere e proprie guerre in giro per il mondo. Noi italiane e italiani lo sappiamo bene, visto il terribile periodo del terrorismo che abbiamo dovuto affrontare nel nostro Paese – ha continuato Testa – Eppure, quante volte viene ricordato il ruolo direttivo rivestito dalla Cia, sin dalle prime elezioni politiche?”
“Non sono bastati”, tuttavia, “neppure la Jugoslavia, l’Afghanistan, l’Iraq, la Libia, l’Ucraina o la Siria per far prendere coscienza al nostro popolo dei terribili crimini di complicità di cui ci stiamo macchiando”. E’ forse un nostro vanto l’utilizzo di aerei italiani da parte della – democraticissima – Arabia Saudita per bombardare donne, uomini, bambine e bambini yemeniti?
E mentre l’Isis sta diventando un ricordo del passato, grazie alla efficace – ma ‘russofobicamente’ biasimata – azione dell’esercito russo insieme con quello del legittimo governo siriano, nuovi obiettivi spuntano all’orizzonte nel vero e proprio puzzle del Medioriente, Libano in primis. Su chi contare? La risposta non può che essere una: su chi è davvero in grado di informarsi e di comprendere la pericolosità di un’alleanza guerrafondaia. Il popolo del web ha gli strumenti per poter sapere, decidere e agire. Il mondo non aspetta. Ma una speranza c’è.
“Metti in circolo il tuo amore, come fai con una novità”, canta Ligabue. Qui non si tratta di amore, ma di una novità da mettere in circolo sì. Una buona prassi, un servizio che trasforma un problema in una risorsa e che coniuga decoro urbano, recupero e riuso, mobilità sostenibile e inclusione sociale. Stiamo parlando delle riciclette, mezzi ormai conosciutissimi a Ferrara. Sulle loro ruote corre un duplice valore aggiunto, ambientale e sociale: sono state rigenerate, oppure alcune delle loro parti provengono da biciclette non più utilizzabili cui viene ridata nuova vita attraverso il lavoro di meccanici esperti, che collaborano con persone alla ricerca di nuove opportunità di inserimento nel mondo del lavoro e della socialità. Il tutto in maniera economicamente sostenibile, riunendo così i tre cardini dell’economia circolare: sostenibilità ambientale, sociale ed economica.
Ecco perché la Regione Emilia Romagna nel dicembre 2016 ha assegnato alla Cooperativa Sociale il Germoglio, che ha ideato e gestisce il progetto Ricicletta, il premio come Innovatori responsabili, nella categoria ‘L’impresa per la crescita e l’occupazione’.
Ora, a distanza di quasi un anno, si passa a Ricicletta 2.0: da iniziativa virtuosa di una singola cooperativa sociale a progetto di economia circolare e responsabilità sociale di un’intera comunità, grazie al coinvolgimento attivo di Enti Locali, multiutily e agenzia per la mobilità. L’obiettivo, ci spiega Tania – responsabile del settore Mobilità Il Germoglio – è trasformare un’ampia rete di collaborazioni in una pratica strutturata e replicabile: “Ricicletta 2.0 è un protocollo d’intesa che mira creare una serie di strumenti che poi saranno già pronti per altri attori”. “Il territorio di attuazione continua a essere Ferrara, ma il traguardo finale sarà una filiera strutturata e replicabile” per altre realtà e altri prodotti.
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La presentazione ufficiale di Ricicletta 2.0 sarà nel pomeriggio di lunedì 27 novembre presso il Palazzo della Regione Emilia Romagna, in viale Aldo Moro 30 a Bologna. “La concessione di questo spazio per la divulgazione di un progetto con finalità sociali – continua Tania – è parte del premio che la Regione ci ha conferito lo scorso dicembre e abbiamo deciso di sfruttare quest’occasione per portare su un palcoscenico più ampio questo progetto, giocando sul fatto che molti comuni della Regione sono sensibili alla cultura della bicicletta”.
Dopo i saluti istituzionali di Manuela Ratta, del Settore Ambiente Emilia Romagna, e di Caterina Ferri, Assessore all’ambiente del Comune di Ferrara, “le varie realtà aderenti illustreranno il loro contributo e le modalità di coinvolgimento nel protocollo”. Il Germoglio, che ha ideato e che gestisce “Ricicletta 1.0” scherza Tania, il Comune di Ferrara “che è coinvolto sul versante del decoro urbano”, Hera “che con la collaborazione di Last Minute Market si impegnerà nella raccolta e nella differenziazione dei rifiuti per il loro successivo riuso”, AMI Ferrara, “che si occuperà del lavoro culturale di sensibilizzazione sul territorio” e Punto 3 Srl, “che ha collaborato alla strutturazione del protocollo”. Alle 18.00 l’incontro si concluderà con un operativo preparato naturalmente da 381 Storie da gustare: “più circolari di così!” afferma Tania sorridendo.
La partecipazione è gratuita, ma è gradita l’iscrizione compilando il form che troverete a QUESTO LINK
“Insomma era una persona per bene! Come mai era un comunista?”
E’ la domanda posta da una studentessa americana a Giovanni Impastato su suo fratello Peppino: una delle icone dell’antimafia, come Falcone e Borsellino o il comandante Dalla Chiesa. Icone, appunto: monodimensionali, lontane e luccicanti, come le opere dell’arte sacra bizantina e orientale. Eppure, anche quando sono martiri dell’antimafia, stiamo parlando di uomini, con le proprie contraddizioni e complessità, in carne, ossa e sangue, quello stesso sangue che è stato versato per noi, i cittadini di questo Stato, anche se a volte sia lui sia noi ce ne dimentichiamo. Ecco perché è stato emozionante sentire la brevissima rappresentazione con la quale Lorenzo, studente del Liceo Ariosto, lunedì pomeriggio ha descritto Peppino: “un uomo pieno di vita e senza paura di perderla”.
L’occasione è stata la presentazione del libro di Giovanni Impastato alla Cgil di Ferrara: ‘Oltre i Cento Passi’, edito a Piemme e illustrato da Vauro. Un libro che “parla di un pezzo di storia drammatica del nostro paese, allo stesso tempo una pagina fra le più vergognose e fra le più esaltanti, dal punto di vista della partecipazione civile”, ha sottolineato il segretario generale Cgil Zagatti, “un libro di analisi” che offre uno spaccato della vita sociale e politica italiana, ha detto Donato La Muscatella, referente del Coordinamento Provinciale di Libera di Ferrara. Soprattutto un libro che “vuole parlare ai giovani”, ha affermato con forza Giovanni: trasmettere loro i valori e la memoria di Peppino oltre quei ‘cento passi’ che ne hanno fatto una figura iconica.
Ecco perché una delle protagoniste è Felicia, la madre dei fratelli Impastato, una donna “piegata su stessa dalle ingiustizie e dalle mezze verità”. Ma anche incredibilmente determinata, con una dignità immensa, capace di ribellarsi al marito per far tornare a casa Peppino e di dire, davanti alla bara del figlio praticamente vuota, al cugino mafioso americano che voleva vendetta: “non era uno di voi, non voglio vendette, voglio giustizia”. È stata lei a porsi da subito il problema della trasmissione della memoria di Peppino e delle sue battaglie: “mi diceva sempre “quando io non ci sarò più devi essere tu a raccontare questa storia” e con i miei figli “quando vostro padre non ci sarà più dovete essere voi a tenere aperta questa porta””. La porta è quella della Casa memoria Felicia e Peppino Impastato a Cinisi, nata nella primavera del 2005, da qui parte il percorso memoriale dei Cento Passi, fino a casa Badalamenti, anch’essa oggi visitabile: “un bagno di memoria e di cultura”, l’ha definito Giovanni Impastato, fra citazioni e biografie di vittime dell’antimafia sociale e istituzionale, l’Antigone e l’Inferno di Dante, appena prima dell’entrata dell’abitazione del boss.
Memoria, non retorica, è il fulcro dell’attività di Giovanni, che proprio come il fratello non ama il politically correct ora così in voga. Senza problemi ammette che uno dei periodi più felici della sua vita è stata l’infanzia “passata nella tenuta dello zio”, quel Cesare Manzella capomafia di Cinisi, predecessore di Gaetano Badalamenti, Tano Seduto. Sarà proprio guardando la sua auto dilaniata dal tritolo che a quindici anni Peppino farà la promessa che gli segnerà la vita: “Se questa è la mafia allora io la combatterò per il resto della mia vita”. Eppure, secondo Giovanni, la battaglia politica, sociale, culturale di suo fratello viene da prima: “Peppino era l’erede del movimento contadino degli anni Quaranta, di Placido Rizzotto e dei martiri di Portella della Ginestra: quello è stato uno dei più grandi movimenti di massa d’Europa, la nostra Resistenza. Il primo maggio 1947 le persone sono morte perché chiedevano l’applicazione di una legge che già esisteva, quella mattanza è servita per fermare il movimento di rinnovamento della riforma agraria”. Peppino però è stato anche “pioniere, perché è riuscito a inventarsi nuovi modi per combattere la mafia, dalle battaglie ecologiche all’impegno culturale con ‘L’Idea socialista’, il circolo Musica e Cultura e Radio Aut”.
Giovanni Impastato
Una voce fuori dal coro quella di Giovanni, come fu quella di Peppino, quando per esempio parla di legalità: “bisogna fare attenzione, è un concetto che è stato spesso abusato. Le leggi vanno rispettate, ma non subite, come diceva don Milani: “L’obbedienza non è sempre una virtù”. La legalità è rispetto della dignità umana, se al centro di una legge non c’è questo rispetto allora bisogna lottare perché ci ritorni. Bisogna esercitare la disobbedienza civile perché al sostantivo legalità siano sempre affiancati gli aggettivi democratica e costituzionale”.
O ancora, quando parla della fine della mafia: “dobbiamo smettere di dire nelle scuole che la mafia è antistato. Non è così: la mafia è dentro lo Stato, quando si parla di appalti e di gestione dei soldi pubblici”, per questo non l’abbiamo ancora sconfitta come è successo per il Brigantaggio o per le Brigate Rosse. Certo aveva ragione “Falcone quando diceva che la mafia è un fenomeno umano e come tale ha avuto un inizio e avrà una fine”, ma il problema è che “manca la precisa volontà politica di risolvere il problema”.
E infine quando parla di verità: “Gramsci odiava gli indifferenti. Io temo la rassegnazione perché le persone rassegnate non hanno bisogno della verità e quando non c’è ricerca della verità si aprono le porte alle mafie e al fascismo”, due pericoli molto presenti nel nostro paese come ha dimostrato il caso di Ostia, fra Casa Pound, caso Spada e affluenza alle urne del 26%. “Quel poco di democrazia che è rimasto è in pericolo”, è l’allarme di Giovanni Impastato, che mette anche in guardia sulle mafie al Nord: “A chi mi domanda se oggi ci sia più mafia in Sicilia o Lombardia rispondo Lombardia”.